L’università italiana non gode certo di buona salute. Tra i continui tagli di budget, blocco del turnover, cervelli in fuga, baroni e logiche nepotistiche la stampa non perde occasione per rafforzare nell’opinione pubblica l’idea che l’università pubblica italiana sia allo sfascio.
Chi però vive da dentro e osserva, con uno sguardo non stereotipato, la realtà della formazione italiana e, in particolare, di quella accademica, e lo fa da una prospettiva pedagogica e non puramente ossequiosa verso un’interpretazione dell’Università come funzionale unicamente alla spendibilità dei titoli nel mondo del lavoro, individua più spesso tra i difetti del sistema di formazione universitario l’abbandono dell’obiettivo umanistico per assecondare le logiche di mercato applicate alla conoscenza.
Rispetto a un’istituzione formativa e culturale che sembra irrimediabilmente destinata ad assumere i connotati di un’entità burocratica, in cui i Crediti Formativi vengono trattati come beni di consumo – quando non merce di scambio – e i titoli accademici da «spendere» nella competizione professionale, appare ormai lontano l’ideale che, da Von Humboldt in poi, vede l’università indipendente dal potere politico-economico e in grado di fare della ricerca lo strumento principe di critica del sapere stesso. La figura di Tullio Contiero rappresenta per la comunità universitaria bolognese (ammesso che ne esista una sola) molto più del prete che per oltre 40 anni (dal 1961 al 2006) ha svolto la sua attività pastorale presso la Chiesa universitaria. Il suo motto «sprovincializzare l’Università» appare più che mai attuale.
La creatura di Contiero, il Centro Studi «Giuseppe Donati», è ancora oggi vivace e attiva e si muove in direzione «ostinata e contraria» rispetto all’orientamento prevalente della formazione accademica. Recentemente anche il sistema universitario italiano si è aperto alla cosiddetta «terza missione» (dialogo tra scienza e società) e questa correzione di rotta lascia intravedere barlumi di speranza per l’attivazione della connessione tra accademia e territorio, tra ricerca e dimensione pubblica, tra evoluzione del pensiero e crescita della società.
Sulle strade dell’Utopia. Vita e scritti di Tullio Contiero è un importante contributo che consente di approcciare questa figura a chi, come me, non lo ha conosciuto personalmente, ma soprattutto che testimonia l’importanza di fare vivere sulle nostre gambe la sua proposta culturale divergente a favore di tutti gli studenti universitari. Pier Maria Mazzola ci accompagna in un viaggio sulle tracce dell’uomo Tullio Contiero, grazie al quale possiamo meglio comprendere le scelte e la filosofia che ne caratterizzerà l’esperienza pastorale.
Tullio Contiero era nato nel padovano in una famiglia numerosa ed economicamente modesta, ma in cui poté presto apprendere insieme il gusto della preghiera e la passione per l’impegno sociale. Entra giovanissimo nella Società di Maria (fondata agli inizi del XIX secolo da Guillaume-Joseph Chaminade), prende i voti a 19 anni e si occupa di educazione. All’Istituto Santa Maria di Roma, dove viene inviato per il suo primo incarico, si trova a fare scuola ai figli della borghesia romana. Già in questa esperienza vediamo la volontà di Contiero di mobilitarsi per creare ponti tra mondi differenti e di scegliere la sfida formativa e, insieme, politica come ambito di impegno e, dirà in seguito, di lotta. Non si accontenta infatti dell’insegnamento scolastico dell’ora di religione, ma interpreta un ruolo educativo a tutto tondo organizzando attività extrascolastiche ed escursioni domenicali nelle borgate che accoglievano in quegli anni l’immigrazione interna dal sud Italia. Siamo negli anni della ricostruzione postbellica e i quartieri periferici sorgono disordinatamente e privi dei servizi essenziali e in questo contesto il giovane sacerdote crea l’occasione di un incontro, la scoperta del «terzo mondo» dietro casa.
Contiero mette in contatto ragazzi e famiglie di classi sociali differenti e si adopera affinché chi ha di più si faccia carico dei bisogni di chi ha di meno. È in questo periodo che Contiero si fa notare anche per il linguaggio tagliente e privo di mediazioni che caratterizzerà tutta la sua vita (come quando rimproverò Marco Biagi di cui era guida spirituale dicendogli: «Sei un capitalista, un cristiano-borghese. E questo non va bene perché un cristiano deve sempre e comunque stare dalla parte dei poveri e dei disperati») e che dividerà i suoi interlocutori tra estimatori e detrattori e che sarà la causa della mancata ordinazione presbiterale. Un’altra esperienza educativa significativa che Contiero inventa in quel periodo è quella dei campeggi estivi in Trentino, che coinvolgono ragazzi di diversa, a volte opposta, estrazione sociale. È proprio in uno di questi soggiorni, nel 1958, che conosce il cardinal Giacomo Lercaro, Arcivescovo di Bologna, che rimane colpito dal giovane prete e, qualche anno dopo, chiamerà Contiero a Bologna per affidargli il ruolo di portare il vangelo tra gli universitari. Il trasferimento nel capoluogo emiliano avverrà nel 1961 e dopo due anni, il 21 aprile 1963, verrà ordinato presso la chiesa di San Sigismondo, in prossimità di Via Zamboni, il cuore dell’Ateneo petroniano, chiesa di riferimento per la comunità cattolica dell’Università. In quegli anni insegna religione al Liceo Classico «L. Galvani» – ritenuto il Liceo di «destra» della città e contrapposto al «M. Minghetti» di «sinistra» – e si rivolge a studenti delle superiori e dell’università con lo stesso stile «sconcertante», che gli causò non poche critiche, con il fine di far aprire gli occhi sui più poveri, sul «Terzo mondo di Bologna», come lo chiamava lui.
Era inevitabile che, durante le funzioni religiose, le parole evangeliche finissero per intrecciarsi ai suoi «testi sacri» che comprendevano don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani, La Pira, i vescovi Helder Camara e Oscar Romero, ma anche Che Guevara e Pierpaolo Pasolini. Questa tendenza di Contiero scosse Bologna e grazie alla grande quantità di iniziative e di incontri che per oltre un quarantennio attorno a lui sono stati creati, tutti finirono per associare la sua figura al messaggio di lotta contro le ingiustizie che sono causa di povertà e sottosviluppo in ogni parte del mondo.[footnote]http://www.silviamontevecchi.it/bella%20gente/DiconoDiLui.htm, ultimo accesso: 20/05/2017[/footnote
Contiero era instancabile: accompagnava l’insegnamento e il sacerdozio con l’organizzazione di conferenze che coinvolgevano testimoni del suo tempo, missionari, figure rilevanti della vita culturale e politica del Paese, coinvolgeva i giovani studenti in attività di volontariato e stimolava l’Università a non chiudersi dietro le sue mura e i docenti a non trincerarsi dietro le cattedre. Nonostante questo attivismo, il suo stile controcorrente e rivoluzionario mal si conciliava con l’inquadramento istituzionale e non sarà mai riconosciuto ufficialmente dalla Curia bolognese come «cappellano universitario».
Numerosi sono gli episodi in cui Contiero dimostra la sua divergenza e grande umanità, come quando di fronte a una studentessa che gli confessava con rammarico di essere rimasta incinta, lui risponde con ironia disarmante: «Universitaria, finalmente hai fatto qualcosa di concreto!». Era un uomo libero e poco incline ai compromessi, nella sua critica al potere e all’ingiustizia non risparmiò neppure i «baroni» dell’Università e si meritò, negli anni successivi, l’appellativo di «prete comunista»; d’altra parte come definire un prete che aveva scelto come proprio ritiro spirituale Frattocchie, in provincia di Roma, sede anche della storica scuola di politica del PCI.
Sono, però, i legami che instaura con i giovani studenti, che lo seguono e lo stimolano ad approfondire le sfide sociali, culturali e politiche del suo tempo, che incoraggiano il prete a proseguire, ed è grazie all’invito a recarsi in Uganda che gli rivolse uno dei suoi «dottorini» (così chiamava i neolaureati che animavano il suo Centro), il medico Marcello Bolognesi, dove stava svolgendo lì il servizio civile internazionale, che Contiero scopre l'Africa. Da quel momento (1968) fino a che la sua salute glielo consentirà, Contiero organizzerà e accompagnerà ogni anno gruppi di studenti e neolaureati a visitare missioni e progetti di cooperazione in Africa. Nei primi anni settanta sorge il Centro Studi «Giuseppe Donati» – intitolato al primo direttore de «Il Popolo» che denunciò l’assassinio Matteotti e per questo fu costretto all’esilio – tramite il quale il sacerdote fornisce una cornice alle numerose attività rivolte agli universitari, ma nella quale gli stessi studenti hanno un ruolo da protagonisti. In questo contesto il Viaggio in Africa che il Donati ogni anno propone, rappresenta il vertice di una proposta culturale di altissimo livello e grazie alla quale gli studenti possono arricchire la loro formazione incontrando temi e personalità altrimenti esclusi dalla didattica ufficiale, che ampliano gli orizzonti dell’offerta dell’Ateneo bolognese.
Il Centro Studi «Donati» sviluppa una proposta culturale non «filantropica» (parola che Contiero aborriva), ma orientata a mettere in luce, le dinamiche e i contesti di oppressione che caratterizzano il Nord e il Sud del mondo. L’ultimo viaggio in Africa di Contiero risale al 2000 e successivamente le sue condizioni di salute ne limiteranno progressivamente libertà di movimento e il pensiero. L’evento doloroso che segna gli ultimi anni di vita del sacerdote è l’assassinio del prof. Marco Biagi, avvenuta proprio in zona universitaria a Bologna il 19 marzo 2002. Biagi, come detto, era amico di lunga data di Contiero: uno dei suoi «dottorini».
Contiero morirà nel 2006 e nell’edizione locale del Resto del Carlino si poté leggere che ai suoi funerali, celebrati nella chiesa di San Sigismondo, «erano presenti baroni e barboni». Il Centro Donati, tutt’ora attivo, continua a proporre iniziative formative per gli universitari bolognesi, aperte a tutta la cittadinanza, che parlano in forma laica di esperienze di resistenza e di alternative possibili in luoghi vicini e lontani, e il Viaggio in Africa è il fiore all’occhiello di questa proposta culturale che raccoglie a pieno l’eredità del suo fondatore. Sono missionari, studenti e docenti che continuano a tenere vivo l’impegno di Contiero.
Io stesso ho avuto modo di incontrare persone che hanno fatto il Viaggio in Africa e ne hanno tratto un grande insegnamento, proprio perché l’iniziativa non ha un obiettivo caritatevole, ma eminentemente pedagogico. Contiero ha sempre esortato i giovani che incontrava a intraprendere un progetto esistenziale non dominato da carriera e consumismo. Non furono poche le vocazioni missionarie e religiose, così come di volontariato e cooperazione, che si destarono o trovarono conferma nei viaggi in Africa e dalla frequentazione di Contiero. Sapeva unire spiritualità e pragmatismo nel solco del Concilio Vaticano II: tra le sue letture figurano Francesco d’Assisi e Charles de Foucauld, ma anche opere come Il Capitale.
Contiero è stato un prete schierato, scomodo, che non indugiava a utilizzare la provocazione per stimolare i giovani all’impegno per un mondo meno iniquo. Nonostante una certa «ruvidezza» nel modo di esprimersi, la sua preparazione intellettuale non era inferiore ad altri più illustri teologi del suo tempo, ma farsi fregio di sapienza non era un’attitudine di Contiero quanto piuttosto l’ansia di trasformare la realtà.
È quasi automatico associare il nome di Contiero a quello di Lorenzo Milani, per quanto le rispettive notorietà e influenza sul pensiero pedagogico non siano paragonabili. Pur tuttavia, credo di poter dire, da pedagogista, che i principi ispiratori erano i medesimi: nel caso di Milani applicati alla scuola secondaria inferiore e in Contiero all’Università. Se l’Università pubblica vuole assumere fino in fondo il ruolo di agenzia formativa e culturale che si ponga come obiettivo quello di sviluppare una conoscenza critica in ogni ambito del sapere e non si accontenti dell’ossequiosa trasmissione di conoscenze e competenze utili al paradigma economico dominante, allora la lezione di Contiero può diventare per ogni docente e ricercatore uno stimolo a interpretare il proprio ruolo oltre alla mera funzione didattica e di ricerca, interpretando l’apprendimento quale mezzo di emancipazione e trasformazione sociale.