Keywords: Republic of Moldova, Romania, transnational families, migrant female workers, fathers, labour
                                           of reproduction.

Sommario

Le migrazioni internazionali femminili stanno ponendo molteplici sfide ai sistemi di cura dei Paesi di origine, coinvolgendo specialmente i familiari delle donne migranti rimasti a casa. L'articolo, basandosi su una ricerca esplorativa multisituata condotta tra Italia, Romania e Repubblica di Moldavia, esplora i legami esistenti tra le nuove identità lavorative genitoriali presenti all'interno di famiglie transnazionali rumene e moldave, caratterizzate dalla migrazione femminile. L'autrice analizza, da una parte, le pratiche di mobilità dall'Italia alla madrepatria messe in atto dalle donne migranti e, dall'altra, il lavoro di riproduzione svolto dai mariti rimasti a casa. In sintesi i risultati mostrano che la mobilità delle lavoratrici migranti risulta fortemente condizionata da numerosi fattori di tipo strutturale e normativo; i padri, invece, si trovano il più delle volte a dover gestire una non facile riconfigurazione del proprio ruolo familiare, scontrandosi con le aspettative del contesto sociale e con i desideri dei propri figli.
 

Parole chiave: Repubblica di Moldavia, Romania, famiglie transnazionali, lavoratrici migranti, padri, lavoro di riproduzione.

Introduzione

Il nostro Paese, con la dissoluzione dell'URSS e dei regimi del socialismo reale, nonché in seguito alle politiche di allargamento dell'Unione Europea, si è reso meta di un crescente flusso di migrazioni femminili, richiamato da un particolare insieme di fenomeni globali e fattori attrattivi. La Romania e la Repubblica di Moldavia, in particolare, mostrano un'importante composizione di genere dei propri flussi migratori verso l'Italia. Osservando i dati Istat (2011) notiamo che le presenze femminili rumene e moldave, rispettivamente di 529.625 e 87.951, appaiono entrambe superiori al loro corrispettivo maschile, rappresentando il 26% della totalità di donne migranti presente nel nostro Paese. La maggior parte di questa presenza femminile svolge un lavoro di cura: l'80% del settore occupazionale domestico, infatti, è affidato a stranieri, dei quali 8 su 10 sono donne (CENSIS, 2011). Il sostegno economico degli emigrati rumeni e moldavi risulta fondamentale sia per il sostentamento delle famiglie rimaste in patria, sia per per l'economia del loro Paese. Nelle classifiche mondiali, ad esempio, la Repubblica di Moldavia si posiziona al terzo posto per incidenza delle rimesse sul PIL, che ne compongono un terzo (IDA, 2010), attestandosi all'incirca su un valore complessivo di 650 milioni di dollari (Worldbank, 2010).

Mentre molta della letteratura si è occupata in modo organico dapprima delle lavoratrici presenti nel nostro Paese e in seguito delle conseguenze imposte ai figli rimasti a casa, meno studiate appaiono le figure paterne, spesso trascurate dalla letteratura in quanto statisticamente meno presenti nella cura dei figli. Il presente studio ha cercato di esplorare i legami familiari transnazionali reciproci presenti all’interno di famiglie caratterizzate dalla migrazione materna entro specifici flussi migratori, che vedono l’Italia legata rispettivamente alla Romania e alla Repubblica di Moldavia. Oggetto specifico d'indagine sono stati i legami esistenti tra le nuove identità lavorative delle figure genitoriali, analizzando da una parte le pratiche di mobilità delle lavoratrici rumene e moldave e, dall'altra, il lavoro di riproduzione messo in atto dai padri rimasti nei Paesi d'origine, protagonisti della riorganizzazione e riconfigurazione del loro ruolo familiare e sociale.

Uno sguardo teorico multidisciplinare si è reso indispensabile per poter abbracciare un fenomeno dai tratti così complessi e sfaccettati. La ricerca empirica ha utilizzato un approccio di tipo transnazionale per leggere le famiglie migranti; sguardo tra i tanti possibili, ritenuto capace di superare una visione classificatoria dicotomica tra emigranti/immigrati (Ambrosini, 2007; Vertovec, 2009) e di mettere in evidenza la vita familiare intessuta di continui e regolari contatti attraverso i confini nazionali (Bryceson e Vuorela, 2002).

La ricerca ha preso le mosse da alcuni importanti quesiti relativi alla presenza di lavoratici migranti provenienti dai Paesi dell'Est Europa. Essa si inserisce, in primo luogo, in un complesso crocevia di fattori e fenomeni globali, quali la femminilizzazione e la svalorizzazione del lavoro di cura, la mancata suddivisione del lavoro domestico a livello familiare, nonché la peculiarità del sistema di welfare italiano; si tratta a ben vedere di importanti fattori attrattivi del nostro Paese che ben si sono incontrati con i fattori di spinta dei paesi d’emigrazione. Secondo un consistente filone teorico di stampo femminista, che si è occupato delle cosiddette «catene globali della cura», tale nicchia occupazionale apparterrebbe a una forma di «neocolonialismo», laddove l'emancipazione e l'ingresso nel mondo del lavoro delle donne occidentali comportano lo sfruttamento delle risorse affettive di quelle provenienti dal sud-est del pianeta (Ehrenreich e Hochschild, 2004). Tale filone di studi ha il merito di avere messo in luce il forte legame presente tra le migrazioni femminili e i sistemi di welfare dei Paesi d'origine e di approdo (Yeates, 2012), in particolare evidenziando la peculiarità del cosiddetto «modello di welfare mediterraneo», caratterizzato da un'intensa domanda di lavoratrici domestiche.

I quesiti di ricerca, tuttavia, non si sono limitati alla lettura e all'analisi di tale fenomeno ― la presenza di flussi femminili nel nostro paese ― di cui la letteratura si è occupata in modo piuttosto organico (Catanzaro e Colombo, 2009), ma hanno rivolto lo sguardo contemporaneamente alle famiglie di queste pioniere. L'intento è finalizzato a un’analisi dei contesti familiari e sociali d'origine, in modo particolare occupandosi della figura paterna. L'impatto sui contesti d'origine, in speciale misura le conseguenze sui bambini rimasti a casa, è stato oggetto di numerosi studi e ricerche che costituiscono l'interessante e controverso filone teorico, legato ai cosiddetti Children Left Behind (Bălţătescu e Chipea, 2010; Bezzi, 2013; Catălin e Pascaru & Foca, 2009; Olwig, 1999; Toth, Munteanu e Bleahu, 2008; Vianello, 2013); minore ma in crescita risulta anche l'interesse per gli anziani rimasti senza cure nei contesti d'origine e la riorganizzazione dei sistema di welfare locale (Vianello, 2015; Zimmer, Rada e Stoica, 2014). In modo diverso le figure paterne restano pressoché ignorate dagli studi presenti, in quanto spesso non implicate nel lavoro di cura conseguente alla partenza materna, il quale è generalmente portato avanti da altre figure femminili, spesso appartenenti alla famiglia allargata.

Metodologia e strumenti

Il particolare oggetto d'indagine ha richiesto la conduzione di una ricerca qualitativa multisituata nel tentativo di seguire i legami familiari attraverso le frontiere, svolgendo la prima fase della ricerca in Italia, mentre la seconda ha avuto luogo in Romania e in Repubblica di Moldavia. Si tratta di un approccio metodologico particolarmente utilizzato, nonostante non sia esente da limiti a livello epistemologico, per indagare le dimensioni «micro» delle migrazioni transnazionali (Boccagni, 2011; Boccagni e Riccio, 2014).

Gli studi relativi ai diversi aspetti del transnazionalismo familiare appaiono in grande espansione, in modo particolare quelli di tipo qualitativo. Sono rintracciabili, infatti, ricerche pioneristiche di stampo etnografico e multisituate (Vianello, 2009; Vietti, 2010), indagini sulla vita relazionale delle famiglie transnazionali (Bonizzoni, 2009; Lagomarsino, 2009; Parreñas, 2001, 2005; Vianello, 2013) e studi specifici sul caso rumeno (Piperno, 2008; 2010). L'originalità di questo contributo, dunque, si colloca nel punto di vista intrafamiliare ricavato, così come nell'attenzione dedicata ai padri; aspetti che hanno permesso di mettere in evidenza il peculiare rapporto bidirezionale esistente tra le variegate forme della mobilità materna e la riconfigurazione del nuovo ruolo paterno, così come il mantenimento dei legami affettivi, coniugali e nei confronti dei figli.

Per quanto riguarda gli aspetti metodologici, si è scelto di utilizzare lo studio di caso esplorativo (Yin, 2005), capace tra le molte forme di ricerca di dare risposta a quesiti (how and why), tipicamente appartenenti agli stadi iniziali ed esplorativi di una ricerca; tale decisione è stata assunta anche nell'ottica ecologica e costruttivista di tenere in forte considerazione il contesto. Sono stati dunque individuati e selezionati, con un campionamento a scelta ragionata, 5 nuclei familiari (tabella 1), per un totale di 23 interviste semi-strutturate in profondità (Corbetta, 2003). Si è cercato di intervistare il maggior numero di persone presenti nello stesso nucleo familiare, proprio nel tentativo di riuscire a cogliere la diversità di prospettive e di orientamenti incarnata dai diversi generi, generazioni e ruoli familiari ricoperti.

I criteri assunti per la selezione del campione sono stati l'assenza materna prolungata e l'affido dei figli rimasti a casa alla figura paterna. In generale il livello d'istruzione delle figure genitoriali risulta medio-alto e la maggioranza dei figli è laureata o iscritta all'università. La scelta di un campione composto sia da famiglie rumene che moldave risulta interessante principalmente perché permette di cogliere in modo particolarmente chiaro l'influenza delle politiche di ingresso e di regolarizzazione presenti in Italia al momento della conduzione della ricerca.[1] Le donne rumene in particolare appartengono alle cosiddette «famiglie circolanti» (Ambrosini e Boccagni, 2009), ovvero caratterizzate da mobilità geografica in entrambe le direzioni, rientri a casa piuttosto frequenti, vacanze trascorse assieme ai figli e scarsa propensione al ricongiungimento familiare. Per quanto riguarda invece le famiglie delle donne moldave, queste si caratterizzano in primo luogo per una più elevata età delle madri migranti, spesso aventi i figli già in età adulta, e in secondo luogo per l’iniziale progetto migratorio, il più delle volte nei fatti stravolto, che prevede la permanenza per un periodo di tempo breve di uno o due anni, cercando di massimizzare il più possibile i benefici economici del nuovo lavoro svolto in Italia.

TABELLA 1
I nuclei familiari intervistati
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La mobilità attraverso i confini: lavoratrici rumene e moldave a confronto

Obiettivo della seguente analisi è di mettere in evidenza come i singoli percorsi migratori vengano influenzati e siano riconducibili anche a fattori di tipo strutturale e normativo, che esulano quindi dalle storie delle protagoniste dei flussi e dallo stesso progetto migratorio iniziale e finiscono per incidere pesantemente sulla qualità della vita familiare, scandendo tempi e ritmi della mobilità transfrontaliera.

I sociologi Sandu (2005) e Diminescu (2003) individuano il 2002 come anno di svolta per le migrazioni internazionali rumene, che assumono dimensioni massicce grazie all'alleggerimento burocratico e alla libera circolazione nell'Area Schengen, senza più obbligo di visto per brevi periodi (3 mesi). Il 1̊ gennaio 2007, inoltre, segna l'effettivo ingresso della Romania nell'Unione Europea, passaggio che garantirà alle donne migranti uno status di regolarità e legalità, prima spesso non goduto. Per rendere visibili questi aspetti vale la pena provare a mettere in rilievo alcuni tratti distintivi dei due flussi migratori analizzati. Si può notare, infatti, come le donne rumene e moldave abbiano sviluppato due modelli migratori in parte diversi. Il progetto migratorio appare infatti simile al momento della partenza, ma va modificandosi nel corso dell’esperienza all’estero, in base soprattutto alle politiche di controllo e gestione dei flussi, quindi allo status giuridico delle donne migranti (regolare, irregolare).

La politica di ingresso e le pratiche di regolarizzazione in Italia, le cosiddette «sanatorie»,[2] incidono profondamente sulla mobilità transfrontaliera dei due gruppi. Nel caso delle rumene, infatti, in particolar modo dal 2007 in poi, viene praticata una circolarità di spostamenti verso la madrepatria che permette, da una parte, frequenti rientri a casa e, dall’altra, una maggiore mobilità verso l’Italia dei familiari rimasti nel Paese d'origine. Gli spostamenti verso la Romania, inoltre, si caratterizzano anche per i minori costi che questi viaggi comportano grazie alla maggiore vicinanza e ai migliori e convenienti collegamenti con la patria.

In parte diversa è la situazione per le donne moldave che, prima del 2014, le vedeva ancora costrette perlopiù a vivere un periodo di illegalità iniziale, attendendo una sanatoria che permettesse loro di regolarizzarsi. I collegamenti aerei tra Italia e la Repubblica di Moldavia inoltre sono pochi e costosi perché operati pressoché dalle sole compagnie aeree di bandiera, per questo le donne moldave viaggiano quasi esclusivamente con i pulmini, affrontando lunghi e faticosi viaggi, che ostacolano i rientri a casa, limitati il più delle volte a un rientro annuale (Vietti, 2010). Le spese di viaggio, oltre ai costi per il rinnovo del permesso di soggiorno e le restrizioni legislative, comportano la messa in atto di una mobilità diversa da parte delle donne moldave, meno inclini ai ritorni in patria e difficilmente raggiunte dai figli o dai mariti in Italia.

All’interno del gruppo dei cittadini moldavi, tuttavia, sono in molti a presentare un’identità per così dire ibrida, ovvero molti di loro possiedono il doppio passaporto rumeno e moldavo,[3] vedendosi in questo modo garantita la possibilità di spostarsi con facilità pur essendo di nazionalità moldava. È questo ad esempio il caso di Alina, medico moldavo, che durante l’intervista sottolinea più volte il suo ingresso regolare in Italia nel 2007 e insiste nel non volersi classificare come clandestina e irregolare, come la maggior parte delle sue conterranee:

«Anche in Italia sono venuta per lavoro, con un invito, tutto regolare… cioè non sono stata clandestina mai! No no, sono venuta proprio con un contratto di lavoro, assistente in casa, perciò non ero irregolare come le altre, potevo tornare a casa se volevo e dopo ho lavorato per undici mesi con quelle signore e poi mi sono iscritta all’università perché quello era lo scopo proprio, di fare l’università». (Alina, moldava)

Alina non è la sola ad avere il passaporto rumeno, ma ne risulta in possesso tutta la sua famiglia; questo vantaggio ha permesso all’intero nucleo familiare, dotato di un discreto benessere economico, di godere di frequenti occasioni di ritrovo, facendosi visita vicendevolmente nei rispettivi Paesi, e certamente è andato a influire, assieme al possesso di strumenti tecnologici per comunicare, sulla qualità della loro vita a distanza, caratterizzata da legami familiari dotati di una certa serenità, in particolar modo tra i coniugi.

«Certo che io tornavo spesso a casa, quattro anche cinque volte all’anno perché ero regolare in Italia, potevo anche andare avanti e indietro… io sono arrivata nel 2007, subito ho avuto lavoro e dall’ottobre 2008 sono andata all’università [...] è stato così fin dall’inizio, usavamo il computer, e forse anche questo ha come dire agevolato la lontananza! Non agevolato, come si dice? L’ha... reso un sollievo alla lontananza diciamo!». (Alina, moldava)

«Ci vediamo raramente, ma quasi ogni sera su Skype! Ma ci sentiamo come si dice... in sintonia, io penso che se in una coppia uno vuole partire, ma tra di loro si è condiviso tutto e pensato e pianificato tutto per bene, del tipo: parto, sistemiamo le cose a casa, sto via tot tempo e con i soldi guadagnati faremo questo...poi dopo ci re-incontriamo, allora sarà un successo! Altrimenti non funziona!». (Sergiu, marito di Alina)

Le barriere normative e istituzionali menzionate in precedenza sono spesso oggetto di sfida da parte delle famiglie migranti che, per esercitare i propri diritti familiari, tendono ad aggirarle, correndo talvolta notevoli rischi. Eugenia, ad esempio, racconta che quando era ancora irregolare in Italia non solo è riuscita a fare rientro a casa un paio di volte, bensì in un’altra occasione si è fatta raggiungere in Italia dai figli, allora ancora minorenni, per il periodo estivo:

«Sì, ho provato, sono riuscita a farlo due volte [tornare in Romania illegalmente], poi abbiamo ricevuto il permesso di soggiorno! Gigi aveva un lavoro annuale in fabbrica, io invece dovevo tornare per i miei figli, rimanevo in inverno solo se mi capitava di rinnovare i documenti in quel periodo. Altrimenti due, tre mesi d’inverno li facevo comunque in Romania per i figli».

«Appena finivano [la scuola] venivano! Per portarli come minorenni mica l’abbiamo fatta tanto legale! Gli amici che li hanno accompagnati con la macchina hanno pagato la mancia alle dogane». (Eugenia, rumena)

Eugenia in seguito agli eventi del 2007 decide di mettere in atto una vera e propria mobilità circolare, svolgendo lavori stagionali in Italia e facendo ritorno in Romania durante il resto dell’anno; questa particolare situazione le viene concessa da molteplici fattori quali: lo status di regolare, l’appartenenza all’Unione Europea, la facilità di spostamento e i bassi costi di trasporto, nonché la quasi autonomia e indipendenza economica dei figli che non le richiede più un impegno a tempo pieno:

«Gli inverni li faccio sempre in Romania, […] dal 2007 ho deciso di lavorare solo d’estate perché siamo nell’Ue faccio la stagione e torno a casa, i figli hanno finito di studiare».

«Di solito torniamo con la nostra macchina o con l’aereo, [...] poi ci sono anche questi ragazzi che fanno questi viaggi [si riferisce ai pulmini] fanno sia trasporto mezzi che trasporto persone, ma è faticoso stare con loro, devi stare sul pulmino per due giorni, adesso spedisco con loro i bagagli e io vado con l’aereo!». (Eugenia, rumena)

La possibilità o meno di vedersi con frequenza, o di fare ritorno in occasione di problemi o di urgenze avvenute a casa, modifica e influenza la qualità dei legami transnazionali portati avanti dalle famiglie. Essa a ben vedere risulta strettamente connessa alle condizioni legate sia allo status legislativo, sia alla tipologia di mansione e alle condizioni lavorative delle donne migranti. Il settore della cura familiare, infatti, permane tuttora parzialmente legato all'economia sommersa, nonostante i recenti sforzi di tutela contrattuale ottenuti, a partire dal contratto nazionale stipulato nel 2007 (Piperno, 2008; Bezzi, 2013). In modo particolare il ruolo di assistente familiare a tempo pieno e in co-residenzialità appare totalizzante, non concede molto margine per la vita privata delle lavoratrici domestiche, escludendo la possibilità di assenze frequenti o improvvise dal lavoro. È il caso di Ana, che dopo avere lavorato per i primi sei anni come «badante», dei quali i primi due in modo irregolare, oggi vive come un sollievo la sua nuova condizione di lavoratrice con orario diurno, nonché il ricongiungimento del marito.

«Io sono stata bene, ho trovato brave persone, mi hanno fatto il contratto e pagato i contributi, sono stata fortunata [...] poi da quando è venuto mio marito è un’altra cosa, ti senti a casa… diciamo che fuori faccio il mio lavoro, poi torno a casa chiudo la porta e sono a casa mia! Anche se non è mia perché pago l'affitto, è mia perché nessuno viene a dirmi perché non hai fatto quello o quell’altro! Oggi non lavo i piatti, li lavo domani capisci; invece quando si lavora giorno e notte come badante, tu devi fare, non ti senti libera, non puoi tornare al tuo paese… per quello ti dico che se anche vado a lavorare poi torno qui e dimentico tutto, sono a casa!». (Ana, moldava)

Eugenia e Violeta, la prima rumena, la seconda moldava, esprimono le loro diverse esperienze in occasione di alcuni problemi accorsi alle proprie famiglie; mentre Eugenia ha preso il primo volo per poter stare vicina alla figlia in ospedale, Violeta si è vista costretta ad attendere la regolarizzazione per non dover rischiare di essere espulsa dall’Italia:

«È successo con tutte due [i figli] una cosa, però grazie a dio alla fine è andato tutto bene, però per lei ho mollato tutto e sono scappata a casa in ventiquattro ore… quando per un problema medico era ricoverata all’ospedale». (Eugenia, rumena)

«Una volta sentivo che a casa facevano fatica senza di me! Io ero qui da quasi due anni e mi mancavano i miei figli, mi dicevo: non ce la faccio più vado a casa, ma poi parlando con le amiche, mi dicevano: guarda che presto uscirà la legge… insomma questo presto presto è durato ancora un anno e mezzo!». (Violeta, moldava)

Da queste testimonianze appare in modo emblematico come le pratiche di mobilità non dipendano dalla mera distanza geografica, bensì da un variegato insieme di fattori, spesso non sottoposti al diretto controllo dei singoli migranti, che però va a incidere sul benessere delle lavoratrici presenti nel nostro Paese, ma anche sull’esistenza stessa delle loro famiglie, il più delle volte fine ultimo del complessivo progetto migratorio iniziale.

I padri: da breadwinner a breadcookers?

 Appare estremamente interessante analizzare in modo speculare l’esperienza della migrazione familiare vissuta dai padri, in relazione soprattutto alla negoziazione di ruoli e compiti di riproduzione, modificati dalla partenza della figura materna. L’autopercezione paterna del nuovo ruolo familiare, che va a modificare quello che viene generalmente definito un assetto familiare di tipo classico, con l’uomo nelle vesti di breadwinner principale, e il punto di vista espresso dai figli in merito al grado di implicazione domestica e alla gestione dei nuovi compiti di cura assunti dai propri padri, saranno oggetto di quest’ultima parte di analisi. Non sono molti gli studi che si sono occupati in modo specifico del ruolo dei padri (Dreby, 2011; Hondagneu-Sotelo, 2003) all’interno delle famiglie transnazionali, tuttavia la tendenza che emerge dalla letteratura è quella di mettere in risalto la loro sostanziale inaffidabilità nello svolgere il nuovo ruolo familiare; in generale appare rara l’espansione del ruolo del padre che difficilmente, pur se rimasto nel paese d’origine, prende su di sé le responsabilità del lavoro di cura. Non è frequente, infatti, che i figli vengano lasciati a carico esclusivamente della figura paterna; nella maggior parte dei casi le donne migranti preferiscono, o si vedono costrette, a predisporre assetti familiari sostitutivi che vedono comunque il ruolo centrale di un’altra figura femminile, appartenente il più delle volte alla propria famiglia allargata. Non esistono dati empirici nazionali relativi al coinvolgimento della figura paterna nei contesti d'origine, ma solo alcuni studi circoscritti, con dati contrastanti tra loro. Bălţătescu e Chipea (2010), ad esempio, interpretano la ridotta implicazione paterna emersa dal loro studio come il segnale di una crisi coniugale, mentre altri autori parlano di circa il 54% di affidi paterni (Toth et al., 2007).

Come si sentono i padri, dunque, in questo nuovo ruolo familiare? Come lo vivono e come viene percepito secondo loro dal contesto sociale in cui sono inseriti? Questi sono stati gli interrogativi principali che hanno guidato la parte di ricerca che viene di seguito presentata. Sono stati incontrati quattro padri su cinque, in quanto una delle donne intervistate in Italia, Violeta, era da poco rimasta vedova.

In generale i padri intervistati affermano di avere assunto con molta disinvoltura e naturalezza il loro nuovo ruolo familiare, anche se allo stesso tempo sono consapevoli di rappresentare in questo senso una minoranza nei loro rispettivi Paesi. Essi risultano quindi in varia misura implicati nel loro nuovo ruolo e lavoro di riproduzione familiare, nonostante talvolta la loro testimonianza in merito al contributo familiare non sembra corrispondere completamente a quella dei figli.

Una delle questioni più spinose e ambivalenti che colpisce, e che spesso finisce per travolgere le coppie transnazionali, è il nuovo ruolo di breadwinner femminile che si viene a creare nelle famiglie migranti. Tale nuovo assetto comporta numerose conseguenze a livello intrafamiliare; innanzitutto perché va a spodestare l’uomo dal suo tradizionale ruolo di procacciatore di risorse, compito socialmente riconosciuto, la cui perdita comporta dunque delle ripercussioni esterne che si presentano tanto a livello sociale, quanto personale e intrapsichico. I mariti, infatti, si ritrovano costretti a dover negoziare la nuova situazione, affrontando dapprima la frustrazione insita nel percepire, ad esempio, uno stipendio inferiore a quello della moglie, ma dovendo allo stesso tempo anche confrontarsi con le critiche mosse dalla propria comunità, specialmente nel contesto di tipo rurale.

Se le donne migranti subiscono un processo che le vede talvolta poste sotto accusa, sia nei contesti di partenza come in quelli d’arrivo, per avere abbandonato la propria famiglia (Parreñas, 2001), in modo piuttosto parallelo la situazione per gli uomini che restano nel proprio paese d’origine non appare semplice, né esente da pregiudizi. Può capitare infatti che i giudizi negativi mossi nei confronti dei padri provengano da persone vicine, che quindi meglio di altre potrebbero comprendere la condizione familiare e la scelta migratoria intrapresa. Florin, dopo la partenza della moglie, si è ritrovato ad affrontare questa delicata situazione, enfatizzata dal suo ruolo pubblico di prete,[4] particolarmente esposto ai giudizi della gente perché, come lui stesso analizza, viene tuttora riconosciuto dalla comunità rumena come un modello di coerenza cui ispirarsi:

F: «No, no, non è accettato, nessuno lo accetta qui! [la partenza della moglie]».

I: «Ma perché è la donna a partire?».

F: «No, non è per questo, anche se fossi partito credo, ci sono dei pregiudizi qui, molto forti, mi sono reso conto che i vicini e tutti mi hanno giudicato molto e dicono: ma come anche il prete ha mandato sua moglie a lavorare all’estero? Non poteva lavorare qui e restare tutti assieme? [...] E forse se si fosse trattato di un’altra famiglia avrebbero capito, ma per quella del prete no, perché è speciale, quindi la questione era diversa per noi due, perché di lei dicevano che partiva, si sacrificava per lavorare per la famiglia, mentre di me dicevano ma perché il prete ha spedito sua moglie a lavorare all’estero, quindi a lei la capivano, mentre a me no!».

Per quanto riguarda invece il punto di vista dei figli sul nuovo ruolo paterno, essi, sebbene riconoscano l’impegno dimostrato dai padri, finiscono per sminuirne in qualche modo il valore, negando in generale che l’apporto paterno sia risultato sufficiente per alleviare la sofferenza per la mancanza della figura materna. La testimonianza di Stefan appare emblematica in questo senso, anche perché va a ridimensionare notevolmente quello che è l’impegno paterno in ambito domestico, mostrando uno scarto evidente tra le diverse prospettive sull’implicazione del padre nei nuovi compiti previsti per il suo ruolo:

«Veniva con il cibo pronto cucinato qualche volta, ma per il resto non è quel tipo di persona, anche perché noi vivevamo dalla nonna». (Stefan, 20 anni, romeno)

«Perché quando mia moglie è partita io mi sono occupato dei figli, di tutto, dal cucinare al pulire, della scuola, di tutto [...]. Sì, ho iniziato a fare tutto, tutto quelle che faceva lei… ma senza nessun problema, non ho avuto nessuna resistenza, perché comunque facevano parte di cose che facevo anche prima, le facevamo assieme, e quindi non è stato difficile… ma è vero che il mio ruolo di papà è diventato un pochino il ruolo della mamma anche, un po’ sai?». (Florin, marito di Cristina)

Nicoleta, contrariamente a Stefan, non scredita l’impegno del proprio padre, riconoscendogli gli sforzi tesi a gestire la casa e la famiglia, parole che vanno sostanzialmente a coincidere in questo caso con l’auto-analisi svolta dal padre. Significativo, tuttavia, il bisogno della ragazza di sottolineare come il contributo paterno non risulti sufficiente a colmare l'assenza affettiva lasciata dalla partenza della madre:

«Ogni tanto lo aiutavo anch’io perché capivo che aveva bisogno di una mano, ma devo dire che se l’è cavata bene, cucinava, ordinava e puliva, senza grandi problemi, non ci ha aiutato nessuno… ma insomma, non è che sostituiva la mamma». (Nicoleta, 20 anni, moldava)

«Delle pulizie mi sono sempre occupato io, poi anche Eugeniu e Nicoleta mi davano una mano... ma non veniva nessuno di esterno ad aiutarci e anche nella cucina non me la cavo male». (Sergiu, marito di Alina)

La situazione familiare vissuta da Victoria e Ion invece si distingue notevolmente da quelle appena presentate e appare in questo senso forse maggiormente rappresentativa della situazione presente a livello nazionale dei due Paesi presi in considerazione, come emerso in alcuni studi di ricerca sui Children left behind. In questa famiglia, infatti, il lavoro di cura era svolto esclusivamente dalla figura materna, che una volta partita è stata sostituita dalla figlia maggiore, mantenendo così un assetto familiare tradizionale in termini di ridistribuzione dei compiti domestici. Il padre, deceduto qualche anno fa, viene definito da Victoria come un «tipico uomo moldavo», ovvero privo di sviluppate competenze domestiche e non particolarmente incline ad acquisirle:

«Ma dall’altra ti puoi immaginare com’è stato all’inizio, io non sapevo cucinare niente di niente, mia mamma faceva tutto lei di solito a casa, sapevo solo cucinare le uova! E quando mia mamma se n’è andata mio padre ci aiutava, ma non così tanto, penso che tu conosca come sono gli uomini moldavi e rumeni, non sono così bravi e disponibili nei lavori di casa! Ma sì, provava a cucinare, poi cucinavo io, provavamo tutti! […] Si è stata molto difficile e dura, soprattutto all’inizio, ma poi abbiamo imparato a vivere da soli, anche i miei fratelli, in particolare Ion [...] dopo i miei fratelli sono cresciuti un pochino e è andato meglio, e anche mio padre ha capito che ci doveva aiutare di più, ha iniziato a cucinare». (Victoria, 24 anni, moldava)

L’impegno paterno in ambito domestico è minimo, ma appare progressivo e in crescita, come conferma anche Ion:

«Ha iniziato a fare queste cose, ma un po’ in ritardo, perché prima le faceva Victoria, che aveva quindici anni, quindi lei cucinava, lui faceva altre cose, quelle fuori casa, perché non vivevamo in città no? E allora attorno a casa avevamo gli animali, l’orto, quindi lui si occupava di quelle cose fuori, poi mia sorella è andata a Chişinău a studiare, e allora sono diventato io il più grande, ho iniziato a cucinare anch’io! Un po’ alla volta piano piano, imparavo nel weekend quando Victoria tornava, che mi insegnava, poi facevo da solo, anche le pulizie, tutto, ho imparato! Cioè io ero in casa e il papà fuori, poi lui faceva i pranzi di solito, qualcosa di veloce e io dopo la scuola facevo il resto». (Ion, 20 anni, moldavo)      

Le parole di Ion aggiungono elementi alla descrizione svolta dalla sorella in precedenza: da una parte viene confermata l'iniziale assenza di implicazione paterna nei compiti domestici, ma dall’altra viene anche fatta luce su un altro aspetto che merita attenzione. La descrizione della gestione dell’abitazione situata in contesto rurale propone la tipica divisione del lavoro domestico: una spartizione tracciata lungo linee immaginarie tra il dentro e il fuori della casa; mentre l’uomo si occupa dell’ambiente esterno, degli animali e della campagna, la donna ha l’onere dell’abitazione interna. Anche Ion, inoltre, come la sorella, descrive la graduale presa di coscienza paterna sulla necessità da parte sua di un maggior impegno. Il padre si renderà conto soltanto in un secondo tempo della necessità del suo supporto in ambito domestico, soprattutto in seguito al trasferimento di Victoria in città, quando a casa rimangono solo componenti maschili, fatta eccezione per l'ultimogenita Alexandra.

Infine risulta interessante notare che il nuovo lavoro di cura intrapreso dai padri il più delle volte è orchestrato e co-gestito assieme alle mogli partite, che non rinunciano alle loro funzioni di madri a distanza, rispondendo in parte alle aspettative sociali sul loro ruolo:

«Guarda ci sentivamo al telefono [...] una volta o due a settimana si parlava, per fortuna è andato tutto bene! Lui mi diceva cosa fanno i figli, anzi se lui doveva fare qualcosa mi chiedeva: posso fare questo, posso fare quello? No no guarda, siamo stati sempre uniti e assieme, ci siamo aiutati! Sì sì perché anche lui è una brava persona, per questo sono venuta no, io mi fidavo di lui, lui fa tutto, sapevo a chi lasciavo i figli… poi non beve, non fuma è un brav’uomo!». (Ana, moldava)

«All'inizio non è stato tutto facile. Andrei, Eugen e Vasile non erano piccoli, ma sai gli adolescenti maschi… sai come sono, no? Però se avevo bisogno sentivo mia moglie al telefono e poi al computer... ci dicevamo tutto... quindi pian piano ho imparato!». (Vlad, marito di Ana)

Quest’analisi, nonostante sia stata svolta su un numero limitato di famiglie, mostra l’estrema complessità e ambivalenza del ruolo paterno. Un padre appartenente a una famiglia transnazionale, infatti, quand’anche decida di impegnarsi portando avanti i nuovi compiti familiari, si ritrova spesso a dover mediare conflitti intra e interpersonali che questa transizione comporta, vedendo spesso il suo impegno qualificarsi come insufficiente per colmare il vuoto lasciato dalla partenza della figura materna.

Conclusioni

Questo articolo ha voluto porre l'attenzione sulle interrelazioni poste tra le nuove identità lavorative delle figure genitoriali, presenti all'interno delle famiglie transnazionali rumene e moldave. Da una parte le lavoratrici migranti, il più delle volte inserite nel settore della cura domestica, dall'altra i mariti rimasti nei Paesi d'origine, protagonisti di una riconfigurazione del loro ruolo familiare e sociale. L'analisi della mobilità materna, se per certi aspetti ha mostrato come una «cittadinanza europea», nel caso delle donne rumene, e la libera circolazione siano un grande alleggerimento della distanza per le famiglie divise tra più Paesi, allo stesso tempo ha riconosciuto come la loro mancanza non sia l’unico ostacolo alla mobilità transfrontaliera. Le condizioni lavorative, i costi di viaggio e lo stesso progetto migratorio, laddove l'obiettivo è la massimizzazione dei guadagni, diventano impedimenti alla frequente mobilità e dunque al benessere familiare, quasi sempre principale finalità delle migrazioni femminili.

La parte esplorativa sui padri ha invece permesso di dare voce ad attori solitamente trascurati dalla letteratura. I mariti che adempiono al loro ruolo affettivo nei confronti dei figli e della gestione domestica devono affrontare molteplici sfide tra cui l'accettazione e l'apprendimento di un nuovo ruolo tanto familiare, spesso subalterno economicamente rispetto a quello della moglie, quanto sociale, che rischia di allontanarsi in varia misura da quelle che sono le aspettative sociali dominanti di un particolare contesto. Il nuovo ruolo di cura, inoltre, può correre il rischio di scontrarsi anche con i bisogni e i desideri dei figli, i quali, pur riconoscendo gli sforzi paterni, finiscono per sminuire la loro portata in termini affettivi, aderendo in qualche modo a un modello centrato sulla madre come caregiver principale.

Future ricerche empiriche dovranno occuparsi di queste interessanti e complesse tematiche, che saldano fortemente l'incremento della mobilità europea con le migrazioni femminili da lavoro e i nuovi ruoli familiari.

Autore per corrispondenza

Marta Bertagnolli

Dipartimento di Scienze dell'Educazione «G.M. Bertin»

Alma Mater Studiorum, Università di Bologna

Via Filippo Re, 6 40126, Bologna

E-mail: marta.bertagnolli@gmail.com; marta.bertagnolli2@unibo.it

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[1]  Per i cittadini moldavi fino all'aprile 2014 vigeva l'obbligo dell'ottenimento di un visto per la circolazione nell'Area Schengen.

[2]  Con il termine sanatoria si intende una vasta gamma di provvedimenti normativi che ha come affetto la crescita della popolazione regolare, perché interviene modificando lo status di coloro i quali si trovavano in situazione di irregolarità. Dalla fine degli anni Settanta in Italia sono state varate undici sanatorie secondo Colombo (2012): nel 1979, 1980, 1982 (due volte), 1986, 1990, 1995, 1998, 2002, 2009 e 2011.

[3]  Tra il 1991 e il 2001 hanno ottenuto la cittadinanza romena 95.000 moldavi. Dall’entrata in vigore (1991) sino al 2001, la legge rumena permetteva ai moldavi, con genitori o nonni nati in Romania prima del 1940, l’ottenimento della cittadinanza; date queste condizioni quasi l’80% della popolazione rumena vi era inclusa. Dal 2001 in poi, però, su pressioni europee, la legge è stata modificata: richiede come condizioni necessarie per avanzare le domande di cittadinanza almeno quattro anni di residenza in Romania (Vietti, 2010).

[4]  La Chiesa ortodossa rumena prevede il matrimonio per i sacerdoti.

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