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Conflitti e segnali di pace

Intrecciando riflessività ed emotività: uno sguardo retrospettivo sul convegno “Comprendere e dialogare sulla paura del terrorismo e sulle trappole del pregiudizio” - Weaving reflections with emotions: looking back at the conference about “The understanding and the dialogue about the fear of terrorism and the traps of prejudice”

Claire Lajus

Dottoranda in Scienze pedagogiche, Dipartimento di Scienze dell’educazione “G.M. Bertin”, Università di Bologna, in co-tutela con l’équipe Education familiale et interventions socioéducatives auprès des familles, Université Paris Ouest Nanterre La Défense. Dopo una laurea in Etnologia e un’esperienza formativa e professionale come educatrice in Francia, effettua un percorso di studi in Pedagogia a Bologna. Nel 2014 inizia un dottorato in scienze pedagogiche in co-tutela con l’Università di Bologna e l’Università di Paris Nanterre. Da sempre interessata alla complessità connessa al crescere in contesti familiari multiculturali, oggi approfondisce questo tema attraverso lo studio del benessere soggettivo degli adolescenti figli di coppie italo-africane in Italia.


Abstract

This article looks back and reflects upon some of the core elements that the conference “The understanding and the dialogue about the fear of terrorism and the traps of prejudice” was based upon, such as its emphasis on emotion and choice of interdisciplinary view in order to deal with such complex issues, its correlation with religion, and last, but not least, its emphasis on the deconstruction of prejudice. Keywords: emotion, pedagogy, intercultural education, terrorism, complexity.



Sommario

Il presente contributo è finalizzato a ripercorrere la giornata di riflessione su “Comprendere e dialogare sulla paura del terrorismo e sulle trappole del pregiudizio”, seguendo il filo conduttore dell’esperienza emotiva come elemento inscindibile dalla costruzione della conoscenza, nella prospettiva della complessità. L’attenzione si focalizza su tre aspetti emersi durante il convegno e che oggi riecheggiano come più pressanti: la prospettiva interdisciplinare scelta per analizzare in modo problematizzante il tema del convegno, il rapporto alla religione come una delle dimensioni più visibili e cruciali dei mutamenti sociali e educativi attuali e, infine, “la forza del pregiudizio” la cui decostruzione è sempre da rinnovare.

 

Parole chiave: emozioni, pedagogia delle emozioni, educazione interculturale, terrorismo, complessità.

 

 

«L’incontro con l’altro è possibile soltanto se si ammette, in un atto di reciprocità dello scambio, che esiste in qualche modo uno zoccolo comune tra tutti gli uomini, uno zoccolo di umanità, nonostante e malgrado le differenze reali».[1]

 

 

Dopo avere assistito al convegno “Comprendere e dialogare sulla paura del terrorismo e sulle trappole del pregiudizio”, con il presente articolo invito a tornare a pensare i contenuti presentati durante tale convegno, tenendo conto della loro dimensione emotiva e mettendo così in luce l’intreccio tra il pensare e il sentire, a partire dalla prospettiva della complessità.[2] Focalizzerò la mia attenzione su tre temi centrali del convegno, che oggi riecheggiano come i più pressanti. Da una parte, è emersa la questione del tipo di prospettiva scelto per analizzare la realtà interculturale, punto di partenza fondamentale che esprime una volontà di trasversalità dei saperi. Il taglio interdisciplinare del convegno ne è un’illustrazione lampante. Dall’altra parte, tra i vari contenuti presentati, sono apparsi due elementi centrali: il rapporto alla religione come una delle dimensioni più visibili dei mutamenti sociali attuali, nonché “la forza del pregiudizio”,[3] il cui lavoro di decostruzione è sempre da approfondire. Il mio intento consiste nell’evidenziare come, attraverso questi menzionati temi centrali, traspaia in filigrana la questione della soggettività e, in particolar modo, dell’intreccio tra riflessione ed emozione, la tensione tra la ricerca di distanziamento rispetto a fatti avvenuti e il coinvolgimento emotivo rispetto agli stessi fatti che ci toccano più o meno da vicino. Per questo motivo, mi sembra essenziale riprendere i fili del discorso seguendo il pensiero della pedagogia delle emozioni.[4] Si pensa, si ragiona, addirittura si cerca di oggettivare una realtà inafferrabile, come se si cercasse di tenere a distanza ciò che tutti noi percepiamo, comunque sia. Ma come pensare, come dialogare, come comprendere se la mente è offuscata da emozioni così ingombranti come la paura, il terrore, lo sgomento di fronte all’indicibile? Sarà perché ero a Parigi il 13 novembre scorso, perché ho sentito risuonare le sirene delle ambulanze nella notte della capitale, perché per un attimo ho sentito il mio corpo allontanarsi dalla mia mente e rifiutare di “tornare in sé”, che oggi non posso elaborare una riflessione sui temi proposti senza considerare lo spazio occupato dall’emotività a fianco alla razionalità. O sarà che chi, come me, sceglie la strada dell’educazione, quella dei banchi della scuola, delle strade e dei centri di aggregazione giovanili, dei servizi socio-educativi o ancora dei luoghi di formazione, non dovrebbe esimersi dell’impegno di tendere verso una sempre maggiore consapevolezza dei propri modi di agire, di pensare e di sentire. Credo si tratti di una responsabilità nei confronti non solo di se stessi, ma anche degli altri, in primis dei/delle bambini/e e dei/delle ragazzi/e di cui abbiamo cura.

Prima di entrare nel vivo dell’analisi, vediamo brevemente quali punti di vista sono stati presentati durante il convegno, per tentare di comprendere il fenomeno del fondamentalismo islamico e le sue forme più violente, come lo jihadismo.

 

Un convegno interdisciplinare specchio della trasversalità dell’educazione interculturale

Il primo marzo si è tenuto a Bologna il convegno internazionale “Comprendere e dialogare sulla paura del terrorismo e sulle trappole del pregiudizio”. Organizzato da Stefania Lorenzini e Anna Pileri, ricercatrici in pedagogia interculturale, il convegno ha perseguito il fine di proporre uno sguardo multiplo sulla realtà odierna complessa, fornendo gli elementi di riflessione necessari per tentare di comprendere gli ultimi eventi terroristici avvenuti in Francia e nel mondo secondo un’ottica interdisciplinare e interculturale. I contributi provenienti da vari ambiti disciplinari hanno in comune l’obiettivo di decostruire i pregiudizi e gli stereotipi che si sviluppano in modo esponenziale in situazioni di crisi come quella della minaccia terroristica.

Il convegno è stato ricco di comunicazioni approfondite e complementari tra di loro. La comprensione, il dialogo, la paura, il terrorismo, le trappole e i pregiudizi… tanti ingredienti, per mettere in pratica una sfida: la relazione con l’altro. Ma da dove partire? Quale procedimento seguire? Il mosaico proposto prende spunto dalle scienze sociali, dalla storia alla pedagogia, passando dalla sociologia, all’etnografia e alla filosofia. Ampio spazio è stato dedicato a testimoni direttamente impegnati sul campo, tra cui Alberto Angelici, medico chirurgo da poco tornato dallo Yemen, che ci ha parlato del terrorismo jihadista in un paese islamico,[5] Farian Sabahi, giornalista iraniana esperta del fenomeno dei foreign fighters[6] e Cecilia Strada, presidente dell’ONG italiana Emergency.[7]

Gli intervenuti a questa giornata hanno cercato di trasmettere alcuni elementi di risposta, a partire dalla propria prospettiva. Alcune presentazioni, come quella dedicata ai ragazzi e alle ragazze europei che si arruolano nei ranghi dell’ISIS, hanno puntato i riflettori su una realtà delimitata, come a descrivere con precisione i particolari di una fotografia. Altre, invece, hanno offerto una panoramica più ampia, abbracciando il tema attraverso un grandangolo, come nel caso di Cecilia Strada che, attraverso la descrizione degli scenari in cui opera Emergency, ha trasmesso l’idea di una crisi globale che coinvolge tutti, compresi coloro che vivono a migliaia di chilometri di distanza dalle zone di guerra. Questo andirivieni tra locale e globale, ma anche tra teoria e pratica, ha consentito di disegnare una visione generale e integrata dell’argomento trattato. Alla fine, alla domanda di partenza “come comprendere e dialogare sulla paura del terrorismo e sulle trappole del pregiudizio?”, il convegno replica che non c’è risposta unica e univoca, anzi occorrono risposte diversificate, multidimensionali e complementari tra di loro, nessuna escludente le altre.

A partire da alcune presentazioni proposte durante la giornata, si approfondiranno ora tre questioni essenziali emerse durante il convegno: a partire da quale prospettiva studiare la complessità di fenomeni quali il terrorismo jihadista? Come considerare il rapporto dei giovani con la religione e quale ruolo può avere l’educazione rispetto a questa dimensione? Come perseguire il lavoro di decostruzione dei pregiudizi?

 

Incrociare i saperi per comprendere una realtà complessa

È già stata evocata la diversità delle discipline messe in campo in occasione del convegno e la loro complementarità, come a ribadire un’interconnessione tra le scienze sociali particolarmente viva nell’ambito delle scienze dell’educazione. Una descrizione accurata di questo quadro teorico è fornita dalla studiosa Martine Pretceille,[8] esperta in educazione interculturale e fervente sostenitrice del principio di etica della diversità e dell’alterità.

Di fronte alla tragedia degli attentati terroristici, Martine Pretceille presenta le basi di un’educazione interculturale come proposta etica capace di dare alcune indicazioni per meglio comprendere la realtà odierna. Questo approccio si fonda su interazionismo e complessità. Seguendo una prospettiva interdisciplinare, l’educazione interculturale così definita consente di tenere conto dell’insieme delle variabili e delle loro interconnessioni. Secondo la studiosa, questo approccio costituirebbe un baluardo contro ogni forma di riduzionismo intellettuale. Pretceille sostiene che la riflessione non deve lasciarsi cadere in congiunture che potrebbero oscurare la nostra capacità di analisi. È necessario dare prova di lucidità, di vigilanza e indicare le vie possibili di discussione, di impegno nell’azione.

Per illustrare il suo discorso, Martine Pretceille presenta alcuni modi di spiegare il fenomeno della radicalizzazione, modi che rischiano di diventare semplificazioni riduttive se confinate all’interno del proprio ambito. Ci mette così in guardia contro la spiegazione del «tutto religioso» (gli atti terroristici non possono essere giustificati soltanto attraverso il prisma dell’iperinvestimento nella religione e nel fondamentalismo), la spiegazione del «tutto sociale e post-coloniale» (i rimasugli della storia coloniale, le forme contemporanee di razzismo e di discriminazione, benché da denunciare, non sono gli unici fattori di tensione), infine la spiegazione del «tutto psicosociale» (anche se gli studi evidenziano dei punti comuni nei profili psicosociali dei ragazzi coinvolti nel fenomeno di radicalizzazione, come l’età, il disagio dello sradicamento e la ricerca di senso, queste spiegazioni non sono esaustive).

Di fronte ai pericoli di schematizzazione della realtà, Martine Pretceille invita ad attenersi a un lavoro di contestualizzazione. Per essere analizzato, il fenomeno della radicalizzazione e, a più ampia scala, tutti i fenomeni interculturali devono essere collocati all’interno dei contesti in cui avvengono. Peraltro, la contestualizzazione dei fatti è proprio ciò che propone Antonio Genovese in apertura del convegno. Il pedagogista interculturale inaugura la giornata ribadendo l’importanza di cominciare una riflessione sui fenomeni sociali e educativi esaminati a partire dalla loro contestualizzazione. In particolar modo, riguardo all’aumento della violenza terroristica nel mondo, lo studioso invita a riflettere su alcune dimensioni che creano le condizioni della violenza, tra cui: l’aumento continuo dei flussi migratori, e con questo anche l’inarrestabile incremento delle morti di migranti, l’instabilità geopolitica dei paesi del Sud con l’aumento dei conflitti armati nel mondo e, infine, il processo di globalizzazione e le questioni economiche che ne conseguono. Di fronte a questo scenario preoccupante, si alzano alcune voci, preghiere laiche e non, che auspicano la pace. Attraverso le parole di figure come Papa Francesco o lo scrittore Erri De Luca, Genovese esprime l’idea che sottende lo spirito del convegno: impegnarsi per trovare le strategie adatte a fermare il circolo della violenza e dei pregiudizi, per tornare a essere umani.

Si vede, quindi, che chi si occupa di intercultura non si limita a prendere in considerazione la dimensione della cultura come aspetto determinante dei comportamenti umani, ma si impegna a uscire dal proprio ambito, nel tentativo d’individuare e intrecciare i vari elementi di spiegazione di una realtà complessa, perché l’intercultura richiede la disponibilità all’incontro dei saperi e delle soggettività.

In proposito Pretceille afferma che l’approccio interculturale si radica in un’analisi interazionista, in cui l’interazione è considerata come ciò che determina l’azione. Cioè i comportamenti sono determinati dall’incontro intersoggettivo con l’altro. Quest’approccio invita a ricercare un equilibrio tra la totale singolarità dell’altro e il fatto che egli sia iscritto nell’universalità in quanto essere umano. A questo proposito, la studiosa francese lancia una sfida: l’umanesimo del diverso basato sull’etica dell’alterità e della diversità.

Se l’educazione interculturale è pensare l’incontro con l’altro, un passaggio d’obbligo consiste nello scendere in campo e incontrare in prima persona i soggetti/attori della società multiculturale. Lo propone la pedagogista Anna Pileri, puntando il riflettore su un contesto specifico e offrendo uno squarcio sulla realtà dei ragazzi e delle ragazze delle banlieues parigine, secondo un approccio etnografico.[9] Il suo contributo, intitolato Echi di violenza e di speranza dei giovani banlieusards, fa risuonare le voci di giovani che quotidianamente affrontano situazioni di discriminazione, disagio sociale e precarietà. Un quadro che ricorda molto le immagini del film di Mathieu Kassovitz, L’odio, girato vent’anni fa, ma sempre di grande attualità. Le periferie, un mondo chiuso dal quale le vie d’uscita sembrano chiuse.

Il destino della gioventù è intrinsecamente legato alla storia dell’immigrazione, ma non solo. Il contesto politico, urbano, socioeconomico e educativo giocano ruoli determinanti nella questione della disintegrazione di quelle zone sensibili. Secondo il lessico del sito dell’Observatoire national des politiques de la ville (ex-Observatoire national des zones urbaines sensibles), le zones urbaines sensibles (ZUS), target prioritario della politica urbana, sono caratterizzate dalla presenza di grands ensembles, alloggi collettivi e sociali costruiti tra gli anni '50 e '70, di quartieri di alloggi degradati e da un forte squilibrio tra alloggio e lavoro. Il tasso di esclusione e di disoccupazione è spesso più alto della media delle aree urbane interessate. Oggi se ne contano 751, che riuniscono 4.7 milioni di abitanti, ossia circa il 7,5% della popolazione francese» (http://www.onpv.fr/lexique#Z). A questo proposito, l’Observatoire des zones urbaines sensibles, che fornisce alcuni dati sulle politiche urbane, l’impiego e la disoccupazione, l’andamento scolastico e la dispersione scolastica, la salute e le attività sportive in ZUS, traccia un quadro preoccupante per la popolazione di quelle zone periferiche (aspetti che saranno approfonditi nell’articolo di Anna Pileri).

Riprendendo il discorso della psicoanalista Julia Kristeva, Anna Pileri evidenzia come tale contesto di disintegrazione abbia favorito l’emergere di sentimenti di vendetta, pulsioni di morte, che in alcuni casi sono sfociati nella radicalizzazione. Tuttavia, attraverso spezzoni d’interviste rivolte ai ragazzi incontrati, la pedagogista vuole anche far sentire voci di speranza. Loro non esprimono solo un vissuto di esclusione, ma anche una tensione all’inclusione. I loro modi di vedere e vivere il mondo, attraverso l’arte urbana della danza tecktonik, sprizzano vita e capacità di resilienza. Però questa possibilità di inclusione è possibile-visibile solo se si adotta «un pensiero nomade», in grado di dare spazio alla «libertà di sguardo sull’altro, più attento alla condivisione che alle divisioni» (Convegno, Pileri, 2016).

 

Conoscere le religioni per riconoscere i pericoli della perdita di senso

Avvicinarsi all’altro, nella sua complessità, significa anche avvicinarsi alla dimensione religiosa e in particolar modo al modo in cui ognuno di noi si relaziona con essa. Si tratta non solo di interessarsi alla religione dell’altro, o al suo modo di vivere la religione, ma anche di interrogarsi sul proprio rapporto con questa dimensione. Significa inoltre addentrarsi in un campo multidimensionale, dall’esperienza individuale e intima del soggetto che crede e/o pratica oppure no una fede religiosa, all’esperienza collettiva dell’appartenere a una comunità religiosa. Significa, infine, essere in grado di situare la questione del rapporto con la religione all’interno di un quadro più ampio che integri tutte le variabili situazionali, storiche, economiche, conflittuali, i rapporti di potere e di dominazione in relazione a una realtà religiosa in un contesto determinato. Seguendo le raccomandazioni di Martine Pretceille si tratta, quindi, di non focalizzarsi su una variabile sola, come quella religiosa, e rischiare di cadere di conseguenza negli stereotipi e nei pregiudizi di origine religiosa. Allora, insieme a lei, «si può considerare che il fenomeno di radicalizzazione relativo all’islam funge da cassa di risonanza rispetto a diversi problemi come lo spazio dedicato all’islam all’interno di una società europea, le disuguaglianze, le fragilità psicologiche e sociali di ciascuno».

Il rapporto con la religione è quello che oggi viene indicato da alcuni esperti come uno degli aspetti dell’incontro interculturale più complesso, in particolar modo nelle giovani generazioni. Nel complicato rapporto con la religione, che si sia credenti o meno, si può vedere una manifestazione della difficoltà di esprimere le proprie domande relative al rapporto con il divino, con la spiritualità, con la ricerca di senso della vita, domande che oggi fanno spesso fatica a trovare la propria strada, soprattutto nei giovani. A ridosso degli attentati di Parigi di novembre scorso, in un’intervista di Farian Sabahi a Julia Kristeva, la psicoanalista e scrittrice spiegava che, dopo avere lavorato per anni alla Maison des Adolescents a fianco a giovani in via di radicalizzazione, ha rilevato questo loro comune impellente bisogno di credere. Dal canto suo, Martine Pretceille osserva che «l’individuo è confrontato non tanto a un’assenza di valori, quanto piuttosto a un loro livellamento che lo mette nell’incapacità di scegliere e quindi di agire». Aggiunge: «Il silenzio giova a tutte le forme di radicalismo e comunitarismi».

Vediamo, quindi, come ci troviamo di fronte a un vuoto, e quanto il ruolo degli educatori, di chi lavora a contatto con i ragazzi e le ragazze, possa essere centrale. Certo si potrebbe osservare che la fede religiosa riguarda la sfera privata e non dovrebbe essere oggetto dell’educazione al di fuori dell’ambito familiare. Tuttavia, che sia a scuola o nei contesti extra-scolastici, uno dei compiti fondamentali dell’educatore è quello di trasmettere gli strumenti utili per permettere ai giovani di orientarsi, di trovare dei punti di riferimento a partire dai quali riuscire a esercitare il proprio senso critico. Per farlo, si possono seguire strade diverse.

Julia Kristeva suggerisce la via della trasmissione. Secondo lei, gli adulti hanno il compito di tramandare la memoria storica delle religioni utilizzando tutti gli strumenti disponibili. La Kristeva osserva che «i giovani devono studiare le religioni, interpretarle, farle proprie. Come strumento di apprendimento dobbiamo usare le scienze umane, l’antropologia, l’etnologia, la psichiatria, la psicanalisi. Materie, queste, che permettono di separare quello che della religione rappresenta una minaccia da quello che, invece, può essere di beneficio per i giovani e i meno giovani. Occorre intraprendere questo lavoro di analisi e di rivalutazione delle religioni che un tempo era la vocazione dell’umanesimo, ma di questi tempi è stato trascurato».[10] Di nuovo, torna la questione del punto di vista e, in questo caso, della sua apertura a tutte le religioni, a partire dai vari ambiti di studio, per una sempre maggiore conoscenza della realtà, passata e presente, che ci circonda.

Martine Pretceille apre alla via della laicità, all’incrocio dell’etica e della diversità. Secondo l’autrice, la laicità potrebbe rappresentare un’opportunità di riassestamento di un certo numero di principi e comportamenti di fronte all’innalzarsi di comunitarismi o amalgami tra cultura e religione. Al di là dei particolarismi, sarebbe una «forma di traduzione, al di fuori del sacro, della questione dell’etica», perché trascende le differenze e rende possibile la coesistenza di tutte le religioni. Inoltre, garantisce la libertà di coscienza, la separazione di privato e pubblico. «In quanto principio, la laicità si oppone a tutti i dogmatismi, religiosi o politici». Il principio della laicità è quindi proposto come baluardo contro i conflitti interreligiosi, come etica trascendente accessibile a tutti. Perché «tutti gli individui hanno bisogno di riferimenti, di sistemi di riferimento, di valori, di miti, nessun gruppo può fare a meno di questi riferimenti, che non devono essere confusi con l’istinto di obbligo morale».

Per consentire di mettere in pratica questi buoni propositi, mi sembra che occorra innanzitutto, in quanto pedagogisti, educatori, professionisti dell’educazione, fare un passo indietro e iniziare a guardare dentro di sé, al proprio rapporto con la religione e la spiritualità, allo scopo di trovare le proprie risposte. Occorre soprattutto essere all’ascolto, trovare i tempi e gli spazi necessari per accogliere non solo le domande, ma anche i silenzi dei ragazzi e delle ragazze. In modo formale durante una lezione, ma anche in modo informale, occorre essere attenti, osservatori, pronti a cogliere i segnali di fragilità e disorientamento di fronte al rischio di senso di vuoto così pericoloso per le giovani generazioni.

 

Conoscere e conoscersi per decostruire i pregiudizi

Nel tentativo di lottare contro ogni forma di semplificazione riguardo alla realtà sociale in generale, e al fenomeno della radicalizzazione in particolare, si cerca in fondo di limitare lo svilupparsi di opinioni preconcette, erronee e rigide, in altre parole di pregiudizi. Nell’ambito delle scienze sociali, la categoria del pregiudizio è stata oggetto di numerosi studi approfonditi (tra i quali i lavori di Allport e di Taguieff). Prendiamo qui in considerazione la definizione proposta da Mazzara che colloca il pregiudizio a due livelli, concependolo da una parte come «giudizio precedente all’esperienza o in assenza di dati reali», dall’altra come «la tendenza a considerare in modo ingiustificatamente sfavorevole le persone che appartengono a un determinato gruppo sociale» (1997, pp. 12-13). Attraverso questa definizione, l’accento è messo sulla centralità dell’“esperienza” diretta del soggetto e sull’accesso a “dati reali”, nonché sull’apparente facilità di passare da un misconoscimento dell’altro a una sua rappresentazione negativa.

Tra gli interventi presentati durante il convegno, quello proposto da Maurizio Ambrosini esemplifica particolarmente bene il divario tra rappresentazioni e realtà. Il sociologo incentra la sua riflessione sull’attuale situazione dei rifugiati in Europa. Ci guida così sulla strada della sociologia dell’immigrazione per tentare di decostruire alcuni degli stereotipi più radicati e che alimentano i discorsi razzisti e, in generale, la paura e perfino il rigetto dell’altro. Grazie all’uso dei dati ufficiali, della descrizione del fenomeno migratorio odierno e sottolineando le strategie geopolitiche che lo sottendono, Ambrosini evidenzia l’importante scarto tra le rappresentazioni e la realtà relative all’immigrazione in Italia.

Le caratteristiche della popolazione che migra verso la penisola italiana, i modi di migrare, l’entità del fenomeno e il legame tra rifugiati e terrorismo sono alcune delle dimensioni a partire dalle quali le paure si esprimono. «Il punto è che le retoriche dell’invasione sono una strategia per difendersi meglio». Con quest’affermazione, Ambrosini ci ricorda che sotto la produzione di stereotipi e di pregiudizi si nasconde la paura dell’altro, inteso come pericolo, minaccia tanto temuta quanto poco conosciuta, e molto lontana dalla realtà di un’umanità che invece sta scappando da un pericolo concreto.

Al di là della questione dell’esperienza dell’incontro con l’altro, oppure della conoscenza dei dati concreti relativi a un determinato fenomeno o a uno specifico gruppo sociale, la questione dei pregiudizi solleva la questione della soggettività, del modo di percepire l’altro e il mondo, e quindi delle caratteristiche cognitive ed emotive di ogni persona nel suo rapporto con il mondo. A questo proposito, l’intervento di Ilaria Possenti[11] apre un’interessante riflessione appoggiandosi al lavoro di Hannah Arendt. La ricercatrice in filosofia pone il problema della «banalità del male» e della comprensione in tempi di emergenza politica, secondo la chiave di lettura della filosofa tedesca.

La Arendt si era posta il problema della definizione del pregiudizio in ambito politico, interrogandosi sulle conseguenze di un pregiudizio, considerato come premessa/postulato del discorso, quando esso, sottratto alla riflessione pubblica, diventa punto di partenza e centro dell’azione di un governo. In tale contesto, ci si trova di fronte a una “mancanza di pensiero” (thoughtlessness), assenza di riflessione alla base della “banalità del male”. Questa carenza di riflessione è strettamente legata al rapporto tra il soggetto e il mondo, l’individuo e la sua comunità, il privato e il pubblico, alla contrapposizione tra l’interesse personale e l’interesse comune. In una situazione in cui la dimensione comunitaria viene a mancare, si perde il rapporto con l’altro e con se stessi.

Nel 1958, usciva L’origine del totalitarismo, nelle cui conclusioni “Ideologie e terrore” Hannah Arendt si preoccupava del fenomeno di “estraniazione dal mondo”, descritto come una situazione in cui l’individuo non è più “attraversato” dall’altro. Nel perdere il contatto con l’altro, l’individuo perde la capacità di sentirsi parte del mondo, si isola. Da un punto di vista politico, quando l’estraniazione dal mondo si manifesta nei modi di costruire la società, e non siamo più capaci di vedere il mondo attraverso il punto di vista degli altri, ciò dà luogo all’emergere di regimi totalitaristi. Tali teorie sviluppate nel secondo dopoguerra risuonano oggi di grande attualità e tornano a sottolineare l’urgenza di riflettere, ma soprattutto di agire, per conoscere in modo più approfondito i meccanismi all’origine dei pregiudizi e meglio aggirarli.

Nel lavoro di decostruzione dei pregiudizi, Ilaria Possenti invita a «apprendere a disapprendere, mettere in discussione le premesse, smontare le cose, a condizione che tutti abbiano “il diritto ad avere diritti”, un diritto ad avere un proprio posto nel mondo, a una base sicura» (Convegno, Possenti, 2016). Nella ricerca di senso di fronte alla capacità di violenza umana, la filosofia apre qui un passaggio e uno spazio in cui far coabitare mente e emozioni.

Mi preme ricordare che, nel saggio Per una pedagogia interculturale, Antonio Genovese sosteneva che «dentro un’indispensabile conoscenza critica del sapere, occorre definire anche una “conoscenza critica del sé”, della propria identità e della propria cultura» (2003, p. 203). Questo posizionamento rappresenta una condizione sine qua non per intraprendere la strada dell’incontro con l’altro in modo autentico. Perché, come ricorda Ilaria Possenti: «mantenere il contatto tra sé e sé, permette di restare in contatto con gli altri».

 

Uno spazio per le emozioni dette e non-dette

Il convegno si conclude con una riflessione di Stefania Lorenzini[12] sull’Educare all’interculturalità nel quadro dei nuovi razzismi e dei conflitti attuali. Evocando l’immagine dell’infanzia, la pedagogista ci invita a pensare allo «sguardo bambino che ci interroga e cerca in noi le risposte alla questione delle emozioni e di cosa farne». Attraverso le loro domande, i loro comportamenti, i loro disegni, i bambini si/ci interrogano. Per la Lorenzini «gli occhi dei bambini ci scrutano e ci portano così a guardare dentro di noi. Si tratta allora di riconoscere le emozioni come la paura, e di imparare a sostare nella paura prima di andare oltre».

Durante eventi tragici come gli attentati terroristici, in qualsiasi parte del mondo, la paura, anzi il terrore che si prova, ha un effetto paralizzante. Ti ferma il respiro, manda in frantumi la tua capacità di pensare, di amare, di sognare. L’idea di sicurezza vola via. Proiettarsi nel vissuto delle vittime può rimandare al proprio senso di vulnerabilità e di sgomento di fronte alla capacità distruttiva dell’essere umano. Può invadere un senso di solitudine di fronte all’indicibile. L’intensità dell’esperienza traumatica, come il vivere un evento terroristico in modo diretto o indiretto, varia a seconda degli individui e delle circostanze. In ogni caso, l’impatto emotivo di tali eventi può fare da schermo e impedire di vedere chiaramente rispetto a quanto è successo. Per questo motivo, mi sembra fondamentale evocare qui la pedagogia delle emozioni, in quanto fornisce gli strumenti per un’alfabetizzazione emotiva. Nel riconoscere lo spazio dovuto all’esperienza emotiva, quest’approccio pedagogico contribuisce a migliorare la conoscenza di sé e dell’altro, e quindi le relazioni interpersonali. Tale atteggiamento è frutto di una scelta responsabile e coraggiosa. Infatti, implica la necessità di accettare una parte di sé spesso in ombra e potenzialmente dolorosa. Implica anche la necessità di accettare che non tutto si può comprendere, e che possono rimanere delle zone oscure, sfocate, “il margine di incomprensione” di cui parla Edgar Morin (2015).

Per comprendere e dialogare sulla paura del terrorismo, ora possiamo ipotizzare che occorra innanzitutto partire dalle emozioni, come punto in comune, anello di ricongiungimento con l’altro. Si tratta, da una parte, di avviare un processo di autoconoscenza. Ho bisogno di sentire e riconoscere ciò che provo prima di nominarlo e riuscire a distanziarmene per meglio pensare. Dall’altra di tornare verso l’altro, in un atteggiamento empatico in grado di sentire quello che sente, senza però farsi travolgere; si tratta di riconoscere l’altro come simile, cioè un soggetto fatto di ragione e di emozione, in cui mente e corpo sono connessi tra di loro… come me.

 

Conclusioni

Nel mosaico proposto dal programma della conferenza, anche se non compare apertamente una dimensione psicologica, la dimensione emotiva del tema trattato traspare in ogni comunicazione, come nel seguire un filo rosso in filigrana. Cercando di comprendere fenomeni come le migrazioni, la globalizzazione o le forme di violenza estrema come lo jihadismo, si cerca di comprendere le radici dei moti emotivi che abbiamo provato e che continuiamo a provare ogni volta che la violenza fa scoppiare l’idea di umanità che è in noi. Come dice Stefania Lorenzini in conclusione del convegno, bisogna partire dal riconoscere le emozioni come la paura, e imparare a sostare nella paura prima di andare oltre. Significa rendersi disponibile all’ascolto di sé, delle proprie emozioni, essere capace di riconoscerle, nominarle, sostarci il tempo necessario per poi superarle. È il punto di partenza per riuscire ad andare di nuovo verso l’altro, l’altro da sé.

Vorrei ricordare le parole di un pedagogista la cui recente scomparsa rende ancora più vivida l’urgenza di difendere un approccio interculturale che includa la dimensione emotiva. In un articolo intitolato Noi e loro scritto il 23 novembre 2015, ricordando il pensiero di Heinrich Pestalozzi, Alain Goussot ribadiva il suo invito ad «accedere alla propria umanità per capire l’umanità altrui e comprendere che prima di essere diversi siamo anche simili nella misura in cui proviamo tutti le medesime emozioni». Concludeva l’articolo affermando che «educare all’alterità e all’incontro vuol dire combattere quello che Freud chiamava l’istinto di morte, quella pulsione distruttrice che abita ogni essere umano, per favorire il crescere dell’istinto di vita e quindi della speranza» (Goussot, 2015).

In un contesto sociale pervaso dall’incertezza e dal dubbio rispetto al futuro, occorre fare tesoro di queste idee, e diffonderle il più possibile. Penso agli educatori, agli insegnanti e a tutti gli operatori del settore socio-educativo che si confrontano quotidianamente con i disorientamenti e le fragilità legati ai cambiamenti sociali e culturali. Proprio perché sono a contatto con bambini/e e ragazzi/e che saranno il futuro, hanno bisogno di sperare, di sognare orizzonti possibili. Occorre coraggio per affrontare le proprie paure, ma occorre anche coraggio per osare superarle. Per dirlo con le parole di Mariagrazia Contini (2006), «per tendere alla felicità occorre molto coraggio poiché occorre “aprirsi” all’esistenza, essere disponibili a incontrarla insieme alla sua “sorella gemella”, la sofferenza, superare la tentazione difensiva, autoconservativa, che induce ad accontentarsi di poco per non dover rischiare molto e a chiudersi nello spazio della propria soggettività per non avvertire la domanda di felicità che proviene da chi non osa nemmeno pensarla» (Contini, 2006, p. 60).

 

 

AUTORE PER CORRISPONDENZA

Claire Lajus

Dipartimento di Scienze dell’Educazione "Giovanni Maria Bertin"

Università di Bologna

Via Filippo Re, 6

40126 Bologna – Italy

E-mail: claire.lajus@unibo.it

 

 

Riferimenti bibliografici

Arendt A. (2004), Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi.

Contini M. (1992), Per una pedagogia delle emozioni, Firenze, La Nuova Italia.

Contini M., Fabbri M. e Manuzzi P. (2006), Non di solo cervello. Educare alle connessioni mente-corpo-significati-contesti, Milano, Raffaello Cortina.

Genovese A. (2003), Per una pedagogia interculturale, dalla stereotipia dei pregiudizi all’impegno dell’incontro, Bologna, Bononia University Press.

Goussot A. (2015), Noi e loro, «Comune Info», 23 novembre 2015, http://comune-info.net/2015/11/noi-e-loro-bambino/ (ultimo accesso: 12/05/16).

Mazzara B.M. (1997), Stereotipi e pregiudizi, Bologna, il Mulino.

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Sabahi F. (2015), Intervista a Julia Kristeva. “I giovani jihadisti? Sono dei malati, inotossicati dall'integralismo”, «Io Donna», 17 novembre 2015, http://www.iodonna.it/attualita/in-primo-piano/2015/11/17/julia-kristeva-i-giovani-jihadisti-sono-dei-malati-intossicati-dallintegralismo/?refresh_ce-cp (ultimo accesso: 12/05/16).

Taguieff P. (1994), La forza del pregiudizio: Saggio sul razzismo e sull'antirazzismo, Bologna, il Mulino.

 

[1] M.H. Eloy, Les jeunes et les relations interculturelles. Rencontres et dialogues interculturels, Paris, L’Harmattan, 2004.

[2] Si intende qui per “complessità” l’accezione proposta da Edgar Morin, il quale, partendo dall’etimologia «complexus: ciò che è tessuto insieme», descrive un insieme di elementi eterogenei contenenti una parte di incertezza, di aleatorietà, cioè «l’incertezza all’interno di sistemi riccamente organizzati». E. Morin, Introduction à une pensée complexe, Paris, ESF, 1991.

[3] P.A. Taguieff, La forza del pregiudizio: Saggio sul razzismo e sull'antirazzismo, Bologna, il Mulino, 1994.

[4] In merito a questo argomento, si fa prevalentemente riferimento all’approccio proposto da Mariagrazia Contini, in particolare a quello sviluppato nel saggio Per una pedagogia delle emozioni, Firenze, La Nuova Italia, 1992.  

[5] Alberto Angelici, medico chirurgo, professore associato di Chirurgia all’Università Sapienza di Roma, Dipartimento di Chirurgia, contributo intitolato Il terrorismo jihadista in un paese islamico: il caso dello Yemen.

[6] Farian Sabahi, giornalista, scrittrice docente universitaria specializzata sul Medio Oriente e in particolare su Iran e Yemen, contributo intitolato Foreign fighters: Jihadisti della porta accanto.

[7] Cecilia Strada, sociologa, presidente dell’ONG Emergency, contributo intitolato L’impegno di Emergency: Ricercare nuovi linguaggi per parlare di pace.

[8] Martine Pretceille è stata docente presso l'Università Paris VIII in Scienze dell'educazione e in Francese L2 presso l’Università Paris III Sorbonne Nouvelle. I passi citati sono tradotti dal suo articolo L’ethique de la diversite et de l’alterite a l’epreuve du tragique, contenuto in questo numero di «Educazione interculturale».

[9] Anna Pileri, ricercatrice assegnista presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, contributo intitolato Echi di violenza e di speranza dei giovani banlieusards.

[10]F. Sabahi, Julia Kristeva: “I giovani jihadisti? Sono dei malati, intossicati dall’integralismo”, «IoDonna», 17 novembre 2015, http://www.iodonna.it/attualita/in-primo-piano/2015/11/17/julia-kristeva-i-giovani-jihadisti-sono-dei-malati-intossicati-dallintegralismo/.

[11] Ilaria Possenti è assegnista di ricerca all’Università di Verona e professore a contratto in "Identità e intercultura" presso il Corso di laurea in Cooperazione allo sviluppo, mediazione e trasformazione dei conflitti-Scienze per la pace dell'Università di Pisa. Il suo contributo è intitolato La banalità del male oggi. Hannah Arendt e il problema della comprensione in tempi di emergenza politica.

 [12] Stefania Lorenzini, ricercatrice presso il dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna.

 



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