Test Book

Conflitti e segnali di pace

Immigrazione e terrorismo: uno specchio delle nostre paure - Immigration and terrorism: a mirror of our fears

Maurizio Ambrosini

Professore di Sociologia dei processi migratori presso la Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università di Milano. Responsabile scientifico del Centro Studi sulle Migrazioni nel Mediterraneo di Genova. Collabora con «LaVoce». È autore di oltre 200 pubblicazioni tra cui 10 monografie.
Direttore della Scuola estiva di Sociologia delle Migrazioni di Genova, patrocinata dall’Associazione Italiana di Sociologia. Direttore della rivista «Mondi migranti», prima rivista italiana di sociologia delle migrazioni (seconda rivista sociologica italiana per H index: Google Scholar 2014). Membro del comitato scientifico del Dossier Immigrazione della Caritas italiana. Ha fatto e fa parte di reti di ricerca internazionali, tra cui il progetto Transmigrared (collaborazione scientifica e accademica sui fenomeni migratori tra Europa e America Latina), Tresegy (progetto di ricerca europeo sugli adolescenti di origine immigrata), ACCEPT Pluralism (progetto europeo sulla gestione della diversità culturale e religiosa).


Abstract

Immigrants and asylum-seekers are increasingly perceived as a problem in the nation-states in which they settle. While the economy is globalizing, the politics are re-nationalizing by issuing new orders and raising new walls (42 worldwide). The fears lifted by the international terrorism of Islamic origin are added today to the list of reasons for the closures and feed containment policies directed mainly towards asylum seekers. Nevertheless, the refugees who reach the EU are less than 10% of the total world and are actually escaping from the ISIS, while paradoxically, the known terrorists are almost always born, grown and radicalized in Europe. The hostility towards the refugees (more than 1.000 attacks in Germany last year) speaks about us: about our weaknesses, our anxieties for the future, and our difficulties to face the challenges of an increasingly interconnected world. Keywords: immigration, fear, representation, borders.



Sommario

Immigrati e richiedenti asilo sono sempre più percepiti come un problema negli Stati nazionali in cui s’insediano. Mentre l’economia si globalizza, la politica tende a nazionalizzarsi nuovamente. I confini riprendono vigore e sui confini si alzano nuovi muri (42 nel mondo). I timori sollevati dal terrorismo internazionale di matrice islamista si aggiungono oggi alla lista delle ragioni delle chiusure e alimentano politiche di contenimento rivolte soprattutto nei confronti dei richiedenti asilo. Ma i rifugiati che raggiungono l’Unione Europea sono meno del 10% del totale mondiale e in gran parte oggi fuggono dall’ISIS, mentre i terroristi noti sono quasi sempre nati o cresciuti in Europa e si sono radicalizzati in Europa. L’ostilità nei confronti dei rifugiati (più di 1.000 attentati in Germania lo scorso anno) parla di noi: delle nostre fragilità, delle nostre ansie per il futuro, delle nostre difficoltà ad affrontare le sfide di un mondo sempre più interconnesso.

Parole chiave: immigrazione, paure, rappresentazioni, nuovi muri.

 

Introduzione

La guerra in Siria e Iraq ha costretto alla fuga milioni di profughi. Solo una modesta minoranza,[1] mediamente i più attrezzati e selezionati, arrivano in Europa, ma questo basta a scatenare paure e rifiuti. In realtà l’86% delle persone in cerca di asilo trova accoglienza in paesi del terzo mondo. Meno del 10% arriva in Europa. Il Libano accoglie più rifugiati dei 28 paesi dell’UE messi insieme, con un’incidenza stimata oggi intorno ai 300 ogni 1.000 abitanti. Per dare dei termini di paragone, la Svezia è a quota 9, l’Italia a quota 2, con poco più 100.00 rifugiati attualmente accolti (contro 1,5-2 milioni per il Libano, 2,6-3 milioni per la Turchia). Eppure in Europa e in Italia predomina l’idea dell’invasione di una folla incalcolabile di richiedenti asilo.

Considerazioni analoghe valgono per l’immigrazione in generale: si sente continuamente dire che siamo di fronte a un fenomeno gigantesco, in tumultuoso aumento, che proverrebbe principalmente dall’Africa e dal Medio Oriente e sarebbe composto in gran parte da maschi mussulmani. I dati disponibili ci dicono invece che l’immigrazione dopo anni di crescita è sostanzialmente stazionaria, intorno ai 5 milioni di persone, arrivate per lavoro in un primo tempo, poi per ricongiungimenti familiari, con circa un milione di minori e 2,3 milioni di occupati regolari. Come se non bastasse, le statistiche dicono che l’immigrazione è prevalentemente europea, femminile e proveniente da paesi di tradizione cristiana (tabella 1). Queste semplici informazioni non arrivano all’opinione pubblica, e nemmeno sulle scrivanie dei commentatori che discettano di come governare i flussi.

Tabella 1

Rappresentazione e realtà dell’immigrazione

Rappresentazione corrente

Evidenza statistica

Immigrazione in drammatico aumento

Immigrazione stazionaria (poco più di 5 milioni di persone

Asilo come causa prevalente

Lavoro (prima) e famiglia (poi) come cause prevalenti. Asilo marginale (113.000 persone accolte nel sistema di protezione)

Provenienza dall’Africa e dal Medio Oriente

Prevalentemente europea

Largamente maschile

Prevalentemente femminile

Quasi sempre mussulmana

Proveniente in maggioranza da paesi di tradizione cristiana

 

Ugualmente sbagliata è l’idea largamente diffusa di un nesso diretto tra povertà e migrazioni. Certo, le disuguaglianze tra regioni del mondo, anche confinanti, spiegano una parte delle motivazioni a partire. Ma la povertà in senso assoluto ha un rapporto negativo con le migrazioni internazionali, tanto più sulle lunghe distanze: le migrazioni sono processi selettivi, che richiedono risorse economiche, culturali e sociali. I migranti non vengono dai paesi più poveri del mondo. Per l’Italia, la graduatoria è: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine. Nessuno di questi è annoverato tra i paesi più poveri del mondo.

Per le stesse ragioni, i migranti non sono i più poveri dei loro paesi: mediamente, sono meno poveri di chi rimane. E più vengono da lontano, più sono selezionati socialmente. Lo stesso vale per i rifugiati: quelli che arrivano in Europa, come ha notato la signora Merkel per i siriani giunti in Germania, sono in maggioranza istruiti e professionalmente qualificati.

Purtroppo, come spesso avviene, il dibattito pubblico prescinde da questi dati conoscitivi. Semmai, cerca i dati che confermano le visioni preconcette: ad esempio, enfatizza l’aumento relativo delle richieste di asilo in Europa, tacendo sul Libano o sulla Turchia, come pure sui dati complessivi sull’immigrazione prima richiamati.

 

Politiche di chiusura in Europa

Gli attacchi terroristici in Francia e in Belgio hanno inasprito ancora di più queste visioni. È sempre più forte nel dibattito pubblico la tentazione di pensare a un’Europa in costante pericolo a causa della presenza massiccia di migranti e residenti stranieri, la cui cultura non si integrerebbe con quella europea. Si tratta di un pericolo reale e fondato?

Il nesso tra immigrazione, asilo e terrorismo è oggi uno dei più potenti fattori di chiusura delle società riceventi, e in modo particolare delle società europee, nei confronti degli ingressi di stranieri (poveri). In realtà, sono diverse le ragioni di volta in volta avanzate per giustificare la domanda politica di contrasto verso le forme di mobilità umana che vanno sotto il nome di migrazioni internazionali. La questione della sicurezza è solo l’ultima delle giustificazioni addotte, e ha comunque diversi precedenti storici e contemporanei: basti pensare alle prevenzioni nei confronti degli italiani sospettati di simpatie anarchiche negli Stati Uniti di fine Ottocento.

Le motivazioni addotte per argomentare la richiesta di fermare gli accessi vanno allora analizzate in dettaglio. Anzitutto, abbiamo le ricorrenti crisi economiche. Già a metà degli anni Settanta del Novecento, il blocco delle frontiere dei tradizionali Paesi riceventi del Centro e Nord Europa nei confronti dell’immigrazione per lavoro era giustificato con la sfavorevole congiuntura determinata dal primo shock petrolifero del 1973. La recessione iniziata nel 2008 ha rinverdito questo argomento, sebbene si possa notare che nei quarant’anni trascorsi i periodi di espansione economica non siano mancati, senza che le restrizioni verso l’immigrazione venissero attenuate. Sembra vero piuttosto che i governi, nell’impossibilità di controllare la globalizzazione economica e segnatamente la delocalizzazione delle attività produttive, abbiano cercato di riaffermare la propria sovranità, nonché la loro legittimazione agli occhi dei cittadini-elettori, rafforzando i controlli non sulla mobilità in generale (non sul turismo o sulla circolazione degli uomini d’affari), ma sull’immigrazione dall’estero di individui etichettati come poveri, e quindi minacciosi o bisognosi.

Un secondo argomento a sostegno delle politiche di chiusura è il timore del welfare shopping. Gli alieni, siano essi richiedenti asilo, cittadini neo-comunitari o semplicemente stranieri a basso reddito, rappresenterebbero una minaccia per gli affaticati sistemi di protezione sociale dei Paesi avanzati, soprattutto in Europa. La protezione del welfare state ha fornito storicamente uno dei più potenti fattori di legittimazione delle chiusure nei confronti dell’immigrazione straniera. Mentre i regimi di welfare sono costruzioni tipicamente nazionali e collegate alla cittadinanza, volte a garantire la lealtà politica e il consenso dei cittadini, l’insediamento di estranei o la loro domanda di protezione sotto la bandiera dei diritti umani rappresentano elementi di contraddizione: degli estranei chiedono di accedere ai benefici propri dei cittadini, benefici incorporati nell’idea stessa di cittadinanza nazionale moderna.

I diritti sociali cessano di essere i “diritti umani nella vita quotidiana”, come afferma una pubblicità dell’Unione Europea, per diventare un privilegio da difendere contro chi non gode dello statuto di membro a pieno titolo della comunità dei cittadini. Le solenni dichiarazioni dei diritti dell’uomo, del bambino, della famiglia, nonché le convenzioni internazionali che vincolano i governi all’attuazione operativa di questi diritti, si trasformano in documenti imbarazzanti, da cercare di eludere o da applicare con circospezione, dopo estenuanti procedure di verifica e selezione dei candidati all’accesso. Poco importa che gli immigrati, in quanto prevalentemente soggetti in età attiva, siano contribuenti attivi del sistema di protezione sociale, soprattutto sulle voci più impegnative (pensioni e sanità). In tempi di crisi, se non lavorano, in quanto rifugiati accolti temporaneamente, madri casalinghe, minori o disoccupati, sono visti come un fardello insopportabile per le casse pubbliche; se lavorano, sono accusati di sottrarre preziosi posti di lavoro ai cittadini nazionali.

La battaglia sul welfare si sta profilando come il terreno più contrastato del conflitto politico in Europa sull’immigrazione nel prossimo futuro: le limitazioni nell’accesso al welfare strappate da Cameron a Bruxelles, e presentate come un argomento imprescindibile per poter salvaguardare la permanenza del suo paese nell’UE in vista del prossimo referendum, rischiano di fare scuola. Le sue richieste hanno trovato una sostanziale accoglienza nel vertice europeo del febbraio 2016, in nome della ricerca di un compromesso che consentisse di mantenere il Regno Unito nell’UE. Uno dei diritti fondamentali della costruzione europea, quello della mobilità interna dei cittadini, rischia di essere intaccato dalle paure di movimenti migratori di persone in cerca di tutele. Paure che fin qui, merita sottolinearlo, si sono rivelate infondate. Le crescenti chiusure nei confronti dei rifugiati rimandano a giustificazioni analoghe.

L’idea di una comunità nazionale omogenea e sostanzialmente coesa di fronte a minacce esterne si estende poi alla sfera etica e culturale: la chiusura può essere motivata con un terzo ordine di ragioni, quelle della difesa dell’identità culturale della nazione. Gli alieni vengono visti come invasori culturali, portatori di costumi retrogradi e usanze incivili, responsabili di cedimenti relativisti sul piano dei diritti fondamentali. Qui si può notare un’altra evoluzione pericolosa del dibattito: questi argomenti stanno facendo breccia nel fronte “progressista”, intercettando le preoccupazioni per la difesa dei diritti delle donne. La contrapposizione tra “noi” (civilizzati) e “loro” (retrogradi) inalbera la bandiera dell’emancipazione femminile.

Su questo terreno s’innesta la giustificazione securitaria delle chiusure basata sulle minacce terroriste. Qui entrano in gioco gli accresciuti timori per la sicurezza nazionale sprigionati dalla fine della Guerra Fredda, dall’avvento di scenari geo-politici più fluidi e instabili, dalla crescente insofferenza di varie popolazioni del Sud del mondo nei confronti della supremazia del Nord globale. Su questo piano, la comparsa sulla scena politica dell’islamismo radicale e la data emblematica dell’11 settembre 2001 hanno segnato se non uno spartiacque, di certo l’innesco di un’escalation nelle restrizioni, che gli attentati parigini del novembre scorso hanno esacerbato. Com’è già avvenuto per i messicani ai confini con gli USA, modesti lavoratori manuali provenienti dal Sud pagheranno il conto, sotto forma di più rigidi controlli, divieti e deportazioni, degli attentati perpetrati da terroristi che sono quasi sempre nati o comunque cresciuti sul suolo europeo. Quando hanno varcato i confini, lo hanno fatto il più delle volte come uomini d’affari, professionisti, studenti o turisti.

In realtà gli attentati terroristici hanno rilanciato l’antica paura del legame tra flussi migratori e minaccia alla sicurezza nazionale che ha diversi precedenti nella storia contemporanea. Più profondamente, hanno rinfocolato sentimenti di ansia che non riguardano soltanto elementi di fatto, ma minacce ontologiche, concernenti i valori morali, le identità collettive e l’omogeneità culturale della società.

 

L’identità sociale del terrorismo

Merita poi un approfondimento l’identità sociale dei responsabili degli attacchi terroristici. Come osserva Olivier Roy (2009), non si tratta di una radicalizzazione dell’islam, ma piuttosto di un’islamizzazione del radicalismo. Alcune frange del mondo giovanile un tempo trovavano in qualche versione estrema dell’ideologia marxista il quadro ideologico che giustificava la loro avversione per l’ordine costituito, il desiderio di rifare il mondo dalle fondamenta, il rifiuto per forme di lotta politica tradizionali che apparivano inefficaci, la ricerca di una missione catartica che desse uno scopo alle loro vite. Forse anche la risposta alla loro personale infelicità, la forma della loro rivolta contro i padri.

Ora questa cornice ideologica viene trovata in interpretazioni semplificate e violente della religione islamica. Non per niente, internet incide molto di più della frequentazione delle moschee. Sovente si tratta di giovani cresciuti in famiglie fragili, sfasciate, spesso non religiose, in periferie povere delle ricche metropoli europee. Parecchi si sono convertiti al radicalismo islamista in carcere, dov’erano finiti per reati comuni. La radicalizzazione ha rappresentato l’alternativa alla disperazione, la cellula estremista il surrogato della famiglia, la lotta armata per purificare un mondo irrimediabilmente corrotto lo scopo a cui votarsi, l’ideologia del martirio il propellente della loro nuova vita, nettamente scissa da quella precedente. Spesso poi sono coppie di fratelli, in cui la radicalizzazione passa attraverso circoli molto chiusi e l’influsso di strette relazioni di parentela.

L’affiliazione all’ISIS e l’addestramento sui fronti di guerra possono essere un passaggio in cui si rafforza la radicalizzazione, ma non necessariamente. Il punto è che si tratta di giovani provenienti dall’Europa, cresciuti in Europa, che tornano in Europa e decidono di colpire in Europa. A Parigi, hanno deciso di uccidere nei luoghi di divertimento dei loro coetanei: luoghi da cui si sono sempre sentiti esclusi.

 

Conclusioni

Se ora esaminiamo queste ragioni di timore, ci rendiamo conto che rimandano a questioni di grande rilievo esistenziale e sociale: avremo ancora un lavoro, una protezione sociale, un’identità culturale, una vita sicura? Il problema riguarda l’identificazione degli immigrati e dei rifugiati come i responsabili di queste minacce, che in realtà li toccano più ancora di quanto non colpiscano i cittadini nazionali. In altri termini, gli immigrati diventano i capri espiatori delle angosce, spesso motivate, delle società occidentali. L’inquadramento dell’immigrazione come un fattore di pericolo, con il rafforzamento dei controlli e quindi della visibilità degli immigrati, con l’implicita separazione tra “noi” e “loro”, ha di fatto reso manifesto e incrementato lo scontro di civiltà teorizzato da Huntington: la securitizzazione delle politiche migratorie rinforza stereotipi e contrapposizioni che il discorso politico ufficiale nega.

È pensabile che la risposta a queste paure sia la criminalizzazione dell’islam nel suo complesso, l’esclusione sociale dei musulmani o il rifiuto di accogliere i profughi? Accettare lo schema del conflitto di civiltà, individuare come nemici i praticanti musulmani, spingere verso il sommerso i luoghi di culto e le aggregazioni islamiche, sarebbe offrire ai terroristi il regalo a cui aspirano. L’alternativa possibile è certo impegnativa. È la strada della promozione di un islam moderato e dialogante, della formazione sul territorio di responsabili religiosi preparati, consapevoli dei valori e delle sfide della modernità, capaci di svolgere compiti di mediazione con le società riceventi. Se le comunità musulmane diventeranno più capaci di accompagnare i giovani nel loro cammino di integrazione, di seguire le persone più fragili, di individuare ed emarginare chi parla di violenza e la giustifica sul piano religioso, tutta la società ricevente ne trarrà vantaggio. Questo è l’obiettivo che dobbiamo incoraggiare e perseguire.

 

AUTORE PER CORRISPONDENZA

Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche

Università di Milano

Via conservatorio, 7

20122 Milano

E-mail: maurizio.ambrosini@unimi.it

 

Riferimenti bibliografici

Ambrosini M. (2013), Immigrazione irregolare e welfare invisibile, Bologna, il Mulino.

Ambrosini M. (2014), Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani, Assisi, Cittadella.

Balibar E. (2012), Strangers as enemies. Walls all over the world, and how to tear them down, «Mondi Migranti», vol. 6, n. 1, pp. 7-25.

Huntington S.P. (2000), Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, Milano, Garzanti.

IDOS (2015), Dossier immigrazione, Roma, Idos.

Jaworski N. (2011), Terroristi alle porte? Immigrati irregolari e discorsi sul pericolo, «Mondi migranti», vol. 5, n. 1, pp. 37-66.

Roy O. (2009), La santa ignoranza. Religioni senza cultura, Milano, Feltrinelli.

UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) (2014), UNHCR global trends 2013, Geneva, http://www.unhcr.org/5399a14f9.html (ultimo accesso: 09/05/16).     

UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) (2015), UNHCR global trends 2014, Geneva, http://unhcr.org/556725e69.html (ultimo accesso: 09/05/16).

 

[1] Ho analizzato più ampiamente il tema nel volume: M. Ambrosini, Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani, Assisi, Cittadella, 2014.

 



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