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Foreign fighters: un fenomeno in continua evoluzione - Foreign fighters: a phenomenon in continuous evolution

Farian Sabahi

Farian Sabahi, cultrice della materia “Storia dei Paesi islamici” presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino. Dopo il dottorato presso la School of Oriental and African Studies di Londra, Farian Sabahi ha insegnato “L’évolution politique et sociale en Iran dès 1890” e “L’Iran à travers son cinema” all’Università di Ginevra e ha tenuto il corso “Middle East: History, Religion and Politics” all’Università Bocconi di Milano. Editorialista de “Il Corriere della Sera”, scrive di questioni islamiche sulle pagine culturali de “il Sole24Ore”. È autrice di numerosi volumi, accademici e divulgativi, sull’Iran e sullo Yemen. Nel 2010 è stata insignita del Premio Amalfi, sezione Mediterraneo, e nel 2011 ha ricevuto il Premio Torino Libera in memoria di Valdo Fusi.


Abstract

This paper analyses the phenomenon of the so-called foreign fighters by using the most recent sources and reports. After having examined the meaning of the Arabic word jihad, it goes through some of the most famous cases. While the first part examines the background, age, motivations of the foreign fighters, as well as the role of friends and the jail as a place of recruitment, the second part is on women and on sex rules within the Islamic State. Finally, the last part is on Tunisia, the country that provides the largest number of fighters. Key words: foreign fighters, terrorism, jihad, Isis, Daesh.



Sommario

La relazione analizza il fenomeno dei cosiddetti foreign fighters partendo dalle fonti e dai report più recenti. Dopo avere esaminato il significato del termine jihad, l'autrice espone alcuni casi eclatanti di foreign fighters. Il paragrafo successivo approfondisce la provenienza, l'età, le motivazioni di questi giovani, nonché il ruolo delle amicizie e il carcere come luogo di reclutamento. Un paragrafo a sé riguarda le donne e le regole del sesso all'interno dell'Isis. L'ultima parte ha per oggetto la Tunisia, da cui proviene il maggior numero di foreign fighters.

 

Parole chiave: foreign fighters, terrorismo, jihad, Isis, Daesh.

 

Il tema dei foreign fighters è in continua evoluzione. Non è quindi facile fornire numeri precisi e attuali. Nuove fonti sono disponibili, settimana dopo settimana. Il più recente è – al momento – il report The Caliphate's global workforce: An inside look at the Islamic State's foreign fighter paper trail di Brian Dodwell, Daniel Milton e Don Rassler, in cui si dimostra che a far parte dell'Isis non sono sempre e soltanto (come si era ipotizzato in prima istanza) i disoccupati e nemmeno coloro che hanno una formazione religiosa. Gli autori analizzano i dati di oltre 4.000 militanti dell'Isis forniti dallo Stato Islamico tra l'inizio del 2013 e la fine del 2014. Un documento importante, perché si tratta di fonti primarie disponibili nel formato open-source e acquisite dal network televisivo NBC grazie a un disertore.

Da questo report risulta evidente la gran diversità, in termini di formazione e vocazione, di coloro che hanno aderito all'Isis. A fare riflettere sono soprattutto i seguenti dati: ce ne sono di tutte le età, ma la maggior parte ha tra i 21 e i 30 anni; solo 255 dei 4.000 foreign fighters erano disoccupati prima di entrare tra le fila dell'Isis; molti avevano occupazioni al di sotto della loro formazione scolastica e universitaria; la maggior parte aveva un buon livello di istruzione e aveva viaggiato, ma era priva di una qualche formazione religiosa e non aveva nozioni di diritto islamico; solo il 12% ha firmato acconsentendo a compiere attentati suicidi; il 30% sono sposati e, in tutto, si conta che abbiano 2.000 bambini.

Un altro report recente e di particolare interesse è Profiling Europe’s jihadists pubblicato l'8 aprile 2016 dal settimanale britannico “The Economist”, secondo il quale nell'ultimo anno e mezzo il numero dei jihadisti che hanno aderito allo Stato islamico è raddoppiato, raggiungendo le 4.000 unità. Due terzi provengono da Belgio, Gran Bretagna, Francia e Germania. Tra questi paesi europei, a fornire il maggior numero di jihadisti all'Isis è la Francia. Secondo l'International Centre for Counter-Terrorism, il 30% sarebbe ritornato nel proprio paese d'origine e, quindi, in Europa. Anche qui è evidente la diversità di background degli jihadisti: alcuni sono criminali di professione e si sono radicalizzati in carcere, altri sono adolescenti, altri ancora pensionati; se numerosi sono i figli di immigrati, molti appartengono a famiglie europee da generazioni. I disturbi psichici possono esserci, ma non sono l'unica giustificazione alla radicalizzazione.

 

 

Il caso dell'adolescente nato in Belgio da genitori berberi

«Mamma, non aspettarmi per cena». Questa è stata l'ultima cosa che Abdelmalek Boutalliss, nato in Belgio il 22 aprile 1995, ha detto a sua madre Najat. Il giorno seguente le ha mandato una fotografia dalla Turchia. Con un amico stava dirigendosi in Siria dove, nel contesto delle primavere arabe, nel 2011 era scoppiata una guerra civile tra le forze governative e quelle d'opposizione, a cui nell'estate del 2014 si è aggiunta la presenza dell'Isis, il gruppo terrorista islamico che ha proclamato il Califfato nei territori sotto il suo controllo.

Diciannove anni, di lingua madre olandese, Abdelmalek stava studiando per la maturità. Un insegnante gli aveva posto domande sull'islam e, privo di risposte esaurienti, aveva iniziato a frequentare la moschea locale. Lì era stato probabilmente avvicinato da uno jihadista che lo ha reclutato. Il padre Idriss è andato due volte in Siria, nel tentativo di riportarlo a casa. Invano. La seconda volta, dopo dieci giorni di ricerche, è riuscito a incontrarlo a Raqqa, la capitale dell'Isis. Il giovane Abdelmalek si è però rifiutato di tornare in Belgio temendo di essere arrestato. Secondo l'Isis si sarebbe fatto esplodere nella località di Haditha (Iraq occidentale) il 10 novembre 2015, tre giorni prima degli attentati di Parigi. Secondo l'Isis avrebbe così distrutto tre blindati nemici, uccidendo tutti i militari a bordo. Diversa la versione occidentale, secondo cui una volta scoperto si sarebbe fatto esplodere senza fare vittime. Il suo nome di battaglia era Abu Nusaybah al-Baljiki.

Di origine berbera e fede musulmana, la famiglia Boutalliss abita nella località di Kortrijk, in Belgio. Abdelmalek è soltanto uno dei tanti belgi confluiti nei ranghi dell'Isis. Di loro si è occupato il ricercatore belga Montasser Alde'emeh che, nell'estate del 2014, ha trascorso tre settimane in Siria per cercare di capire che cosa porta tanti giovani a partire dal Belgio. Secondo le stime sarebbero almeno 500, il 70% dei quali sono stati uccisi.

Se iniziamo il nostro percorso sui foreign fighters raccontando le vicende del belga Abdelmalek è perché il sospetto capobanda degli attentati del 13 novembre a Parigi, Abdelhamid Abaaoud, e diversi degli altri terroristi arrivavano dal quartiere Molenbeek di Bruxelles. Secondo i dati aggiornati all'ottobre 2015 del Centro di ricerca e intelligence Soufan Group (2015), «sono 470 le persone che dal Belgio hanno raggiunto la Siria per unirsi allo Stato Islamico. Si tratta della più alta percentuale di foreign fighters per un singolo Paese. Per fare un paragone, gli Stati Uniti, con una popolazione di quasi 30 volte superiore, hanno avuto non più di 250 persone che hanno tentato di raggiungere la Siria. Di questi solo 42 sono riusciti a unirsi all'Is in Siria, Iraq e Libia. Tra loro, solamente in 16 si trovano ancora in quei territori, 6 sono stati arrestati e 20 sono morti. Decine sono stati invece i procedimenti giudiziari negli Stati Uniti».

Un elemento che sembra fare la differenza è quello dell'intelligence: le forze di polizia statunitensi dispongono di una solida rete di informatori presenti nei luoghi in cui è più probabile l'ideazione di attacchi terroristici. Inoltre, i musulmani statunitensi, al contrario di quanto accade in alcune comunità europee, sono bene integrati e in molti casi sono i primi a fornire informazioni alla polizia. Il Belgio, al contrario, ha appena iniziato a fare i conti con il suo problema interno: la polizia e i servizi di intelligence sono sopraffatti dalle questioni che si trovano ad affrontare.

 

 

Jihad, un termine controverso

Il Corano non contiene una teoria della guerra e nemmeno della guerra santa. Il Libro ricorda una serie di battaglie che hanno visto protagonisti i primi eserciti musulmani. L'arco temporale di questi scontri va dall'insediamento del profeta Maometto a Medina (622 d.C.) al suo ritorno alla Mecca nel 630 quando a prevalere sarà la diplomazia. Due le tipologie di jihad: il jihad minore è la campagna militare, la vera e propria guerra in caso di invasione, oppressione da parte di stranieri, conversione forzata; il jihad maggiore indica invece uno sforzo per contrastare le proprie inclinazioni peggiori (peccato, immoralità, incuria).

Colui che è impegnato in questo sforzo sulla via di Dio si definisce mujtahid. Di conseguenza, il jihad non comporta necessariamente il ricorso alle armi. Jihadista è colui che promuove il jihad violento, che è la base ideologica del terrorismo di matrice islamica. Per giustificare la violenza contro altri musulmani, gli estremisti li definiscono miscredenti oppure li accusano di aderire a interpretazioni devianti. Eppure, secondo il Corano «chi uccide un credente di proposito, ne avrà per ricompensa l'Inferno» (IV, 92-93).

 

Chi sono e da dove vengono i foreign fighters?

Secondo il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, più di 30.000 militanti dell'Isis sono foreign fighters, ovvero volontari stranieri nelle formazioni più estremiste che si oppongono alle truppe governative siriane e – ha dichiarato Ban Ki-moon – «rappresentano una minaccia significativa nei confronti dei loro stessi paesi di origine».[1] A rafforzare questa tesi, in un report del Centro Internazionale di Controterrorismo (Icct) dell'Aia fa presente che «ben il 30% dei circa 4.300 cittadini dell'Unione Europea, che si ritiene siano stati radicalizzati e reclutati da gruppi jihadisti per combattere in Siria e in Iraq, hanno già fatto ritorno ai loro paesi d'origine».[2]

Tra questi, numerosi sono i giovani tra i 18 e i 29 anni. Secondo il Centro Studi per la Sicurezza Fouran Group con sede a New York, che fornisce consulenze a diversi governi e organizzazioni multinazionali, i foreign fighters provengono da 86 paesi differenti. Soprattutto dalla Tunisia (6.000 reclute), dall'Arabia Saudita (2.500), dalla Russia (2.400), dalla Turchia (2.100) e dalla Giordana (2.000). Secondo Robin Wainwright, direttore dell’Europol, 5-7.000 verrebbero dall'Europa. In Siria e Iraq hanno subito un’ulteriore radicalizzazione: se tornassero nel vecchio continente potrebbero farlo con l’intenzione di compiere attentati. Andiamo a vedere, nel dettaglio, da quali paesi provengono.

 

 

Francesi, inglesi, tedeschi, belgi…

Secondo un rapporto dell'International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence (Icrs), pubblicato nel 2015, dalla Francia sono partiti ben 1.200 foreign fighters: per il 75% sono maschi, tra i minorenni la maggioranza sono donne, uno su cinque è un convertito, oltre la metà non era noto all'intelligence prima della partenza per il Vicino Oriente. I loro profili sono eterogenei. Pensiamo a Raphael Amer: ebreo convertito all'islam, studente brillante, è finito a militare in un gruppo jihadista insieme ad altri giovani con un livello di istruzione e risultati accademici ben inferiori, provenienti da famiglie monoparentali. Al secondo posto per numero di foreign fighters c'è il Regno Unito (750), poi viene la Germania (600). Il Belgio ne ha sfornati almeno 500, l'Olanda 250 e l'Italia circa 80. Partiti per il Vicino Oriente, e in parte rientrati in Europa.

Il più famoso è Jihadi John, nome di battaglia di Mohammed Emwazi, ucciso da un drone americano a novembre 2015. Lo abbiamo visto nei video dell'Isis: volto coperto dal passamontagna, con il coltello in mano decapita il giornalista americano James Foley e il giapponese Kenji Goto. A colpire è soprattutto l'accento britannico. Ventisette anni, nato in Kuwait e cresciuto nel Regno Unito, famiglia benestante. Non era un soldato e non aveva una formazione militare; nel 2009 si laurea come programmatore informatico, è privo di conoscenze strategiche e operative. Viene tenuto sotto controllo dai servizi segreti britannici, soprattutto quando parte per l'Africa orientale con un paio di amici: si pensa possa unirsi al gruppo al-Shabab, un'organizzazione islamica operativa in Somalia. Trova lavoro in Kuwait, torna due volte a Londra dopodiché i servizi segreti di Sua Maestà gli impediscono di partire nuovamente. Finché nel 2012 scappa e parte per la Siria.

Affrontati da altri autori negli atti di questo convegno, i motivi che portano tanti giovani europei (e non solo figli di immigrati) a partire per il Vicino e Medio Oriente sono molteplici: discriminazioni, islamofobia, alienazione, rabbia, ribellione adolescenziale. Alcuni musulmani di seconda e terza generazione possono sentirsi discriminati dalla società occidentale in cui sono cresciuti e che troppo spesso non offre loro possibilità di lavoro e di affermazione sociale. L'islamofobia e l’ascesa dei partiti di destra, in diversi paesi europei, contribuiscono ad alimentare l'alienazione di questi giovani di ambo i sessi. Al senso di alienazione si aggiunge la rabbia per le guerre scatenate dalle potenze occidentali in Medio Oriente. Gli adolescenti si ribellano, a ogni latitudine. Nel caso dei giovani che sposano l'ideologia jihadista, essa rappresenta un gesto di ribellione assoluta perché quella dell'Isis è una causa del tutto antitetica ai valori occidentali. Nel caso della Francia, l'ideologia jihadista rappresenta l'esatto opposto della laicità professata dallo Stato e dal sistema educativo.

 

 

Gli amici, reclutatori di foreign fighters

Secondo l'antropologo franco-americano Scott Atran, co-fondatore del Center for the Resolution of Intractable Conflict presso l’Università di Oxford, raramente i giovani vengono reclutati nelle moschee da sconosciuti. Tre su quattro si arruolano tra le file dell’Isis perché vengono coinvolti dai amici e uno su cinque da un familiare. A reclutare i potenziali jihadisti non sono quindi gli sconosciuti in moschea ma piuttosto gli amici. Gli adolescenti partono in gruppo e questo è stato il caso delle tre ragazze di Londra, amiche e compagne di classe, che nel mese di febbraio 2015 sono uscite di casa ma, anziché andare a scuola, si sono dirette all'aeroporto di Gatwick e da lì in Siria.

A giocare un ruolo non indifferente è quindi lo spirito di gruppo, insieme all'emulazione e quindi alla competizione: «Io l'ho fatto, sono partito. Tu che fai? Resti indietro? Hai paura?». Talvolta il milieu di provenienza non è musulmano e coloro che sono nati e cresciuti in famiglie cristiane sono particolarmente impegnati. Alcuni non hanno valori, altri hanno subìto il cosiddetto lavaggio del cervello, ma molti sono consapevoli delle loro scelte.

Si tratta di informazioni inquietanti, raccolte intervistando i combattenti dell’Isis e del Fronte Nusra (legato ad Al Qaeda) catturati dagli americani. Nel corso di una conferenza sui “Foreign Terrorist Fighters” al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite citata dal quotidiano britannico The Independent (2015), Scott Atran ha spiegato che a mobilitare questi giovani che vanno a fare parte dell’Isis è il desiderio di gloria e avventura. In altri termini, la jihad offre loro l’opportunità di diventare eroi. È la leva rivoluzionaria a motivarli, nel senso che «l'Isis rappresenta la punta di lancia del movimento contro-rivoluzionario più dinamico dalla Seconda guerra mondiale e presenta la più numerosa forza combattente su base volontaria dalla Seconda guerra mondiale». Questo perché i leader dell’Isis «comprendono i giovani molto meglio dei governi che li combattono». Sanno come rivolgersi a ragazzi ribelli e pieni di ideali, prendono di mira i giovani utilizzando i social network.

 

La prigione come luogo di reclutamento

Le carceri hanno un ruolo fondamentale nel reclutamento e questo vale per diversi paesi, tra cui la Francia e gli Stati Uniti. Nel Regno Unito è la banda a esercitare il ruolo maggiore, indipendentemente dal fatto che i suoi componenti siano di fede musulmana. Per scoraggiare questo fenomeno gli analisti propongono di mescolare gli jihadisti ai delinquenti comuni, senza isolarli.

 

L'opinione della psicoanalista Julia Kristeva

Spesso i genitori e gli insegnanti non si accorgono della radicalizzazione di figli e allievi. Se invece hanno la percezione che qualcosa non stia andando per il verso giusto, in Francia possono segnalare le diverse situazioni alla Casa degli adolescenti nell'ospedale Cochin di Parigi in cui collabora la psicoanalista Julia Kristeva, una delle più grandi intellettuali europee: «Non sempre sono cresciuti in un ambiente musulmano e non sempre parlano arabo; tanti vengono da famiglie cattoliche, ebree e laiche. Sono intossicati dalle droghe e dall'uso di armi, cadono nel vortice della radicalizzazione e partono per la Siria in cerca di ideali che noi, in Europa, evidentemente non siamo in grado di offrire».[3] La droga scoperta nei covi dei miliziani si chiama captagon (anche chiamata la “droga del terrore”): inibisce la paura e ti rende euforico per giorni. È la droga che hanno assunto gli attentatori suicidi del 13 novembre a Parigi.

 

La battaglia delle idee

All'indomani degli attentati di Bruxelles del 22 marzo 2016 che hanno ucciso almeno 32 persone, il 2 aprile “The Economist” ha pubblicato un articolo dando spazio a un programma messo in atto in Belgio e rivolto ai giovani per aumentare la loro resilienza di fronte alle evidenti difficoltà. Oltre al quartiere Molenbeek, dove il 18 marzo 2016 è stato arrestato Salah Abdeslam, indagato per gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, a destare preoccupazione è Vilvoorde, un sobborgo di Bruxelles situato lungo la linea ferroviaria che porta ad Anversa. Da qui, nel maggio 2014 almeno 28 giovani sono partiti per la Siria e di questi otto sono morti. Per questo motivo le autorità hanno dato avvio a un programma per i giovani. Su 43.000 abitanti, il 43% è di origine straniera. I loro genitori erano arrivati per lavorare nella fabbrica della Renault che ha chiuso da una ventina d'anni. La metà sono disoccupati.

 

Le ragazze occidentali che partono per l'Isis

Rappresentano un quinto dei foreign fighters, sono più giovani rispetto ai maschi, è difficile che siano note ai servizi segreti e per questo sono percepite dall'intelligence occidentale come una minaccia maggiore. Secondo gli analisti partono per il jihad con le stesse motivazioni degli uomini: per fare parte della ummah (comunità musulmana) e partecipare attivamente al jihad, attrezzate con un'interpretazione estremista del Corano che da una parte giustifica la violenza e dall'altra rifiuta lo stile di vita occidentale. In ogni caso, per gli jihadisti dell'Isis le donne non dovrebbero combattere ma tenere alto il morale dei militanti.

Molte partono armate di una buona dose di romanticismo. È il caso di Shannon Conley del Colorado: diciannove anni, infermiera, convertita all'islam, aveva conosciuto un pretendente su un sito Internet e aveva deciso di partire per la Siria, ma nel 2014 è stata fermata all'aeroporto di Denver mentre si stava imbarcando sull'aereo che l'avrebbe portata in Medio Oriente.

Secondo l'International Center for Counter-Terrorism, le donne foreign fighters che militano nell'Isis sono il 17%. Alcune sono nate nell'islam (figlie di immigrati e quindi 2G, ovvero di seconda generazione) e mettono il velo (e qualcuna addirittura il niqab, il velo integrale che lascia intravedere soltanto gli occhi), laddove le madri non si sono mai coperte i capelli. Altre si sono convertite all'islam integralista che hanno incontrato sul web. Arrivano dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Germania. Rinunciano a una vita normale, borghese, per diventare combattenti. Storie diverse, eccone alcune.

All'indomani degli attentati di Parigi del 13 novembre, la terrorista Hasna Aitboulahcen, 26 anni, è stata uccisa dalla polizia francese durante il blitz a St. Denis. In Italia ha fatto notizia il caso di Maria Giulia Sergio, 28 anni, soprannominata “Lady Jihad”: aveva convinto tutta la famiglia a convertirsi all'islam, è stata arrestata insieme ai genitori e alla sorella. Reclutatrice dell'Isis su Internet, Aqsa Mahmood ha 20 anni, è nata in Scozia ed era una studentessa esemplare. Prima di mettere il velo, Samra Kesinovic faceva la modella. Figlia di immigrati bosniaci e musulmani residenti in Austria, come la sua amica Sabina Selimovic, è partita per la Siria quando aveva solo 17 anni. Samra è stata uccisa dai jihadisti perché aveva chiesto di tornare a casa. Sabina sarebbe morta in combattimento o sotto i bombardamenti.

 

Le regole del sesso all'interno dell'Isis

Drammatico resta il caso delle donne appartenenti alle minoranze religiose, catturate dalle brigate dell'Isis e vittime di violenza fisica e sessuale. L'Isis accusa l'Occidente di usare le donne come oggetti sessuali, basti pensare alle tante pubblicità in cui il corpo è nudo, messo in mostra. Eppure, in questa propaganda perversa, le donne sono tutt'altro che rispettate dall'Isis. Soprattutto quando vengono catturate e diventano bottino di guerra.

A fine dicembre 2015, nella casa di un militante dell'Isis in Siria le forze speciali americane hanno trovato un documento che codifica come si devono comportare i proprietari di schiave. Seguendo le indicazioni coraniche, la fatwa (decreto religioso) numero 64 del 29 gennaio 2015 pubblicata dalla Commissione per la ricerca e le fatwa dell'Isis ricorda che padre e figlio non possono avere rapporti sessuali con una stessa schiava e che il proprietario di una madre e di una figlia deve scegliere l'una o l'altra.

La fatwa esorta gli appartenenti all'Isis a «mostrare pietà nei confronti delle schiave, essere gentili, non umiliarle, e non assegnare loro compiti che non sono in grado di svolgere».[4] Nel mondo sunnita la reazione alla notizia della fatwa è stata decisa: secondo Abdel Fattah Alawari, decano di teologia islamica ad al-Azhar (l'autorevole centro di cultura islamico del Cairo) «l'Isis non ha nulla a che vedere con l'islam e travisa il Corano che scoraggia la schiavitù – presente nella penisola araba prima del messaggio rivelato a Maometto – e predica la libertà degli schiavi».[5]

 

I tunisini, foreign fighters in Siria

Secondo un report di Soufan Group, dalla Tunisia provengono 6.000 dei foreign fighters operativi in Medio Oriente e i due jihadisti che il 10 settembre 2001 uccisero Ahmad Shah Massoud erano tunisini.

Un fenomeno paradossale, perché proprio in Tunisia la primavera araba ha avuto successo: in seguito alle proteste popolari, il corrotto presidente Ben Ali è scappato e la società civile è stata in grado di intraprendere una via democratica. I motivi per cui i giovani tunisini imbracciano le armi e raggiungono l'Isis sono molteplici. Certo, come altrove, le cause sono economiche e legate alla disoccupazione: secondo la African Development Bank è disoccupato il 34% dei neolaureati; in Tunisia iscriversi all'università non comporta spese eccessive, ma una volta terminato il ciclo di studi i posti di lavoro non ci sono. Tuttavia il desiderio di riscattarsi da condizioni sociali ed economiche disagiate e la crisi economica, diffusa anche in altri paesi della regione, non bastano a spiegare perché siano così tanti i tunisini che si arruolano nell'Isis.

È quindi indispensabile tenere conto che con il presidente Ben Ali, sostenuto dall'Occidente, la Tunisia era diventata uno stato di polizia, in cui migliaia di attivisti dell'opposizione erano finiti in carcere, torturati e costretti all'esilio. Dominato dal clan dei Trabelsi (quello della moglie di Ben Ali), il settore privato era al 21% sotto il controllo del presidente e del suo entourage. Di fatto, l'esclusione economica ha creato il terreno fertile per la deriva islamista.

Dopo la primavera dei gelsomini, hanno rivestito un ruolo decisivo il fascino esercitato da una visione distorta dell'ideologia dell'Isis, la convinzione che i militanti non si siano macchiati di crimini atroci (uccisioni di massa, decapitazioni), il voler cancellare i confini arbitrari disegnati dagli imperialisti europei alla fine della Prima guerra mondiale, la minore organizzazione dei servizi segreti tunisini (rispetto ai tempi del dittatore Ben Ali) nell'individuare i potenziali jihadisti, 650 dei quali, rientrati in Tunisia dalla Siria e dall'Iraq, sono stati arrestati.

Oltre a “esportare” jihadisti, la Tunisia stessa è vittima del terrorismo: a giugno 2015 un attacco su una spiaggia nella località di Sousse era costata la vita a 38 turisti, e tre mesi prima l'attentato al Museo del Bardo aveva causato la morte di 21 turisti e un poliziotto. Di conseguenza, il caso tunisino dimostra come tra le vittime dell'Isis non ci siano soltanto gli occidentali ma anche la popolazione musulmana. Come d'altronde avviene anche in Yemen, una tematica affrontata da Alberto Angelici.[6]

 

AUTORE PER CORRISPONDENZA

Farian Sabahi

E-mail: farian.sabahi@gmail.com

 

 

Riferimenti bibliografici

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Sitografia

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Altri link di interesse:

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http://www.internazionale.it/storia/sale-a-23-il-numero-dei-morti-dell-attacco-a-tunisi

http://www.panorama.it/news/esteri/fotografia-dellisis-80-milioni-di-dollari-al-mese-foreign-fighter-triplicati/ (ultimo accesso: 12/05/16).

Profiling Europe's jihadists, «The Economist», 8 aprile 2016, http://www.economist.com/blogs/graphicdetail/2016/04/daily-chart-2?fsrc=scn%2Ftw%2Fte%2Fbl%2Fed%2Fprofilingeuropesjihadists&%3Ffsrc%3Dscn%2F=tw%2Fdc (ultimo accesso: 12/05/16).

 

 

 

 

[1] United Nation Secretary, Secretary-general's remarks to the open debate of the security council on countering terrorism, 14 aprile 2016, http://www.un.org/sg/statements/index.asp?nid=9608.

[2] ICCT, The foreign fighters phenomenon in the European Union profiles, threats and policies, 1̊ aprile 2016, http://icct.nl/wp-content/uploads/2016/03/ICCT-Report_Foreign-Fighters-Phenomenon-in-the-EU_1-April-2016_including-AnnexesLinks.pdf.

 

[3] F. Sabahi, Julia Kristeva: “I giovani jihadisti? Sono dei malati, intossicati dall’integralismo”, «IoDonna», 17 novembre 2015, http://www.iodonna.it/attualita/in-primo-piano/2015/11/17/julia-kristeva-i-giovani-jihadisti-sono-dei-malati-intossicati-dallintegralismo/.

[4] J. Landay, W. Strobel W. e P. Stewart, Islamic state ruling aims to settle who can have sex with female slaves, 29 dicembre 2015, http://www.reuters.com/article/us-usa-islamic-state-sexslaves-exclusive-idUSKBN0UC0AO20151230.

[5] Ibidem.

[6] Si veda, in questo numero, l'articolo Il terrorismo jihadista in un paese islamico: il caso Yemen.

 



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