Approfondimenti
Praticare la disperazione
Alessandro Volpi
Educatore, impegnato da anni nel terzo settore, oggi lavora come vice responsabile del dipartimento di advocacy dell’ONG WeWorld (www.weworld.it), impegnato in campi di ricerca su dispersione scolastica, qualità educativa, inclusione sociale. Ha curato con colleghi di altre organizzazioni la collana Lenti a Contatto, quaderni di ricerca-azione sul campo della valutazione dei progetti di contrasto alla dispersione scolastica. Ha fatto parte del gruppo di coordinamento di progetti di ricerca a livello nazionale sul costo della dispersione scolastica e sul fenomeno NEET.
Maurizio Alfano
Sociologo, autore di: Italiani, razzisti perbene. Numeri, sinonimi e contrari (2015); I Rom, la razza ultima. Prigionieri di identità presunte (2015); Razzismo migrante e strutture clandestine. La genesi dei migranti briganti (2013). Ha curato la scrittura del terzo rapporto sulla presenza degli stranieri in Calabria e il primo rapporto sulla presenza Rom in Calabria. Impegnato nel mondo dell’associazionismo e delle reti informali, condivide la condizione Rom con vita di testimonianza attiva da oltre quattro anni. Attualmente lavora come Responsabile Gestione Progetti per il Sud Italia con la Fondazione Mission bambini Onlus di Milano (www.missionbambini.org/).
Abstract
One of the many challenges that our era is encountering, is the preparation required for each and one of us to know how to decode the huge tide of information that flows within us every single day in regular intervals; first perceptions, then behaviours. This information, when it deals with someone different from us, that is to say the other, can determine attitudes that more often than not can lead to involuntary or, even worse, democratic forms of racism, and thus feed the rampant system of prejudices. Nevertheless, this vicious circle can be stopped if one chooses to recognize the experiences of past migrations and to stand up against the uncomfortable feelings that are imposed by bad means of communication, which deprive the correct use of its own memory. Towards this direction and used in its best way, the power of our language can help to reveal the real plots of our beings, culturally predisposed to racism to determine policies and unnatural behaviours. However, towards another direction, by just adding or removing a vowel or a simple consonant, one can change the story into another one. A different and potentially dangerous story that may make us collide against each other or become radicalized, when paradoxically it is in fact nothing more than the same story that is repeated in a linear manner, although slightly deferred in time.
Sommario
Una delle innumerevoli sfide che il nostro tempo pone è la preparazione richiesta a ognuno di noi di saper decodificare una marea enorme di informazioni che quotidianamente ci giungono a intervalli regolari che strutturano dentro di noi percezioni prima, comportamenti poi. Queste informazioni, quando hanno a che fare con l’altro diverso da noi, con lo straniero, il migrante, il clandestino, possono, se non correttamente interpretate, determinare atteggiamenti che spesso sfociano in forme di razzismo involontario, o peggio democratico. Sarà possibile interrompere questa deriva quando le esperienze di emigrazioni passate saranno riconosciute come tali e, di conseguenza, decodificate come esperienze positive e per questo capaci di ergersi contro le “inesperienze” indotte dalla mediazione dei mezzi di comunicazione di massa che deprivano dell’uso corretto della propria memoria. In questa direzione quello che può la potenza della nostra lingua non ha eguali e infatti, nonostante la complessità del tema, essa, se verrà utilizzata al meglio, saprà aiutarci nello svelare come siano le trame del nostro essere culturalmente predisposti al razzismo a determinare politiche e comportamenti innaturali. Infatti, basterà aggiungere o togliere una vocale o una semplice consonante per raccontare un’altra storia. Una storia che apparirà diversa, che ci farà scontrare l’uno contro l’altro, ovvero assumere posizioni anche forti, radicali, che in realtà altro non è, poi, la medesima storia che si ripete in maniera lineare seppur leggermente differita nel tempo.
Ricorda Israele, che anche tu sei stato straniero in terra d’Egitto.
(Lev. 19,34)
Gli autori di questo articolo si sono conosciuti durante un viaggio nei territori dell’Aquila, per portare aiuto alla popolazione aquilana colpita dal terremoto del 2009. Stando gomito a gomito nelle tendopoli, parlando con persone ferite, hanno vissuto la disperazione dello sradicamento. Il paradosso delle nostre chiacchierate stava proprio nell’evidenziare come basta passare in modo permanente da una casa in mattoni a una tenda per sentirsi migranti, disperati. Sulla parola “disperazione” non siamo mai stati d’accordo perché questo termine non dava l’evidenza di vissuti emotivi e strutturanti. Ne abbiamo discusso a lungo, abbiamo viaggiato ancora insieme, in Eritrea, ma su quella parola non siamo mai stati d’accordo. Eppure là, in Eritrea, abbiamo visto quello che spinge molti giovani a fuggire, quello che poi chi sta davanti al telegiornale nazionale di queste tante triste recenti giornate vede in modo diverso. Disperati?
Io e Maurizio ci siamo messi d’accordo sul fatto che quell’affermazione rischiava di essere troppo frettolosa, comoda per dare senso e chiudere con il flusso emotivo e imbarazzato. L’ultima volta che abbiamo viaggiato insieme c’eravamo promessi di ritornare ad affrontare il tema della disperazione, ma con calma. Le domande, e le risposte, che seguono rappresentano l’intenzione di fermarsi a riflettere. Di provare a dare senso e prospettive a quanto è accaduto, accade e accadrà. Lo sforzo è anche quello volto a mettere a fuoco percorsi per chi in educazione si pone queste sfide, per i tanti che hanno rinunciato a porsele, che magari leggendo potranno ritrovare la forza politica dell’educazione.
Se i ragazzi di Barbiana, in quella scuola di Don Lorenzo Milani, erano gli emarginati di quel territorio, oggi abbiamo miriadi di Barbiana, solo che non sono geograficamente ferme, le nuove Barbiana. Così, se siamo una vera dimensione di viaggio, anche l’educazione deve intraprendere questa migrazione di didattica, di nuove tecnicalità, di nuovi sensi. Maurizio si occupa come giovane sociologo di ripercorrere storie passate di migranti (la sua famiglia) attraverso storie recenti di nuovi arrivi in Italia, dai bambini in su. Allora, in modo talvolta provocatorio, nell’intervista riportata di seguito cerco di mettere a fuoco con Maurizio le fatiche del lavoro di tutti i giorni, non solo quello di chi studia e fa ricerca, per quanto risulti anch’esso complesso e necessario.
Nel tuo libro Razzismo migrante e strutture clandestine. La genesi dei migranti briganti poni alcune domande. Uno di questi quesiti mi ha fatto riflettere sul tema del ricordo (Alfano, 2013, p. 9). Mi ricordo un detto, non so di chi, che citava “senza memoria non c’è speranza”. Tu poni il quesito: “Cosa si sa veramente delle nostre emigrazioni nel tempo e nello spazio e come sono state codificate nella nostra memoria?”. Allora ti chiedo di evidenziare quale sia, nel campo interculturale, il ruolo della memoria.
Maurizio: Fondamentale. Senza la memoria, anche solo di noi stessi, che implica legami tra loro differenti, nessuno riesce a prendere coscienza di appartenere a un mondo sempre più interconnesso, che struttura la sua stessa esistenza e possibilità di sopravvivenza nella necessità di intersecare altri popoli o religioni, di altro colore o cultura. La memoria singola è dunque traccia di un cambiamento possibile che concorre a creare una dimensione più ampia, collettiva appunto. In questa direzione, la memoria va sempre messa al riparo da quei fenomeni di dissonanza cognitiva che sfuocano i ricordi, ad esempio, delle nostre emigrazioni mai interrotte nel tempo e nello spazio. Ma di tutto questo, in realtà, cosa ricordiamo, o conosciamo? Ci siamo mai chiesti, infatti, quale percezione abbiano gli emigrati dei migranti a noi contemporanei? E su queste domande, non scontate, che si gioca la partita delle migrazioni e dell’accoglienza sempre più concepita come sinonimo di emergenza. La dissonanza cognitiva è lo strumento paradigmatico che mi ha permesso di scoprire come siano state erroneamente archiviate le nostre esperienze passate nella memoria nazionale e che attraverso il semplice uso della parola “clandestini”, ad esempio, pone una trincea, alza un muro, delimita e sbarra ogni possibile punto di contatto tra i nostri emigrati del passato e i migranti-briganti del nostro tempo.[1]
Noi siamo altro, non come questi qua. Quando noi siamo partiti avevamo le carte a posto. Nonostante questa premessa, che impatta contro i flussi migratori attuali, il ricordo poi delle loro interazioni con migranti di altri Paesi è sempre ripreso come momento di reciproco arricchimento umano, culturale e religioso. Emigranti passati che sarebbero disposti a ripartire se necessario, per oltre il 93%, ma che si oppongono all’ingresso dei migranti nel nostro Paese nel 63% dei casi e che sono d’accordo con i respingimenti nel 75%. È evidente il cortocircuito di una memoria che non si affida più ai suoi ricordi, al suo giudizio, ma che, invece, si affida sempre più al pregiudizio altrui che declina i migranti economici, così come i profughi, solo come presenze illegali e non altro.
La memoria in questo vuoto cognitivo ha un ruolo determinante, è un patrimonio comune che, opportunamente decodificato come cinghia di trasmissione valoriale, potrà tornare presto ad avere un ruolo significativo anche nella costruzione di rapporti multiculturali al momento assenti. Il suo peggiore nemico è però la società liquida tracciata da Bauman (2006), che rende superato ogni ricordo nello stesso istante che diventa tale, già privo di significanza un attimo dopo la sua comparsa. Siamo avidi di futuro, ancorché sia già ipotecato e passato, mentre della memoria comune ignoriamo persino l’esistenza. Nella memoria risiede, invece, la speranza oggettiva di potere sanare quei cortocircuiti che impediscono un dialogo interculturale costruito su una mescolanza di ricordi per la realizzazione di un mondo sempre più meticcio.
Però, nel tuo libro Italiani razzisti perbene. Numeri, sinonimi e contrari, affermi: «Difatti, basterà aggiungere o togliere una vocale, o una semplice consonante. per raccontare un’altra storia…» (Alfano, 2015, p. 15). Allora ti chiedo se anche la memoria può cambiare, può distorcere proprio in funzione di un uso intensivo di quel determinato linguaggio.
Maurizio: Non è affatto banale. Al contrario, è proprio su questo uso intensivo del linguaggio che bisogna porre la giusta attenzione per comprendere come, a volte, recuperiamo anche parte della memoria passata per manipolarla poi, in qualche modo, nel presente. Quando parliamo dei flussi migratori che stanno interessando il nostro Paese, stigmatizzando si parla quasi sempre di flussi di migranti che delinquono prevalentemente e non di uomini e donne che scappano, invece, da Paesi in conflitto. Questa, la retorica razzista predominante. Parliamo in maniera eurocentrica esclusivamente della vita degli altri. Se alla parola “migrazioni”, però, aggiungiamo semplicemente una vocale, la e, facendo diventare quella parola “(e)migrazioni” tutto cambia per il solo fatto che non parliamo più della vita degli altri, dei migranti appunto, ma parliamo della vita degli italiani, ovvero degli (e)migranti. Allora noterai subito che smettiamo di dire che a partire, e dunque ad arrivare nei Paesi di destinazione, sono ladri, terroristi, prostitute o altro ancora. Com’è possibile tutto questo? Proprio recuperando e manipolando quella memoria che non conosciamo affatto. Anzi, se ci affidiamo alla potenza della nostra lingua e alla parola “emigrazione” aggiungiamo una r, dando vita al termine “(r)emigrazione” iniziamo a delineare il fenomeno crescente delle partenze dal nostro Paese con protagoniste le giovani generazioni che siamo in uso definire “fuga dei cervelli”. Un’intera generazione di italiani, tra questi i migliori parte per trovare lavoro all’estero, mentre i peggiori migranti arrivano in Italia da ogni parte del mondo. Questo è il tipico esempio di generalizzazione di un razzismo sostenibile, che distorce la memoria delle nostre emigrazioni e, infatti, chi dice che a partire siano i migliori e ad arrivare tra noi i peggiori? Ma chi si oppone a una siffatta affermazione, e chi pensa che questa abbia uno sfondo fortemente razzista che non trova riscontro in nessuna memoria, appunto? (Balbo e Manconi, 1992, pp. 40-41 e 80)
Sappiamo entrambi quanto il ruolo dell’educazione, a tutto tondo direi, determini il cambiamento. Occupandomi di educazione e di interventi per riabilitare alla vita scolastica (volgarmente definita come dispersione scolastica), incontro situazioni profondamente destrutturate, copioni scolastici che si ripetono. In un passaggio di un quaderno di ricerca-azione che ho curato, ho dovuto tornare indietro a partire dalle risposte date, per decostruire e per ripartire (Volpi, 2015, p. 12). Scrivevo di domandare alle risposte… Ecco non credi che siamo troppo pieni di risposte?
Maurizio: Parafrasando in qualche modo Bauman (2009, pp. 53-54), è proprio così. Noi siamo immersi in una società che si nutre di milioni di informazioni giornaliere che, nello stesso tempo contengono più risposte che analisi dei fatti in senso compiuto. Insomma, l’uomo del nostro tempo non è ancora pronto a decodificare la marea enorme di informazioni che lo raggiungono e di esse, per dimostrare di essere preparato a ogni risposta, prende solo queste ultime in carico senza interrogarsi soprattutto se le domande poste a monte siano verificate, empiricamente corrette, poste insomma con quel criterio minimale che imporrebbe la questione che stiamo trattando. Nel nostro caso, ad esempio, tutti hanno le risposte pronte, ma senza conoscere i fatti. Tutti dicono che i migranti sono assai, e non sanno quanti sono, che li accogliamo tutti noi, e non è vero, che sono troppi quelli che arrivano, mentre di contro, negli ultimi anni, sono stati più gli italiani che hanno lasciato il nostro Paese che gli stranieri che vi sono entrati. Rappresentano un costo, quando invece creano un attivo sul PIL; rubano il lavoro, mentre lo completano e non lo competono. Insomma, Alessandro, la mia impressione è che le risposte precedano ormai le domande, perché diamo le risposte che la piazza, vera o virtuale che sia, ci chiede. Tanto chi si prende in carico di decostruire e smentire risposte inesatte? Risposte che il mondo della scuola dovrebbe mettere in discussione come ogni verità che si presenti come un dogma. Proprio perché conosciamo entrambi quando sia importante il ruolo dell’educazione, della cultura, dell’apprendimento per creare quei cambiamenti indispensabili occorre che il mondo della scuola sappia partire appunto dalle giuste domande da porsi e da porre ai suoi studenti. La scuola ha sempre più una frequenza virtuale, connessa, online e tutto questo processo di cambiamento velocizza la ricerca di un sapere ristretto, compresso nella ricerca di risposte immediate che esulano dal conoscere i fatti e le loro origini. Qui la scuola, in questo inedito spazio di confronto, deve riappropriarsi dei suoi tempi, che non possono coincidere con la pretesa di un sapere immediato anziché scientificamente esplorato.
Alla fine siamo tutti immigrati a seconda della longitudine dalla quale ci fermiamo a riflettere, forse anche perché ci piace poter avere dei riferimenti fissi, rigidi. I punti cardinali sono quelli, da sempre. Nord sta su, Sud sta giù. Il nero è nero, il giallo è più pallido, e così via… Ci servono questi riferimenti. Ma prova a farmi capire dentro una classe, dentro un luogo dove si costruiscono storie, come possiamo, se possiamo, utilizzare questi riferimenti per integrare, per emancipare l’integrazione?
Maurizio: Questi riferimenti sono secolari oramai, ci danno sicurezza o il suo contrario. Ma nonostante sembrino rigidi, fissi, inamovibili, così non sono sempre stati, almeno nella storia della sociologia delle migrazioni. Giova ricordare che il secolo che ci siamo appena messi alle spalle si è aperto con teorie che differenziavano le razze sulla base di una scala policroma dei colori della pelle (Bevilacqua, De Clementi e Franzina, 2001, p. 239). E il bianco non è sempre stato bianco, almeno per noi italiani, ritenuti negritudine, figli del pregiudizio della goccia nera per la nostra vicinanza al continente africano e per questo messi al terzo posto nella gerarchia delle razze sulle cinque individuate. Ma è anche il secolo del dettato delle cinquanta parole che i nostri emigrati devono dimostrare di saper fare, pena il rimpatrio, o ancora di assurde teorie pseudoscientifiche come quella del 45° parallelo, che postulava sul convincimento che la razza superiore degli uomini risiedesse al di sopra di tale longitudine. Tutto questo ci occorre per meglio comprendere se in una classe, dentro un luogo, dove si costruiscono storie — come dici tu — possiamo utilizzare al meglio questi riferimenti. Credo di sì, ridefinendoli però, e tenterò di dimostrare anche come, ma non prima di avere posto in evidenza che, se il secolo scorso ci consegna riferimenti di colori o longitudini manipolate, quello che si è appena aperto davanti a noi è anch’esso parimenti compromesso. Fortemente compromesso. Bisogna innanzitutto sapere proporre una visione che superi la rigidità dei numeri, dei confini, del nord e del sud per come finora sono stati intesi e decodificati. In questa direzione, ad esempio, credo sia necessario intanto resettare l’immagine fisica che abbiamo del vecchio mondo, ovvero comprendere che sono sempre meno le porzioni di territori utili alla sopravvivenza della specie umana nel suo insieme, proprio mentre questa cresce in maniera esponenziale. Pensando a ciò, ogni pretesa nazionalistica di difesa del suolo patrio non può che recedere di fronte a una ricomposizione anche demografica che traccia nei fatti un nuovo mondo. Per meglio comprendere di cosa stiamo parlando, occorre evidenziare come, negli ultimi 15 anni, la popolazione mondiale sia aumentata di un miliardo di persone e come, per intenderci, fosse nata un’altra UE con i suoi 500 milioni di abitanti, un’altra USA con i suoi 350 milioni e un’altra Federazione Russa con i suoi 150 milioni di abitanti. L’interpretazione di questa crescita può essere considerata o come un effetto collaterale del vecchio mondo o, al contrario, come l’inizio di una nuova mondialità che si lega a un’aspettativa di vita che aumenta, seppur con indici diseguali, e che si accompagna a un’inversione dell’indice di mortalità che inizia a regredire. In questa ricomposizione di fatto naturale bisogna sapere trasmettere il messaggio agli studenti che il loro futuro non può più essere compromesso da colori, o luoghi di appartenenza, mentre il successo posto alla base del nuovo mondo risiede poi nell’extraterritorialità (Bauman, 2003, pp. 53 e 55). Essere cittadini del mondo implica l’essere consapevoli delle trasformazioni che rendono liquide talune nozioni così come alcuni riferimenti geopolitici del passato.
Un altro aspetto che dobbiamo necessariamente osservare, che potrà riservarci risposte inattese, è la necessità di fare emergere in maniera chiara ed evidente quali siano le vere distanze che ci separano dagli stranieri, allo scopo di decostruire luoghi comuni che relegano quasi sempre negli abissi profondi dei luoghi più distanti del mondo le persone che sono in mezzo a noi. Perciò esaminiamo ora la parola “vicinanza” e il suo opposto “distanza”. È più vicina, insomma, Milano o Tunisi, La Spezia o Belgrado, Verona o Tirana? In tutti e tre i casi e in ordine sono più vicine alla Calabria le città straniere che quelle italiane. Pertanto riuscire ad accorciare le distanze territoriali implicherà la possibilità di iniziare a ridurre anche le distanze fisiche e mentali che si nascondono dentro di noi e che spesso ostacolano la strada verso la cooperazione e la pace. Sapere interpretare tutte le informazioni che riceviamo in maniera corretta, così come avere chiaro che sono sempre più le false distanze a dominarci, è fondamentale per costruire nuovi percorsi verso l’altro, migrante o emigrante che sia. A questi primi mutamenti dobbiamo sommare poi le conseguenze potenziali della questione oriundi, per aiutare i ragazzi a comprendere che il nuovo mondo che va costruendosi scompone di fatto presunte identità nazionali, ricomponendo di contro una fluidità di confini e di identità multiple che pongono questioni nuove, non rinviabili, né governabili attraverso politiche che escludono, o così vorrebbero, dal novero dei nuovi diritti globali vecchi e nuovi residenti che imbastiscono insieme, tra loro, le trame di una società sempre più meticcia.[1] E poi, flussi di uomini e donne oramai strutturati e stabili, che completano in massima parte il mondo del lavoro, possono essere stigmatizzati ancora come invasioni gravate dal pregiudizio in danno di migranti ai quali si obietta una clandestinità che si declina nel suo essere presunto profugo e di religione islamica, creando un’ulteriore somma di stereotipi che in maniera liquida navigano nella rete e nelle menti sia dei primitivi digitali sia dei loro antenati? E ancora, a determinare la necessità di movimenti migratori è la domanda di lavoro mondiale oppure è il bisogno dei migranti economici di trovare le condizioni necessarie alle loro esigenze di riproduzione in quei luoghi nei quali maggiormente esse si manifestano? È la voglia di scappare da un posto o l’esigenza di scampare alla morte che determina le migrazioni dei richiedenti asilo, del popolo dei barconi e dei profughi? Ecco, queste sono tra le altre le domande dalle quali occorre partire che chiedono risposte non scontate, o peggio di seconda mano.
Questi sono temi di interesse globale, per cui diventa necessario l’avvio trasversale di progetti che creino un’inedita consapevolezza capace di staccarsi anche da retoriche posizioni che guardano alla complessità delle migrazioni solo in termini di accoglienza di poveri, degli ultimi, di sfortunati che sempre più si declina poi in azioni caritatevoli e quasi mai di piena inclusione. Processi di consapevolezza e autoconsapevolezza finalizzati a destrutturare e meglio decodificare il razzismo sostenibile della società a noi contemporanea, che ha visto generarsi appunto questa inedita forma di pregiudizio. Per questo la scuola, per me, è il luogo rivoluzionario per eccellenza nel quale occorre porre queste domande propedeutiche ad azioni non tanto di integrazione — i migranti, Alessandro, sono già integrati malgrado la nostra opposizione —, quanto piuttosto di interazioni possibili, le uniche capaci di creare contatti al netto di pregiudizi o visioni cristallizzate.
Allora dovremmo provare a usare a scuola gli strumenti che certa pedagogia ci ha insegnato, per seminare un modo diverso di vedere, inclusivo per eccellenza, ma un passo nel tuo libro lascia senza speranze. Scrivi: “Si rispetta in Europa maggiormente il Dio denaro e si disconosce, invece, il Dio dell’accoglienza, qualsiasi esso sia, o il credo religioso nella quale si manifesta o l’ideologia che da laici o atei ne propugni il valore di un dovere morale ed etico” (Alfano, 2015, p. 204). Vuol dire che per quanto ci sforziamo il problema è che siamo europei? Sembra razzismo di ritorno, no?
Maurizio: Più che lasciare senza speranze la mia riflessione non si affida solo ad esse per come sono sempre di più disattese da politiche pubbliche e comportamenti privati che mettono addirittura in discussione trattati internazionali, carte costituzionali e leggi ordinarie attraverso lo strumento dell’extra iuris, ovvero la dichiarazione di emergenza che non risponde alle leggi e che anzi ad esse ordina la sospensione di ogni diritto, seppur inalienabile per definizione, contro e nei confronti dei migranti (Foucault, 2007, pp. 189-190). Siamo dunque senza speranza per questo? No, ma il tornante per ritornare a sperare è sempre più stretto e questa è una realtà scomoda, ma inconfutabile, che si rende visibile, come dico nel mio libro, nei duecento chilometri di filo spinato srotolati a mo’ di muro che ha visto coinvolti nella sua costruzione anche i carcerati ungheresi per impedire l’avanzata del nemico: i profughi siriani. Nella chiusura dei collegamenti ferroviari tra alcuni Paesi della stessa Unione Europea nonostante siano vincolati da un patto sulla libera circolazione, per paura dei terroristi: migranti in fuga considerati vite da scarto. Questa è oggi l’Unione Europea: un’unione di mercati, di collegamenti commerciali, di flussi finanziari, di scambi con valute estere, che nulla implicano, però, nonostante alcuni vogliano darne una rappresentazione diversa, per la posizione presa dalla Commissione europea sul comportamento da adottare con riferimento all’emergenza umanitaria, con la visione di un mercato che, invece, dovrebbe adottare regole solidali e condivise, che allo stesso modo dovrebbe garantire la libera circolazione delle merci come quella dei suoi cittadini, che oltre ai flussi finanziari dovrebbe essere in grado di guardare anche ai flussi dei profughi così come dei migranti economici, valutandone le opportunità e non solo paventando rischi, molto spesso inesistenti. Che dovrebbe riuscire a scambiare, infine, non solo valute, ma anche valori. Ecco la sospensione del significato della parola “speranza” emergere in tutta la sua portata con un razzismo di ritorno che, addirittura accecato dall’odio nei confronti dell’altro diverso da sé, ha iniziato a espellere se stesso. Cosa voglio dire? Non hanno forse iniziato gli europei a espellersi tra di loro nonostante la medesima cittadinanza? (Azzariti, 2006, p. 163). Non si è trattato di questo in Francia, Inghilterra e Italia, ree di avere allontanato dai propri territori Rom rumeni e bulgari, ad esempio? Un razzismo di ritorno che ha imboccato una strada senza via di uscita, se non si pone in campo un’urgente azione di decostruzione di luoghi comuni indispensabile per contrastare la costruzione di altri muri di idiozie. Come? Ad esempio attraverso l’umiltà del sapere che si propone senza arroganza, proprio come accadde con i ragazzi di Barbiana oltre mezzo secolo fa o con i ragazzi di molti centri sociali negli anni immediatamente successivi.
Riferimenti bibliografici
Alfano M. (2013), Razzismo migrante e strutture clandestine. La genesi migranti briganti, Roma, Aracne.
Alfano M. (2015), Italiani razzisti perbene. Numeri, sinonimi e contrari, Roma, Aracne.
Azzariti G. (2006), Studi sui diritti in Europa, Roma, Aracne.
Balbo L. e Manconi L. (1992), I razzismi reali, Milano, Feltrinelli.
Bauman Z. (2003), Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza.
Bauman Z. (2006), Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza.
Bauman Z. (2009), Capitalismo parassitario, Roma-Bari, Laterza.
Bevilacqua P., De Clementi A. e Franzina E. (2001), Storia dell’emigrazione italiana: Arrivi, Roma, Donzelli.
Foucault M. (2007), Sicurezza, territorio, popolazione, Milano, Feltrinelli.
Palidda S. (2009), Razzismo democratico, la persecuzione degli stranieri in Europa, Milano, Xbook.
Volpi A. (a cura di) (2015), Lenti a contatto 4, quaderno di ricerca azione, Milano, WeWorld.
[1] http://www.teatrovalleoccupato.it/il-valore-dei-beni-comuni-di-stefano-rodota.
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