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Approfondimenti

Minori stranieri non accompagnati: comprendere una realtà complessa e contradditoria in una prospettiva etnoclinica

Rita Finco

Ha conseguito un DEA in psicologia clinica e psicopatologia all’Università Paris VIII e sta ultimando un dottorato in psicologia clinica all’Università Paris XIII. Formatrice e ricercatrice, lavora come consulente per enti pubblici, istituzioni scolastiche e del privato sociale, occupandosi di mediazione culturale e etnoclinica, di progetti psicosociali e socio-sanitari transculturali. È co-fondatrice dello Studio Associato Alzaia (Centro di ricerca in scienze pedagogiche) e cultrice della materia all’Università di Bergamo.

Marion Jacoub

Etnoterapeuta e dottore di ricerca in antropologia culturale, collabora con il CREFI (Centro di Ricerca e Formazione Interculturale, Parigi) e con lo Studio Associato Alzaia.


Abstract

For 25 years, France and Italy have faced a particular kind of immigration, which in legal terms is called unaccompanied minors (MSNA): minor children who have left their country of origin without their parents and are thus left without the presence of any other legal guardian. This phenomenon has become even more intensified in recent years, leading the different European countries into a situation out of control, since the institutional realities who are entrusted to take care of this population does not have enough of tools or coherent national policies to deal with it. The contradictions are such that the professionals, who work with minors and in the mental health sector, are left in a position of continuous loss that prevents them to think of themselves as the protagonists of reception, accompaniment and care. In this article we would like to offer the reader a brief reflection on the subject in the light of a clinical case, since the issue in itself has already been explored in the scientific debate in the form of collected papers.



Sommario

Da 25 anni, la Francia e l’Italia affrontano un’immigrazione particolare chiamata, in termini di legge, minori stranieri non accompagnati (MSNA): sono ragazzi non ancora maggiorenni che hanno lasciato il loro Paese d’origine senza genitori o tutore legale. Questo fenomeno di erranza indipendente ha visto la sua intensificazione in questi ultimi anni, provocando nei differenti Stati europei una situazione caotica, in quanto le realtà istituzionali incaricate di occuparsi di questa popolazione non dispongono di strumenti sufficienti né di politiche nazionali coerenti. Le contraddizioni sono tali che i professionisti dei servizi minorili e di salute mentale sono in una posizione di smarrimento continuo che impedisce loro di pensarsi protagonisti nell’accoglienza, nell’accompagnamento e nella cura. In questo articolo vorremmo offrire al lettore una breve riflessione sull’argomento, soffermandoci in particolare su una situazione clinica, in quanto tale problematica è già stata approfondita nel dibattito scientifico[1] da un testo collettaneo.[2]

Un fenomeno dalle origini lontane

Per capire meglio lo spirito di questo articolo è necessario delineare il quadro in cui la nostra riflessione si sviluppa, in quanto un medesimo vocabolo (minori stranieri non accompagnati) indica, a volte, realtà molto contrastanti. È interessante costatare che l’origine, la specificità di questi minori e la diversità dei loro profili hanno un’incidenza sui discorsi e sul loro trattamento, sia da parte degli attori mediatici e politici, sia da parte dei professionisti del mondo sociale e giuridico, a livello nazionale e internazionale.

La classificazione di Clémence Helfter, che si basa su quella di Angélina Etiemble, permette di affrontare il fenomeno dei MSNA in una dimensione d’insieme fondamentale per comprendere i motivi nascosti di questa tipologia di migrazione. Essa distingue principalmente sei gruppi di MSNA:[3]

  1. I rifugiati sono minori che sono in uno stato di pericolo nel loro Paese d’origine a causa di guerre, persecuzioni o attività politiche svolte da parenti o combattenti amici.

  2. Gli affidati sono coloro portati in Europa da un adulto, il quale, per differenti ragioni, è stato designato come responsabile, ma che non è in grado di assumersene il carico.

  3. I ricongiunti sono quei giovani che, in autonomia, decidono di raggiungere i propri genitori, padre o madre, al di fuori delle procedure legali, senza conoscere il luogo esatto in cui si trovano.

  4. Gli sfruttati sono i bambini utilizzati come piccola manodopera o forza lavoro non retribuita.

  5. I prescelti sono normalmente ragazzi, primogeniti, che i genitori spingono a migrare per sfuggire alla miseria.

  6. I conquistatori sono dei ragazzi o delle ragazze che hanno scelto da soli la loro migrazione.

Tale fenomeno migratorio necessita dunque di essere valutato dalla sua origine, poiché può essere il frutto sia di un sogno migratorio individuale e familiare, che cerca l’affermazione sociale ed economica, sia la conseguenza di una colonizzazione europea irrispettosa dell’alterità de l’altro, come quella, ad esempio, che ha distrutto l’equilibrio cosmologico delle popolazioni africane, sottomettendole agli Dei capitalisti. Questi giovani/e ci obbligano ad adattare i nostri sistemi d’accoglienza, d’accompagnamento, d’assistenza e di sostegno legislativo e psicosociale.

Per svolgere il nostro lavoro con umanità ed efficacia, dobbiamo conoscere le caratteristiche della popolazione che prendiamo in carico: sono minori o giovani adulti migranti? Da dove vengono? Quale futuro li aspetta? Domande che richiedono una conoscenza del contesto politico di partenza e di quello d’arrivo, del quadro culturale del migrante e del professionista, dei dispositivi di cura presenti nel Paese d’origine e di quello d’accoglienza. In un’ottica epistemologica di complessificazione (Bateson, 1976; Bocchi e Ceruti, 1985; Morin, 2000) e di complementarità (Deveurex, 1980), che tutelino il nostro agire e il nostro pensare dal paradigma comparativo, tanto caro all’antropologia.

Il viaggio: l’esempio dei giovani afghani

Anche se nell’incontro con il MSNA si pensa immediatamente all’immigrazione, tuttavia è necessario prendere in considerazione un altro volto del fenomeno: l’emigrazione o meglio il luogo da cui provengono questi ragazzi.[4] Per capire meglio la ricaduta che tale categoria legale può avere sul territorio dell’emigrazione, analizzeremo il viaggio di un giovane afghano, la cui storia è stata oggetto di un rapporto di indagine internazionale.[5] Questo studio ci fornirà gli elementi non solo per affrontare le problematiche che ci portano questi ragazzi, ma anche per costruire le linee guida dei nostri interventi sociali, educativi e clinici.

Il ragazzo e i rischi

In primo luogo è necessario sottolineare il grado di pericolo in cui si trovano questi ragazzi. I rischi sono di differente natura, possono essere connessi alla situazione regionale, agli usi e ai costumi, alle guerre, ma la conseguenza immediata è la medesima: la distruzione dei legami familiari e dell’economia locale.

Un uomo, originario di Paktya, durante una deposizione, spiega quali sono i rischi specifici in cui incorrono gli adolescenti della sua regione e i motivi che li inducono a scappare: la bachabazi. Sono pratiche in cui gli adolescenti maschi vengono utilizzati da uomini potenti, signori della guerra o esponenti nobili come schiavi sessuali.

«Ci sono comandanti dell’esercito che, per puro divertimento, fanno giochi sessuali con giovani, obbligandoli anche a danzare per loro. I ragazzi, costantemente violentati e abusati, vengono fatti migrare dalle famiglie per proteggerli da tali rituali».

I conflitti locali permanenti inducono le famiglie a cercare, attraverso i loro figli, un sostegno esterno che faccia sopravvivere la collettività.

«Quando i due ragazzi hanno lasciato il loro villaggio, i genitori e la sorella erano stati appena uccisi dai Kochis. Immersi in un pianto di loro, hanno deciso, insieme ad alcuni testimoni, di scappare e di intraprendere un viaggio non accompagnato come risposta diretta alla violenza subita».

«Ho accettato di lasciar partire mio figlio perché temevo che i talebani e i loro combattimenti violenti potessero a un certo momento coinvolgerlo. L’Afghanistan è un Paese troppo insicuro e mio figlio non voleva più vivere in un clima di paura».

Accanto ai rischi locali esistono anche quelli derivanti dal viaggio. I racconti dei sopravvissuti o dei rimpatriati li mettono in evidenza, ma nonostante ciò nessuno esita nell’intraprendere una tale odissea.

«La polizia turca ci ha seguito e poi sparato. Molti amici sono stati feriti, altri invece uccisi e alcuni sono riusciti a scappare. Quando siamo arrivati in Turchia, la polizia ci ha arrestato e trasferiti in Iran, dove le guardie ci hanno picchiato a sangue e hanno rifiutato di darci da bere».

«Quando ho deciso di partire, ho pensato al rischio di annegare in mare o di essere sequestrato o costretto alla schiavitù. Ho incontrato moltissimi ostacoli, anche se oggi li definirei più come esperienze. Uno degli accompagnatori mi detestava e mi ha bruciato la mano. Mi ha fatto molto male. Abbiamo attraversato il deserto e le montagne. Ci hanno messo in un camion che trasportava ghiaccio, faceva talmente freddo che un amico è morto assiderato. Io sono stato incosciente per quindici giorni, avevo perso completamento lo spirito. Alla frontiera turca mi hanno dato delle medicine che mi hanno fatto rinsavire. Quando sono arrivato in Turchia non capivo la lingua e non conoscevo la cultura. La polizia locale mi ha arrestato, maltrattato e messo in prigione per 7 mesi. Ero in condizioni talmente gravi che pensavo di morire. Quando poi ci hanno trasferito in Iran, ci hanno rubato anche tutti i soldi e ci hanno messo in isolamento per tre giorni e tre notti senza niente».

A noi resta che una domanda: perché nonostante i rischi siano conosciuti, vissuti e raccontati, i ragazzi continuano a viaggiare?

Il ragazzo e il progetto familiare

In questo contesto spaventoso i gruppi familiari restano però uniti. I figli, pur viaggiando da soli, rappresentano nei Paesi di frontiera e in quello d’accoglienza il gruppo familiare. I legami, anche se lontani, non si disintegrano, ma si intensificano in una forma fantasmatica.

Attraverso i figli, le famiglie cercano un buon grado di scolarizzazione e un lavoro qualificato, non vogliono solo denaro, ma uno status sociale stabile e rassicurante. Questo modo di pensare la sopravvivenza e la sostenibilità familiare è un elemento condiviso da chi parte e da chi resta.

«Volevo un prospero e felice avvenire per mio figlio, volevo che studiasse e avesse un buon lavoro, cosa che non è possibile qui. Per questo ho acconsentito al suo viaggio, con la speranza di una vita migliore».

La speranza di uno sviluppo e di un miglioramento della condizione familiare è uno degli aspetti principali che spingono i ragazzi a intraprendere un viaggio non accompagnato, con la consapevolezza che rimborsare il costo del tragitto rappresenta il primo gradino del successo.

Il ragazzo e la rete di appartenenza

La partenza del ragazzo è discussa all’interno della comunità familiare e si basa principalmente su informazioni e racconti di quei membri che vivono già in Europa o negli Stati Uniti. Però la decisione di intraprendere il percorso non accompagnato è influenzata dall’esperienza di amici e conoscenti che sono riusciti nell’impresa e dalle indicazioni e strategie che questi ultimi forniscono ai responsabili della comunità. La rete di supporto costituisce dunque un fattore determinante per l’emigrazione.

«La mia famiglia non sapeva nulla al riguardo. Conoscevo però degli amici che erano in Europa e che mi raccontavano come la vita fosse facile lì. Anche le tasse di cambio era nettamente più vantaggiose di quelle applicate in Afghanistan».

Il ragazzo e il motivo della sua scelta

Da quello che possiamo capire dal quadro culturale afghano, i ragazzi proposti per il viaggio non accompagnato non sono i primogeniti maschi. Essi hanno il compito di occuparsi della casa e normalmente sono i primi a doversi sposare. Coloro che partono sono invece i fratelli minori che sono più cagionevoli di salute o non in grado di sostenere dei ritmi lavorativi elevati.

Il ragazzo e i mezzi di sostentamento

Il sostegno economico del figlio da parte della famiglia dipende molto dalla storia regionale e dalla tradizione di emigrare o non emigrare di un Paese. Nelle regioni in cui non esiste un passato migratorio, i ragazzi rubano o lavorano fino allo svenimento per raccogliere i soldi necessari, e poi si allontanano furtivamente senza comunicarlo a nessuno. Nella maggior parte dei casi, invece, le famiglie s’indebitano a tal punto che, a volte, impegnano le terre o vendono le proprie figlie, nella speranza di ottenere benefici futuri.

«Quando non hanno niente da vendere o da donare in cambio, offrono la figlia per denaro. Con la somma inviano poi il fratello all’estero».

Il ragazzo assume su di sé una missione difficile, che non permette di fallire. Per i giovani afghani, il viaggio rappresenta e viene pensato quindi come un rito di passaggio (Losi, 2015). Alessandro Monsutti scrive: «per i giovani afghani, la migrazione offre l’opportunità di allargare e diversificare le reti sociali al di là della famiglia ristretta e dei legami di vicinato. Ciò può essere considerato come una tappa necessaria della loro esistenza, un rito di passaggio verso l’età adulta, un passaggio verso l’essere uomo».

Il ragazzo e le conseguenze di un insuccesso

Il ragazzo è consapevole delle conseguenze che un insuccesso o un rimpatrio potrà causare alla propria famiglia. I debiti non possono essere rimborsati e la famiglia è dunque esposta a minaccia da parte della malavita che richiederà i soldi prestati e che cercherà di estorcerle la somma con forza, perché la pensa, erroneamente, ricca.

Il ragazzo e le forze opposte

Una delle forze, malefiche e benefiche contemporaneamente, che le famiglie devono affrontare sono i cosiddetti accompagnatori del deserto. Personaggi ambigui, estremamente organizzati e potenti.

«I trafficanti li imbarcano senza soldi fino in Iran. Una volta arrivati sono obbligati a chiamare le famiglie per farsi spedire i soldi del viaggio. Se le famiglie adempiono in breve tempo i ragazzi sono rilasciati e autorizzati a proseguire, altrimenti sono obbligati a vendere il proprio corpo per racimolare la somma dovuta».

I colloqui con i ragazzi forniscono poche informazioni sui trafficanti, è un soggetto delicato da affrontare. La rete è ben organizzata e strutturata. I trafficanti sono per lo più invisibili, nonostante conoscano perfettamente i candidati alla partenza: hanno differenti luoghi in cui possono essere rintracciati e i ragazzi vi possono accedere attraverso intermediari.

«I trafficanti e gli intermediari sono in continuo collegamento e hanno riunioni mensili. I trafficanti nella mia regione sono Hazara. Avvicinano i candidati nell’ombra, nessuno li conosce e nessuno sa cosa fanno».

Questi personaggi, di etnie e regioni differenti, sono in contatto l’uno con l’altro. Una volta attraversata la frontiera, affidano i loro clienti a dei colleghi di un altro Paese. Forniscono i punti di partenza, i percorsi e le informazioni del viaggio attraverso le bocche e le orecchie dei ragazzi stessi. Un testimone racconta: «da Nangarhar a Kabul, poi in Iran e a Urumieh, frontiera tra Iran e la Turchia, da Istanbul alla Grecia, si arriva in Francia e da lì a Londra».

Il ragazzo e la rete economica

I trafficanti traggono un notevole beneficio dai viaggi dei minori non accompagnati, ma anche i Paesi d’accoglienza hanno il loro profitto nel ricevere periodicamente mano d’opera giovane e a basso costo.

«È chiaro che i trafficanti beneficiano in primis, in quanto guadagnano i soldi a prescindere dal fatto che il ragazzo arrivi o meno a destinazione. Tutti ne approfittano: i Paesi ospitanti sottopagano i ragazzi e le famiglie ricevono i pochi soldi che guadagnano senza far nulla».

L’esempio dei giovani afghani ci permette di effettuare alcune fondamentali riflessioni: se consideriamo i punti di partenza dei minori, in particolare il processo migratorio come osservatorio di come un Paese d’origine genera questo fenomeno, ci rendiamo conto che il concetto e le conseguenti parole per definirlo, minori stranieri non accompagnati, hanno senso solo in un Paese di accoglienza e in un sistema in cui è presente la tutela del minore. Il ragazzo non è né solo, né tanto meno considerato minore dai genitori e dal gruppo familiare, ed è straniero solo perché ha lasciato la sua famiglia, il suo territorio e la sua lingua. È una persona che fugge da un luogo ad alto rischio e cerca di difendere la sua vita e quella degli altri.

Ovviamente questo non significa che per noi tale nozione non abbia senso, al contrario è quello che delimita ciò che siamo e il nostro modo di aiutare queste persone. Un apriori che deve portarci a costruire degli indicatori da tenere in considerazione nel nostro agire professionali. Ad esempio, motivazioni esplicite, condizioni economiche e politiche, particolarità culturale della scelta del soggetto (storia familiare, posizione nella famiglia, rapporti tra maschi e femmine), funzione di genere (i maschi utilizzati come combattenti, le ragazze come moneta di scambio), ruolo degli amici e dei membri del gruppo che vivono già in esilio, responsabilità dirette e indirette, pericoli umani (trafficanti, poliziotti, ambiente), conseguenze di un insuccesso. L’integrazione nelle nostre pratiche di questi elementi del percorso del ragazzo favorisce una costruzione dinamica del legame con l’altro: le condizioni di viaggio, gli avvenimenti vissuti durante il percorso da un continente all’altro, da un Paese all’altro, sono forme di conoscenza che permettono al ragazzo di capire alcuni funzionamenti e farli propri.

Un tale procedere ci permette, quindi, di evitare errori che potrebbero rischiare di minare la fiducia, e di limitare tensioni o malintesi che potrebbero sfociare, a causa di alcuni nostri comportamenti, in vissuti drammatici, paragonabili a quelli del viaggio, o in negazioni di un sapere e di un’esperienza appena acquisiti.

Riferimenti bibliografici

Bateson G. (1976), Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi.

Bocchi G. e Ceruti M. (a cura di) (1985), La sfida della complessità, Milano, Feltrinelli.

Chona R., Echavez Jennefer Lyn L., Bagaporo Leah Wilfreda R.E. e Pilongo Shukria A. (2014), Why do children undertake the unaccompanied journey? Motivations for departure to Europe and other industrialised countries from the perspective of children, families and residents of sending communities in Afghanistan, Décembre.

Deveurex G. (1980), De l’angoisse à la methode: dans les sciences du comportement, Paris, Aubier.

Finco R. e Moro M.R. (a cura di) (2015), Minori o giovani adulti migranti. Nuovi dispositivi clinici tra logiche istituzionali e culturali, Torino, L’Harmattan Italia.

Helfter C. (2010), La prise en charge des mineurs isolés étrangers par l'Aide sociale à l'enfance. Une protection nécessaire et perfectible, “Informations socials”, n. 160, pp. 124-132.

Losi N. (2015), Guarire la guerra. Storie che curano le ferite dell’anima, Torino, L’Harmattan Italia.

Morin E. (2000), La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Raffaello Cortina.

Sayad A. (1999), La Double Absence. Des illusions de l’émigré aux souffrances de l’immigré, Paris, Le Seuil.

 

[1] R. Finco e M. Rose-Moro (a cura di), Minori o giovani adulti migranti? Nuovi dispositivi clinici tra logiche istituzionali e culturali, Torino, L’Harmattan Italia, 2015.

[2] Il libro collettaneo nasce da un percorso formativo, dal quale riprende sia il titolo generale, sia le riflessioni, le ricerche e le azioni che hanno contribuito a pensare in modo differente il tema della presa in carico psicosociale dei minori stranieri non accompagnati. Il ciclo formativo, rivolto a operatori del mondo sanitario, sociale e educativo, è stato organizzato nel 2015, grazie a una convenzione tra il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Bergamo, la Caritas Diocesana Bergamasca e la Fondazione Migrantes, in collaborazione con l’ASL della Provincia di Bergamo.

[3] C. Helfter, La prise en charge des mineurs isolés étrangers par l'Aide sociale à l'enfance. Une protection nécessaire et perfectible, “Informations socials”, n. 160, pp. 124-132.

[4] Per approfondire il doppio concetto immigrazione/emigrazione si veda A. Sayad, La Double Absence. Des illusions de l’émigré aux souffrances de l’immigré, Paris, Le Seuil, 1999.

[5] R. Chona, L. Echavez Jennefer Lyn, R.E. Bagaporo Leah Wilfreda e A. Pilongo Shukria, Why do children undertake the unaccompanied journey? Motivations for departure to Europe and other industrialised countries from the perspective of children, families and residents of sending communities in Afghanistan, Décembre 2014.

 



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