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Approfondimenti

Migrazioni, retorica e buone pratiche

Luciano Carrino

Psichiatra e Presidente della KIP International School che, tra l’altro, ha realizzato un Padiglione all’Expo 2015, dal titolo Territori attraenti per un Mondo Sostenibile. È stato Vice presidente della Rete OCSE/DAC per la lotta contro la povertà nel 2011-12. Ha coordinato le linee-guida OCSE su sviluppo verde e riduzione della povertà per il tema “innovazione”. Dal 1985 al 2010 è stato esperto dell’Unità Tecnica Centrale della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo (DGCS) del Ministero degli Esteri, dove ha coordinato l’area tematica sviluppo umano, salute e pari opportunità ed è stato responsabile dei programmi Italia/Nazioni Unite di sviluppo umano in Africa, Mediterraneo, America Latina ed Europa dell’Est. È stato consulente dell’OMS per gli aiuti d’emergenza, della Commissione Europea per la lotta contro la povertà, del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo e del Parlamento Europeo per la prevenzione e gli interventi nelle zone di conflitto. È stato iniziatore della cooperazione decentrata che le Regioni e gli Enti Locali realizzano, nell’ambito di programmi delle Nazioni Unite, in diversi Paesi del mondo. Insegna in diverse università. È autore, tra l’altro, dei libri: Lo sviluppo delle società umane, tra natura, passioni e politica, 2014, Milano, Franco Angeli; Perle e Pirati. Critica della cooperazione allo sviluppo e nuovo multilateralismo, 2005, Trento, Erickson, tradotto in varie lingue, del Manuale dell’OMS; Le Personnel Local de Santé et la Communauté face aux Catastrophes Naturelles e di diversi documentari televisivi per la Rai.


Abstract

The misinformation and tragedies related to migration leads us to reflect on the need for citizens to have a more critical approach to information, to be more aware of the ongoing conflict between different visions of development and more ready to operate in a consistent manner with the aspiration to equality of rights and opportunities for all. Schools and universities can play a key role in this, if they are systematically connected with the territory and with inclusive local development experiences. They can help to give birth to, systematize and spread the knowledge needed for change and for a new model of development cooperation, in which migration can be recognized as a legitimate expression of universal aspiration to equality and to attractive and inclusive societies. This aspiration (now endorsed by the United Nations) emerged only a few centuries ago, after thousands of years of violence and abuse legitimized by the law of the strongest. However, it seems unstoppable and is powered by the same antibodies produced by unequal societies. Perhaps, an informed and aware citizen will not see, in her or his lifetime, the fruits of efforts for the humanization of migrations and societies. Nevertheless, s/he will know to be on the right track and will feel the satisfaction of adding a fragment of sense to daily existence and of working for a better future.



Sommario

La disinformazione e le tragedie collegate alle migrazioni inducono a riflettere sulla necessità che la cittadinanza sia più capace d’informarsi in modo critico, più consapevole del conflitto in atto tra visioni diverse dello sviluppo e più pronta a operare in modo coerente con l’aspirazione all’uguaglianza dei diritti e delle opportunità per tutti, anche per i migranti. In questo, la scuola e le università possono giocare un ruolo fondamentale, se riescono a collegarsi sistematicamente con il territorio e con le esperienze di sviluppo locale inclusivo. Esse possono aiutare a far nascere, sistemare e diffondere i saperi del cambiamento e la nuova cooperazione, capace di valorizzare anche le migrazioni, nell’era dello sviluppo mondializzato, e riconoscere che esse esprimono la legittima e universale aspirazione all’uguaglianza delle opportunità e a vivere in società accoglienti e attraenti. Quest’aspirazione, fatta propria dalle Nazioni Unite, è emersa solo un paio di secoli fa, dopo millenni di violenze e soprusi legittimati dal diritto del più forte. Ma sembra inarrestabile ed è alimentata dagli stessi anticorpi prodotti dalle società diseguali. Un cittadino informato e consapevole forse non vedrà, in vita, i frutti del suo impegno per l’umanizzazione delle migrazioni e delle società. Ma saprà di essere nel giusto e potrà sentire la soddisfazione di chi sta aggiungendo ogni giorno alla propria esistenza un frammento di senso e di futuro migliore.

Una provocazione

Ho accolto volentieri la bella provocazione di Andrea Canevaro, che immagina un progetto per costruire cittadinanza informata e consapevole a partire dal tema delle migrazioni. Volentieri, perché mi ha fatto pensare a quando, appena laureato, scappai da Napoli, che mi sembrava soffocante, e approdai in Francia, dove vissi quattro anni da immigrato clandestino. Non chiesi mai il permesso di soggiorno (all’epoca obbligatorio), ma ero medico, lavoravo in strutture pubbliche e avevo tanti amici. La mia diversità culturale era un elemento attraente e passai un periodo bellissimo della mia vita. Ero migrante clandestino, ma non ero povero ed escluso.

Sono l’esclusione e il maltrattamento che fanno la differenza. Ma sono possibili società senza esclusione? Società che accolgono e proteggono tutti, compresi i migranti?[1] È questo il punto. I migranti fuggono per lo più da società dove pochi gruppi, in conflitto tra loro, si contendono potere e privilegi lasciando la popolazione nell’abbandono e la precarietà. E giungono in società che proteggono solo una parte dei loro cittadini, lasciando anch’esse tante persone nel disagio e nell’insicurezza. In entrambi i casi, l’accoglienza e la protezione non sono per tutti e tanto meno per i migranti. Tutte le società, povere o ricche, sono a vari gradi escludenti. Ai migranti poveri tocca la stessa sorte di tutti gli altri marginali poveri. È inevitabile? Su questo vale la pena riflettere. Esistono due modi correnti di vedere le cose.

Il primo è che sia impossibile costruire società capaci di assicurare ugualmente a tutti protezione, benessere e sicurezza. Quest’idea, oggi difficile da confessare, prevale, di fatto, in tutte le società stratificate (cioè tutte quelle conosciute fino a ora), in cui è legittimo che alcuni accumulino poteri e risorse nelle loro mani, anche a danno degli altri e del bene comune. Nelle società dichiaratamente autoritarie, che hanno dominato fino a circa duecento anni fa, la competizione, spesso sanguinosa, in seno a gruppi sociali chiusi (nobiltà, caste, formazioni militari, organizzazioni religiose e altri) faceva emergere i più forti che erano i soli ritenuti capaci di assicurare la sopravvivenza ai “cittadini-sudditi”, in un mondo pericoloso, caratterizzato da guerre, violenze e soprusi di ogni genere. Così, probabilmente, il privilegio di pochi era sopportato, anche se comportava la sofferenza e la mortificazione di molti, perché l’alternativa era ancora peggiore.

Nelle società democratiche contemporanee i gruppi sociali sono cambiati, ma è rimasta la dinamica molto competitiva. Stavolta emergono le persone e i sodalizi che, alla ricerca del proprio successo, riescono a concentrare nelle loro mani grandi poteri e risorse, e prendono le decisioni nelle istituzioni, l’industria, la finanza, i media e gli altri settori chiave dell’organizzazione sociale, inclusa, beninteso, la politica. I più furbi e aggressivi, legittimati dal successo, influenzano il funzionamento complessivo delle società e promuovono le dinamiche escludenti di cui si sono serviti per emergere. Certo, c’è una bella differenza tra le forme di governo autoritario del passato (peraltro ancora molto diffuse) e le moderne democrazie parlamentari. Ma in entrambi i casi domina, nei fatti, la logica della disuguaglianza, dell’esclusione e della concentrazione di poteri e risorse in poche mani. In questo contesto, i migranti, come gli altri marginali, sono trattati con metodi repressivi o paternalisti, sono esposti allo sfruttamento o sono additati come un pericolo. Tra i migranti e chi adotta una visione escludente della società, s’instaura un circolo vizioso, alimentato da paure, diffidenza, ipocrisia, sfruttamento e cattivi comportamenti degli uni e degli altri.

Il secondo modo di vedere le cose, invece, è che sia possibile costruire società accoglienti per tutti, pacifiche e prospere, e che l’esclusione sia un danno per la collettività e un mezzo illegittimo con cui i più forti mantengono i loro privilegi. Queste idee sono nate con le grandi rivoluzioni politiche e culturali che hanno accompagnato la diffusione dell’aspirazione umana all’uguaglianza dei diritti e delle opportunità per tutti. E oggi sono alla base di tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite, compresa l’ultima del 25 settembre 2015, sull’Agenda per uno sviluppo sostenibile fino al 2030.[2]

Il mondo è, come sempre, caratterizzato da guerre, violenze, soprusi e migrazioni. Ma ora si spera che con la partecipazione di tutti si possa arrivare là dove le stratificazioni e l’autoritarismo hanno fallito. Il problema è che, se si pensa che le società della disuguaglianza hanno una storia di almeno undicimila anni, la storia di quelle dove si fa strada l’aspirazione all’uguaglianza è appena cominciata. Così l’umanità si trova ad avere le idee del futuro ma le pratiche e la mentalità del passato. Si è aperto un lungo periodo di transizione ed è difficile prevedere se l’aspirazione all’uguaglianza saprà tradursi in pratica o se, come talvolta sembra, le società diseguali la sconfiggeranno. Le migrazioni sono uno dei campi più importanti in cui si gioca la partita della transizione. Ecco perché la provocazione di Andrea Canevaro va accolta. Infatti, è oggi essenziale cercare di costruire una cittadinanza informata e consapevole, ma è molto difficile farlo.

Il problema è che occorre superare gli ostacoli profondi che generano l’intolleranza e l’esclusione, di cui sono vittime (in vario modo, ma sempre con effetti devastanti) migranti, poveri, senza tetto, disoccupati e tutti quelli che non trovano spazio per esercitare il loro diritto a una vita dignitosa. Non mancano le buone esperienze che mostrano come sarebbe facile e conveniente accogliere e includere i migranti e tutti gli altri esclusi,[3] ma rimangono nicchie di qualità in società strutturalmente costruite per discriminare, subordinare e tenere sotto controllo chi si trova negli strati più bassi.

La difficoltà è che, per andare verso il cambiamento e costruire nel profondo una cittadinanza informata e consapevole, non basta concentrarsi solo sul superamento di questo o quel fenomeno negativo. Non basta che ogni buona esperienza si occupi dei “propri esclusi”: matti, disabili, donne, immigrati, senza tetto, poveri e così via. Occorre risalire dai fenomeni ai fattori che li producono e identificare quelli che li accomunano, per agire in modo più efficace e senza rischiare di alimentare involontariamente competizioni tra marginali. E occorre tenere conto, oggi, che molti problemi, tra cui quelli legati alle migrazioni, si verificano in un mondo globalizzato. È vero che esistono quasi 200 Stati e migliaia di culture diverse. Ma, attualmente, nessuna società può vivere senza essere collegata con le altre. Infatti, la maggior parte di quello che succede nei suoi settori vitali (il lavoro, l’economia, l’agricoltura, la salute, ecc.) dipende da quello che accade in altre società e dalle decisioni delle industrie multinazionali, delle banche, dei media più potenti, delle centrali criminali o dei signori della guerra. L’interdipendenza planetaria dei processi dello sviluppo è ormai da tutti riconosciuta. Ed è anche riconosciuto che mai il pianeta è stato così ricco. Certamente esistono, oggi, le risorse e i mezzi per eliminare la povertà, la fame e i disagi, come dice anche l’Agenda 2030 dell’ONU, se solo si volesse davvero. Non vi è dubbio che tutte le società potrebbero scegliere, legittimamente e realisticamente, di essere attraenti e accoglienti. Se non lo fanno, è perché, nella transizione, dominano ancora le idee autoritarie e discriminatorie che hanno accompagnato per millenni la costruzione e il funzionamento di tutte le società.

Allora, mentre si lavora per evitare le soluzioni repressive “speciali” (campi profughi, procedure avvilenti, ecc.) e gli altri maltrattamenti riservati ai migranti, ci si deve anche chiedere: in che modo, all’epoca della mondializzazione, le migrazioni potrebbero rappresentare davvero una risorsa (come vuole una retorica corrente) ed essere accettate come il diritto di ciascuno a cercarsi una vita migliore? Senza dubbio sono importanti le iniziative locali per favorire il dialogo interculturale e l’integrazione degli immigrati (campagne educative, progetti, ecc.), che fortunatamente già esistono. Ma il loro impatto resta spesso molto limitato e i risultati raggiunti rischiano sempre di essere cancellati da eventi che possono essere manipolati e usati per diffondere paura e intolleranza (delinquenza, terrorismo, ecc.). Allora, occorre anche fare qualcosa per incidere sui fattori che provocano la fuga delle persone dal posto in cui sono nate e sulle generali dinamiche di esclusione. Certo, è difficile ed è anche un obiettivo molto ambizioso, ma per fortuna non si parte da zero e si può contare sull’immenso patrimonio di esperienze innovative in tutti i campi. Basandomi su questo patrimonio provo a fare alcune considerazioni per contribuire al progetto della cittadinanza informata e consapevole.[4]

Avere una visione del mondo

La prima considerazione è che non si può educare nessuno se non si ha una visione di come dovrebbero funzionare le società. Dopo la caduta del muro di Berlino si è persa la contrapposizione politica tra visioni diverse: da un lato quella liberista e conservatrice, basata sul valore delle libertà e dei diritti individuali, del privato, della competitività, del mercato, della crescita economica, dell’arricchimento e della democrazia parlamentare. Dall’altro quella progressista, basata sulla giustizia sociale, l’uguaglianza dei diritti, il bene comune, l’economia governata, l’attenzione per la natura e la partecipazione diretta della popolazione ai processi dello sviluppo. Sfortunatamente, la visione progressista è stata politicamente monopolizzata per oltre settant’anni (ma gravemente distorta e tradita) dai Paesi del Patto di Varsavia. Le loro pratiche apertamente autoritarie e repressive (con le loro disastrose conseguenze) hanno dato la possibilità ai conservatori “democratici” di squalificare le idee progressiste della giustizia sociale e combatterle come “comuniste”. Anche molti progressisti hanno giustamente preso le distanze dalle pratiche sovietiche. Il risultato, però, è che, contemporaneamente, è stato neutralizzato anche il potenziale rivoluzionario del pensiero progressista. Così, dopo la fine dell’Unione Sovietica e del suo “comunismo”, le idee progressiste, che in passato erano state usate per una critica radicale al mondo capitalista, sono divenute sue timide colorazioni marginali. Con la sconfitta del comunismo sovietico, a molti il modello di società basato sulla competizione escludente è sembrato ormai senza alternative, specie dopo che anche la Cina e gli altri Paesi “comunisti” ne hanno adottato gli obiettivi economici, la cultura individualista e l’ossessione per la crescita delle quantità.

Ma l’aspirazione all’uguaglianza che aveva motivato le rivoluzioni comuniste non si è fermata. Alimentata dalle conseguenze negative del modello escludente, si è espressa in modo sempre più attento nel dibattito internazionale. Fino a configurare una nuova visione del mondo, coerente con l’aspirazione all’uguaglianza dei diritti e delle opportunità. Tale visione è descritta, in tutti i campi, dai vertici mondiali ONU degli ultimi venticinque anni. Le loro dichiarazioni finali costituiscono la Piattaforma per lo sviluppo del futuro condivisa da tutti i governi del mondo e l’Agenda ONU verso il 2030 ne rappresenta una sintesi recente di facile consultazione.

Dunque, oggi esiste una visione del mondo molto diversa da quella corrente. Questa visione, mai come prima, è universale ed è anche condivisa non solo dalle istituzioni ma anche da tutti quelli che sono impegnati nel cambiamento delle società.[5] Qualunque processo che volesse costruire una cittadinanza informata e consapevole dovrebbe mettere questa Piattaforma al centro dell’attenzione, facendola uscire dal ghetto per addetti ai lavori in cui è attualmente confinata. Finalmente, nelle scuole, nelle università e nelle attività di perfezionamento professionale si parlerebbe dello sviluppo, inteso come il funzionamento delle società per mettere in pratica il loro mandato naturale di essere lo strumento per favorire la sopravvivenza, il benessere e la sicurezza di tutti i cittadini (il che, in un mondo globalizzato, vuol dire di tutte le popolazioni). Si rifletterebbe sul perché questo mandato sia stato fin qui interpretato così male dai governi delle società e su cosa occorra fare per cambiare le cose. Si cercherebbero le informazioni che dimostrano come il cambiamento sia necessario e possibile. S’imparerebbe, insomma, a non dare per scontato che le società della disuguaglianza siano le uniche possibili e si cercherebbe di conoscere le esperienze concrete che, in embrione, dimostrano che vi possono essere tante soluzioni efficaci ai problemi della povertà, della violenza e del degrado ambientale, smentendo la mentalità conservatrice ed escludente.

Le esperienze concrete, che si occupano ciascuna dei “propri esclusi”, potrebbero sentirsi stimolate a lavorare per favorire la transizione dalle società escludenti a quelle del futuro. Questo favorirebbe il loro tentativo di risalire dai fenomeni specifici di cui si occupano ai fattori che li determinano e le spingerebbe a mettersi in rete tra loro per accrescere le loro capacità e il loro potere negoziale con i governi e le istituzioni.

Superare l’approccio settoriale

Un modo per occuparsi dei problemi complessi senza risolverli è quello specialistico e settoriale, il preferito dalla mentalità corrente. Il caso dei migranti lo dimostra. La loro storia viene spezzettata in momenti separati e su ciascuno di essi si programmano soluzioni “efficaci”. Si cerca d’intercettare i barconi o di distruggerli prima che partano. Si costruiscono campi di “accoglienza”. S’inventano procedure speciali per ciascuna tipologia di migrante. Si negozia la loro distribuzione controllata nei paesi di destino. Si organizzano incontri e campagne “educative” puntando molto sulla corda etica e la buona volontà. Si fa di tutto, tranne che collocare i migranti nella loro storia reale di persone che scappano da territori repellenti in cerca di territori attraenti che però, per loro, non esistono. E i risultati poco incoraggianti sono sotto gli occhi di tutti.

Le tante azioni settoriali, con la loro promessa di efficacia, fanno dimenticare la radice comune del fenomeno che è proprio nel fatto che il mondo è organizzato in territori repellenti e falsamente attraenti. Il problema sono i territori invivibili, mal governati ed escludenti, non i migranti. Il loro maltrattamento non è altro che una delle tante conseguenze negative di come funzionano “normalmente” le società. Il vero problema è che tutti i territori in cui la gente vive e lavora sono messi in forma dalle dinamiche aggressive che influenzano tutto ciò che accade nell’organizzazione sociale, nella mente delle persone, nelle culture, nei rapporti umani e perfino nella natura. Anche il degrado dell’ambiente, infatti, è legato all’aggressività industriale e all’incuria per il bene comune, che prevalgono correntemente.

Il risultato è che dappertutto, a parte alcuni luoghi gradevoli e accoglienti (come sono i quartieri ricchi delle città, i siti turistici e pochi altri), prevalgono i posti degradati come le periferie urbane, le campagne abbandonate, la deforestazione, le aree contaminate, i quartieri insicuri, i paesaggi rovinati, le infrastrutture cadenti e così via. Le stratificazioni sociali sono anche territoriali e i migranti partono da territori di cattiva qualità e si ritrovano in quelli peggiori delle società di arrivo, dove convivono spesso con altri marginali. Lo stato del territorio è lo specchio dei maltrattamenti che subiscono i suoi abitanti. Ma è anche il luogo dove è possibile capire meglio il collegamento tra i vari tipi di maltrattamento e combatterli in modo più completo e profondo, ad esempio, collegando tra loro le buone esperienze settoriali e costruendo attività sistematiche capaci d’incidere su tutti gli aspetti e sulle cause dei maltrattamenti. Il tradizionale approccio settoriale non permette di fare ciò. Esso, infatti, con il suo mito dell’efficacia e dell’efficienza, costituisce una barriera gravissima alla comprensione di ciò che accade. Applicato alle migrazioni, esso distoglie dall’affrontarne le cause e dall’utilizzarne le buone opportunità, favorendo, invece, la rassegnazione alle società della disuguaglianza.

Nessuna cittadinanza informata e consapevole potrà essere costruita se non si affronta esplicitamente la discussione sulla differenza tra il pensiero settoriale e il pensiero complesso. Il primo separa rigidamente i problemi, perde di vista le interdipendenze e occulta i responsabili. Il secondo permette di concentrare l’attenzione sul collegamento che esiste tra i fenomeni, facilita l’identificazione delle cause e dei responsabili e favorisce la ricerca delle soluzioni migliori. Adottando l’approccio territoriale, la cittadinanza potrebbe comprendere meglio i fenomeni negativi collegati alle migrazioni, collegare tra di loro le buone esperienze di lotta contro l’esclusione e acquisire la forza e la consapevolezza necessaria per essere capace di promuovere il cambiamento.

Costruire una nuova cooperazione

Si discute volentieri della cooperazione come strumento per gestire o addirittura “risolvere” i problemi delle migrazioni. Tuttavia in questo campo regna la confusione. L’approccio conservatore crede che la cooperazione serva ad “aiutarli a casa loro, così non vengono”. Ma quest’idea non ha fondamento. Innanzitutto perché la cooperazione, se pure fosse efficace, sarebbe soltanto una goccia nel mare. Basti pensare che solo l’ammontare delle rimesse degli emigrati è più di sette volte superiore all’ammontare complessivo dei finanziamenti per l’aiuto allo sviluppo. Questa goccia è resa ancora più insignificante dal fatto che sono ormai più di quindici anni che i governi donatori della cooperazione si lamentano della scarsa efficacia dell’aiuto, a causa delle migliaia di progetti settoriali separati la cui somma non può fare una strategia per risolvere problemi complessi, come la povertà e le migrazioni. Ormai la vecchia cooperazione, frammentaria, paternalista e assistenziale, è ritenuta superata, anche se continua a essere fatta e a drenare la generosità di chi si fa commuovere dalle immagini dei bambini denutriti che si possono salvare se si danno nove euro al mese a chi se ne occupa. Spesso, sono gli stessi “beneficiari” che criticano la cooperazione. Non solo per un riflesso di dignità ma anche perché sono stanchi di vedere gli scarsi risultati dei progetti che, anche quando danno qualche beneficio, lo fanno senza continuità e senza mettere in condizioni gli attori locali di essere protagonisti dello sviluppo del loro territorio.

Allora la cooperazione è inutile? Sì, se continua a essere fatta nello stesso modo arrogante di quando è stata lanciata dopo la seconda guerra mondiale, cioè credendo che i Paesi ricchi debbano insegnare a quelli poveri i segreti dello sviluppo. No, se invece, imparando dalle buone esperienze, la cooperazione si trasforma e diviene uno strumento capace d’incidere sulle dinamiche di esclusione che sono all’origine della povertà e delle migrazioni. Allora sì che è possibile vederne le grandi potenzialità ancora non sfruttate. Lo dimostrano le migliori esperienze di cooperazione decentrata, quella che si realizza attraverso partenariati tra territori (regioni, comuni) europei e di altri Paesi “beneficiari” di cooperazione, adottando il principio della pari dignità e del comune interesse, e usando il metodo dello scambio di esperienze in tutti i campi dello sviluppo per il reciproco vantaggio.[6] Sono queste esperienze che hanno dimostrato come le comunità di migranti possono essere davvero un’importante risorsa per migliorare lo sviluppo sia del territorio di provenienza che di quello di accoglienza. In alcuni casi, gli emigrati di successo hanno aiutato i loro concittadini del Paese di origine a organizzare imprese e attività economiche, aprendo loro il mercato europeo o mettendo a loro disposizione le capacità imprenditoriali acquisite. In altri casi, dei figli d’immigrati incappati in misure di giustizia (furti, piccola delinquenza ecc.) hanno avviato un bellissimo percorso di riabilitazione attraverso scambi con i giovani del loro territorio di origine. In altri, gli immigrati sono stati inseriti in progetti di rivitalizzazione di borghi semiabbandonati, dove hanno potuto valorizzare la loro cultura e i loro collegamenti con il Paese di origine. In altri, le associazioni d’immigrati sono diventate attive in processi di cooperazione internazionale del territorio dove sono state accolte, usando il patrimonio della loro lingua e della loro cultura. In altri, i migranti appena arrivati e in attesa d’identificazione, invece di essere chiusi in campi appositi, sono stati distribuiti, in piccoli gruppi, in comuni disposti ad accoglierli.

Gli esempi sono tanti. Tutti hanno in comune la visione accogliente delle istituzioni locali e dei cittadini e tutti riconoscono il ruolo attivo degli immigrati, le loro capacità propositive e organizzative, il loro essere spesso una risorsa, in un mondo dove si diffonde l’interdipendenza tra culture e società diverse. Tutti, però, superano il puro approccio settoriale e vanno verso la capacità di usare le diverse potenzialità del territorio di origine e di arrivo dei migranti. Sopra tutto, le buone esperienze rompono la barriera che ha separato la cooperazione dai processi di sviluppo ordinari e imparano a usare tutte le fonti di finanziamento per “internazionalizzare” lo sviluppo corrente. In tal modo la cooperazione non è più un mondo a parte, governato da mentalità assistenziali o malato di progettismo di buon cuore e basso impatto. Diventa, invece, uno strumento per profittare delle opportunità che la mondializzazione offre sia ai territori più poveri sia a quelli che stanno meglio. Una cittadinanza informata e consapevole potrebbe imparare a diffidare della cooperazione del “buon cuore”, dei progettini frammentari e assistenziali, delle adozioni individuali a distanza, degli aiuti umanitari arroganti e sbagliati e dei filmati commoventi alla televisione. Potrebbe vederla, invece, come un modo per costruire reti internazionali fra territori che vogliono divenire attraenti aiutandosi reciprocamente. Potrebbe alimentare i processi di coinvolgimento attivo dei cittadini a livello locale e rafforzarli perché possano far pesare le loro buone esperienze sulle politiche nazionali e la collaborazione internazionale. Potrebbe far crescere la partecipazione diretta della gente ai processi dello sviluppo, la sola che può colmare la distanza tra le istituzioni, la politica e i cittadini. È in un contesto così che i migranti hanno dimostrato di essere una preziosa risorsa.

Cambiare l’informazione

Una buona informazione è certamente necessaria se si vuole diffondere la cultura dell’accoglienza nelle famiglie, nelle scuole, nelle università e nella vita sociale. Ma quale informazione? Nelle famiglie entra l’informazione dei media, spesso veicolo di allarmismo, scandalismo e luoghi comuni. Nelle scuole, sono pochi i docenti che trattano i temi dell’esclusione, delle stratificazioni sociali, delle diverse visioni della società e della diversità delle culture. Nelle università, sono ancora pochi i docenti avventurosi capaci di accettare le sfide del pensiero complesso, dell’interdisciplinarità e dello sviluppo mondializzato. Il cittadino informato rischia di esserlo molto male o addirittura in senso contrario ai propri interessi e ai valori dell’uguaglianza e dell’accoglienza. Allora, se le famiglie, le scuole, le università e i media devono essere strumenti d’informazione e educazione coerente con i valori che servono a costruire società migliori, devono identificare anche le nuove fonti da cui alimentarsi, i nuovi contenuti che vale la pena di mettere in evidenza e i temi e gli approcci che converrebbe abbandonare. Ma, sotto il bombardamento della cattiva informazione, come si fa a essere correttamente informati? Ed ecco che ci vengono in aiuto le buone esperienze che già da diversi anni si fanno in materia.

Tutte hanno in comune il fatto di cercare di fare emergere le nuove idee, le informazioni che servono e i nuovi modi di pensare da attività concrete di coinvolgimento attivo dei bambini, delle famiglie, delle associazioni, delle istituzioni e del settore privato in vari campi. È così, ad esempio, che nelle attività della cooperazione decentrata si è scoperto il grande valore della diaspora e si è sperimentato, come nel caso della Liguria o dell’Emilia e Romagna, che gli immigrati dall’Africa possono essere tramiti di partenariati di sviluppo con gli attori del loro Paese di origine che generano vantaggi reciproci e aiutano a combattere il razzismo e le discriminazioni. Non è detto che gli scambi debbano sempre essere sui temi economici. Spesso iniziano sui temi più diversi: la musica, l’arte, il cibo, il teatro, la letteratura, le storie di vita, i ricordi, le idee, i desideri e così via. Ma sempre, la buona informazione nasce dal dialogo, dal confronto e sopra tutto dal suo possibile uso. La volontà di costruire insieme soluzioni a problemi comuni o semplicemente di realizzare iniziative di comune interesse, permette d’identificare e usare le informazioni utili. Nessun’altra fonte, per quanto professionale, può sostituire questo tipo di informazione “attiva”. Le migliori esperienze lo sanno e fanno crescere le conoscenze proprio moltiplicando le occasioni di scambio tra le persone impegnate nelle loro attività. Esse sanno anche che l’informazione è spesso manipolata e proposta da chi intende trarne un vantaggio e hanno imparato che la validità delle informazioni aumenta se vi sono molte opportunità di discussione preliminare e di ripensamento, tenendo conto dei risultati che si ottengono. Io, che sono psichiatra, l’ho imparato quando ho cominciato a lavorare in manicomio. Le informazioni che avevo avuto erano quelle della mia formazione universitaria, ma la loro applicazione concreta (che attribuiva lo stato dei pazienti esclusivamente alla malattia) produceva risultati inaccettabili sul piano etico (camicie di forza, elettroshock, alte dosi di farmaci, segregazione, ecc.) e non migliorava certo la salute mentale dei ricoverati. Così, attraverso la pratica di apertura dei manicomi e il riconoscimento della dignità dei pazienti, ho potuto cercare e dare valore ad altre informazioni, che mi servivano ad aiutare i pazienti a riabilitarsi e reinserirsi. Alla fine, come tanti altri psichiatri divenuti consapevoli, ho scelto un modo diverso di esercitare la mia professione, cercando di contribuire a costruire il nuovo sapere di cui c’è ancora tanto bisogno. Il cambiamento delle fonti d’informazione e la ricerca di quelle che servivano a trovare le migliori alternative al manicomio hanno contribuito a produrre il gran risultato della riabilitazione di pazienti che erano ritenuti “irreversibili” dal sapere ufficiale.

Una cittadinanza consapevole non attende di essere informata. Costruisce criticamente la propria informazione, le proprie conoscenze e i propri saperi. Non in autonomia, ma proprio attraverso gli scambi tra gli attori locali e con quelli di altri territori, altri Paesi e altre culture. Impara anche a chiedere le informazioni che spesso le sono nascoste e a valutarne la correttezza e l’utilità. Nelle migliori esperienze, nascono reti informative internazionali che servono anche a realizzare attività di cooperazione decentrata efficaci. Queste reti potrebbero essere usate, in collegamento con le associazioni d’immigrati e le buone esperienze di sviluppo locale, per combattere la disinformazione di chi vuole emigrare, evitargli i barconi e lo sfruttamento più violento e guidarlo verso forme utili e umanizzate di migrazione.

Superare la mentalità delle emergenze

Negli ultimi anni si sente parlare di emergenza migrazioni. Contemporaneamente si attribuisce il carattere di emergenza anche alle situazioni legate alla povertà, alle guerre, al clima, alle crisi economiche e finanziarie, al degrado ambientale, alla criminalità. Si estende, in tal modo, a molti fenomeni sociali l’idea che accompagna i terremoti, le inondazioni e altri disastri naturali, ritenuti eventi eccezionali, imprevedibili e che richiedono azioni immediate e speciali. Ma appare sempre più chiaro che quest’idea nasconde una realtà ben diversa. Intanto i progressi delle conoscenze nelle scienze della natura hanno reso del tutto prevedibili gli eventi catastrofici. Si può sapere con esattezza non solo dove ma anche quando accadranno inondazioni, eruzioni vulcaniche, frane, incendi, valanghe e tanti altri fenomeni “eccezionali”. Solo dei terremoti non si può sapere quando accadranno, ma si sa esattamente dove possono verificarsi. Se un secolo fa si poteva ancora pensare alla fatalità, oggi abbiamo tutti i mezzi per identificare i rischi e prevenire le peggiori conseguenze degli eventi catastrofici della natura. Quanto ai disastri provocati dai comportamenti umani, ci vuol poco a capire che sono tutti prevedibili, anzi sono in gran parte ottusamente e alacremente preparati. Le guerre non scoppiano da un momento all’altro. Si preparano, si finanziano, si organizzano, si giustificano con ogni sorta di argomenti, si alimentano e si usano per scopi decisi dai vertici di questo o quel gruppo potente. Chiamare emergenza i disastri ambientali è un’evidente ipocrisia, quando sono a tutti note le loro cause: contaminazioni, distruzioni di risorse legate alla ricerca del massimo profitto da parte dei vertici industriali, talvolta con il consenso dei governi, incuria e così via. E come ci si può meravigliare delle conseguenze catastrofiche della diffusione della mentalità e delle attività criminali, in società che valorizzano più di tutto l’intraprendenza individuale e il successo a ogni costo? E cosa c’è d’imprevedibile nelle ricorrenti crisi economiche e finanziarie?

Attribuire il carattere di emergenza ai fenomeni migratori vuol dire semplicemente che non si vogliono affrontare i problemi che ne sono all’origine. Per ogni emergenza, e certamente anche per le migrazioni, si può ricostruire la storia degli interessi, dei malfunzionamenti, delle incurie, delle omissioni e della logica distorta che l’hanno preparata. In realtà, oggi sarebbe possibile prevenire le conseguenze di tutte le catastrofi naturali ed evitare le emergenze provocate dall’uomo, se solo questa fosse una priorità politica e culturale. Ma non lo è. Perché vorrebbe dire cambiare il normale modo di funzionamento delle società diseguali che, appunto, favorisce l’emergere continuo di situazioni d’urgenza. Parlare di “emergenza migrazioni” significa nascondere che si tratta di un fenomeno prodotto inevitabilmente dalle società diseguali. Uno dei tanti alimentato dalle dinamiche prevalenti che promuovono uno sviluppo aggressivo, puntano sulla crescita delle quantità invece che delle qualità, stimolano la competitività anche a scapito del bene comune e non si preoccupano degli inevitabili danni che tutto ciò produce per le persone, l’ambiente, la coesione sociale e la convivenza pacifica.

A questo si aggiunge il fatto che molti speculatori hanno imparato a trarre profitti legittimi e illegittimi dalle emergenze. Nascono facilmente, sull’onda delle emozioni e dell’urgenza di agire, fiorenti affari per imprese e associazioni. A nulla servono, purtroppo, le ricorrenti denunce di sprechi, disfunzioni e corruzione. Negli ultimi anni, poi, si assiste a un fenomeno nuovo: le “emergenze” aumentano, si collegano tra loro e tendono a diventare una minaccia permanente di livello planetario. In ogni Paese, l’emergenza della povertà relativa (quella per cui anche chi non ha fame si sente tradito nelle sue attese legittime dalla società in cui vive) si collega al grave degrado ambientale, alla diffusione della conflittualità violenta, al mancato rispetto dei diritti umani, alla precarietà di ogni cosa.

I fenomeni migratori, con le emergenze che li accompagnano, sono forse quelli che più chiaramente mostrano che nessuna società è al riparo dalle conseguenze negative dello sviluppo aggressivo e diseguale. Né le società poco accoglienti da cui i migranti scappano. Né quelle ugualmente poco accoglienti dove arrivano. Queste ultime, anche quando sono prospere, sono impreparate alle forme di solidarietà ed economia intelligente che sarebbero necessarie per trasformare le immigrazioni in risorsa. Allora vanno nel panico e fanno crescere paure, razzismo e intolleranza che non fermano le emergenze, ma degradano ulteriormente la qualità della vita sociale, già minata dalle disuguaglianze. Una cittadinanza informata e consapevole, guidata dalle buone esperienze che pure ci sono, dovrebbe discutere di cosa si nasconde dietro le emergenze, esaminare la possibilità che molte di esse siano le conseguenze prevedibili di come funzionano “normalmente” le società, organizzarsi e lavorare per ridurre i rischi, almeno sul proprio territorio, e prepararsi a far fronte in modo umanizzato alle sempre possibili situazioni di urgenza.

Nel caso delle migrazioni, basti pensare a quello che è già accaduto spontaneamente nella prevedibile emergenza che, a causa della guerra del Kosovo, fu causata dall’entrata in pochi giorni di più di cinquecentomila profughi in Albania. La maggior parte di loro fu ospitata dalle famiglie albanesi, che ne trassero spesso anche un profitto, si distribuì sull’intero territorio nazionale e fu pronta a rientrare in patria poco tempo dopo. I peggiori risultati, invece, furono quelli dei campi profughi e degli aiuti umanitari tradizionali della cooperazione, che dettero luogo alla solita dipendenza assistenziale, molti sprechi e tanta corruzione. Se si costruisse una cittadinanza informata e consapevole, sarebbe possibile organizzare preventivamente ogni comune all’accoglienza degli immigrati e, contemporaneamente, lanciare una grande campagna culturale e politica di cooperazione internazionale per fare in modo che le collettività locali non aspettino le emergenze, ma sappiano scambiare le loro esperienze per ridurre i rischi, prepararsi a gestire in forma umanizzata le eventuali situazioni di urgenza, ridurre la necessità di emigrare e usare le migrazioni come occasioni di sviluppo economico, commerciale, culturale, scientifico e solidaristico.

Cambiare la scuola

L’educazione che dovrebbe renderci umani tende invece spesso a disumanizzarci. Umano sarebbe essere capaci di risolvere con l’intelligenza il problema dei nostri bisogni materiali e culturali, senza mettere in pericolo sé e la collettività cui siamo indissolubilmente legati, e senza danneggiare la natura. Meno umano, invece, è eccedere nella competizione e abbandonarsi agli istinti egoisti e irrazionali che comportano rischi distruttivi per sé, gli altri e l’ambiente. I valori eccessivamente competitivi che prevalgono nella società (e che si diffondono nella famiglia, a scuola, nei media, nelle università ecc.) sono all’origine delle azioni che, squilibrando i rapporti con gli altri e con la natura e distogliendo l’attenzione dalle fondamentali funzioni protettive che le società dovrebbero avere per tutti i loro cittadini, provocano le emergenze. Così si presentano due grandi problemi.

Da un lato le forme di educazione che prevalgono nelle scuole e nelle università tendono spesso a consolidare le idee e i valori aggressivi che guidano le società con effetti disumanizzanti. La disumanizzazione è sottile, perché accompagna modi di pensare e sentire che sono presentati positivamente: l’avidità è presentata come sano diritto dell’individuo alla libertà d’iniziativa; l’accentramento come la necessità di coordinare processi complessi; l’eccesso di specialismo come competenza ed efficienza; il paternalismo come grande valore civile; la soffocante burocrazia come mezzo indispensabile ad assicurare la trasparenza, e così via. Il sentimento di solidarietà si promuove nella sua versione distorta. Nelle società diseguali, infatti, esso si frammenta e serve a unire al loro interno famiglie, clan, partiti e gruppi, e serve anche a consolidare la loro struttura rigida e gerarchizzata in cui la gente cerca la protezione che non trova nella società. Così il sentimento che dovrebbe unire tutti i cittadini alla propria società serve, invece, a separare e alimentare competizioni e conflitti.

Dall’altro lato le forme più critiche di educazione, che pure esistono, educano a un mondo che non c’è e inculcano principi che sono regolarmente trasgrediti dalla maggior parte della gente. In ogni caso, la scuola è il luogo da investire intensivamente se si vuole costruire una cittadinanza informata e consapevole. Anche in questo campo vi sono molte esperienze che mostrano come si possa educare in modo innovativo e informare gli alunni coinvolgendoli in ricerche e i progetti, costruendo frammenti del mondo che vorrebbero. Nel caso delle migrazioni, le esperienze che mi sembrano più pertinenti sono quelle che hanno impegnato gli studenti, anche giovanissimi, in attività di ricerca sul territorio.

Nella cooperazione internazionale, ad esempio, si sono diffusi in tanti Paesi i metodi delle carte comunitarie dei rischi, dei bisogni e delle risorse,[7] che erano stati messi a punto in Campania, dopo il terremoto del 1980, dalla collaborazione tra il Centro di Medicina Sociale di Giugliano e le scuole. Il metodo consisteva nell’organizzare la visita del territorio da parte delle classi guidate dagli insegnanti e dagli operatori sociosanitari, con l’obiettivo d’identificare i rischi per le persone, i bisogni più urgenti cui rispondere e le risorse da mobilitare per farlo. Ogni classe costruiva la sua “carta” riportando su una mappa i simboli di ciò che era stato notato nelle visite al quartiere, fatte insieme con famiglie, associazioni, commercianti e altri attori. Alla fine, si usava la carta sia per concordare nella scuola un piano di attività per risolvere i problemi più semplici che potevano essere alla portata degli studenti, delle famiglie e degli altri attori della zona, sia per incontrare le istituzioni e l’amministrazione comunale allo scopo di chiedere di realizzare le azioni più complesse.

Nel caso delle migrazioni, oggi che in Europa tutte le classi hanno figli d’immigrati, i metodi di ricerca-azione delle scuole sul territorio circostante possono essere un mezzo efficacissimo sia per incontrare le associazioni d’immigrati presenti, sia per realizzare iniziative interculturali mirate a risolvere problemi sentiti come importanti da tutti, sia per far crescere, nell’azione di migliorare qualcosa del proprio territorio, il sentimento di alleanza tra i diversi attori che lo abitano, sia, infine, per promuovere la consapevolezza di vivere in un mondo che, idealmente, potrebbe eliminare le barriere che dividono i Paesi, le culture e le persone, e sperimentare il piacere di collaborare per stare tutti meglio. Anche qui si tratta di cambiare il modo con cui s’informa e s’insegna e, come sanno bene quelli che cercano di farlo, occorre superare gli ostacoli della visione tradizionale della scuola, asserragliata nelle classi, centralizzata e di mentalità autoritaria. Una scuola che, fortunatamente, è da molti considerata arcaica anche nelle istituzioni di governo, ma che resiste nelle pratiche e nella mente di molti.

Cambiare la formazione

La realtà delle scuole dell’obbligo sembra essere più avanzata, per la quantità e qualità delle buone esperienze, di quella delle università. Queste ultime, infatti, sono più rigidamente condizionate non solo dalla stessa mentalità che prevale nelle scuole, ma anche da ciò che insegnano: discipline separate, specializzate, settoriali e autoreferenziali; saperi che si concentrano sul particolare e perdono facilmente di vista il loro scopo naturale: quello di aiutare gli umani a soddisfare meglio i loro bisogni di sopravvivenza, benessere e sicurezza.

Purtroppo, non è questo l’obiettivo che prevale. I saperi “scientifici” sono costruiti e usati in modo frammentario, si perdono nell’approfondimento di tanti particolari, cercano la competenza, indipendentemente da come viene usata. Addirittura molti docenti credono ancora nella verità e nell’indipendenza della scienza. Ma nessuna scienza avrebbe senso se non per il suo scopo originario, quello di far vivere meglio gli umani. Perciò, non deve cercare la “verità”, ma l’utilità. E parlare d’indipendenza in società dove tutto dipende dalle decisioni e dalla cultura degli attori più potenti che le guidano, dovrebbe far sorridere. La scienza non deve essere indipendente, deve combattere le cattive dipendenze e servire a fare stare tutti meglio.

Invece, nei saperi correnti, l’influenza della mentalità autoritaria ed escludente è fortissima. Io l’ho sperimentato nella mia professione di psichiatra, quando ho capito che il sapere “scientifico” che mi avevano insegnato aveva perso ogni collegamento con lo scopo di far stare meglio le persone di cui si occupava. Ma, si potrebbe dire, la psichiatria è un caso a parte e una scienza ancora molto debole. Tuttavia se pensiamo a discipline più solide, come l’economia, l’ingegneria o l’assistenza sociale, vediamo come anche là prevalgano assiomi e metodi che sono usati, rispettivamente, per perpetuare l’ossessione per la crescita delle quantità a scapito della qualità, diffondere le avvilenti urbanizzazioni che disumanizzano le città e ignorare che l’assistenza dovrebbe valorizzare la dignità della persona e non mortificarla.

Le scienze dovrebbero avere lo stesso scopo naturale delle società: quello di far vivere meglio gli umani. Possono avere anche molti altri aspetti, ma non dovrebbero perdere di vista la loro ragione d’essere. Allora c’è da riflettere sul fatto che lo sviluppo delle società umane non è considerato un tema degno di essere oggetto di una disciplina universitaria. È piuttosto una sorta di decorazione marginale di altre discipline (economia, sociologia, antropologia, urbanistica ecc.). Lo sviluppo non si studia in sé e non s’insegna, rimane un riferimento di altre discipline, non ben definito e mai approfondito nel suo valore rivoluzionario: quello di rimettere al centro dell’attenzione lo scopo del vivere in società. Come mai, nonostante l’enorme progresso di tante discipline specializzate e le conquiste tecnologiche che ne sono derivate, le società umane sono sempre più in crisi? Come mai è divenuta convinzione comune che, di questo passo, le società sono insostenibili a causa del grave degrado delle relazioni umane e dell’ambiente? Come mai la ricchezza non serve a risolvere i problemi che minacciano il futuro di tutti, anzi, li aggrava?

Una cittadinanza informata e consapevole dovrebbe essere aiutata da università che mettono il tema dello sviluppo delle società umane e della sua qualità al centro dell’attenzione e lo usano per comprendere meglio perché si approfondisce la distanza tra la gente e la politica, i bisogni umani e la scienza, i desideri di uguaglianza e la realtà. Le università dovrebbero essere lo strumento principale per formare i professionisti che sanno muoversi in queste contraddizioni e cercare le soluzioni secondo le indicazioni contenute nell’Agenda dell’ONU.

Esse potrebbero collegarsi, come fortunatamente fanno nelle loro migliori esperienze, con gli attori dello sviluppo sul territorio, aiutandoli a sistemare il sapere che nasce dalle loro buone pratiche e a formarsi, stimolando e guidando gli scambi di esperienze. Potrebbero, infine, lanciare insieme una grande campagna culturale per rivedere le discipline specializzate, con lo scopo di depurarle delle ideologie che le influenzano attualmente per renderle davvero rigorose e utili, filtrandole attraverso gli obiettivi dello sviluppo di qualità delle società umane e rendendole, così, strumenti formidabili di progresso.

Conclusione

Lavorare per costruire una cittadinanza capace d’informarsi in modo critico, consapevole del conflitto in atto tra visioni conservatrici e progressiste sulla qualità dello sviluppo e pronta a operare in modo coerente con l’aspirazione all’uguaglianza dei diritti e delle opportunità per tutti, è certamente importante e prioritario. La scuola e le università possono giocare un ruolo fondamentale, se riescono a collegarsi sistematicamente con il territorio e con le buone esperienze di sviluppo. Perché così possono aiutare a far nascere, sistemare e diffondere i saperi del cambiamento, proprio a partire dalle pratiche che cercano di essere coerenti con la visione del mondo suggerita dalle Nazioni Unite. Il fatto che, nella realtà, prevalgano ancora dappertutto i modi squilibrati di pensare e sentire tipici delle società diseguali, non deve sorprendere. L’aspirazione all’uguaglianza e a società accoglienti e attraenti è emersa solo un paio di secoli fa, dopo millenni di violenze e soprusi legittimati dal diritto del più forte. Ma sembra inarrestabile ed è alimentata dagli stessi anticorpi[8] prodotti dalle società diseguali.

Certamente molte delle persone impegnate nel cambiamento non vedranno, nel corso della loro vita, i frutti del loro impegno. Ma sapranno di essere nel giusto e potranno sentire la soddisfazione di chi sta aggiungendo ogni giorno alla propria esistenza un frammento di senso e di futuro umanizzato.

 

[1] Qui per migranti s’intende fare riferimento alle persone che fuggono dal loro Paese perché lo reputano insicuro o privo di opportunità economiche o per altre ragioni e cercano di raggiungere un Paese, ritenuto migliore, con ogni mezzo e senza avere la documentazione richiesta dal Paese alla frontiera.

[2] Il testo ufficiale della dichiarazione si può trovare nel sito: https://sustainabledevelopment.un.org/post2015/transformingourworld.

[3] Ad esempio, nel Padiglione KIP all’Expo 2015, hanno illustrato i loro risultati eccellenti oltre 90 gruppi e reti internazionali di esperienze di sviluppo locale (tra cui quelle delle Agenzie di Sviluppo Economico Locale europee e di altri venti Paesi), tutte basate sull’inclusione e la valorizzazione delle risorse naturali, umane e storiche del territorio (www.kipschool.org; www.ilsleda.org; www.ideassonline.org; www.universitasforum.org).

[4] Chi volesse approfondire i temi di seguito accennati può consultare i miei libri: Lo sviluppo delle società umane, tra natura, passioni e politica, Milano, FrancoAngeli, 2014, e Perle e Pirati, Trento, Erickson, 2005.

[5] Non deve meravigliare che l’ONU e tutti i governi abbiano scelto molti valori progressisti, perché si tratta di documenti di principio ed è divenuto impopolare enunciare come legittimi i principi e i valori dell’esclusione. Perché sono dichiarazioni destinate a rimanere tali, dato che l’ONU è poco operativa; ogni governo, infatti, è padrone a casa sua e può interpretare come vuole i documenti ufficiali, che comunque adottano anche i riferimenti al “libero” mercato e agli altri valori liberali. Perché, infine, le dichiarazioni dell’ONU non impegnano coloro che non partecipano ai vertici mondiali, cioè tutti quelli che prendono le decisioni importanti nell’industria, nella finanza, negli eserciti, nell’informazione, nelle organizzazioni religiose, nella criminalità internazionale e negli altri settori che contano e che non adottano le logiche democratiche. In realtà, le dichiarazioni esprimono idee ormai mature nella sensibilità culturale contemporanea, ma usate, spesso ipocritamente, con interpretazioni distorte che consentono di legittimare ancora privilegi ed esclusione.

[6] Si veda, tra gli altri, il sito www.ilsleda.org e gli altri siti citati nella nota 2.

[7] Esistono vari manuali per illustrare il metodo, tra cui alcuni reperibili nel sito www.hdrnet.org e nell’archivio pubblicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: www.who.int.

[8] Il principale anticorpo è la grave e diffusa delusione della maggior parte delle persone che si ritengono tradite dalla società in cui vivono (che non assicura loro la protezione e il benessere legittimamente atteso). Queste persone, se non prendono la strada della cittadinanza informata e consapevole, possono diventare antisociali e violente.



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