Esperienze
L’ipotesi del contatto alla prova dei campi estivi internazionali per bambini e adolescenti: due esperienze a confronto
Federico Zannoni
Federico Zannoni è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione, dell’Università di Bologna. È attualmente impegnato in un progetto europeo finalizzato a promuovere l’educazione interculturale in Russia.
Abstract
According the hypothesis of contact by Gordon Allport (1954), if supported by certain conditions (equal status between the protagonists, the persistence of significant interpersonal relationships, cooperation in the successful experiences, institutional and social support), the contact between different groups facilitates the relaxation of stereotypes and prejudices. This hypothesis works as a theoretical basis for the experiences of some international villages and camps, where children and adolescents from different countries can meet and spend a few weeks together, in a contest of friendship, peace, mutual understanding, creativity and playful attitude. The short and long term effects of such experiences seem to confirm Allport’s hypothesis, albeit with specific characteristics, critical and unresolved issues.
Sommario
Più volte rivisitata, avvalorata o contestata, l’ipotesi del contatto formulata da Gordon Allport (1954), secondo cui, se supportato da determinate condizioni (eguale status tra i protagonisti, persistenza di rapporti interpersonali significativi, cooperazione in esperienze di successo, sostegno istituzionale e sociale), il contatto tra gruppi diversi facilita l’attenuazione di stereotipi e pregiudizi, mantiene una sua pregnante attualità e si pone come base teorica su cui hanno preso vita alcune esperienze di villaggi e campi estivi internazionali, in cui bambini e adolescenti provenienti da diversi Paesi del mondo possono incontrarsi e trascorrere insieme alcune settimane, all’insegna dell’amicizia, della pace, della reciproca conoscenza, del gioco e della creatività. Gli effetti a breve e lungo termine di esperienze di questo tipo sembrano avvalorare l’ipotesi di Allport, pur con precise specificità, criticità e questioni ancora aperte.
She dreamed of a better world and worked passionately for what she hoped to achieve. Her idea in the forties that sparked the creation of CISV, the research she did in the first Village in 1951, is still relevant today: that people who live together learn to respect their differences, can form a lasting friendship. She was very much ahead of her time. Her concerns about prejudice and intolerance, the difficulties of living in a multicultural society, are the same concerns we have today.
(V. Tejada, Eulogy, Doris Allen Memorial Service, 2002)
L’ipotesi del contatto
Ripercorrendo i numerosi studi e le definizioni che nel corso dei decenni si sono succeduti, è possibile definire il pregiudizio come la tendenza a considerare in modo ingiustificatamente sfavorevole le persone che appartengono a un determinato gruppo sociale. Intendendo lo stereotipo come un insieme coerente e abbastanza rigido di credenze negative che un certo gruppo condivide rispetto a un altro gruppo o categoria sociale, si arriva a constatare che lo stereotipo è il nucleo cognitivo del pregiudizio (Mazzara, 1997).
Con il libro La natura del pregiudizio (1954), Gordon Allport non solo ha fornito un’analisi innovativa sulle origini del pregiudizio, ma ha anche delineato per primo delineato una serie di condizioni per poterlo fronteggiare, riconducibili all’ormai nota ipotesi del contatto. Dal momento che la scarsa comprensione dell’altro, della sua cultura di appartenenza e la necessità da parte di tutti di gestire e includere l’alterità nei rituali e nelle rappresentazioni della quotidianità in modo approssimativo, funzionale e generalizzante ci portano sovente a elaborare attitudini negative nei confronti del diverso, ne consegue l’ipotesi che il contatto diretto tra membri di gruppi differenti, con una conseguente maggiore conoscenza reciproca, possa favorire lo sgretolamento di stereotipi, pregiudizi e discriminazioni.
Sono necessarie alcune condizioni affinché il contatto possa portare effetti positivi. Innanzitutto, i due o più gruppi coinvolti devono godere di eguale status in termini di potere, prestigio e ruolo sociale; qualora un gruppo si trovasse in posizione inferiore sarebbe assai probabile l’eventualità di un rafforzamento degli stereotipi correnti. Allo stesso tempo, appare opportuno che tra i soggetti si possano instaurare rapporti interpersonali significativi e approfonditi, funzionali non necessariamente alla percezione di una crescente somiglianza, bensì alla falsificazione di alcuni stereotipi negativi attraverso la presa di coscienza di nuove informazioni.
Molto importante è che i membri dei gruppi possano cooperare per raggiungere uno scopo comune, trovando ulteriori motivazioni per sviluppare relazioni amichevoli; qualora, però, l’esito degli sforzi non si riveli positivo, incombe il rischio che i pregiudizi possano rafforzarsi e radicarsi. A promozione e garanzia dei rapporti tra i gruppi, sarebbe raccomandabile il sostegno da parte di autorità e istituzioni il cui ruolo sia da tutti riconoscibile e contempli la possibilità di sanzionare comportamenti scorretti, conferendo risonanza e continuità alle esperienze e agli esiti, affinché vengano vissuti non come mere eccezioni, ma come conseguenze di scelte fondate e radicate. Ulteriori elementi che contribuiscono a rendere efficace la pratica del contatto nella riduzione del pregiudizio sono l’elaborazione di un linguaggio comune e di un codice condiviso, la volontarietà del contatto, una situazione economica favorevole, la disponibilità di strumenti materiali e intellettuali che possano disconfermare gli stereotipi, un livello non eccessivamente alto di pregiudizio iniziale.
Nel testo Psicologia sociale del pregiudizio (1997), Rupert Brown ribadisce come, in molti casi, il contatto possa portare a un incremento delle incomprensioni e, rispetto alle condizioni elencate da Allport per una buona riuscita dell’interazione, aggiunge la possibilità di una conoscenza reciproca sufficientemente lunga e la necessità di contestualizzare l’incontro in un quadro interpretativo plurale, che sappia dare significati alla complessità dei fenomeni messi in campo, valorizzando le differenze e la dinamicità delle trasformazioni.
Più volte ripresa, arricchita e rimodulata, l’ipotesi del contatto ha dato luogo a inedite prospettive e lasciato aperti alcuni interrogativi mai completamente risolti. Barry Troyna e Richard Hatcher (1993) contestano il fatto che tale ipotesi si baserebbe su nessi di correlazione e non di causa-effetto: se è vero che i soggetti coinvolti in esperienze di contatto con membri di altri gruppi manifestano meno pregiudizi, potrebbe essere altrettanto vero che sono soprattutto i soggetti già in partenza con meno pregiudizi a decidere di impegnarsi in esperienze di questo tipo. Allo stesso modo, non va negata l’eventualità che un soggetto possa manifestare simpatia per una persona, ma antipatia nei confronti del gruppo di appartenenza.
Un altro problema aperto è quello della generalizzazione e del trasferimento degli atteggiamenti positivi, maturati in seguito al contatto, dai membri del gruppo con il quale si interagisce ai membri del medesimo gruppo con i quali non vi è una relazione diretta. La recente teoria del contatto intergruppi (Brown e Hewstone, 2005) sostiene che la generalizzazione è possibile a patto che nel contatto venga preservata la salienza delle identità originarie, mentre il modello dell’identità dell’ingroup comune (Gaertner e Dovidio, 2000) predilige la salienza nel contatto di un’identità sovraordinata, che includa i membri di tutti i gruppi che si trovano a interagire, nella direzione della riduzione del pregiudizio.
Non da ultima, permane la questione di quanto a lungo potranno durare gli effetti prodotti, una volta terminata l’esperienza del contatto, alle condizioni date. Per provare a perseguire suggestioni utili ad avvicinarsi alle possibili risposte, si passerà ora all’analisi di due realtà tuttora operanti, alle cui proposte lo scrivente ha più volte preso parte, nel primo caso in qualità di leader-educatore, nel secondo come giovane utente.
Children International Summer Villages (CIVS)
Era l’agosto del 1946 e, mentre ovunque continuavano a bruciare le ferite post-belliche, presso il suo studio a Cincinnati, Ohio, la psicologa dell’età evolutiva Doris Allen leggeva sulle colonne del “New York Times” un interessante articolo in cui l’autore, Alexander Meiklejohn, proponeva la creazione di un’istituzione che potesse formare una nuova classe dirigente di giovani desiderosi di costruire un mondo di pace. Immediatamente pensò che la strada migliore non sarebbe stata rivolgersi ai giovani diplomati, rischiando di scontrarsi con visioni del mondo già irrigidite, bensì cominciare con i bambini, affinché i valori della pace e della mutua comprensione potessero accompagnarli sin da subito nel percorso di crescita.
Con entusiasmo propose le sue idee all’American Psychological Association, chiese fondi all’UNESCO e ad altre istituzioni, sino a quando, nel 1951, a Cincinnati, riuscì a dare vita a un villaggio estivo che ospitava bambini provenienti dai diversi Paesi europei, rivali tra loro nei tempi della guerra. L’esperienza si rivelò un successo e, negli anni a seguire, altri villaggi nacquero nei diversi Paesi del mondo, assumendo una rilevanza tale da indurre i giurati a candidare Doris Allen al Premio Nobel per la Pace, nel 1979, riconoscimento che quell’anno ottenne Madre Teresa di Calcutta. Oggi, a quasi sessant’anni di distanza, il CISV è una realtà completamente sostenuta dal volontariato, presente in più di sessanta Paesi; nella sua storia decennale, ha coinvolto finora circa duecentomila persone in quasi cinquemila iniziative internazionali, affiancando altre proposte ai villaggi per bambini.
Attualmente, la successione dei programmi che il CISV propone è potenzialmente in grado di accompagnare la crescita dei partecipanti dagli undici anni alla maggiore età. Si comincia con i villaggi, ospitati nei diversi Paesi del mondo, della durata di ventotto giorni, rivolti ai bambini di undici anni, quattro per delegazione (due maschi e due femmine, accompagnati da un leader con più di ventuno anni), per un totale di dieci o dodici delegazioni, le cui attività sono coadiuvate da un direttore e da uno staff locale; completano il quadro alcuni ragazzi di sedici-diciassette anni, i cosiddetti Junior Counsellors, con compiti di supporto a leader e staff. Per i ragazzini di dodici e tredici anni, il CISV propone soggiorni di reciproco scambio in famiglia, mentre per i giovani di quattordici e quindici anni sono previsti campi estivi, organizzati secondo la medesima struttura dei villaggi, con la differenza che durano ventuno giorni, non sono presenti i Junior Counsellors e ai ragazzi stessi vengono affidate responsabilità nella gestione e nell’organizzazione delle attività. Altri programmi sono rivolti a ragazzi più grandi, alcuni persino a adulti di tutte le età, in continuità con le finalità e i principi dell’associazione.
Influenzata dall’opera di Allport e dagli studi di Kurt Lewin sui concetti di campo e di esistenza, alla luce delle prime esperienze nei villaggi, Doris Allen asserì che le sole spiegazioni logiche, verbali e razionali non sarebbero mai state sufficienti a vincere l’impeto del pregiudizio, qualora non fossero state accompagnate da stimoli di tipo emozionale, da contatti interpersonali dalla profondità tale da permettere ai protagonisti di aprirsi, presentare se stessi e ricercare comunicazione, dal momento che le percezioni sociali sarebbero determinate dalle esperienze di vita vissuta e solo intervenendo su queste potranno essere modificate.
L’intento dei programmi CISV è dunque quello di promuovere atteggiamenti che incoraggino l’amicizia tra individui appartenenti a culture diverse, per giungere, attraverso scambi emozionali e esperienze vissute, a sviluppare nuove attitudini nelle loro personalità, rendendoli ambasciatori a lungo termine dei valori della fraternità e della cooperazione tra le culture. La speranza è che coloro che in gioventù hanno avuto la possibilità di partecipare a esperienze di questo tipo possano ricoprire negli anni a seguire ruoli di leadership nelle loro scuole, comunità e posti di lavoro, contribuendo a promuovere una società di pace, a livello locale e allargato, secondo una prospettiva globale.
International Youth Camp (IYC)
Il primo Campo Internazionale Giovanile Est-Ovest, all’epoca così denominato, si tenne nell’estate del 1987 in un villaggio non troppo distante da Stoccarda e vide la partecipazione di un manipolo di ragazzi provenienti da Francia, Italia, Spagna e Repubblica Federale Tedesca, impegnati a riflettere sul tema della tutela dell’ambiente in un’Europa ancora divisa in due. Due anni dopo, nel medesimo Paese, l’esperienza fu ripetuta, sostituendo la caratterizzazione ambientale con tematiche di tipo culturale e allargando la partecipazione a ragazzi provenienti dall’Est della Germania e dalla Polonia.
Era l’estate del 1989, il Muro di Berlino era prossimo cadere, una nuova Europa unita era agli arbori. Diveniva prioritaria l’esigenza di costruire i cittadini, magari la futura classe dirigente, di questa nuova entità sovranazionale, promuovendo l’incontro, l’amicizia e la condivisione di prospettive che si potessero caratterizzare come europee: da qui l’idea, nata presso gli amministratori della provincia dell’Enzkreis, di conferire continuità all’esperienza dei campi giovanili internazionali, attingendo dalla rete dei gemellaggi con le varie province in Europa. Ventuno anni dopo, molte cose sono cambiate in Europa, consentendo all’esperienza dei campi internazionali giovanili, non più meramente Est-Ovest, di divenire una realtà consolidata, capace di attrarre nel corso dei decenni migliaia di ragazzi di età compresa tra i diciassette e i ventitré anni, provenienti da Bosnia Erzegovina, Bielorussia, Svizzera, Repubblica Ceca, Germania, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Ungheria, Croazia, Italia, Lettonia, Moldavia, Paesi Bassi, Polonia, Serbia, Slovacchia, Slovenia e Turchia. I campi si sono susseguiti con una cadenza annuale, ogni estate all’incirca nei primi diciotto giorni di agosto, ospitati alternativamente in luoghi a Ovest e a Est in Europa.
Esperienze a confronto
Nate e sviluppatesi in contesti differenti, senza mai interagire l’una con l’altra, probabilmente senza conoscersi, le esperienze del CISV e dell’IYC presentano diversi punti di contatto. Innanzitutto, entrambe hanno trovato nella costruzione di una rete (retta da volontari nel primo caso, da vincoli istituzionali tra province nel secondo) la propria modalità di sostentamento e sviluppo, dal livello organizzativo a quello dei contenuti educativi. All’interno di queste reti, ha preso corpo il principio dell’alternanza e della responsabilizzazione condivisa: a turno, di anno in anno, a ciascuna delle sedi o delle province che aderiscono spetta l’impegno di ospitare e organizzare l’evento.
La scelta dei luoghi in cui sviluppare i campi estivi fa registrare interessanti analogie: in entrambi i casi, non cade su località di rinomato richiamo turistico, né sui grandi centri urbani, bensì su Paesi o cittadine meno noti, all’interno dei quali la vita scorre regolare e uguale a se stessa, senza distorsioni o concessioni per attrarre gente da fuori, senza i vizi e le coccole che si cercano nella villeggiatura. In molti casi, si tratta di strutture situate in zone periferiche, appartate rispetto al centro abitato, a contatto immediato con prati e boschi: generalmente scuole, palestre, colonie dismesse, appositamente riarrangiate con letti, arredi e materiali necessari, prestando la dovuta attenzione alle misure di sicurezza.
Implicito in scelte di questo tipo sta il messaggio che il ragazzo non si appresta a partecipare a un soggiorno turistico, bensì a un’esperienza molto diversa, di immersione completa, divertente ma non finalizzata al solo divertimento, in un contesto culturale nuovo, e nello stesso tempo di partecipazione alla creazione di una sorta di mondo a parte, al limite dell’utopia, all’interno del quale, per due, tre, o anche quattro settimane, tutti si troveranno a vivere un’inedita quotidianità, arrivando al punto di conferire statuto di realtà, seppur provvisoria, a questo nuovo mondo, che si farà più reale del paese reale in cui è sorto.
Ciò che si persegue è una presa di distanza non tanto dal contesto in cui ci si trova (che, al contrario, ci si propone di esplorare nelle sue dimensioni più autentiche), quanto piuttosto dalle abitudini e dalle interferenze con la routine domestica, affinché la partecipazione alla vita del campo e il desiderio di conoscere nuove persone divengano le priorità assolute. A tal fine, il regolamento CISV vieta ai partecipanti qualsiasi contatto telefonico o informatico con amici e genitori, affidando ai leader accompagnatori il compito di mantenere aggiornate le famiglie. Si tratta di uno dei tanti accorgimenti studiati affinché possano presentarsi alla massima potenza le condizioni che Allport aveva individuato come necessarie per attenuare stereotipi e pregiudizi attraverso il contatto tra le persone, riassumibili con le definizioni di eguale status, rapporti interpersonali approfonditi, cooperazione in esperienze di successo, sostegno istituzionale e sociale.
Nel micromondo dei villaggi e dei campi estivi è possibile prescindere dal superfluo, giorno dopo giorno, percependone sempre meno la mancanza: le sistemazioni sono spartane, talora ai letti vengono sostituiti materassini con sacco a pelo, nelle camerate dormono una decina di persone (talvolta meno, talvolta più), bagni e docce sono in comune, i pasti self service, rigorosamente con cucina locale; manca la televisione, i giochi elettronici sono banditi. In questo spazio spogliato dalle sovrastrutture, le lunghe giornate vengono riempite con le relazioni, i rapporti umani, i tentativi e i desideri di comunicazione. A facilitare le interazioni, la predisposizione di spazi a disposizione della libera fruizione da parte di tutti, quali salotti, cortili, aree dedicate al ballo, alla merenda o al gioco, ai momenti informali che vengono ad assumere un’importanza sempre crescente, inseriti tra un’attività e l’altra, durante i quali è possibile discutere con tono più libero sulle esperienze appena vissute, raccontarsi e improvvisare scherzi, svelarsi segreti, confessarsi sentimenti, apprendere lingue nuove.
Nei programmi CISV, così come nei campi IYC, la lingua ufficiale è l’inglese, ma, vista la giovane età dei partecipanti, non sempre la padronanza è approfondita e, soprattutto nei villaggi per undicenni, sono sovente richiesti momenti di traduzione da parte dei leader accompagnatori; nonostante ciò, in modo spontaneo si diffonde tra i ragazzi una sorta di nuovo gergo condiviso, che affianca all’inglese vocaboli ed espressioni di altre lingue, dalla pronuncia ovviamente storpiata, slogan e gesti dall’eloquente significato. Inevitabilmente, parolacce ed espressioni a carattere sessuale divengono motivo di risate e scambi linguistici, rendendosi funzionali alla volontà condivisa di compenetrare le diversità linguistico-culturali per dare vita a una piattaforma comune su cui instaurare relazioni amicali e confidenziali. Il dato fondamentale rimane la constatazione di come la comunicazione possa andare oltre la barriera delle difficoltà linguistiche, arrivando persino a sublimarle in motivi di divertimento e aggregazione, facendo leva sulla forza della volontà e della creatività.
Insieme ai luoghi fisici, alle persone e ai codici comunicativi, sono le modalità con cui si passa il tempo a conferire fisionomia e identità tangibile al mondo del villaggio. Accanto ai momenti liberi e di interazione informale, grande importanza assumono le attività organizzate. Nel caso dei villaggi CISV con ragazzini di undici anni, si tratta soprattutto di momenti ludici, dalle caratteristiche e dalla complessità che mutano col passare dei giorni e delle settimane. Per far sì che i ragazzi possano conoscersi, a partire dal nome e progressivamente sempre di più, e possano liberare le proprie energie in giochi finalizzati al puro divertimento in compagnia, senza ulteriori componenti, durante la prima settimana vengono proposti soprattutto name games (giochi di conoscenza) e running games (giochi di corsa), funzionali alla creazione del gruppo.
Altri running games continueranno a essere praticati nelle settimane a venire, ma con minore frequenza, per lasciare spazio a ulteriori tipologie di attività, quali i contact games (giochi di contatto), i non verbal games (giochi non verbali) e i trust games (giochi di fiducia), volti a promuovere la fiducia reciproca, la comunicazione e l’esplorazione interpersonale anche attraverso il contatto fisico, nel rispetto delle prassi e delle consuetudini culturali di ciascuno. L’affiatamento del gruppo verrà progressivamente testato e rinsaldato attraverso la pratica di cooperation games (giochi cooperativi) dalla complessità crescente, mentre, soprattutto durante le ultime settimane, sarà possibile riflettere sulle realtà delle differenze culturali, degli stereotipi, dei pregiudizi, della ricchezza, della povertà, della pace, della guerra e di altri temi sociali attraverso simulation games (giochi di simulazione), più complessi da impostare, ma particolarmente forti dal punto di vista emotivo.
Se, all’interno dei villaggi, sono i leader accompagnatori, coadiuvati da staff e Jounior Counsellors, a pianificare programmazione e attività, caratteristica dei campi estivi rivolti ai teenager è la formazione di planning groups che includono ogni partecipante, all’interno dei quali sono i ragazzi stessi a proporre e organizzare le attività, che verranno però inserite all’interno di una schedule quotidiana delineata dagli adulti. Va da sé che, nella maggior parte dei casi, seppure con varianti e maggiore complessità, verranno riproposte attività che alcuni dei ragazzi hanno già esperito negli anni passati, quando, ancora undicenni, avevano partecipato ai villaggi, raccolte inoltre in un corposo gamebook, vero e proprio patrimonio CISV; allo stesso modo, le canzoni cantate in coro, la sera prima di andare a letto, pressappoco le stesse in tutti i villaggi e i campi CISV, attingono in gran parte dai classici pacifisti anni Sessanta (Bob Dylan, Beatles, Cat Stevens e dintorni) e sono raccolte in un canzoniere a disposizione di tutti i partecipanti, configurandosi come colonne sonore dei momenti più lieti.
Un importante elemento di novità presente nei campi per teenager rispetto ai villaggi è l’imprescindibilità di momenti di riflessione e autovalutazione al termine di ogni attività, durante i quali, seduti in cerchio, i ragazzi possono prendere spunto dall’esperienza ludica appena vissuta per discutere su temi di attualità o eticamente significativi ad essa riconducibili. Infine, generalmente una volta ogni settimana, viene indetto il camp meeting, una grande assemblea collettiva durante la quale i ragazzi possono proporre e mettere ai voti modifiche rispetto alle decisioni prese dai leader riguardo alla conduzione del campo: per portare alcuni esempi, tra i temi più ricorrenti emergono l’orario della buonanotte e del buongiorno, la frequenza delle attività e le regole della convivenza nelle camerate.
Nella direzione di una maggiore responsabilizzazione, affinché siano i ragazzi stessi a essere protagonisti della costruzione del loro campo, ogni giorno sarà una diversa delegazione a prendersi cura di svegliare tutti la mattina, pulire i tavoli dopo i pasti, dare gli annunci e gestire le adempienze più disparate. Nei villaggi come nei campi CISV, completano la proposta due gite di un’intera giornata, generalmente la prima di tipo culturale e la seconda per shopping, uno o due weekend in cui i ragazzi possono soggiornare presso famiglie del luogo, un open day durante il quale, viceversa, gli abitanti del posto vengono a fare visita, e l’impegno da parte di ciascuna delegazione a proporre un momento in cui, attraverso giochi, cucina, drammatizzazione o quant’altro, possano condividere con il gruppo un assaggio del proprio Paese e della propria cultura.
Le medesime attività e canzoni, ma anche uno stesso scheletro su cui impostare la programmazione giornaliera e settimanale comune a tutti i campi e villaggi, con i punti fermi ovunque uguali delle due gite, dell’open day e dei weekend in famiglia, gli assodati criteri nella composizione delle delegazioni, il regolamento, con i relativi divieti e concessioni, insieme con una bandiera da alzare al mattino e abbassare la sera cantando l’inno tutti in cerchio, mano nella mano, sono elementi che con grande efficacia riescono a trasmettere uno spirito di appartenenza al CISV e ai suoi valori, a livello individuale e collettivo. Da un lato, infatti, il singolo delegato, senza escludere leader e staff, si sente parte della famiglia allargata di tutti coloro che in quel momento, in ogni angolo del mondo, stanno partecipando a un’esperienza CISV, o che nel passato vi hanno partecipato; dall’altro, la stessa realtà del villaggio non viene a configurarsi come un’entità isolata, trapiantata un po’ per caso nel luogo in cui sorge, ma come un avamposto, al pari di altri, di un progetto più ampio, centro gravitazionale e punto periferico di una rete che si fa al contempo materiale e valoriale, tangibile e rassicurante.
Pur possedendo un logo, l’IYC non ha né bandiera né inno. Si configura come un’esperienza unica, le cui componenti, cioè le delegazioni dalle province gemellate, confluiscono per diciotto giorni, ogni estate, nel luogo prescelto, senza che in contemporanea altrove prendano vita iniziative ad esso collegate. La sua dimensione di continuità si dipana sul piano verticale della temporalità, piuttosto che su quello orizzontale della spazialità. Considerate l’età e la maggiore numerosità dei partecipanti, alla dimensione più pura del gioco viene preferita la potenza ludica, anticonvenzionale e aggregante delle arti creative. Successivamente ai primi momenti di conoscenza, già dal secondo giorno ai ragazzi viene richiesto di inserirsi in uno dei workshop proposti, al quale saranno tenuti a partecipare con frequenza quasi quotidiana, per l’intera durata del campo, per un totale di 36 ore.
Condotti da affermati professionisti, selezionati sulla base delle competenze tecniche, ma soprattutto sulla disposizione umana a sapere stare in mezzo ai ragazzi, anche al di fuori dei momenti di lavoro, ponendosi come figure di riferimento, i workshop afferiscono alle aree della danza, della recitazione, della musica, della pittura, dell’espressione corporea meno convenzionale (mimo, capoeira), della fotografia, della multimedialità, talvolta della pratica sportiva. Ogni anno viene scelto un tema a fare da sfondo integratore al lavoro di ciascun workshop, che sarà finalizzato a confluire nella messa in scena di uno spettacolo finale, una sorta di grande musical al cui interno ogni gruppo di lavoro avrà il suo spazio, guadagnandosi gli applausi della cittadinanza locale, debitamente invitata, dal momento che la proposta di questo spettacolo, tra le altre cose, è anche un modo per esprimere riconoscenza per l’ospitalità e la benevolenza dell’intera comunità indigena, la quale, al di là degli esiti artistici, non potrà esimersi dall’apprezzare lo spirito di grande amicizia, rispetto e complicità che si è venuto a creare tra i ragazzi.
Attorno ai workshop prende forma la schedule quotidiana e settimanale, altrettanto rigorosa rispetto a quella delle realtà CISV, caratterizzata dall’alternanza di momenti di lavoro, tempo libero e proposte culturali relative a cibo, lingua e arte del Paese ospitante. Non sono qui necessari camp meeting in cui discutere l’orario della buonanotte; dopo cena i ragazzi si scatenano nella discoteca interna al campo, da loro autogestita, sino alle due, poi ciascuno può scegliere di andare a dormire secondo coscienza, considerando che la presenza e la partecipazione attiva ai workshop il mattino seguente sono obbligatorie. Seppure non codificate, alcune tra le canzoni selezionate, cantate o ballate, ricorrono anno dopo anno: grandi classici e successi internazionali, ma anche, soprattutto, pezzi composti nei workshop di musica nei campi precedenti ed esibiti negli spettacoli finali, che entrano a fare parte dell’epopea dei vecchi campi, con annessi aneddoti, protagonisti, ricordi, spirito di appartenenza che il tempo trascorso fortifica. Completano la programmazione, ogni anno ripetuta simile a se stessa, una gita presso una città d’arte e un trekking di due giorni, a piedi o in canoa, con pernottamento sotto le stelle, collocato generalmente alla metà del campo, quando tra i ragazzi si è ormai sviluppato un affiatamento tale da permettere loro di condividere con più profondità questa esperienza di immersione collettiva nella natura, scenario ideale non solo per raccontarsi, confessarsi, aprirsi al di fuori di ogni sovrastruttura, ma anche per aiutarsi nei momenti di eccessivo sforzo fisico.
Pur afferendo a fasce di età differenti e ricorrendo a strumenti talvolta diversi (ma non troppo), CISV e IYC condividono i valori della pace e dell’imprescindibilità dello scambio interculturale e cercano di promuoverli inducendo i giovani a misurarsi con le esperienze concrete, per farli diventare responsabili dei loro vissuti; astenendosi da atteggiamenti di predica morale, propongono il contatto con le culture ospitanti e ospiti, di cui ognuno si fa rappresentante, per offrire l’opportunità di una maturazione autentica, individuale e comunitaria insieme, i cui effetti potranno protrarsi a lungo termine, a livello di mentalità e di agiti, perché alimentati da acume critico, libertà di pensiero e prospettiva internazionale.
Riprendendo le condizioni individuate da Allport affinché la pratica del contatto risulti positiva, quanto riportato fino a questo momento mette bene in evidenza come l’intrecciarsi di rapporti interpersonali approfonditi e la cooperazione in esperienze di successo siano componenti centrali dei programmi CISV e IYC; altrettanto presenti sono i rimanenti prerequisiti, eguale status e sostegno istituzionale, fortemente interconnessi nelle figure dei leader accompagnatori. Selezionati con attenzione tra giovani uomini con spiccate qualità relazionali, sono figure determinanti per l’instaurarsi della giusta atmosfera. Non sono genitori, non sono traduttori, non sono insegnanti, non sono fratelli maggiori, non sono nemmeno educatori in senso proprio, ma nello stesso tempo sono molto di tutto ciò. Certamente sono amici, giorno dopo giorno lo diventeranno sempre di più e, in quanto amici, persone con cui potersi confrontare liberamente, manifestare assenso o perplessità, confidarsi e richiedere rassicurazioni; vivono in mezzo ai ragazzi, ventiquattro ore su ventiquattro, in una situazione di inevitabile trasparenza in cui ogni loro comportamento viene conosciuto, interpretato, talvolta giudicato o emulato, in cui non è possibile nascondere le insicurezze o determinati tratti della personalità, perché inevitabilmente sono destinati a palesarsi molto presto.
Si portano appresso la responsabilità del benessere dei propri delegati, ragion per cui necessitano di essere ascoltati e obbediti, di vedere riconosciuta la propria leadership, cose che i ragazzi generalmente non faticano a fare, consapevoli dell’imprescindibilità di tali figure di riferimento, sempre pronte a intervenire nei momenti di difficoltà, a risolvere problemi, ad apportare ulteriore gaudio in situazioni già per sé piacevoli. I ragazzi hanno sotto gli occhi l’inesauribile lavoro quotidiano cui i loro leader si sottopongono per renderli felici, le molteplici occasioni in cui non risparmiano energie e voce per prendere parte alle attività, per essere costantemente in mezzo a loro.
Nasce in questo modo una comunità di giovani e giovanissimi, tenuta insieme dal rispetto reciproco, dalla riconoscenza, dalla profondità e dalla limpidezza dei rapporti, dalla condivisione di ogni momento della giornata, impreziosito perché vissuto come unico, irripetibile. Elementi decisivi per il successo di queste realtà sono una programmazione dai ritmi serrati, che non lascia spazio a noia e solitudine, nonché la percezione da parte di tutti di avere, nonostante i diversi compiti a seconda dei ruoli, eguale status, possibilità di trovare ascolto e dignità, affrancati dal saldo sostegno e dall’autorevolezza dell’associazione preposta all’organizzazione, nella fattispecie il CISV e le Province, rappresentata all’interno del campo da leader, staff e collaboratori.
Gli effetti a breve termine conseguenti alla partecipazione a campi e villaggi sono già evidenti nei prolungati abbracci e nelle contagiose lacrime durante l’ultima sera e nel momento dei saluti, cui seguiranno giorni, efficacemente ribattezzati come post camp depression, durante i quali i ragazzi, tornati a casa, ma fermamente intenzionati a partecipare ad altri campi negli anni successivi, spenderanno tutto il loro tempo rimpiangendo gli amici lasciati, raccontando a familiari e conoscenti le avventure appena trascorse, esaltando i valori dell’appartenenza al mondo e all’Europa, della comunicazione e dell’incontro tra culture, molto spesso sentendosi incompresi, percependo come le parole e le fotografie non possano bastare per fare capire la viscerale profondità e i significati più intimi di quell’esperienza. Nel frattempo, sulle rispettive pagine di Facebook impazzeranno tag, richieste di amicizia e messaggi d’affetto, così come le caselle di posta elettronica e i display dei telefoni cellulari si riempiranno di racconti relativi al ritorno a casa, a sentimenti di lacerante mancanza e promesse di incontrarsi presto, da qualche parte nel mondo; durante questi giorni, la forza dell’esperienza e il calore delle emozioni saranno tali da gettare nel dimenticatoio i precedenti stereotipi, pregiudizi, preclusioni.
Con il passare dei mesi, delle stagioni, degli anni, per alcuni le settimane al campo non rimarranno che un isolato ricordo, i messaggi ai vecchi amici una sporadica evenienza destinata a sfumare e gli stereotipi etnico-culturali una persistente tentazione; per altri, invece, nuove possibilità si apriranno. Si consolideranno amicizie che perdureranno negli anni, anche per tutta la vita, alimentate da cartoline, telefonate, momenti in chat sui social network ed e-mail, persino lettere cartacee per i più romantici; non mancheranno visite reciproche, appositamente programmate, magari in occasioni particolari quali compleanni o matrimoni, oppure inserite all’interno di viaggi nei Paesi in cui vivono gli amici.
La consapevolezza di trovare, in molti luoghi in Europa e nel mondo, persone sempre felici di essere riabbracciate fungerà da inesauribile stimolo per intraprendere viaggi secondo una prospettiva che esula dal mero divertimentificio dei villaggi turistici e dei tour organizzati, per valorizzare le dimensioni dell’incontro, della conoscenza interpersonale e interculturale, della sperimentazione esistenziale e linguistica. L’appartenenza alla comunità degli amici internazionali potrà perdurare, alimentata dai periodici contatti, allargando il gruppo alle nuove conoscenze che un’attitudine di questo tipo porterà a incontrare, lungo le strade di un’Europa e di un mondo percepiti come familiari, posseduti con cognizione e consapevolezza, anticorpi necessari per fronteggiare le insidie del pregiudizio e della violenza.
Nell’ambito CISV, non è raro imbattersi in ragazzi che, a cominciare dai villaggi all’età di undici anni, parteciperanno ogni anno ai diversi programmi loro proposti, sino a diventare, una volta maggiorenni, leader accompagnatori a disposizione dei nuovi giovani partecipanti, e poi genitori di figli che a loro volta sperimenteranno la partecipazione a questa realtà, custodi nel tempo di una storia decennale. Un altrettanto forte attaccamento all’IYC è dimostrato dalle immancabili visite che, in occasione degli ultimi giorni e dello spettacolo finale, i vecchi partecipanti ai precedenti campi riservano al campo in corso, conferendo continuità alla grande famiglia di coloro che hanno scelto di non fare di questa realtà un semplice episodio all’interno di una vita. Inoltre, da ormai dodici anni si perpetua la tradizione dei winter camp, veri e propri campi, ma privi di workshop, che i ragazzi organizzano in modo autonomo, con il sostegno logistico delle istituzioni provinciali, nel periodo compreso tra il Natale e l’Epifania, per potere salutare assieme l’arrivo del nuovo anno.
Se nel breve termine la partecipazione ai villaggi e ai campi internazionali certamente agisce come deterrente verso stereotipi e pregiudizi, è possibile evidenziare come, nel lungo periodo, tale effetto perduri in quella fascia di ragazzi che continueranno a prendere parte o comunque a rimanere in contatto coi programmi CISV e IYC. Non è possibile quantificare la numerosità di questi ragazzi, così come appare assai arduo riconoscere quanti, al di là dei comportamenti quotidiani derivati da visioni del mondo più aperte e dialoganti, si impegneranno in azioni concrete volte a promuovere e educare all’interculturalità. L’esperienza racconta che alcuni di loro intraprenderanno carriere in ambito educativo, sociale, politico e diplomatico, altri continueranno a impegnarvisi con il volontariato; qualcuno ha scelto di migrare altrove, qualcun altro addirittura ha sposato una persona conosciuta al campo, dando vita a una delle sempre più numerose coppie miste che popolano le città d’Europa.
Sono molti i ragazzi che hanno preso parte alle esperienze CISV e IYC, ma allo stesso tempo coloro che vi sono rimasti legati negli anni potrebbero essere non abbastanza, e non sufficiente, seppur lodevole, potrebbe essere lo sforzo che perpetuano per trasferire in altri contesti i valori appresi. Il rischio è quello di una sorta di autoreferenzialità di queste esperienze, di una non corrispondenza tra energie profuse e risultati su grande scala. Prendendo in considerazione l’estrazione sociale dei partecipanti, risulta evidente come prendano parte a esperienze di questo tipo i figli di famiglie di classe media, comunque benestanti, dalle vedute di per sé aperte e progressiste, più frequentemente di sinistra, antirazziste e aperte ai valori dell’intercultura. In modo particolare nel caso di parecchi partecipanti, soprattutto sudamericani e asiatici, ai programmi CISV, è un dato di fatto l’appartenenza alla minoranza ricca, bianca e privilegiata che occupa i ruoli di maggiore prestigio all’interno di Paesi in via di sviluppo, con comportamenti, modelli, riferimenti e stili che afferiscono alla dimensione transnazionale del consumismo globalizzato di stampo occidentale, palesando, nonostante la residenza in Paesi anche distanti tra loro, affinità di gran lunga superiori a quelle che potrebbero avere con la fascia più povera dei propri concittadini.
Viene da chiedersi se, anche senza avere partecipato ai campi, sulla base dei numerosi stimoli intellettuali e sulle disponibilità materiali che le famiglie possono garantire, questi ragazzi non avrebbero comunque sviluppato una mentalità avversa alle chiusure, così come sarebbe opportuno domandarsi quale effetti potrebbe produrre la partecipazione da parte di ragazzi di diversa estrazione sociale e di differente impostazione ideologico-culturale, se la formula così impostata con loro sarebbe ugualmente valida, se i risultati prodotti potrebbero contaminare altri ambienti, altri ambiti, altri strati sociali. In altre parole, aleggia il dubbio ventilato, tra gli altri, da Barry Troyna e Richard Hatcher (1993): sono i soggetti coinvolti in esperienze di contatto con membri di altri gruppi a manifestare meno pregiudizi, oppure sono soprattutto i soggetti che già in partenza hanno meno pregiudizi a decidere di impegnarsi in esperienze di questo tipo? Non essendo possibile fornire una risposta certa, non resta altro che sottoscrivere e ribadire la prima intuizione di Doris Allen, secondo cui, per costruire un mondo più pacifico e aperto all’integrazione tra le culture, occorre partire dai più giovani, accompagnandoli nella messa in opera di visioni del mondo aperte alla diversità, al pluralismo e allo scambio. Per condizioni familiari e possibilità di esperienze formative e di vita di assoluto interesse e prestigio, questi ragazzi hanno tutti gli strumenti per divenire la classe dirigente del futuro, rendendo lecita la speranza che possano avere, un domani, il potere e l’influenza necessari per avvicinare comunità sempre più vaste ai valori e alle priorità appresi nelle lunghe, indimenticabili estati passate nei villaggi in cui giocando si imparava la pace, l’amore e il desiderio di un avvenire migliore.
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