PROGETTO! SE CI SEI BATTI UN COLPO…
Andrea Canevaro
Quello che stiamo vivendo ci presenta parole che evocano problemi drammatici. Non riusciamo neanche a metterle in ordine, né a decidere i criteri per un’operazione di quel genere. È più importante l’emigrazione o la Siria? Il debito di molti Paesi o l’inquinamento? La corruzione o l’invecchiamento? La politica del lavoro o quella della scuola? E può capitare, anzi capita che l’indecisione circa i criteri domini, impegnando tempo ed energie, e paralizzando le nostre risorse.
Crediamo che il problema dei problemi abbia un nome: progetto. Che manca. E già qui qualcuno obietta: progetto non basta! Bisogna parlare di progetto sostenibile. È un buon suggerimento, più che un’obiezione. Ma arriva un’altra obiezione. Parliamo di progetto? Deve essere trasferibile. Giusto! Un altro suggerimento. Progetto sostenibile e trasferibile. Per poter rivedere la luce. Post tenebras, lux. Altra obiezione: parli latino? Nascondi male il tuo élitarismo. Giusto anche questo. Diciamo allora che un progetto potrebbe avanzare al buio e trovare un po’ di chiaro solo dopo un certo tempo. Pretendere che ci sia luce subito è pretendere troppo. E per creare un progetto occorre usare un linguaggio accessibile a tutti. Anche qui l’obiezione scatta, prevedibile. Come “tutti”? Tutte e tutti. Anche questa obiezione può diventare contributo. Un progetto sostenibile, trasferibile, comprensibile e… attento al genere. Va bene così? Non va bene. Arriva la seguente obiezione: siete troppo concilianti. Un progetto deve essere rottura con il passato e, quindi, conflittuale. E se dicessimo innovativo? E no! Vuoi sempre mettere a posto tutto con continui compromessi!
È chiaro che potremmo andare avanti su questo tono per tutto l’editoriale. Ma siccome non è questo il nostro obiettivo, vediamo di indicare alcuni punti emergenti, oltre ai suggerimenti accolti da chi obietta. Per un progetto è necessario:
- trasformare le obiezioni in suggerimenti, ricordandosi che un ostacolo può essere un punto d’appoggio;
- sopportare i conflitti, che permettono di avere più punti di vista e di misurarsi con le realtà, evitandone una rappresentazione riduttiva (una sola realtà). I conflitti sono il sale per la minestra: troppo è immangiabile e fa male. Niente, però…;
- avere un obiettivo, e fare in modo che ci siano segnali che lo ricordino a tutte e a tutti. Quei segnali sono come i segnali stradali. E le strade hanno aree di sosta. Chiamiamoli pure obiettivi intermedi.
Una rivista deve avere un progetto. E fare una rivista è anche fare un lavoro da artigiano. Esercitarsi nel bricolage, negli adattamenti alle realtà, e nelle semplificazioni. Un buon artigiano, e se ne conosciamo possiamo capire meglio, è anche un semplificatore. Incontra un problema che gli viene presentato come complicato. Nelle sue mani si trasforma in un problema risolvibile. Semplice. Dà speranze.
La speranza, dice il vocabolario, è attesa viva e fiduciosa di un bene futuro. Sembra qualcosa di casuale e che dipende dall’atteggiamento di chi la vive. Come si dice: c’è chi vede il bicchiere mezzo vuoto e chi lo vede pezzo pieno. Quest’ultimo avrebbe speranza. L’altro non l’avrebbe. Ma cosa ne può? Sembra che, messa così, la speranza sia come il coraggio di don Abbondio: c’è chi lo ha e chi non lo ha. Una virtù — una delle tre “teologali” —, un dono di natura…
L’etimologia del termine ci fa capire che contiene il “tendere a”, “aspirare”. Ma, si può dire, questo non cambia i commutati sostanziali della speranza: chi non tende a star meglio? E solo per questo vive la speranza? Una rivista non può vivere di speranze. Deve vivere anche di contributi che rispettino i tempi, le cadenze delle sue uscite. Il progetto di una rivista, come probabilmente ogni progetto, deve avere uno sguardo bifocale: il qui e adesso. E il laggiù in lontananza. Deve stare nel tempo e saper prendere tempo.
La speranza e il tempo. Molti studiosi — ma anche l’esperienza di tutti i giorni di chi non si qualifica come studioso e forse lo è — spiegano che il tempo ha una grande dipendenza dalla nostra percezione. Lo stesso tempo, in una giornata calda e afosa, non passa mai ed è insopportabile; in una giornata fresca e serena, trascorre troppo velocemente. Il tempo di una coda in autostrada è sempre troppo lungo. Lo stesso tempo, trascorso viaggiando in una bella strada sgombra in campagna, si esaurisce rapidamente lasciandoci l’impressione che sarebbe stato piacevole prolungarlo.
Intanto queste indicazioni ci hanno fatto capire che la parola “speranza” è connessa con il futuro. È difficile immaginare che qualcuno parli di speranza e sia rivolto al passato, per bello che sia stato. È piuttosto facile immaginare che, chi ha avuto un passato straordinariamente felice sia nostalgico. E come pensiamo la nostalgia in rapporto alla speranza? È facile immaginare che chi ha avuto una disgrazia possa pensare al passato come al tempo felice, e viva un presente con qualche rischio di depressione e con una certa difficoltà a immaginare un futuro felice. Però potrebbe, proprio per questo, vivere la speranza di superare le difficoltà del momento. Spera. Chi gli vive accanto non considera questa una vera speranza. È piuttosto una forte nostalgia. E perché? Proprio perché non contiene futuro ma passato.
Sperare è aprirsi al futuro. Magari, dice qualcuno. Facile da dire, ma non è per me. Una rivista apre al futuro. Ma cerca le radici nel passato. Fa un lavoro da funambolo, acrobata sul filo fra passato e futuro.
Altri possono essere sostenuti da una speranza confusa con la possibilità di avere un premio, una ricompensa.
La speranza è il tempo. Se il tempo ha una buona qualità, può contenere speranza. Questo significa che chi vive in un’emergenza continua, per carenze, povertà, oppressione, ha molte difficoltà a vivere la speranza, perché non ha davanti il tempo. E anche chi vive nella condizione di assistito in tutto e per tutto, senza pause, di assistito totale e puntuale, senza mai attendere neanche un bicchier d’acqua quando avesse sete perché chi assiste previene ogni suo bisogno, non vive il tempo e quindi non può vivere la speranza. I prigionieri dei campi di sterminio erano impediti nel vivere il tempo e quindi la speranza. Il loro tempo era di attese insensate, di fatiche inutili, e non aveva alcuna caratteristica per poterlo vivere con buona qualità. E questo era per impedire che si alimentasse anche solo un filo di speranza.
Ma cosa intendiamo per buona qualità del tempo? Forse diamo alla buona qualità un significato troppo ristretto e legato a condizioni impossibili. Le carte sono truccate e il clandestino che arriva da noi ritiene che la speranza sia determinata dal denaro, quale che sia la sia provenienza. Tenta la fortuna, anche nell’illegalità, per conquistare le condizioni che sembrano le uniche per poter avere speranza. E anche chi cresce, italiano in famiglia italiana, rischia di fondare la speranza sulle stesse condizioni. Forse entrambi, immigrato e italiano, non sanno vivere l’attesa. Non sanno neanche pensare che la speranza è il tempo. Sono convinti — una convinzione indotta — che speranza è avere ora, al più presto, quello che tanti sognano, e cioè denaro e poter far ciò che si vuole.
Speranza è il tempo e l’attesa. Ma se l’attesa è di qualcosa di impossibile, cresce la disperazione. Non si può attendere che un danno irreversibile si trasformi in una malattia e permetta una guarigione. Questa attesa diventa disperazione.
La nostra rivista vive elaborando un progetto. Il suo impegno la colloca in uno scenario, che può avere contaminazioni e collegamenti fecondi. Con l’orizzonte dell’ambiente, che contiene cibo, agricoltura, legalità… Incontra il Papa, Francesco, e la sua Enciclica Laudato si. Incontra carichi umani, profughi che, grazie (!) a una legge, diventano clandestini. Può fare qualcosa? Può impegnarsi in un suo — della rivista — progetto che, oltre a fare acrobazie funamboliche fra carta stampata e prodotto virtuale, voglia essere anche un contributo per un progetto più grande, utile per quei problemi evocati all’inizio? Ce lo auguriamo, e ce la mettiamo tutta per non fermarci qui.
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