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“PERCHÉ HO SCELTO QUESTA SCUOLA?” RIFLESSIONI SU DROP-OUT E ORIENTAMENTO SCOLASTICO. Il progetto europeo Success At School (SAS) through Volunteering

Fulvia Antonelli

Phd in Antropologia culturale, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. Si occupa di seconde generazioni, antropologia dell’educazione e antropologia urbana.


Abstract

L’insuccesso scolastico è una delle cause principali dell’esclusione sociale e professionale fra i giovani. Sebbene le cause siano molteplici e complesse, i giovani che hanno abbandonato la scuola identificano nell’educazione tradizionale e nell’incapacità di sentirsi inclusi e apprezzati i motivi principali della loro disaffezione e del loro disimpegno a livello scolastico. Ciò spinge a cercare soluzioni al problema che siano innovative e incentrate sui giovani. Il pedagogista francese Philippe Merieu ha parlato di una “pedagogia della deviazione” che abbia l’obiettivo di impegnare i giovani fornendo loro proposte educative alternative, come ad esempio la partecipazione ad attività che vadano oltre la scuola, per riconciliarli con essa attraverso esperienze di apprendimento informali. Attività di questo tipo, che includono ad esempio il mentoring scolastico o fra pari, permetterebbero ai giovani di apprendere in modi alternativi importanti abilità e competenze.



Il volontariato come approccio pedagogico alternativo

 

Il progetto SAS [1] ha proposto l’implementazione di un approccio pedagogico fondato su un’esperienza positiva condotta fuori dalla scuola e sull’apprendimento informale — in particolare attraverso la partecipazione ad attività di volontariato  — come strategia educativa nella lotta contro la dispersione e l’insuccesso scolastico. Il progetto ipotizzava che un’esperienza di volontariato avrebbe permesso ai giovani che vivevano con disagio l’esperienza scolastica di acquisire e/o sviluppare abilità e competenze utili per ritornare a scuola o inserirsi, in modo più consapevole e autonomo, nel mondo lavorativo. Il volontariato è parte dell’apprendimento non formale/informale supportato dal processo di Copenaghen, che si è occupato di un rafforzamento della cooperazione europea nel campo dell’Istruzione e Formazione Professionale. [2]

In particolare il progetto SAS si è posto come obiettivo quello di utilizzare il volontariato per dare un’opportunità ai giovani di sviluppare competenze all’interno dell’associazionismo. L’attività di volontariato attraverso e all’interno di un’associazione permetterebbe ai giovani di mettere in pratica la conoscenza teorica appresa a scuola, di arricchire ed espandere le proprie reti sociali, di acquisire o sviluppare abilità e competenze sociali e professionali. Esso concorrerebbe al rafforzamento dell’autostima nei giovani e a costruire un’immagine positiva di se stessi, spesso difficile da mantenere in una situazione scolastica caratterizzata dall’esperienza dell’insuccesso.

Allo stesso tempo, il progetto SAS puntava a individuare forme di riconoscimento formale da parte della scuola delle esperienze formative alternative acquisite attraverso l’impegno nel volontariato.

 

Obiettivi del Progetto SAS

 

L’obiettivo principale del Progetto Comenius “Success at School through Volunteering” (SAS) è stato quello di proporre ai giovani colpiti dalla dispersione scolastica e che vivono in aree urbane difficili un corso di formazione incentrato su un approccio pedagogico alternativo; allo stesso tempo, il Progetto si è impegnato nella costruzione di un pacchetto formativo sul mentoring rivolto agli adulti che lavorano con questi giovani lungo tutto il percorso dell’esperienza, in modo da valorizzarne il coinvolgimento volontario e l’identificazione delle competenze e abilità rilevanti acquisite/acquisibili attraverso il volontariato.

La ricerca ha permesso di riflettere su come non tutte le esperienze di volontariato possano essere “occasioni formative” in grado di coinvolgere i ragazzi con disagio scolastico e su come sia necessario svolgere un preliminare lavoro di selezione delle associazioni in base allo specifico percorso scolastico e ai profili e alle inclinazioni dei ragazzi. D’altra parte, valorizzare il coinvolgimento in attività di volontariato e i valori ad esse associati (solidarietà, altruismo, scambio) enfatizzando la dimensione educativa dell’impegno associativo (apprendimento informale e non formale), sottolineare la dimensione sociale dell’esperienza di volontariato (apprendimento di valori, resistenza all’esclusione sociale e promozione dell’integrazione), ma anche la sua dimensione professionale attraverso un riconoscimento formale, significa aprire la scuola al territorio e alla necessità di nuove forme educative e formative per i ragazzi in difficoltà scolastica.

Fare formazione attraverso l’esperienza in associazioni di volontariato ha significato inoltre sostenere la dimensione culturale di un’esperienza di volontariato (scambio e dialogo interculturale), aprendo i ragazzi a un’esperienza che costituisce un modo per esercitare attivamente la propria cittadinanza (attraverso l’apprendimento delle regole formali di funzionamento di una associazione, delle procedure di voto democratiche che ne regolano le scelte, della partecipazione collettiva alle decisioni da parte degli iscritti, delle forme di welfare locale che sostengono le attività di promozione dei diritti civili e sociali da parte delle associazioni).

 

La sperimentazione a Bologna

 

Nell’implementazione del progetto SAS in Italia e nello specifico nella realtà urbana di Bologna, l’équipe di ricerca ha cercato di adattare il progetto europeo alla specificità del contesto metropolitano bolognese, caratterizzato dalla presenza di un’alta densità di associazioni di volontariato ma anche, più in generale, di promozione alla cittadinanza attiva. Si è scelto di coinvolgere nell’esperienza di incontro con i ragazzi delle scuole superiori, in particolare con gruppi a rischio di dispersione e di insuccesso scolastico, quelle associazioni non esclusivamente rivolte alla cura, all’assistenza o alla beneficienza per le persone in difficoltà, ma che lavorano nel campo della promozione della cultura e dei diritti come Libera, ArciGay, Casa delle Donne per non subire violenza, Piazza Grande, Associazione Kundalini Yoga. Si è peraltro scelto come campo di ricerca una specifica realtà urbana — il quartiere del Pilastro a Bologna —, utilizzando una prospettiva di analisi che rilegge il disagio scolastico nelle sue connessioni con la realtà urbana e sociale in cui è inserito.

Attraverso il progetto, le associazioni sono così divenute delle “stanze educative” in cui i ragazzi sono stati accompagnati dai loro mentors,[3] ovvero persone capaci di seguirli nella loro esperienza, nel costruire un senso di gruppo e nell’aiutarli a ritradurre la loro esperienza fuori dalla scuola in termini di apprendimenti e competenze personali valutabili anche nel contesto scolastico.

All’interno della scuola in cui è stata ancorata la sperimentazione SAS, un Istituto Professionale che partecipa al sistema dell’Istruzione e Formazione Professionale (IeFP), alla fine del primo anno di scuola 78 ragazzi su 180 studenti iscritti nelle prime classi hanno presentato una domanda di preiscrizione ai centri di Formazione Professionale (FP).

Dei 78 ragazzi che hanno seguito il percorso di riorientamento: 43 studenti hanno seguito il percorso scolastico normale in attesa di concludere l’anno e di passare alla formazione professionale; 22 hanno frequentato la scuola normalmente ma ogni venerdì hanno seguito laboratori direttamente dentro i centri di formazione a cui si erano prescritti; a 13 studentesse è stato proposto un percorso individuale e di gruppo alternativo a causa della loro situazione di conclamata dispersione scolastica (molte non erano già a scuola da diversi mesi) ed è nel lavoro con quest’ultimo gruppo che la scuola ha cercato la collaborazione con l’Università di Bologna e con il progetto europeo Comenius SAS.

Il percorso sperimentale costruito per quest’ultimo gruppo ha fatto sì che le ragazze in questione abbiano frequentato la scuola per 3 ore 4 giorni alla settimana dal lunedì al giovedì, con una didattica sperimentale organizzata per assi culturali e svolta da insegnanti provenienti dai centri di formazione professionale e la partecipazione dell’educatore dei servizi scolastici del Quartiere San Donato per monitorare e garantire la cura educativa e la relazione scuola-servizi del territorio. Il percorso si è avvalso anche di due educatori tirocinanti sempre in affiancamento alle insegnanti e di un ricercatore nella classe con funzione di progettazione e coordinamento delle attività fra scuola/territorio/associazioni; il percorso è stato pertanto realizzato da un’équipe mista scuola/Università/servizi territoriali, formata da tutti i soggetti coinvolti dalla ricerca (e fin qui nominati) e la partecipazione di uno psicologo della scuola responsabile dell’orientamento e della docente responsabile della funzione strumentale antidispersione.

L’équipe di ricerca si è riunita mensilmente con attività di progettazione, monitoraggio e documentazione dell’esperienza, a cui si sono aggiunti anche incontri con i referenti dei centri di formazione professionale all’inizio, durante e alla fine dell’esperienza. L’équipe universitaria, sulla base dell’esperienza svolta sul territorio, ha elaborato un modello sperimentale che è stato proposto agli altri Paesi partner partecipando agli incontri internazionali di coordinamento previsti dal progetto europeo, che hanno permesso di condividere — attraverso il confronto con realtà culturali e politiche molto diverse tra loro — non solo un impianto sperimentale ma soprattutto una riflessione sul disagio scolastico di dimensione europea.

La sperimentazione didattica del percorso costruito con le 13 ragazze è stata frutto del lavoro di questa équipe e oggetto di report quotidiani e di momenti di formazione specifici organizzati dall’Università con diversi soggetti che si occupano di disagio sociale e educativo: la Onlus Maestri di Strada, il Teatro dell’Oppresso, insegnanti esperti sui temi della dispersione scolastica e dell’educazione al genere, il tavolo interistituzionale provinciale sulla dispersione scolastica, gli educatori dei servizi scolastici e educativi del Comune di Bologna. Inoltre ogni venerdì le 13 ragazze, come gli altri ragazzi in riorientamento, hanno seguito i corsi direttamente nella Formazione Professionale.

Il risultato di frequenza scolastica è stato molto positivo per 9 ragazze, mentre un gruppetto di 4 ragazzi non è rimasto agganciato dentro il percorso individuale antidispersione. Si è trattato di 3 ragazze e 1 ragazzo di origine sinti residenti in un campo nomadi nel Quartiere di Borgo Panigale. Nel loro caso l’insuccesso del progetto è stato provocato dalla distanza della scuola dal luogo di residenza dei ragazzi; dalla mancanza di un servizio di trasporti in grado di facilitare la frequenza dei ragazzi; dalla mancata mediazione con le famiglie da parte dei servizi del Quartiere.

Le ragazze che hanno partecipato al percorso individualizzato e, in gruppo, al laboratorio di riorientamento hanno frequentato la scuola nella maniera classica per i primi 4 mesi. Quando sono emerse le loro forti difficoltà “a stare in classe” o semplicemente a frequentare la scuola secondo i suoi ritmi regolari, è stato proposto loro un percorso individuale — concordato con loro e con i genitori — che potesse offrire loro la possibilità di non perdere un anno di scuola, di fare un percorso di riorientamento scolastico e di costruire un “passaggio” solido verso la Formazione Professionale. Poiché le ragazze avevano mostrato durante l’anno un rifiuto completo della scuola, in particolare soffrendo delle sue tempistiche e delle modalità organizzative, il laboratorio di riorientamento è stato organizzato come un momento di stand by dalla consueta routine scolastica, di calma dalle tensioni e dai conflitti che si erano generati fra loro e la scuola, predisponendo un lavoro di aggancio educativo e di ritessitura di una relazione di fiducia interrotta fra loro e il mondo degli adulti e della scuola.

Lo spazio del laboratorio è stato pensato non come soluzione “standardizzata” per tutti i ragazzi in riorientamento, ma come una soluzione ad hoc per particolari situazioni di disaffiliazione che le ragazze vivevano e per offrire loro una risposta educativa “negoziata” e processuale.

Le ragazze avevano tutte provenienze, situazioni socio-economiche e ragioni di drop-out differenti. Non si è lavorato formando un gruppo che radunasse delle alunne in base a qualche particolare categoria: non erano tutte di origine straniera, nessuna aveva bisogno di sostegno linguistico L2, nessuna aveva ricevuto una certificazione o una segnalazione per disturbi dell’apprendimento, la maggioranza di loro non proveniva da famiglie segnalate ai servizi sociali… insomma c’era nel laboratorio una pluralità di situazioni. A caratterizzare tutte le ragazze è stata la situazione di conclamato abbandono scolastico e il loro rifiuto delle proposte educative e scolastiche alternative già presenti nella scuola.

Il laboratorio di riorientamento, attraverso le sue molteplici figure professionali e saperi messi in campo, ha lavorato su ogni singola ragazza costruendo un percorso individualizzato, ma ha anche cercato di costruire un gruppo di lavoro in cui le ragazze imparassero a cooperare, ad apprendere insieme, a costruire una socialità equilibrata con adulti e coetanei. Ci sono stati momenti collettivi (ad esempio le lezioni di yoga a cui hanno partecipato), uscite e visite presso associazioni del territorio, ma anche momenti di colloquio e percorsi individuali costruiti a scuola e sostenuti anche fuori dalla scuola da insegnanti e educatori (ad esempio attraverso lo Spazio Giovani).

L’intenzione iniziale mantenuta durante tutto il percorso è stata quella — attraverso le attività svolte nel laboratorio — di aumentare la loro autostima, farle sentire capaci di affrontare l’impegno scolastico, valorizzare le loro competenze formali e informali, offrire loro esperienze di alto profilo culturale e sociale, coinvolgendo soprattutto le associazioni del territorio attraverso le visite e gli incontri svolti nelle loro sedi.

Il laboratorio — consapevole dei rischi di etichettamento e separatezza propria a un’esperienza focalizzata su un gruppo di ragazze in dispersione e con forti problemi disciplinari — è sempre stato uno spazio aperto all’ingresso e alla partecipazione delle altre alunne, così come degli insegnanti che volevano partecipare e osservare le attività che venivano svolte comunque dentro la scuola. In occasione di un lavoro di volontariato svolto con le 9 ragazze dentro la scuola — la tinteggiatura e la decorazione dell’aula dove le ragazze svolgevano parte delle loro attività —, altre alunne provenienti da altre classi hanno chiesto di partecipare ai lavori e, con l’accordo dei loro insegnanti, sono state inserite nel gruppo su questa specifica attività. Allo stesso modo le ragazze del laboratorio hanno partecipato ad attività comuni con ragazze di altre classi. Non c’è stata quindi separatezza fra loro e il resto della scuola, ma si sono manifestati molteplici momenti di incrocio e una certa fluidità nell’utilizzo degli ambienti scolastici.

Alla fine dell’anno è stato organizzato un momento di restituzione collettiva alla scuola delle attività svolte dalle ragazze — una mostra fotografica, un piccolo rinfresco — perché si creasse l’occasione di una simbolica conciliazione del conflitto che aveva caratterizzato lo stare a scuola di queste ragazze che hanno lasciato così in dono alla scuola uno spazio ristrutturato per gli studenti futuri. Allo stesso tempo alla conclusione dell’anno è stato organizzato un momento di riflessione collettiva fra insegnanti, educatori e ragazze sul senso, i problemi, il valore dell’esperienza fatta insieme e consegnato loro un “giudizio”, inteso soprattutto come un incitamento ad accogliere con coraggio e senza rassegnazione e senso di fallimento le sfide formative e educative che le avrebbero attese in futuro.

A un’analisi complessiva, il progetto europeo SAS realizzato — ispirandosi alla metodologia della ricerca-azione — costituisce un contributo alla riflessione sugli interventi antidispersione potremmo dire “di natura metodologica”. Le caratteristiche che sono state considerate come innovative nell’esperienza del Progetto riguardano una forte collaborazione con il territorio (che nel tempo deve portare all’individuazione di un gruppo di associazioni in grado di garantire continuità nei percorsi di interazione e di partenariato con gli istituti scolastici, dando visibilità a tali percorsi di collaborazione e contribuendo alla crescita di prestigio delle scuole che si impegnano in una relazione significativa con la città e la sua ricchezza di iniziativa sociale organizzata dai cittadini, promuovendo così il valore dell’associazionismo in campo educativo); uno specifico modus operandi riguardo l’organizzazione e il coordinamento delle attività fra dentro/fuori la scuola attraverso un approccio processuale condiviso dal gruppo dei mentors e, infine, il monitoraggio dell’esperienza attraverso la messa in campo di momenti di riflessività/supervisione che si avvalgono di posizionamenti diversi (ricercatori, insegnanti, formatori, volontari, educatori dei servizi territoriali), al fine di connettere in modo forte il lavoro educativo con le attività didattiche. In questo senso l’équipe universitaria si è resa disponibile ad aumentare i propri spazi di riflessione nella direzione di tradurre concretamente in situazioni specifiche un sapere troppo spesso vissuto come “teorico”, a immaginarlo e sperimentarlo dentro esperienze didattiche e educative riflessive e consapevoli, e allo stesso tempo a imparare, fare tesoro e offrire spazi di condivisione collettiva e di valorizzazione dei saperi che educatori e insegnanti — attraverso pratiche ed esperienze quotidiane — hanno saputo costruire nel tempo.

I centri di formazione professionale che collaborano con la scuola devono essere pensati come uno dei possibili sbocchi di un’attività di riorientamento più vasta che deve inventare e ricercare anche altri percorsi formativi e scolastici, non come “de-rubricamento” del percorso formativo “dominante”. Per alcuni il percorso di riorientamento potrebbe consistere nel riposizionare i ragazzi dispersi dentro la stessa scuola, componendo i conflitti che hanno generato la disaffiliazione scolastica, fornendo ai ragazzi già nei primi anni di scuola una pluralità di competenze che spesso essi non riconoscono come spendibili nel mondo del lavoro; per altri il riorientamento potrebbe significare la scelta di una scuola più adatta alle proprie inclinazioni, scoperte durante un anno scolastico in cui è stato possibile con loro costruire un solido percorso di conoscenza di sé.

 

Fuori/dentro la scuola: saper orientare attraverso le relazioni educative

 

La persistenza e la diffusione dell’analfabetismo non solo nelle società arretrate ma anche in molte popolazioni avanzate, in particolare nel nostro Paese, è uno degli argomenti che si è riproposto negli ultimi anni a favore di un rafforzamento della formazione scolastica. In realtà si tratta di un argomento che evidenzia il fallimento della forma-scuola tradizionale e della fiducia illuminista nel potere emancipatorio dell’istruzione. […] Tutto questo non può suscitare le solite geremiadi contro politiche tradizionali colpevoli di avere voluto mantenere le masse nell’ignoranza, né la celebrazione consueta degli apprendimenti cognitivi che la scuola avrebbe posto in secondo piano a vantaggio di generiche finalità educative. Non tanto perché, oltre a non sapere né leggere né scrivere, sono diffuse forme ancora più inquietanti di analfabetismo sociale ed emotivo, quanto piuttosto perché un fenomeno così radicale chiama in causa i significati costitutivi della formazione umana, chiedendo di ripensare in modo inaudito il dispositivo dell’istruzione scolastica. (Harrison e Callari Galli, 1997, p. 163)

 

L’esperienza realizzata con il progetto SAS ci ha permesso di considerare come la dispersione scolastica non sia che il segnale, proiettato dentro la scuola e dentro le traiettorie di vita dei giovani, di una crisi economica e sociale, ma anche culturale e formativa, che coinvolge l’intero territorio al di fuori di essa. Il disinvestimento scolastico delle famiglie e dei giovani ha a che fare con un senso di demoralizzazione sociale diffuso, una sorta di rassegnazione per cui ai ragazzi che rinunciano alla scuola è evidente che nessuna formazione professionale mette al riparo dalla disoccupazione, che si prospetta come una condizione ormai maggioritaria vissuta dai giovani. Le storie di precarietà lavorativa vissute da molti dei genitori dei figli che sono più esposti al rischio dell’insuccesso e dell’abbandono scolastico costituiscono inoltre per questi giovani una precoce socializzazione a una condizione di classe segnata da una forte subalternità sociale e incertezza economica. Alla già difficile realtà del mercato del lavoro si aggiungono i limiti di un’attività di orientamento che spesso paga il prezzo di visioni troppo circoscritte all’ambito scolastico [4] e la realtà poco attraente di percorsi di formazione spesso standardizzati e nati in epoche in cui il fenomeno di ri-orientamento alla FP aveva caratteristiche molto diverse (basti pensare alla sola dimensione quantitativa). Questa attività somiglia al gioco in cui alcuni pezzi di legno di varie misure geometriche e colori devono essere incastrati in appositi spazi, ma a volte sembra di avere per le mani pezzi che non hanno forme previste e chi orienta ha la sgradevole sensazione di spingere con un martello a forza dentro una forma ragazzi dalla geometria irregolare. Come avviene con Gemma, [5] un’impressionante testa di capelli rasta, jeans larghi, felpa scura alle ginocchia e infiniti piercing infilati fra orecchie, lingua e sopracciglio:

 

R: Perché hai scelto questa scuola?

G: Perché credevo mi piacesse la grafica, a me piace disegnare… e poi sapevo che questa scuola aveva dei laboratori di fotografia e mi sembrava una cosa interessante…

R: E perché non ti piace adesso questa scuola?

G: Perché i laboratori di fotografia da quest’anno li hanno tolti perché non c’erano i soldi per farli e ho scoperto che a me la grafica fa schifo, anzi è la materia che odio di più soprattutto perché non mi prendo con l’insegnante che è rigida, se gli chiedi di rispiegarti una cosa non ha mai tempo… e a me mi pare di non capire niente. Poi non mi trovo bene con gli altri, c’è gente diversa da me in questa scuola, non riesco a legare, non trovo la mia balotta.

R: Ehm… e cosa ti piacerebbe fare?

G: La tatuatrice, c’è un mio amico da cui vorrei andare a imparare ha un negozio dove li fa…

R: Sì, magari potresti scegliere una scuola che ti aiuta a sviluppare il tuo lato creativo e artistico e poi eventualmente utilizzarlo nel lavoro di attuatrice, se rimane questa la tua intenzione…

G: Sì, ma non ho più voglia di studiare, mi pare troppo difficile fare il liceo artistico, meglio fare il professionale, tipo parrucchiera o cuoco.

R: Sì, ma in entrambi questi indirizzi, ovvero quello di addetto alle cure estetiche o di operatore della ristorazione, ti faranno assolutamente tagliare i capelli o togliere i piercing!

G: Non ci penso nemmeno, trovami un’altra scuola, una qualsiasi! (Gemma, 14 anni)

 

Attività che permettono di uscire dai confini della scuola e di conoscere i ragazzi più nel profondo, al di là delle loro maschere o delle loro identità feticcio, sono utili per provare a immaginare con loro possibili proiezioni di sé nel futuro.

La scuola con i ragazzi a rischio dispersione ha il compito soprattutto di accrescere la loro creatività: frutto della scarsità di esperienze culturali che la famiglia è in grado di offrire e che la società fornisce loro solo in forma mercificata, la povertà di immaginari che sembra caratterizzare gli adolescenti attuali è il maggiore ostacolo al lavoro di orientamento.

In questo senso la possibilità di avvicinare i ragazzi ai mondi delle associazioni culturali, di volontariato e di promozione sociale li aiuta a costruire repertori di esperienze utili per esplorare se stessi, i propri desideri, le proprie abilità e inclinazioni nutrendo la propria crescita e la propria autonomia.

Ma la scuola è ancora uno dei campi possibili per l’espansione dell’esperienza culturale dei giovani? Può guidarli in una serie di percorsi che non sono solo di istruzione ma anche di formazione personale complessiva? Non è una pratica rassicurante quella di favorire lo sprigionamento della libertà di immaginazione da parte dei giovani, o il loro pensiero divergente: potrebbe infatti accadere che, disponendo di visioni che vanno oltre l’esistente, ci si ritrovi con ragazzi alle prese con più radicali “disadattamenti” piuttosto che a ragionevoli aggiustamenti/adattamenti creativi nella realtà attuale, e cioè che in sostanza essi inizino e mettere in discussione gli spazi in cui inserire le forme eccentriche e non le forme eccentriche stesse, così come la scuola sembra avere fatto sinora.

 

 

 

Bibliografia

 

European Commission (2014), Education and Training – Monitor 2014, ec.europa.eu/education/monitor

Frisanco R. (2001), Terza rilevazione FiVol 2001 sulle organizzazioni di volontariato, Roma, Edizioni FiVol.

Gazzetta Ufficiale (2001), Certificazione nel sistema della Formazione Professionale, Gazzetta Ufficiale 17/6/01.

Guerzoni G. e Riccio B. (2009), Giovani in cerca di cittadinanza. I figli dell’immigrazione tra scuola e associazionismo: sguardi antropologici, Rimini, Guaraldi.

Harrison G. e Callari Gallli, M. (2007), Né leggere, né scrivere, Roma, Meltemi.

Meirieu P. (1995), Apprendre... oui, mais comment?, Paris, ESF.

SAS Success at School (2014), Una ricerca-azione su dispersione e orientamento scolastico: tra scuole e territorio, Bologna.

Isfol (2002), Dossier documentale dei Laboratori territoriali sulla certificazione delle competenze, Roma, Isfol.

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (2014), Linee guida nazionali per l’orientamento permanente.

 

 

 

 

 

[1] Il Progetto europeo Comenius “SAS-Success at School” — (http://www.successatschool.eu/), Project 526187-LLP-1-2012-FR-Comenius CMP — nasce dalla collaborazione di sette équipe di sei diverse nazioni europee: Gran Bretagna (University of Northampton), Francia (Associazione Assfam e centro di ricerca Iriv), Italia (Università di Bologna), Portogallo (Centro di ricerca Cies-Uil), Slovenia (Istituto Ergo), Bulgaria (New Bulgarian University). Nel corso del biennio 2012/2014 è stato coordinato dal gruppo di ricerca di Antropologia Culturale (coordinamento scientifico: Giovanna Guerzoni; componenti dell’équipe di ricerca: Fulvia Antonelli, Francesca Crivellaro, Federica Tarabusi), con l’obiettivo di sperimentare percorsi di intervento in favore del successo scolastico dei ragazzi dai 14 ai 20 anni attraverso nuove sinergie fra scuole e territorio, promuovendo, in particolare, il ruolo delle associazioni e del volontariato. La cattedra di Antropologia Culturale del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna è da molti anni impegnata con diverse attività di ricerca riguardo ai problemi della scuola, alle trasformazioni urbane e sociali del territorio, alla sfida rappresentata dall’accoglienza dei ragazzi di origine straniera e delle loro famiglie nei servizi educativi e sociali della città.

[2] Dichiarazione dei ministri europei dell'istruzione e formazione professionale, e della Commissione europea, riuniti a Copenaghen il 29 e 30 novembre 2002, su una maggiore cooperazione europea in materia di istruzione e formazione professionale.

[3] Nello specifico i mentors sono stati i ricercatori e alcuni studenti tirocinanti della Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione e i docenti della scuola coinvolta dalla ricerca.

[4] A dispetto di indicazioni ministeriali di tutt’altro tenore cfr. “Linee guida nazionali per l’orientamento permanente”, MIUR 21/02/2014.

[5] I nomi utilizzati nell’articolo sono ovviamente di fantasia.



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