Esperienze
MI CHIAMO DRAGA. Dalla storia personale alla riflessione interculturale
Draga Petrovic
Studentessa della facoltà di Scienze della Formazione di Bologna, dal suo elaborato di tesi per il corso di laurea Educatore nei servizi per l’infanzia, è stato tratto il presente articolo.
Abstract
In un articolo autobiografico l’autrice analizza la sua esperienza di studentessa serba e rom, declinando nella quotidianità ciò che significa affrontare stereotipi e pregiudizi, ma anche trovare un delicato equilibrio nella costruzione, mai del tutto conclusa, della propria identità. L’analisi autobiografica ci porta a conoscere i processi interculturali propri dei figli dell’immigrazioni, generazione cross dalle mille sfaccettature.
Mi chiamo Draga, sono nata e cresciuta in Italia precisamente a Bologna. I miei genitori sono nati e cresciuti in Serbia, sono immigrati in Italia dall'ex Jugoslavia negli anni '90 per scappare dalla guerra e in cerca di fortuna. Appena arrivati in Italia si stabilizzarono in campi abusivi a Bologna, nel 1993 si spostarono a Sasso Marconi in un campo nomade gestito dal comune di Bologna.
Sono cresciuta in questo campo fino ai 12 anni, dopo abbiamo avuto una casa popolare nel quartiere Navile. Quando descrivo il mio campo lo paragono a un campeggio perché in entrambi i posti ci sono roulotte, bagni, cucine e docce comuni; nel mio campo c'era anche una specie di vecchia stalla composta da varie camere, ogni camera era la casa di una famiglia. La mia casa si trovava davanti alla cucina comune, dove si cucinava insieme e, se si era in buoni rapporti, ci si scambiava le pietanze. In casa c'erano un letto matrimoniale, un divano letto, uno o due letti singoli, un armadio, tavolo sedie, frigo, tv… insomma tutto quello che c'è in una casa normale. Il mio campo offriva anche il servizio scolastico, il Comune aveva dato un furgone per l'accompagnamento a scuola (infanzia, primaria, secondaria di primo grado) che io e tutti i bambini del campo abbiamo frequentato.
Nel 2005 abbiamo avuto la casa dal Comune, una casa a due piani con 4 camere da letto, una sala e una piccola cucina. Essere “uscita” dal campo mi ha permesso di conoscere nuove persone e realtà e soprattutto di farmi conoscere. Fino alla prima superiore mi vergognavo di essere “zingara”; quando qualcuno mi chiedeva da dove venivo dicevo solo che ero serba, questo perché avevo paura di essere esclusa e giudicata male. Oggi, invece, ci tengo a dire che sono zingara soprattutto per rompere i classici pregiudizi e stereotipi: che gli zingari rubano, non si lavano e non studiano.
Nel 2008, per mia scelta, sono stata affidata ai servizi sociali e sono stata in un gruppo appartamento (comunità per minori) per quattro anni. Stando “lontano” dalla cultura in cui sono stata cresciuta pensavo che avrei dimenticato o ripudiato le mie radici. Invece non ho dimenticato nulla a partire dalla lingua, che è uno degli elementi più significativi di appartenenza a un gruppo, ai valori, alla cucina fino ad arrivare alle tradizioni, anzi, allontanarmi mi ha fatto capire quanto siano importanti per me le mie radici culturali perché mi hanno permesso di capire che oggi sono come sono proprio grazie alle contaminazioni del popolo Rom, del popolo Italiano, del popolo Ivoriano e così via, tutto ciò grazie alle persone che ho incontrato nel mio percorso.
Per la particolarità della mia storia proverò a ripercorrere alcuni vissuti che riguardano il mio cammino perché sono convinta che riconoscere le proprie origini e i propri riferimenti culturali aiuti molto ad affrontare il presente e il futuro.
Costruire l'identità
Il primo episodio che voglio raccontare risale a quando iniziai la scuola materna a Borgonuovo, paesino situato nei pressi di Sasso Marconi. Ricordo che la scuola era frequentata da bambini del campo, pochi bambini di origini marocchine e bambini del luogo.
L'episodio che sto per descrivere è avvenuto in un corridoio, per essere precisi nel punto in cui si trovavano gli attaccapanni. Un giorno, mentre mi stavo togliendo la giacca, la maestra mi si avvicinò e mi chiese: “Dragana, ti aiuto?”. Lei era gentile ma il nome che aveva pronunciato non era il mio e questo mi procurò un grosso fastidio. Con voce ferma, ricordo di avere risposto dicendo “io non mi chiamo così!”. Purtroppo non riesco a ricordare per quanto tempo mi abbia chiamata così, ricordo solo che dopo un periodo iniziò finalmente a chiamarmi usando il mio vero nome, Draga.
Oggi, dopo avere affrontato un percorso di studi e avere avuto la possibilità di essere stimolata a fare diverse riflessioni, mi chiedo: che cosa comporta sbagliare il nome di un bambino nella società odierna? Come costruisce la propria identità un bambino “straniero” nato in Italia che vede il suo nome in lingua d'origine sostituito da nomi “italiani” o “italianizzati”?
Il nome di una persona è un simbolo portatore di diverse informazioni, un nome può indicare la provenienza culturale, può avere un significato religioso, può indicare un momento decisivo della storia familiare, ma anche semplicemente gusti e preferenze personali.
L'identità, essendo anche questione di simboli e appartenenze, le quali ci faranno sentire più vicini a un “simile” e più distanti da un soggetto diverso, dà valore a quelle esperienze che vengono vissute come simili e come diverse. Nella cultura serba, quando nasce un bambino, vengono avvertiti i padrini, che propongono tre nomi; tra di essi ne viene scelto uno dai genitori e i miei scelsero Draga, il nome di mia nonna.
Mi sono chiesta più volte perché la mia maestra sbagliasse il mio nome e, dopo diverse riflessioni, sono giunta a diverse possibili ipotesi. La prima è stata: non l'ha capito e pensava che Draga fosse un soprannome? Oppure non le piaceva il mio nome, e forse non comprendendolo ha cercato di italianizzarlo. Ho anche ipotizzato che la maestra non avesse mai avuto modo di parlare con i miei genitori. E credo che tale ipotesi sia quella più probabile, dal momento che le maestre effettivamente non hanno mai avuto un vero colloquio con i miei genitori, una “scelta” che non so a chi attribuire. In quel periodo ci portava a scuola un pulmino del Comune, quindi i miei genitori non avevano un contatto quotidiano con la scuola. Inoltre i miei genitori non parlavano italiano, probabilmente sia loro che le insegnanti avrebbero avuto difficoltà comunicative.
Nell'osservare le pratiche quotidiane di accoglienza dei bambini “stranieri”, ho spesso pensato che se le insegnanti avessero avuto un colloquio con i miei genitori, prima che io iniziassi la scuola, probabilmente quella maestra non avrebbe sbagliato il mio nome. Certo il mio nome è poco usato in Italia e questo avrebbero potuto richiedere del tempo per renderlo più familiare sia alle maestre che ai compagni, ma ugualmente importante sarebbe stata la “pronuncia” corretta.
Urie Bronfenbrenner, psicologo, delineò il modello ecologico individuando l'ambiente di sviluppo del bambino come tanti cerchi concentrici, legati tra loro da relazioni. L'esosistema è costituito dall'interconnessione tra due o più contesti sociali. Un esempio di esosistema è costituito dal rapporto tra la vita familiare e il lavoro dei genitori.
Con il modello ecologico lo studioso individuò l'importanza della relazione da instaurare con chi e tra chi si prende cura del bambino nei diversi contesti per assicurarne uno sviluppo psicofisico equilibrato. Questa interazione di sistemi, nella mia esperienza di bambina, posso affermare che non c'è stata, per questo alcuni aspetti del mio percorso identitario sono stati non del tutto connessi tra di loro.
Mi sono chiesta perché proprio Dragana e non Draga? Sono diverse le bambine serbe-zingare che si chiamano Dragana e forse l'insegnante ne aveva già avuta qualcuna alla quale io sono stata “collegata”. Questa ipotesi l'ho fatta solo a questo punto della mia vita e dei miei studi. E sento che questa ipotesi “comprende” maggiormente il punto di vista dell'insegnante, è meno “conflittuale” delle precedenti, è più vicina alla ricerca di un incontro. Un incontro negatomi dalla logica separazionista presente anche nei contesti scolastici e che, purtroppo, ho avuto modo di conoscere quando frequentavo la scuola elementare e abitavo in un campo “nomadi” (anche se eravamo tutti stanziali).
Il campo nomadi come istituzione è nato negli anni ’70, con l’obiettivo di dare una risposta al problema dei Rom visti ancora come popolo itinerante. Ma quel che è certo è che i mestieri che facevano dei Rom e dei Sinti un popolo nomade sono scomparsi con l’industrializzazione, e con loro anche il ruolo che avevano i Rom nella società. La grande maggioranza dei Rom e dei Sinti, da tempo, non sono nomadi ma sedentari (Pavlovic, 2012, p. 203). Infatti, quando da piccola le persone mi dicevano sei nomade io non capivo all’inizio, pensavo che fosse dovuto alla mancanza di tale termine nel mio vocabolario, ma una volta conosciuto il significato rispondevo sempre: “No! Io sono nata qui e sono sempre stata qui, i miei genitori si sono spostati solo una volta dalla Serbia per venire in Italia”, anche perché in Serbia i miei genitori e i miei nonni abitavano in una casa, con diverse stanze, una cucina, i bagni e anche un giardino. Diversi Rom rumeni e Rom slavi da secoli nei rispettivi paesi vivono nelle case e per loro i campi nei quali sono costretti in Italia non rappresentano una scelta, ma una necessità imposta dalle condizioni di povertà (ibidem, p. 204).
Per raggiungere la scuola il Comune aveva organizzato un trasporto che consisteva in un furgone a nove posti, blu scuro, che ogni mattina faceva varie corse per portare noi bambini nelle rispettive scuole e ogni pomeriggio ci riportava a casa. Siccome eravamo bambini che andavano in diverse scuole elementari, quelli della mia scuola sono stati iscritti al tempo prolungato, attivo per tutti i bambini dell'istituto. Solo dopo avere studiato l'approccio separazionista ho capito perché noi bambini del campo stavamo in un’aula diversa da quella in cui stavano tutti gli altri bambini iscritti al tempo prolungato. Solo ora che sono una giovane adulta capisco che ai tempi, le operatrici, o chi per loro, ci consideravano molto diversi dagli altri, talmente diversi da non poter entrare in contatto con i bambini autoctoni.
Questo approccio, a mio parere, è quello che porta a conseguenze più gravi sia per un bambino che per il suo genitore perché spinge e proietta verso la stigmatizzazione del gruppo minoritario e, soprattutto, non offre un modello di integrazione, non mette in atto il rispetto per l’altro e soprattutto sostiene la paura in quanto non consente la conoscenza reciproca e l’incontro possibile.
Mi sono spesso chiesta se la mia appartenenza al gruppo Rom possa definire la mia identità. Far parte di un gruppo significa condividere costumi, credenze e abitudini. Fare parte di un gruppo vuol dire non essere soli, avere un senso di protezione e, come confermato da Bauman (2007, p. 31), «la voglia d'identità nasce dal desiderio di sicurezza».
Ciò che determina il senso e il valore d'appartenenza a un gruppo è dato dall'influenza che esso ha nei confronti delle persone stesse. Esistono diversi gruppi di appartenenza, quello familiare, quello amicale, quello scolastico, quello religioso, quello sportivo, ma quello di cui tutti ci dimentichiamo e al quale tutti (ogni persona sulla terra) apparteniamo è il gruppo dell'umanità.
Come scrive Amin Maalouf (2005, p. 11), «ciò che mi rende chi sono come sono e non diverso è la mia esistenza tra due paesi, fra due o tre lingue, fra parecchie tradizioni culturali. È proprio questo che definisce la mia identità».
L’identità dunque è costituita da una moltitudine di elementi e appartenenze. Quando mi chiedono: “ti senti italiana o serba?”, io rispondo che mi sento Draga; quando dico così intendo dire che la mia identità è costruita sia da mattoni serbi, sia da mattoni italiani e non solo.
Io sono cresciuta tra due culture diverse, a partire dal modo di vestirmi, dal cibo, dalla lingua parlata alla musica ascoltata e, nonostante la loro diversità, sono riuscita a farle coesistere.
Anche se non sempre consapevolmente, sia da parte mia (quando ancora ero piccola) sia da parte degli adulti intorno a me (genitori e insegnanti), sono cresciuta con un occhio aperto alla pluralità e alla diversità. Ciò mi ha permesso di mettermi a confronto con diverse realtà; di conseguenza mi ha dato modo di scegliere di integrare, di modificare e di adattare i tanti elementi delle due culture alla mia persona.
Dall’età di 3 anni, ho iniziato ad andare a scuola dove si parla italiano, si mangia in modo italiano, si scrive in italiano; ma fin dalla nascita sentivo e parlavo un'altra lingua in casa, mangiavo cose diverse da quelle che mangiavo a scuola… e tutte queste cose mi hanno permesso, nella mia vita di giovane adulta, di scegliere quali tradizioni portare avanti, quale lingua parlare e quale religione professare. Fin da piccola ho imparato a unire entrambe le culture e un esempio concreto è rappresentato dal cibo. Spesso mangio un bel piatto di pasta (che appartiene alla cucina italiana) e lo condisco con una spezia serba, oppure cucino il paprikas (un piatto a base di patate serbo) e ci aggiungo il grana padano. E nelle festività? Faccio lo stesso, è capitato poche volte che la Pasqua “italiana” e la Pasqua “serba” coincidessero. Fin da piccola ho festeggiato entrambe. La Pasqua italiana veniva celebrata con un piccolo pranzo in famiglia e con un uovo di cioccolato da dividere con le mie sorelle; per la Pasqua serba, invece, ci si organizzava con l’intero gruppo parentale e si festeggiava mangiando tutti insieme e giocando con le uova sode colorate. Apparentemente sembra che al festeggiamento serbo sia data più importanza rispetto a quello italiano, ed è in effetti così! I miei genitori ci compravano l’uovo di cioccolato solo per emulare l’usanza italiana; invece alla Pasqua serba veniva dato più valore poiché è una tradizione della cultura serba che permette ai miei di farli sentire a casa e di ricordare a noi “piccoli” le nostre origini.
Bisogna imparare a valorizzare ogni mattone usato per costruire la propria identità per sentirsi sicuri e protetti e ogni mattone viene messo più in evidenza a seconda dei diversi momenti della vita.
Identità e bilinguismo
Quando ho iniziato a frequentare la scuola materna conoscevo pochissime parole in italiano, poiché a casa con i miei genitori io e le mie sorelle, fin quando non siamo andate a scuola, parlavamo in serbo e in romané. Progressivamente ho arricchito il mio lessico italiano con espressioni e parole che non appartenevano più soltanto al campo delle esigenze impellenti, come la fame, la sete o la pipì; in tal modo ho acquisito la capacità di affrontare una conversazione vera e propria. L'italiano lo imparai grazie alla scuola ma non solo, di grande aiuto mi furono anche la televisione e le mie sorelle poiché tra di noi parlavamo solo in italiano, tranne quando non volevamo essere capite dagli italiani.
Ogni tanto provavamo a parlare anche con mio padre in italiano, ma lui ci troncava fin dalla prima parola dicendoci: “Io non sono italiano, non capisco quella lingua, parlami in serbo o in romané”. Da piccola non capivo perché sia lui che mia madre ci imponessero la lingua serba e romané, ma oggi che sono grande gli sono grata perché, grazie a questo loro atteggiamento, parlo italiano, serbo e romané.
La lingua è tra le appartenenze che ci appartengono, in cui ci riconosciamo, una delle più determinanti. Essa è il segno identitario di un gruppo, ed è segno di orgoglio. «La lingua ha la meravigliosa particolarità di essere insieme fattore d'identità e strumento di comunicazione» (Maalouf, 2005, p. 123). Perché mio padre non voleva che con lui parlassimo in italiano? Mio padre voleva che con lui parlassimo in serbo e in romané per due motivi: per “ricordarci” chi siamo e per sottolineare l'appartenenza alla cultura Rom che è una cultura orale, trasmessa tramite la parola non scritta da generazione a generazione.
Si parla di bilinguismo quando si possiede la capacità di esprimersi in lingue differenti, usando le parole di Silvana Contento (2010); il bilingue non è identificabile esclusivamente come colui che parla due lingue, ma va concepito come colui che possiede capacità verbali e comunicative nelle due lingue per esposizione ad esse, cioè colui che è capace, a diversi livelli, di capire, parlare, leggere e ascoltare nelle due lingue Perciò il soggetto bilingue manifesta la capacità di usare contemporaneamente due lingue e di utilizzare un sistema coordinato di usi linguistici.
In passato si temeva il bilinguismo sia perché si osservava nei bambini un certo ritardo linguistico sia perché si temeva che potesse provocare confusione nel bambino. Oggi gli studi dimostrano i molteplici vantaggi del bilinguismo. Sembra che i bambini bilingue sviluppino diverse competenze come la precoce consapevolezza dell’esistenza un altro punto di vista, grazie alla capacità di usare due registri linguistici diversi, una maggiore sensibilità comunicativa, rispetto ai monolingue, come conseguenza della scelta della lingua in base al contesto e al referente, e anche una maggiore flessibilità cognitiva (Bialystock, Craik e Ruocco, 2006; Bialystock, Majumder e Martin, 2003; Bonifacci e Snowling, 2008).
Noi educatori abbiamo il compito di valorizzare le potenzialità e le opportunità dei bambini di cui ci prendiamo cura e il nido, concepito come ambiente che stimola la relazione con adulti non appartenenti alla famiglia e con bambini della stessa fascia d'età, può concretizzare una situazione favorevole e valorizzare le capacità linguistiche del bambino. Inoltre è nostro compito comunicare al bambino che la sua lingua, la sua tradizione, le sue origini sono importanti tanto quanto la lingua e le tradizioni autoctone.
Purtroppo anche le lingue subiscono stereotipi e pregiudizi derivanti dallo status di importanza che viene dato loro dalla società. Esistono lingue più prestigiose, come l'inglese, il francese, il tedesco e oserei dire al giorno d'oggi anche il cinese e l'arabo, e lingue screditate come il serbo, il romané, il filippino, il peruviano e così via. Potrò sembrare ripetitiva ma ci tengo a sottolineare l'importanza all'apertura mentale verso ogni tipo di lingua, soprattutto da parte di noi educatori, perché la considerazione che abbiamo di una lingua viene trasmessa consapevolmente o meno al bambino anche attraverso rappresentazioni sociali, idee, immagini e impliciti culturali.
Dall'esperienza personale alla riflessione
Stai attento che se no gli zingari ti rubano! è un modo di dire che indica e simboleggia diversi stereotipi. Lo stereotipo che induce a credere che gli zingari rubano i bambini è molto probabilmente lo stereotipo che mi produce maggiore fastidio; quando sento pronunciare questa frase ogni volta interrompo, chiedendo: “ma perché dovrebbero prendere i figli degli altri, hanno già i loro!”. Probabilmente con il mio intervento alimento un secondo stereotipo, ovvero che gli zingari hanno tanti figli (che è vero, anche se negli ultimi anni sta avvenendo un cambiamento e il numero dei figli per famiglia piano piano sta diminuendo). Il popolo Rom ha come asse portante la famiglia e soprattutto i figli ai quali, nel bene e nel male, cercano di non fare mancare niente. Come sostiene Diana Pavlovic (2012 p. 198), «il furto di bambini è una cosa crudele per un popolo che fa dei figli e della famiglia il cuore della propria vita».
Da quando ho finito il secondo anno delle scuole superiori, ho iniziato a esplicitare in contesti diversi (amici, scuola) le mie origini zingare per cercare nel mio piccolo di incrinare l'immagine fissa e stereotipata che le persone possiedono di una/un zingara/o. Per me tale decisione è stata il mio piccolo contributo alla lotta contro i pregiudizi e gli stereotipi rivolti alla mia comunità d'appartenenza. A volte mi chiedo: “Come reagiranno i genitori degli alunni a cui farò da educatrice, quando conosceranno le mie origini?”. Se immagino la scena, vedo persone che cambiano espressione del viso e altre che iniziano a dire: “Ma tu non sei come loro!”. Questa è la tipica frase che le persone con pregiudizi, direi nel mio caso “razziali”, utilizza quando non riesce ad “accettare” le mie origini, in quanto troppo simile a loro e troppo diversa dall'immagine di “zingara”. È come se io fossi l’eccezione; per la maggior parte delle persone non è possibile che io sia Rom perché non rispecchio l’immagine che si sono costruiti del Rom (ancora di più, credo, perché sono femmina).
Com'è possibile che sia Rom? Ma perché non porta la gonna? È andata a scuola, lavora, non ruba, non puzza... Queste sono le domande e le affermazioni che risuonano quando si parla degli zingari. La mia intenzione è quella di non nascondere le mie origini, ma di dichiararle ai genitori, ai responsabili del servizio e ai miei futuri colleghi, ovviamente considerando il contesto, il momento e l'occasione più appropriata. Prevedo di imparare a gestire il momento dell'informazione e le eventuali reazioni di diffidenza nella situazione reale, tenendo sempre in considerazione il mio ruolo di educatrice e la relazione professionale con i colleghi e i genitori.
Per ora mi auguro che il fatto di essere Rom e dirlo apertamente non mi penalizzi, anzi spero e proverò a fare in modo che sia un'opportunità, un’occasione di valorizzazione delle minoranze e “simbolo” di una relazione aperta con tutte le persone che vivono quotidianamente nel servizio (bambini, genitori, colleghi, ecc.). Tendenzialmente in contesti formali (lavorativi) e informali (nuove amicizie), quando conosco una nuova persona, inizialmente mi faccio conoscere come Draga, nata in Italia da genitori serbi; a man mano che la conoscenza va avanti, dichiaro la mia appartenenza alla comunità Rom.
Uno dei modi per “sconfiggere” lo stereotipo e il pregiudizio è quello di informare, far sapere, conoscere e farsi conoscere dichiarando la propria disponibilità alla pluralità. Io, Draga, sono la prima della mia famiglia (intesa come madre, padre, sorelle e fratello) a essermi diplomata e laureata, ma ho diversi cugini che si sono diplomati. Dopo la scuola media la mia intenzione era quella di abbandonare la scuola e andare a fare un corso di formazione di bar-pasticceria, ma per mia fortuna una settimana dopo l’inizio della scuola superiore (settembre 2007) un'insegnante mi chiamò dicendomi che dovevo andare a scuola già dal giorno dopo e che, se non ci fossi andata, avrebbe chiamato i carabinieri. Il fatto che l’insegnante abbia chiamato direttamente me e non i miei genitori per me è stato molto importante in quanto, forse azzardando un po’, mi sono sentita responsabile delle mie scelte. Così pochi giorni dopo la telefonata ebbe inizio il mio percorso alle Aldini Valeriani Sirani. Durante tutto il primo anno di superiori ero convinta di abbandonare presto la scuola, dovevo solo aspettare di fare i 15 anni per effettuare l’iscrizione al corso per diventare pasticcera.
Un giorno ebbi una discussione con l’insegnante che mi aveva chiamato mesi prima per farmi iniziare le superiori e una sua semplice frase mi aprì un mondo: “Draga, sei una ragazza petulante ma anche molto intelligente. Hai tante potenzialità! Vedrai che sarai la bandiera bianca della famiglia Petrovic”. All’inizio, anche se la frase mi aveva colpita, non avevo ben compreso il suo significato profondo. Eppure, a mano a mano che si avvicinava la fine della scuola, mi accorsi che il mio rendimento scolastico era migliorato drasticamente al punto tale che avevo raggiunto la sufficienza in quasi tutte le materie, tranne in due per le quali poi fui rimandata a settembre. A quel punto nacque nella mia testa la seguente domanda: “E adesso cosa faccio? Continuo le superiori o faccio il corso?”. Nel prendere la mia decisione riflettei e cercai di confrontarmi con tantissime persone, adulti e coetanei, e anche se molti dei miei amici e cugini zingari fecero il corso per diventare pasticceri, io scelsi di continuare le superiori finché non sarei stata bocciata. Per fortuna questo non si verificò mai!
Un evento e un incontro casuale possono cambiare il percorso di vita di una persona, perciò io mi auguro di essere un giorno una di quelle persone significative che, nel proprio piccolo e nella propria quotidianità, lasciano un segno nella vita di un'altra persona.
Il genitore, l’educatrice, l’insegnante e il gruppo dei pari sono persone significative nel periodo dello sviluppo e tutte persone con cui si crea una relazione in grado di sostenere, valorizzare ma anche svalutare, sottomettere. Io, in quanto educatrice, mi propongo di diventare un punto di riferimento valorizzante per ogni bambino. Vorrei essere capace di trasmettere quel benessere e supporto affettivo di cui noi tutti, adulti e bambini, abbiamo bisogno per vivere in pieno la nostra vita senza avere timore della nostra diversità. Essere diversi non significa essere esclusi, valere di più o di meno rispetto all'altro, ma vuol dire semplicemente essere differenti.
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