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Esperienze

LA RELAZIONE: L’OVVIO DI CUI NESSUNO SI OCCUPA

Massimiliano Anzivino

Massimiliano Anzivino, psicologo di comunità, consulente e mediatore dei conflitti. Da oltre 15 anni lavora con le scuole e enti pubblici e privati in progetti di formazione e consulenza personale e organizzativa.


Abstract

In questo articolo tratterò il tema della relazione interpersonale come strumento di lavoro in vari ambiti che si occupano di sociale. Il punto di osservazione è la mia esperienza professionale quale operatore e consulente psico-educativo in scuole, enti pubblici e privati. Si analizzeranno in modo sintetico le caratteristiche della relazione, gli elementi che ne rendono difficile la definizione e l'utilizzo, oltre a quelli che ne permettono la nascita e la manutenzione. Verrà poi dedicato uno specifico spazio all'ambito scolastico e a come le relazioni in tali organizzazioni tendano a sfilacciarsi, dando luogo a una serie di problematiche molto comuni. Tratteremo quindi come esse possano sciogliersi grazie a un lavoro che rimetta al centro, in maniera più o meno esplicita, i legami tra le persone. L'idea trasversale a tutto il testo è l'importanza di riconnettere, all'interno dei diversi sguardi professionali e delle modalità di intervento, l'attenzione ad alcuni bisogni specifici dell'essere umano.



Relazioni: difficili, invisibili

 

In ambito educativo si usa spesso la parola relazione: assunta come strumento principe di molte azioni, la relazione attraversa buona parte del lavoro quotidiano e delle pause di riflessione tra professionisti implicati in svariate progettualità nel sociale. Su questo pochi dubbi: da sempre l'educazione si propone come facilitatrice del passaggio da una condizione all'altra, spesso da una situazione di svantaggio o immaturità verso una di maggiore presa di consapevolezza e rispetto dei propri diritti. «Il cambiamento educativo», secondo Duccio Demetrio, «è un progetto ambizioso, un incidere, un graffiare intenzionalmente la vita individuale per lasciarvi un impronta visibile» (Demetrio, 1990, p. 32).

Come concretamente dare corpo a questo mandato non è facile da descrivere, poiché immerso all'interno di un universo di beni intangibili difficili se non impossibili da misurare, vedere e comprendere. La relazione è uno di questi elementi intangibili, per di più considerata al contempo strumento e obiettivo di lavoro: è attraverso la relazione che possono avvenire certi cambiamenti e, d'altro canto, lo stesso prendere forma della relazione costituisce un esito dei processi attivati. Stiamo quindi parlando di un elemento per sua natura complicato da afferrare e che facilmente può divenire parola vuota, dal significato superficiale.

Se ci muoviamo verso l'ambito psicologico ritroviamo le medesime difficoltà con l'aggiunta, nelle professioni che ad esso si richiamano, di un mandato ancora forte di cura, mutuato o affine a un modello medico. Si tratta di un modello che, per quanto consapevole dell'importanza di integrare la cura del corpo e della mente con vitamine relazionali, tende a perdere di vista gli elementi che permettono di costruirle e somministrarle. Ciò avviene forse a causa del sovraccarico lavorativo, della fatica emotiva di stare a contatto con la sofferenza, della possibilità di utilizzare anche altri strumenti: pensiamo al farmaco in ambito medico, ma anche ai test, alle diagnosi, alle tecniche comunicative per i vari profili psy. È evidente, per chi si rivolge a interventi sanitari, come spesso ci si senta oggetti, pezzi di corpo o patologie con le gambe, proprio perché l'attenzione si sposta su aspetti legati alla prestazione e alle procedure, ma anche perché siamo umani e il dolore, il disagio e le emozioni negative sono duri da digerire e da gestire sia per l'esperto che per l'utente.

Per chiudere il cerchio sappiamo come il modello socio-economico-culturale nel quale siamo immersi si concentra su aspetti (a volte considerati valori) quali successo, potere, prestazione: tutti elementi che, per essere cavalcati a dovere, mettono in ombra, o proprio da parte, la cura dei rapporti interpersonali, la costruzione di relazioni significative. Sottolineo l'aggettivo “significative” perché spesso ci dimentichiamo che non basta essere gentili e accoglienti per essere coautori di una relazione ma accorre ben altro, un'opera ben più articolata e complessa.

Oggi si fa un gran parlare di comunità, di reti, di partecipazione: parole che richiamano il bisogno di riattivare o consolidare relazioni tra le persone, gridano un malessere che spesso non ha nome e chiarezza e ricerca consolazione in immagini di passato o futuro ideali, dove le persone si aiutano, condividono, si supportano e proprio per questo sono felici. C'è un bisogno fortissimo di ritrovare umanità nel mondo, nell'incontro quotidiano con gli altri per non sentirsi svuotati di una dimensione tanto essenziale dell'essere umano. Come sostiene Rogers: «La natura dell'uomo è rivelata nelle relazioni inter-personali». [1]

 

Tempo e informalità: ingredienti della relazione

 

Cosa vuol dire relazione? Mi piace rispondere così: la relazione è la costruzione di legami tra le persone. Si tratta di legami che hanno a che fare con le esperienze vissute insieme, con la storia comune, con le nostre parti emotive, con il sentirci accolti e rispecchiati, ascoltati e rispettati nella nostra unicità e nel nostro essere quello che siamo di rogersiana memoria. Come arrivare alla costruzione di tali legami è strettamente connesso, tra gli altri, a due elementi in particolare: il tempo e l'informalità.

È evidente quanto una relazione abbia bisogno del tempo per costruirsi e consolidarsi. Ci vuole tempo per conoscersi, per capirsi, per fare esperienza insieme, per mettersi alla prova, per attraversare i momenti difficili, per celebrare e fissare quelli positivi. Serve tempo per comprendere i diversi punti di vista, le differenti visioni del mondo, per superare le mille automatiche paure dell'altro che ci difendono dall'essere feriti, umiliati, derisi, ingannati, sfruttati. Ci vuole tempo per tenere in ordine la relazione, per puntellarla quando scricchiola, per sostenerla quando evolve, per nutrirla quotidianamente, per tenerla viva anche nelle possibili lunghe pause e separazioni, per aggiustare le normali incrinature che le relazioni comportano, per attraversare la fatica e la profondità dei conflitti come esperienza vitale, per imparare a comunicare quello che siamo davvero. La relazione ha bisogno di ripetitività, di continuità e gradualità, non ama la fretta, la superficialità. Senza tali condizioni difficilmente nascono e si consolidano i legami necessari a dare corpo alla relazione, a costruire quella reciprocità che rende fertile l'incontro.

Invece, quando parlo di informalità (altro elemento che considero fondamentale quando parliamo di relazione), non intendo riferirmi a un modo di rapportarsi che non tenga conto o rifiuti il rispetto dei ruoli, la forma appunto, che non voglia riconoscere le identità, i mondi e le organizzazioni che una persona rappresenta. Piuttosto con questo termine identifico l'attenzione ai piccoli gesti, ai minuti e apparentemente insignificanti dettagli, alla consapevolezza che dietro a qualsiasi ruolo esiste una persona. Spesso invece ci comportiamo come se di fronte a noi ci fosse una funzione, un essere inanimato fatto di regolamenti o un tramite istituzionale, come se potesse davvero esistere una presenza di questo tipo, astratta, irreale. Quante volte ci accorgiamo che è proprio dalle sbavature, dalle pieghe degli scambi formali, dai piccoli contatti al caffè, dagli imprevisti che si sbloccano le situazioni, si muovono aspetti che apparivano cementificati; si ritrovano come per magia le condizioni per poter lavorare e procedere insieme, superare impasse, costruire finalmente i primi legami e consolidarli man mano. Non si tratta di una manipolazione, di un uso strumentale di accorgimenti tesi a ingannare l'altro, per portarlo dalla nostra parte. Si tratta bensì della consapevolezza che molto transita da quei canali e che la relazione richiede in primis, per essere efficace e duratura, una messa in gioco personale e una buona dose di sincerità e autenticità.

Forse comincia ad apparire con maggiore chiarezza cosa renda le relazioni merce tanto rara, una complicata alchimia di cui nessuno ha in realtà così voglia di farsi carico o un'idea chiara di come tradurla in termini concreti. La cronica mancanza di tempo della nostra epoca e la nostra difficoltà a connetterci con noi stessi formano il perfetto mix che uccide le relazioni fin dalla culla, le rende finte, sintetiche, confuse ed equivocate con faticosi e odiosi obblighi di lavoro. Per questo non possiamo concentrarci su tecniche da seguire per costruire relazioni quando molto, invece, riguarda la sguardo personale: la nostra capacità di conoscerci e fare spazio all'altro, di vedere la persona e la relazione come due aspetti complementari e inscindibili. «All’inizio è la relazione» ci ricorda Martin Buber (1993, p. 72) nella sua filosofia dialogica.

 

Al di là delle ricette: la ricerca personale e il gioco della fiducia

 

Come orientarsi allora in un questo mondo complesso? Come divenire consapevoli costruttori di relazioni? Temo che non esistano ricette di facile consultazione e applicazione. Esistono forse degli spunti o della tracce da tenere a mente, da considerare con coraggio e con spirito di ricerca più che come detentori di soluzioni. Cercherò comunque di attingere all'esperienza diretta di consulente per delineare in modo concreto alcune piste di riflessione. Ritengo ci siano due elementi principali da mettere a fuoco: da una parte il legame tra la ricerca personale e la capacità di stare in relazione, dall'altra i processi implicati nella costruzione della fiducia.

Credo che ogni persona abbia un forte bisogno di riconoscimento, senta la necessità di essere vista, considerata, di vivere negli occhi e nell'attenzione degli altri. Per questo motivo considero essenziale in ogni incontro interpersonale lo sguardo che si ha sull'altro che deve tenere insieme la comprensione, l'empatia, l'accettazione ma soprattutto la consapevolezza della fragilità e dei limiti umani. Non è uno sguardo facile da sostenere perché richiede, come precondizione essenziale, che tutte queste attenzioni siamo prima di tutto dedicate a se stessi. Essere empatici e comprensivi con se stessi e con le proprie parti sgangherate è impresa ardua, mai data una volta per tutte, che ci accompagna tutta la vita e richiede spesso contesti appositi e sostegno di guide o di gruppi. Entriamo cioè nell'alveo della ricerca personale quale prerequisito dell'incontro con l'altro.

Ogni persona inoltre ha bisogno di testare la propria fiducia, di mettere in qualche modo alla prova il suo interlocutore. Si tratta di specie di test, fatti non sempre consapevolmente, ma estremamente importanti per cominciare a costruire i gradini di una scala di conoscenza reciproca. Per questo motivo è fondamentale fornire elementi che possano dare corpo a tale fiducia: non parliamo di detenere solamente competenze professionali, ma anche di fornire aiuto nei momenti difficili, accogliere con pazienza in altri, incontrarsi personalmente faccia a faccia con calma e più volte per lasciare alla fiducia il tempo di soddisfarsi. È pur vero che la fiducia è una materia dispettosa, poiché quanto più è delicata la sua costruzione tanto più veloce è la sua distruzione; quanto più è articolato il puzzle dei dettagli che la sostengono, tanto più è misero e sciocco l'evento che può minarla alla base. Inoltre, per quanto ci sforziamo di comprenderla, la fiducia conserva pur sempre un alone di intangibilità, un legame forte con una dimensione quasi spirituale nella quale l'unica reale strategia è lasciarsi andare, credere.

Le relazioni quindi entrano all'interno di livelli intimi, interiori, irrazionali per certi versi; utilizzano campi da gioco con regole tanto semplici all'apparenza, quanto oscure nel momento di metterle in pratica. Proprio in questo aspetto sta un ulteriore elemento di complessità che ne moltiplica la percezione di inconsistenza e ne rende tanto difficile l'utilizzo.

 

Scuola: un mondo in crisi relazionale

 

Mi sono spesso domandato perché le organizzazioni scolastiche si presentino, operino e si strutturino frequentemente in modo tanto restio alla relazione. Ciò avviene non solo nei confronti di esperti esterni, che possono rappresentare interlocutori scomodi, sconosciuti e con etichette professionali verso le quali si sprecano i pregiudizi e i malintesi. La scuola è restia alla relazione in generale: tra colleghi, tra genitori, tra insegnanti e genitori, tra studenti, tra adulti e ragazzi, tra apparati amministrativi. Quello che emerge è una quantità enorme di persone e di possibili e spesso necessarie relazioni che il più delle volte non funzionano bene o, a detta degli stessi protagonisti, non danno soddisfazione, creando malessere e problemi.

Probabilmente il peso dell'istituzione si fa sentire, con la sua storia secolare, con i suoi apparati di controllo, con le rigide burocrazie, i continui cambiamenti organizzativi. Così resta poco alla relazione: i rapporti tra le persone si piegano alla forza di tali processi adeguandosi e incarnandosi a mano a mano inesorabilmente nella formalità, nel rispetto delle procedure e dei ruoli. È come se lentamente i legami tra le persone venissero soppiantati e resi invisibili da un surplus di aspetti spesso considerati insensati e irrazionali ma nonostante ciò estremamente efficaci, quasi attraenti verrebbe da dire. Questo accade nonostante non mi sia mai capitato di vedere un lavoratore o un utente della scuola essere contento di tale situazione, dal momento che tutti auspicano invece di poter incontrare davvero le persone, di vivere esperienze significative con i colleghi, gli studenti e le loro famiglie.

Qual è il motivo di tale stato delle cose? Proviamo a sondare, tra le tante, alcune ipotesi.

Credo che buona parte del problema sia dovuto all'usura relazionale. Abbiamo già accennato alla quantità enorme di persone e di potenziali relazioni possibili in un luogo come la scuola, un luogo che per sua stessa vocazione dovrebbe concepire la relazione come elemento cardine perché al suo interno le persone dialogano, si scambiano informazioni, si ascoltano, devono costruire legami per ottenere i reciproci obiettivi. In un'unica mattinata il numero delle interazioni che ogni persona intrattiene sono tantissime; si tratta di relazioni spesso veloci, imprevedibili, spesso cariche di emozioni che possono essere anche molto negative. Se aggiungiamo che gli utenti principali della scuola sono persone in crescita, o addirittura in un momento di forte cambiamento e confusione come gli adolescenti, è facile capire come la quantità delle relazioni si intrecci con la qualità delle stesse, dando adito a un'inevitabile complessità gestionale.

Di fronte a questo enorme sforzo relazionale, per quanto ho potuto osservare, la scuola non ha approntato alcuno spazio di rielaborazione e ricarica per i suoi operatori. Ognuno fa da sé, come e se può, nelle modalità che ritiene più opportune. Per molti non è facile quest’opera di rigenerazione, specie quando gli anni di lavoro si sommano e le capacità di recupero e rielaborazione si fanno più lente e pesanti. Ci si comincia a difendere di fronte alla velocità del contesto, alle infinite richieste di presenza fisica e psicologica, alle nuove mansioni e obiettivi che ogni anno vengono aggiunti. La normale e ovvia conseguenza è la chiusura, prima all'interno di piccoli gruppi, poi dentro se stessi, alimentando quel noto meccanismo di monadi e mondi separati che non comunicano l'uno con l'altro. Si crea una sorta di frammentazione che spesso è all'origine dell'immobilismo organizzativo, della demotivazione personale, della scarsa fiducia nel futuro, della richiesta che qualcuno si occupi dei problemi.

Un’altra ipotesi è legata all'impostazione della scuola nata come luogo di alfabetizzazione e addestramento delle masse, con nozioni nelle mani di pochi da trasferire in modo più o meno meccanico nelle menti di tanti singoli. In questa logica la relazione viene messa in disparte, relegata ai margini della quotidianità, se non proprio considerata elemento di disturbo rispetto a obiettivi di efficienza e linearità dell'apprendimento. La tendenza è ancora una volta separare, mediare le relazioni attraverso le procedure e i ruoli, considerare l'organizzazione fatta di singoli con poca attenzione alle dinamiche di gruppo. Si tende a frammentare l'individuo in parti, escludendo dalla vista il corpo e le emozioni a vantaggio della mente come unico elemento autorizzato a entrare nelle aule scolastiche, ma una mente docile, innocua, disponibile ad accogliere i contenuti dell'insegnamento, perché una mente diversa richiederebbe conflitto, scambio e relazione.

Si configura un'organizzazione meccanicistica, fatta di ingranaggi più che persone, di parti sostituibili e intercambiabili: una visione che lascia sullo sfondo l'imprevedibilità dell'essere umano, la sua irriducibilità a qualsiasi schema. Tale logica, che come abbiamo visto fatica a tenere fattivamente la relazione al centro, si incardina all'interno di un modello socio-economico che per altri versi mostra le stesse fatiche. Questa situazione crea un mix dove il livello di burnout è altissimo e il livello di conflittualità e di insoddisfazione relazionale consistente.

Chiaramente qualsiasi sfida educativa, qualsiasi attività preveda la relazione come punto di approdo, deve confrontarsi con questi elementi strutturali della scuola, vederne le radici e le normali resistenze e attivarsi per tenere bene in mente la meta finale. Questo perché spesso e volentieri il bisogno è relazionale ma la richiesta di supporto della scuola è su tutto un altro piano ed è facile ingannarsi, perdere i riferimenti e alimentare interventi che perpetuano il problema stesso. Per un esperto esterno è molto più semplice aderire a tali richieste, lavorare secondo una logica che mette davanti a tutto il tecnicismo e gli specifici strumenti professionali, tralasciando quel lavoro faticoso e delicato del tessere le relazioni. Ma è un'illusione breve perché non agisce sui veri nodi, su un grido che denuncia prima di tutto i bisogni fondamentali frustrati dell'animale sociale.

 

Spunti di lavoro relazionale

 

Tanti sono i testi e le indicazioni per gli operatori della scuola, scarseggiano invece gli scritti che raccontino come utilizzare la relazione. La relazione cioè resta sullo sfondo come precondizione da tutti riconosciuta come essenziale ma dandola più o meno per scontata, automaticamente applicata perché facente parte del bagaglio umano naturale.

Eppure a ben vedere non è così. Paradossalmente si crea esattamente il contrario, proprio perché non è chiaro di cosa stiamo parlando in molti credono di fare attenzione ad aspetti che per lo più invece restano elusi, per poi ripetere le medesime chiusure e i medesimi arroccamenti professionali. Vediamo di seguito alcuni spunti operativi che provano invece a rimettere al centro l'aspetto relazionale.

Quello che mi sembra essenziale nel lavoro a scuola è spogliarsi di alcune strutture mentali che pongono nella logica dell'esperto, in una posizione che di per sé può generare distorsioni e chiudere la possibilità di un vero dialogo. La proposta è di porsi in una logica diversa, meno potente, più complementare e dialogica, meno sicura di detenere soluzioni e di sapere qual è la strada giusta. Michele Marmo lo chiama atteggiamento deponente: si tratta di una modalità di approcciare i contesti e le persone consapevole dei propri limiti e della complessità del mondo e dei suoi interpreti. Non si tratta di fingere, di fare finta di non sapere dove stiamo andando, bensì di assumere l'incertezza come compagna di viaggio, l'impotenza come un elemento a tratti presente e in parte ineliminabile, il contributo degli altri come necessario perché qualcosa cambi. È una posizione molto scomoda e poco in linea con la cultura dominante e con la strutturazione delle professioni.

Un altro elemento fondamentale è utilizzare dei dispositivi relazionali all'interno di progetti avendo in mente che l'obiettivo, oltre a quello dichiarato di affrontare e alleviare un problema, è costruire occasioni relazionali e di dialogo, costruire metaforicamente dei cerchi intorno alle questioni. I problemi di per sé sono occasioni relazionali, offrono la possibilità di mettere intorno a una questione persone che altrimenti difficilmente si parlerebbero o lo farebbero solo in modo superficiale. Per questo è importante, quando si vuole agire su un problema specialmente a scuola, creare le condizioni perché questo accada evitando che semplicemente la porta aperta dal problema si esaurisca nella convocazione dell'esperto. È quindi importante che tutte le proposte operative prevedano molti momenti di incontro, sia formali che informali, creino le condizioni per porsi domande, conoscersi meglio, ascoltare i tanti punti di vista, valorizzare il lavoro fatto e le competenze, al punto che il vero e proprio contenuto apparente dell'intervento passa in secondo piano, come un obiettivo secondario rispetto a questa trama relazionale tessuta quasi di nascosto. Così, qualsiasi sia il progetto (uno sportello di ascolto, un progetto di accoglienza per le classi di ingresso in un nuovo ciclo di studi, un intervento di prevenzione o su un gruppo in crisi...), la logica rimane la medesima, magari solo cambiando le modalità per favorire l'incontro, spesso ai margini di ciò che viene chiesto ma ben al centro della strategia di lavoro.

Un altro aspetto importante è il coraggio di varcare le soglie. Ci sono luoghi nella scuola che vanno conosciuti, esplorati, utilizzati. Per questo è opportuno uscire dalle aule o dagli uffici assegnati ed essere curiosi, muoversi, domandare, incontrare persone, fare circolare il proprio viso e la propria voglia di conoscere altri, i tanti mondi che si nascondono in anfratti, in zone off limits. In una scuola abbiamo così la segreteria amministrativa, i tecnici informatici, il gruppo dei bidelli, ma anche semplicemente l'aula insegnanti, oppure il bar dove gruppi di insegnanti prendono il caffè fuori dall'orario di servizio. La relazione insomma va cercata, in alcuni casi va, non dico forzata, ma almeno incentivata facendosi carico di uno sblocco iniziale. La scuola è un sistema e, come tale, ogni sua parte ha in sé risorse o possibilità di aprire varchi, di definire soluzioni, o almeno di non ostacolare e frenare dei processi come spesso accade non tanto per cattive intenzioni, ma piuttosto per incomprensione, carenza di informazioni, sovraccarico lavorativo, mancanza di considerazione e di legame umano.

 

A scuola di relazione

 

A questo punto sarebbe utile una specifica formazione alla relazione, corsi che educhino a coltivare le life skills e l’intelligenza emotiva, gli elementi che la ricerca scientifica e le comunità scientifiche pongono sempre di più al centro per il benessere dell'essere umano. Sarebbero utili altresì luoghi che utilizzino il lavoro di gruppo come palestra relazionale, che riscoprano il potere della meditazione e del silenzio per l'introspezione, che rendano consapevoli dei dettagli, che concorrano a creare climi positivi, fiducia e collaborazione. In realtà ciò sarebbe il compito della scuola stessa: educare a tali competenze fin dai primissimi anni di scolarizzazione, ma sappiamo bene di essere ben lontani dal perseguimento di questo obiettivo. Sappiamo bene che la scuola è affaticata, appesantita e bisognosa di uno sguardo anche clemente e comprensivo rispetto a un compito difficile per il quale gli strumenti a disposizione sono scarsi e spesso datati, dove le logiche di fondo, spesso implicite e inconsapevoli, chiudono la vista e appesantiscono mente e cuore.

Per tale ragione credo occorra partire da chi (e mi colloca tra questi) ha scelto di essere a supporto di queste istituzioni, e prendersi la responsabilità di divenire, parafrasando Gandhi, il cambiamento che si vuole per il mondo. Per farlo occorre abbandonare un po' di certezze date dall'appartenenza professionale, lasciare la fede e la centralità in alcuni strumenti a prescindere, riconsiderare altri elementi di uguale se non maggiore importanza come abbiamo visto. Serve aprirsi a un approccio lavorativo per certi versi più faticoso perché maggiormente imprevedibile ma anche più ricco, vivo e autentico.

Credo sia questa la chiave per uscire da quelle logiche tanto farraginose e pesanti della scuola ma anche della nostra società in generale: la burocratizzazione, l'economicismo, la medicalizzazione del disagio, l'intervento solo o quasi sull'emergenza. A ben guardare si tratta di sintomi dello stesso male: la solitudine, la mancanza di legami; sono tutte armi per allontanare, per chiudere, ma anche per segnalare la fatica e il profondo desiderio di essere incontrati davvero come persone.

La cura della relazione interpersonale, il lavoro per costruire, ristabilire e consolidare legami non è un di più, un dettaglio che si può considerare o meno a seconda dei gusti e delle disponibilità. È invece il fulcro del nostro lavoro e della nostra vita che per troppo tempo ci siamo dimenticati di coltivare.

 

 

Bibliografia

 

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[1] G. Saba, Carl Rogers e Martin Buber: la realtà di un incontro, ACP – Rivista di Studi Rogersiani, 2002, http://www.acp-italia.it/rivista/2002/Giuditta_saba_-_carl_rogers_e_martin_buber.pdf



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