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Esperienze

DA FEMMINA E DA MASCHIO. Un progetto sull'identità e le differenze di genere nella scuola dell'infanzia

Daniela Soci

Coordinatrice pedagogica dei servizi 0-6 del comune di Modena. La scuola dell’infanzia oggetto dell’articolo è la scuola Simonazzi, comune di Modena, di cui fanno parte nel team di lavoro: le insegnanti, Tullia Bertoni, Giulia Bonfatti, Antonietta Marano, Annamaria Pè, Marina Borgonovi e Giovanna Pradelli; le educatrici assistenziali, Francesca Franzon, Maria Fontana; le collaboratrici scolastiche, Giustina Labate, Annamaria Facciorusso e Mariangela Nardò.


Abstract

Il tema dell’educazione alle identità di genere sembra esercitare oggi un’attenzione al contempo eccessiva e superficiale nel vociare a tratti iperbolico dei dibattiti e delle narrazioni offerti dai media. Questo articolo vuole invece offrire uno sguardo sulla costruzione dell’identità di genere riportandolo all’interno delle pratiche educative e ricollocandolo nella più generale questione della formazione dell’identità e dell’educazione alla cittadinanza. Il progetto elaborato dalla scuola dell’infanzia “Simonazzi” si caratterizza per una pratica riflessiva da parte del personale docente che ha voluto affrontare e problematizzare il tema degli stereotipi di genere a partire da un atteggiamento di ascolto rivolto ai bambini, alle famiglie e al Sé, rispetto al proprio ruolo educativo, ma anche alla propria identità.



Obiettivi e finalità del progetto

 

Questo articolo avrebbe dovuto semplicemente narrare lo svolgersi di un percorso progettuale, come se ne fanno tanti nella scuola dell'infanzia, che pone al centro uno degli aspetti distintivi di questo ordine di scuola, ovvero il tema dell'identità e della differenza. Tuttavia, l'acceso dibattito a livello nazionale e non solo sulla tanto enunciata questione del gender induce, purtroppo o per fortuna, a motivare e a chiarire alcuni nuclei concettuali chiave che hanno rappresentato gli assi portanti di questo percorso.

Il progetto che abbiamo intitolato "da femmina e da maschio" è un percorso che ha visto coinvolte le tre sezioni di scuola dell'infanzia (tre, quattro, cinque anni) e che è stato condiviso e approvato dal Consiglio di gestione e finanziato dal quartiere (ex Circoscrizione 3 del Comune di Modena).

La scelta di lavorare sul tema dell'identità di genere è stata maturata all'interno del gruppo di lavoro e dalla componente dei rappresentanti del gruppo genitori avendo in mente alcuni obiettivi e riflessioni pedagogiche.

In particolare l'ultima ricerca commissionata dalla Regione Emilia-Romagna al CSGE del Dipartimento di Scienze dell'Educazione dell'Università di Bologna [1] ha evidenziato come, se da un lato il tema del genere appare periodicamente al centro del dibattito sociale e politico, dall’altro spesso tale dibattito soffre di una debolezza culturale tale da offuscare una profonda riflessione al riguardo che ne metta realmente in rilievo gli aspetti di carattere sociale. Da questo punto di vista i servizi educativi 0-6 ai quali la ricerca si è rivolta rappresentano un campo privilegiato per registrare nuove o forse riemergenti tendenze in atto nell'interpretazione delle differenze di genere. Il dato stesso della suddivisione di genere nell'accesso alle professioni tra uomini e donne risulta lampante all'interno dei servizi 0-6 dove si registra la quasi totale presenza femminile nel personale educativo sia di nido che di scuola dell'infanzia. [2] Gli intervistati nell'ambito della ricerca (genitori, nonni, operatori e operatrici) hanno espresso posizioni ambivalenti su questo tema rivelando il permanere di concezioni che attribuiscono alla donna una naturale propensione al lavoro di cura, idea questa che sembra tra l'altro prevalere maggiormente tra le nuove generazioni rispetto a quelle passate. Inoltre sempre dalla ricerca emerge come, anche a seguito di una certa comunicazione mediatica, congiuntamente a scelte di marketing e di tipo commerciale, si registri una precoce differenziazione dei gusti per genere tra i bambini.

A partire da questi dati più generali, uno degli obiettivi che si è posta la scuola è stato quello di non rimanere indifferente al tema e di approfondire la riflessione sull'identità e le differenze di genere con uno sguardo rivolto al noi, alla professionalità degli operatori, per capire innanzitutto all'interno del collettivo delle insegnanti e delle collaboratrici scolastiche quali stereotipi impliciti (tutti gli stereotipi, culturali, sociali, di genere) orientino le nostre pratiche educative, le nostre aspettative, il nostro linguaggio. Se infatti lo stereotipo è un falso concetto classificatorio finalizzato a semplificare, ridurre e cristallizzare la realtà, piuttosto che a comprenderla nella sua complessità, chi ha una responsabilità educativa all'interno della scuola deve al contrario garantire ai bambini e alle famiglie la capacità di agire nelle scelte progettuali, nello stile comunicativo e nelle relazioni quell'apertura culturale e quella profondità di analisi che la complessità sociale nella quale viviamo ci richiedono quotidianamente.

Non si tratta di una generica e banalmente retorica "apertura alle differenze", ma della capacità di cogliere nell'unicità di ogni individuo, in particolare in questo caso in cui si tratta di soggetti in formazione, il suo essere irripetibile, portatore di una specifica diversità data dalla molteplicità delle sue appartenenze familiari, storiche, sociali culturali, psichiche, relazionali e biologiche. «Ognuno di noi è unico e speciale» dice la mamma a Ben in L'abbraccio di David Grossmann (2010) . Un Io situato che costruisce la propria identità nell'incontro con gli altri.

Lo sviluppo dell'identità è una delle finalità della scuola dell'infanzia. Nelle Indicazioni Nazionali per il Curricolo, si esplicita che «alla scuola spetta il compito di fornire supporti adeguati affinché ogni persona sviluppi un'identità consapevole e aperta».

Quella delle differenze di genere è solo dunque uno degli aspetti che riguardano il tema dell'identità, che si articola in realtà lavorando su più ambiti. Chi sono, come sono fatto, com'ero da piccolo e come sono diventato, cosa mi piace e cosa non mi piace, cosa so fare e ho imparato a fare, la mia famiglia e i miei amici. Sono queste alcune delle domande che i bambini si pongono attraverso la mediazioni dell'insegnante e che aiutano a delineare le fila di una storia personale che permette di «cogliere il bambino e la bambina in carne e ossa» (Neri, in Veronesi, 2005). La costruzione della storia personale rappresenta da sempre uno degli assi portanti della progettazione nelle scuole dell'infanzia del Comune di Modena, la cui finalità è stata definita nei suoi aspetti cardine già dagli anni '70/'80, ma la cui validità appare ancora fortemente attuale:

 

I bambini sperimentano un lungo itinerario attraverso il quale assumono il concetto di sé (l'Io), come punto in cui ci si sente più saldi, perché si padroneggia il rapporto tra il biologico e il sociale, tra le istanze estremamente diversificate che appartengono al proprio mondo personale, e il confronto interrelazione-solidarietà con gli altri.

La consapevolezza che ciò è tanto più esaltante quanto più ci fa uscire dall'anonimia e dal conformismo a modelli che altri ci impongono può e deve guidare il fatto educativo, teso a costruire progressive prese di coscienza della realtà in cui viviamo, del modo in cui noi interpretiamo — modificandolo e concretizzandolo — sul piano personale e originale il nostro stare in mezzo agli altri, delle scelte che via via facciamo per arricchire la realtà e per rendere noi stessi “più estesi” e quindi più realizzati. (Selmi e Turrini, 1980, p. 82)

Riflettere sull'identità e le differenze di genere implica non dare per scontato o ignorare cosa significa essere maschio ed essere femmina e come si va costruendo la propria identità di genere.

“Essere e costruire”: ho voluto consapevolmente tenere insieme questi due verbi che delineano da un lato il dato biologico, che definisce il sesso di ciascun individuo insieme a tutte le sue caratteristiche fisiche peculiari a partire dal corredo genetico, dall'altro la modalità con cui questi aspetti di carattere biologico interagiscono, attraverso l'educazione e i processi di socializzazione, con i costrutti culturali di riferimento, andando a delineare come ciascuno interpreta in termini di ruolo sociale l'essere maschio o femmina.

Ed è questo a quanto pare uno dei nodi più controversi del recente dibattito sul gender: il riconoscere o meno il ruolo giocato dalla cultura e dalla società nell'identità di genere.

Al di là delle spinte più o meno ideologiche e delle ragioni politiche, che non tratterò in questa sede, e che muovono a posizionarsi sull'uno e sull'altro versante, dal punto di vista teorico le controversie su questi temi sembrano riproporre in altri termini il più generale dibattito sulla relazione tra natura e cultura. Senza entrare nel merito di un discorso che ci porterebbe lontano dagli intenti di questo articolo, vorrei ricordare come non solo le scienze sociali e antropologiche ma anche la psicologia e l'epistemologia abbiano, all'interno dei loro specifici domini, preso le distanze da posizioni che assolutizzano l'uno o l'altro aspetto. Sia in un caso che nell’altro, sia cioè che si accordasse il primato agli aspetti di carattere biologico, o all'opposto si sottolineasse un ruolo prioritario alla cultura, si cadrebbe in un determinismo che lascia ben poco spazio alle possibilità di agency dei singoli individui.

In educazione questo significherebbe rinunciare a un'autentica concezione del bambino come soggetto attivo nella costruzione della propria conoscenza del mondo e, quindi, rinunciare altresì a tutto l'impianto pedagogico moderno su cui si fonda l'idea di scuola e, in particolare, di scuola dell'infanzia. [3]

Rinunciare al dato biologico significa misconoscere una parte importante della propria identità e il ruolo che può giocare nell'approcciarsi alla realtà. Tenuto conto che la conoscenza è incorporata, il nostro corpo sessuato non è indifferente per quanto riguarda il proprio sviluppo. È anche per questa ragione che è molto grave che l'altra parte, ovvero la componente maschile, sia completamente assente nelle relazioni di cura, privando i bambini e le bambine di un punto di vista altro che pur esperiscono nella maggior parte delle famiglie. Lo stesso si può dire in modo simmetrico per quanto riguarda altre professioni dove è meno presente la componente femminile: pensiamo, ad esempio, almeno nel nostro Paese, al settore delle conoscenze più strettamente scientifiche e tecnologiche.

Rinunciare alla cultura significa ignorare il rischio di condizionamenti che possono ingabbiare maschi e femmine in ruoli predefiniti che ne precludono le possibilità in termini di crescita personale, di accesso al sapere e alle professioni, di consapevolezza e libertà di scelta.

Tenere insieme i due aspetti, infine, significa rinunciare ad assoluti ideologici per rivolgersi ancora una volta ai soggetti reali, in questo caso i bambini, per cogliere le loro domande e interpretazioni delle cose a partire dalla propria soggettività e dai contesti di vita. Ed è quest’ultimo elemento il motore che ha guidato dal punto di vista metodologico e teorico il progetto della scuola.

 

La metodologia

 

Come sottolineato precedentemente, il punto di partenza del progetto è stato prima di tutto aprire una riflessione su di noi, sollecitata anche da alcuni spunti derivanti da un corso di formazione promosso da “Memo”, a cui hanno partecipato alcune insegnanti del gruppo di lavoro. [4]

Già durante il corso erano emerse alcune riflessioni tra le operatrici rispetto ai messaggi impliciti che loro stesse inconsciamente veicolano nella comunicazione con i bambini e le famiglie:

Pensate quando diciamo, ad esempio quando un bambino si sporca, adesso mettiamo i vestiti nel sacco del cambio che poi la mamma te li lava. (Insegnante di scuola dell'infanzia)

 O ancora:

 Quando c'è da chiedere alle famiglie di preparare una torta per qualche festa ci rivolgiamo sempre alle mamme o alle nonne. (Educatrice di nido)

 

Al di là della centratura specifica sugli stereotipi di genere, il merito di ogni approfondimento sugli impliciti comunicativi è quello di svelare e quindi rendere più consapevole il nostro habitus culturale. Questa operazione è tanto più potente quanto più ci si rende conto di come i condizionamenti socioculturali lavorino dentro noi, al di là delle nostre scelte più esplicite.

Queste e altre sollecitazioni condivise all'interno del gruppo di lavoro della scuola dell'infanzia “Simonazzi” hanno fatto emergere a livello di confronto una modalità critica e interrogante che si è posta alcuni dubbi e domande rispetto al progetto. Ne cito solo alcune:

  • Gli stereotipi di genere sono veramente già diffusi tra i bambini o risentono di una lettura adulta? E se ci sono, a che livello si esprimono?
  • Fino a che punto dobbiamo spingerci nella decostruzione dello stereotipo? Ad esempio, se le bambine esprimono un interesse e un piacere per giochi definiti “culturalmente femminili” e i maschi fanno lo stesso in riferimento a quelli maschili, fino a che punto dobbiamo promuovere e indirizzarli verso altre forme di gioco, rischiando di compiere delle forzature?
  • Se lo sviluppo dell'identità di genere è parte più in generale dello sviluppo dell'identità, ha senso pensare e progettare proposte specifiche o risulta piuttosto necessario lavorarci trasversalmente, prestando attenzione alle sollecitazioni fornite dai bambini nella quotidianità ponendo domande e manifestando dubbi, a seconda delle situazioni?

 

La metodologia adottata dal gruppo delle docenti ha dunque privilegiato una modalità investigativa che partiva innanzitutto dall'osservazione e dall'ascolto dei bambini nella quotidianità, nei contesti di gioco tra i bambini, nei momenti di discussione a grande o a piccolo gruppo.

Ecco come le stesse insegnanti raccontano come hanno proceduto:

 

Il progetto di scuola ci ha sollecitato a osservare attentamente i bambini e le bambine nei loro giochi e nelle loro scelte e a cogliere con immediatezza i dubbi, le domande e le riflessioni che da loro venivano sollevati. Abbiamo così affrontato con loro una serie di “grandi domande” con l'intento e l'attenzione di non fornire loro delle risposte, ma piuttosto di metterli in situazioni di dubbio, provocazioni e confronto reciproco. (Insegnanti della sezione 3 anni)

 

Abbiamo pensato che la cosa migliore fosse abbandonare le nostre idee e le nostre convinzioni personali e concentrarci su ciò che quotidianamente e per ogni situazione facciamo nel nostro lavoro: sollecitare i bambini a osservare, descrivere, fare ipotesi, dare spazio alle loro parole e ai loro pensieri, esplorare in contesti cooperativi e di confronto. Da questa già ricca base di partenza di tanto in tanto occorre problematizzare alcune situazioni e provarle concretamente per arrivare alla fine, perché no, se non proprio a smontare uno stereotipo, magari a metterlo in dubbio o in forse. (Insegnanti della sezione 4 anni)

 

Per esplorare l'argomento abbiamo ritenuto importante consolidare la loro identità partendo dalle loro conoscenze, a volte anche rigide o fatte di supposizioni, per ravvisare la presenza nel gruppo di posizioni diverse, di idee e punti di vista altri da mediare. (Insegnanti della sezione 5 anni)

 

Giochi da maschio e da femmina

 

Nella sezione dei tre anni, dove il lavoro sul Sé e l'altro ha costituito il percorso portante dell'anno scolastico, sono state molte le occasioni in cui i bambini si sono trovati a interrogarsi su cosa secondo loro sia da maschio o da femmina. [5]

Fra tutti vorrei soffermarmi sulla parte relativa ai giochi e ai giocattoli. Nelle nostre sezioni di scuola dell'infanzia gli spazi di gioco sono strutturati secondo criteri di diversificazione e connotati in base a specifiche funzioni e possibilità esplorative. In particolare nella sezione dei tre anni ampio spazio è dato all'angolo cucina, che ha la doppia funzione sia di sollecitare il gioco di imitazione con giocattoli e arredi che richiamano la dimensione della casa, sia di incentivare il fare dei bambini attraverso l'incontro con i materiali e gli attrezzi veri da esplorare.

Accanto a questa convivono altri spazi: quello dei travestimenti, delle costruzioni, lo spazio lettura e lo spazio atelier.

Per effetto delle sollecitazioni fornite dal progetto, lo spazio che accoglie il gioco di imitazione della casa è stato volutamente rivisto inserendo oggetti e giocattoli, quali l'asse da stiro e il seggiolone, scegliendo il colore azzurro per disidentificare rispetto a una connotazione di genere, in contrasto con il mercato del giocattolo che polarizza l'offerta suddividendo gli scaffali con i prodotti rivolti ai bambini e alle bambine, riservando i cosiddetti giochi di cura alle bambine.

L'accessibilità degli spazi e la sollecitazione delle insegnanti a viverli secondo diverse configurazioni gruppali per sollecitare gli incontri e le relazioni, promuovendo così la costruzione del gruppo di bambini, permettono ai bambini e alle bambine di esplorare tutte le dimensioni di gioco con le rispettive potenzialità.

Indagando poi il punto di vista dei bambini e le loro scelte è stato possibile approfondire con i bambini le ragioni delle proprie scelte, ma anche sollevare tra di loro dubbi nel confronto con gli altri, e permettere loro di accorgersi rispetto al proprio sé, gli aspetti ludici e di piacere propri del gioco con i bambolotti.

 

Ins.: I maschi possono comprare le bambole?

Chicco: No, non possono comprare le bambole perché sono da femmine.

Benedetta: Per me le possono comprare anche i maschi perché possono mettere il biberon.

Margherita: Per me le possono comprare anche i maschi, li possono cullare.

Chicco: Un pochino ci giocano i maschi e un pochino anche le femmine.

Emma: Ci giocano insieme, però si divertono di più le femmine perché le bambole sono da femmine.

Giovanni: A me non piacciono le bambole perché sono tutte femmine.

[Lo invitiamo ad andare a vedere se in sezione abbiamo solo bambole femmine].

Chicco: Anch’io vorrei una bambola.

Ins.: Ma non è solo un gioco da femmine?

Chicco: Sì, ma ci voglio giocare.

Giovanni [torna]: È un maschio, è morbido.

Ins.: Lo vuoi da coccolare?

Giovanni: No, perché non mi piace coccolare i bimbi…

Paul: Mi piace il bambolotto, ha i capelli, è bello...

[Chicco continua a chiedere insistentemente di poter andare a prendere un bambolotto. Torna col bambolotto].

Chicco: Mi piace, gli faccio le carezze, mi piace dargli il ciuccio e le voglio mettere a letto.

Ins.: Chi ti faceva le coccole da piccolo?

Chicco: Quand’ero piccolo nessuno mi faceva le coccole.

Ins.: Mamma e papà?

Chicco: Nessuno!

Giovanni: Ma allora eri un bimbo abbandonato.

[Chiediamo a tutti i bimbi chi vorrebbe giocare coi due bambolotti. Quasi tutti i maschi e le femmine alzano la mano. Chiediamo allora a ogni bimbo cosa vorrebbe fare con le bambole].

Chicco: Cucinare.

Riccardo: Le coccole.

Sofia: Anch’io le coccole.

Ilaria: Anch’io la coccola e cucina.

Margherita: La cullo.

Benedetta: La farei dormire.

Emma: Io vorrei dargli il biberon e il ciuccio.

Francesca: Io vorrei portarle a letto.

Giovanni: Io le metterei sull’altalena.

Matteo: Io vorrei cucinare.

Edoardo: Io farei le coccole.

Chicco: Io la pettinerei anche.

[Paul intanto ha passato molto tempo da solo pettinando e phonando i capelli alle bambole].

 

Da questa breve conversazione si capisce subito che anche se i bambini, già a partire dai tre anni, hanno introiettato in modo molto chiaro quali sono i giochi da maschio e da femmina, facilmente, nella relazione con gli altri, fanno vacillare queste certezze per scoprire il piacere del gioco. Guardando appunto ai bambini in carne e ossa, si vede come Chicco sia pronto a rivedere la propria posizione per sperimentare nel gioco con i bambolotti una serie di azioni di cura che gli permettono di reinterpretare il mondo adulto. D'altra parte, invece, Giovanni rimane della sua idea che va rispettata e ugualmente contribuisce a dare una veste personale al gioco: “io le metterei sull'altalena”. Nella parte finale della conversazione ogni bambino, infatti, esprime dal suo particolare punto di vista il significato e la forma che il gioco può assumere.

Attraverso il gioco i bambini si raccontano e raccontano pezzi della propria vita, fatta di gesti e relazioni nell'ambito dei contesti di vita in cui sono immersi. Il gioco costruisce e si costruisce insieme agli altri sotto forma di trame narrative e azioni che, di volta in volta, si modificano. Parlare in generale del gioco con i bambolotti non sembra dunque così appropriato, ma dovremmo piuttosto parlare di quel tipo di gioco, costruito da quei bambini in quel dato momento. Riflettere con loro sulle proprie modalità di gioco porta i bambini a motivare le proprie scelte e, quindi, a esserne più consapevoli.

Una maggiore consapevolezza è un'educazione al gusto che sviluppa la libertà di scelta e apre la possibilità a una miriade di scelte diverse ognuna delle quali appare portatrice di una propria ricchezza. Al di là delle generali categorie dei giochi da maschio e da femmina, quello che di fatto si realizza nella quotidianità è il gioco e basta, un gioco non connotato o meglio connotato rispetto al contributo che ciascun bambino o bambina, in base al proprio gusto, alla propria storia personale, al proprio posizionarsi all'interno del gruppo, contribuisce a creare. Tanto più i contesti di gioco sono condivisi dai due sessi, tanto più il gioco stesso si arricchisce e contribuisce a formare uno sguardo più ampio sul mondo in cui i bambini sono immersi.

Pensare che i bambini maschi che giocano con giochi socialmente definiti come femminili e lo stesso le bambine per i giochi considerati maschili esprimano un'identità di genere fluida significa confermare pericolosi stereotipi. Significa pensare a separazioni rigide tra maschile e femminile dove ogni scelta diversa è pensata come uno “sconfinamento”. Ma chi è che decide cosa è maschile o cosa è femminile? Non a caso, da quando la cucina ha preso spazio nei palinsesti televisivi e programmi come Masterchef e Junior Masterchef hanno portato alla ribalta il ruolo dello chef, il gioco della cucina da parte dei bambini maschi risulta socialmente molto più accettato e meno temuto. Perché lo stesso non si può dire per i giochi di cura dove in fondo i bambini imitano padri e madri nelle cure genitoriali? Perché non lo si può accettare per il gioco dei travestimenti, dove per definizione si può diventare altro da sé e rivestire altri panni, nella consapevolezza che è un gioco e poi si ritorna a essere se stessi? [6]

Un ascolto autentico dei bambini e delle loro interpretazioni della realtà mitigherebbe molto le posizioni adulte che sovrappongono sull'infanzia paure e ideologie che, in realtà, hanno poco a che fare con la capacità infantile di costruire un proprio pensiero, sempre che gli si lasci la possibilità di esprimerlo fuori da rigidi condizionamenti.

 

Cosa sanno fare i maschi e le femmine?

 

Il percorso della sezione 4 anni si è rivolto principalmente al tema delle emozioni. Riconoscere le emozioni proprie e altrui, saperle descrivere ed esplicitare sono competenze sociali fondamentali per lo sviluppo di comportamenti adeguati e rispettosi nei confronti di se stessi e degli altri. Anche in questo caso si tratta di costruire una parte fondamentale della consapevolezza di sé, oltre a imparare a comprendere le intenzioni altrui, il punto di vista degli altri.

Grazie al contributo dei genitori che si sono fatti fotografare in espressioni che richiamano i principali stati d’animo ed emozioni, successivamente lette, interpretate e rappresentate dai bambini, il gruppo sezione ha riflettuto sulle emozioni in un modo che non ha visto differenziazioni di genere, ma dove in egual misura maschi e femmine possono provare ed esprimere sentimenti di rabbia, tristezza, paura, curiosità e felicità. Anche questo non è scontato, se pensiamo a come lo stereotipo attribuisca determinate manifestazioni di stati d'animo in modo più legittimo alle femmine che ai maschi e viceversa, basti pensare a espressioni del tipo “non piangere come una femminuccia” rivolte ai bambini o a come siano meno tollerati episodi di aggressività tra le bambine.

Il riconoscimento delle emozioni, di ciò che ci piace o non ci piace, di ciò che ci fa stare male o ci rende felici, di ciò che ci fa paura perché ci dà insicurezza rappresenta solo una parte della più complessa e articolata “intelligenza emotiva” (Cervi, 2012). Uno dei parametri della ragione emotiva secondo Cervi è anche quello dell'acquisizione che, per i soggetti in età evolutiva, significa costruire e riconoscere la propria autoefficacia, il possesso di alcune abilità e competenze. In questa prospettiva e anche un po' per lanciare una riflessione tra i bambini a seguito di alcune conversazioni avvenute in gruppo al momento dell'appello al mattino, le insegnanti hanno posto questa domanda: cosa sanno fare i maschi e cosa sanno fare le femmine?

Ecco le prime risposte dei bambini:

 

I maschi sono forti perché tutti i papà sono forti, sono bravi a tirare, sanno piantare i chiodi, sanno tirare su le cose pesanti...

 

e per contro le femmine:

 

Sanno ballare, fare danza, sanno truccarsi, sanno mettersi il rossetto, i brillantini, gli occhiali da sole, sono veloci...

 

Per mettere le proprie posizioni a confronto con la realtà e farne direttamente esperienza, le insegnanti hanno provocato la sezione proponendo alcuni percorsi motori e giochi di forza dividendo le squadre in maschi e femmine:

 

Abbiamo fatto un percorso di equilibrio, corsa e capriola; abbiamo fatto le squadre dei maschi contro le femmine... Dovevamo stare in equilibrio, poi il cerchio per saltare, poi il tappeto per la capriola, poi le costruzioni per fare delle cose che stavano in piedi, poi si correva e si toccava la mano dell'amico... Hanno vinto le femmine perché sono state più veloci e i maschi sono stati più lenti. Non abbiamo vinto perché non riuscivamo a stare in equilibrio... per essere più veloci ci dobbiamo allenare, fare tante prove. Bisogna andare in un'altra palestra per allenarsi, io mi alleno anche a casa con mio fratello, facciamo gli ostacoli...

 

Prima abbiamo fatto una prova con una corda e ci siamo divisi in due squadre: tutti i maschi contro tutte le femmine. Erano nove, però ce n'erano di più di maschi e quindi li abbiamo messi seduti... Però Enea aveva tanta forza, perché i maschi sono sempre più forti... Ma anche Viola aveva tanta forza, mi ha quasi spaccato un braccio... Chi ha forza si capisce dal tiro che fa... anche Mohammed è forte perché è grande grande... Con le maestre abbiamo vinto noi perché eravamo di più, voi eravate solo tre... Hanno vinto un po' i maschi e un po' le femmine... Per vincere bisogna tirare forte...

 

Ecco dunque che, attraverso l'esperienza, i bambini comprendono come il riuscire a fare forza non dipenda tanto dall'essere maschio o femmina, quanto piuttosto dalla fisicità e da come si esercita la forza, da come si tira, nel caso del tiro alla fune.

Questo tema della forza e del coraggio in seguito si è riproposto nuovamente in un'altra conversazione tra i bambini, che era focalizzata sui personaggi in cui i bambini e le bambine si identificano, per cui se è vero che a molte bambine piacciono le principesse è anche vero che possono impersonare delle “cavaliere”.

Inizia così un gioco dei cavalieri nell'angolo dei travestimenti che vede insieme bambini e bambine:

 

Ins:Allora sono stati più forti i cavalieri o le cavaliere?

… Tutti e due perché Rebecca e Enea erano cavalieri e sconfiggono i draghi... Tutti e due hanno un po' di coraggio... Sono forti tutti e due perché nel castello ci sono sempre dei cavalieri nelle storie, noi invece abbiamo fatto un gioco... è vero, io non ho mai sentito parlare delle cavaliere... Ci sono le femmine forti che salvano i maschi poveri nel film di Alfabeta... io ho visto una principessa cavaliera che fa l'arco e lancia le frecce, si chiama Merida e poi c'è anche Mulan perché gli Unni volevano uccidere il principe di Mulan e poi Mulan da sola ce l'ha fatta a uccidere gli Unni con la spada e a vincere... Voleva salvare suo padre e si è messa la sua armatura, si è tagliata i capelli con la spada... Era una femmina che sembrava un maschio... Io ho sentito dire una storia di un libro che i cavalieri e le principesse combattono... Ahh mi è venuta in mente una Lady Oscar che combatte con la spada d'oro e poi ha un fazzoletto sotto il cuscino per soffiarsi il moccolo, lo guardava mia mamma quando era piccola... E poi Barbie voleva realizzare il suo sogno e vuole fare la moschettiera... i moschettieri combattono... Io non ho mai sentito parlare di moschettiere e neanche di cavaliere…

 

Il fatto di offrire ai bambini modelli diversi e ampliare i possibili ruoli da interpretare o nei quali identificarsi permette di esplorare molte dimensioni dell'Io: bellezza, coraggio, paura, forza, velocità, cura di sé divengono così possibilità per tutti e non dimensioni che diventano prerogativa dell'uno o dell'altro genere riducendo inevitabilmente esperienze, fantasie, desideri dei bambini e delle bambine.

 

Io e la mia città

 

La sezione dei 5 anni si è concentrata sulla città (dove abito, la mia casa, come faccio a riconoscerla…), per allargarsi alla scoperta della città attraverso molte visite al centro cittadino e ai suoi luoghi. Il progetto sulle differenze di genere si è di volta in volta innestato sui temi che venivano a mano a mano affrontati.

Anche in questo caso sono le domande che gli adulti hanno posto ai bambini che hanno permesso di innescare la riflessione su quello che li circonda:

 

Ins.: Il sindaco chi è?

Giacomo: Non è facile trovarli… ce ne sono un bel po’, però…

Jessica: Ci sono tanti sindaci di tutte le città del mondo, della Francia, di Bologna e di India.

Kalkidan: Fa il comandante.

Ins.: Chi è?

Tommaso: È uno che può dominare tutto il mondo… è il capo della città!

Giacomo: È il capo della città.

Letizia: È un uomo.

Kalkidan: No… i sindaci sono anche femmine.

Guido: Allora si chiamano sindache.

Giacomo: Ma non è facile trovarle, perché ci sono un sacco di nomi maschi.

Jessica: Per televisione ho sentito che ci sono sindaci maschi e femmine…

Guido: Infatti ci sono sia sindaci maschi che femmine.

Giacomo: Non si trovano ora da molte parti sindache femmine.

Matteo: Sì… solo i maschi lo possono fare!

Guido: Tutti lo possono fare!

Kalkidan: Ma perché stanno nei loro palazzi?

Guido: Perché secondo me non c’è nessuna femmina che lo vuole fare.

Jessica: Ma però le femmine possono essere sindache, se lo vogliono…

Guido: Se non lo vogliono non lo fanno.

Ins.: Possono essere le femmine dei capi…

Giacomo: Per fare il sindaco bisogna essere dei grandi.

Tommaso: Io farò il sindaco e tutti i papà andranno nella città dei ragazzi a fare tanto nuoto e le mamme a casa con i suoi bambini.

Giacomo: Però se i papà sono andati in piscina possono andarci anche loro in macchina, le mamme…

Letizia: Sì, possono fare i capi della città… le sindache possono essere in tutte le città, però stanno ferme!

Giacomo: In che senso?

Letizia: Voi non le vedete… stanno in casa sua.

Guido: No, non possono stare in casa e fare le sindache, perché se no non si comanda e devono stare nel palazzo dove comandano.

Elena: Sì, perché non è che solo i maschi possono fare i sindaci, possono farlo anche le femmine.

Jessica: Sì, perché sono dei grandi, perché le femmine che sanno più cose, che sanno occuparsi di più cose non stanno tanto a pensare, ma sanno tutte le cose subito.

Kalkidan: Le femmine possono fare i sindaci perché sanno tutto più dei bambini…

Malhet: Sì, se lo possono fare i maschi, che cambiamento c’è se lo fanno le femmine?

Alessia: Sì, perché ci vuole un po’ il cambiamento perché i maschi un po’ si stancano.

Matteo: Sì, perché non lo possono fare tutti i maschi.

 

I bambini nel confronto provano a interpretare la realtà che li circonda per come la vedono e la vivono. Provano a dare delle spiegazioni e anche delle soluzioni, per cui alla fine ciò che conta di più per fare il sindaco non è essere maschio o femmina, ma conoscere molte cose e, come dice Jessica, essere in grado di occuparsi di più cose.

 

Una delle critiche avanzate a chi si occupa di genere e identità di genere nella scuola è quella di promuovere modelli che, in nome dell'uguaglianza, ignorano la famiglia e le relazioni presenti al suo interno. Un’importante polemica al riguardo si è sviluppata quando alcuni sindaci hanno proposto di adottare la soluzione francese di eliminare la dicitura “padre e madre” dai moduli scolastici, per sostituirla con la generica espressione “genitore o genitore 1/genitore2”.

Al di là della scelta più o meno discutibile rispetto a posizioni che si vogliono proporre come politicamente corrette nei confronti delle molte configurazioni familiari che, piaccia o meno, rappresentano la realtà attuale, ancora una volta guardando alle azioni concrete all' interno della vita scolastica vediamo come il riferimento alle relazioni primarie dei bambini, il loro contesto familiare, il loro essere figli rappresentino un elemento centrale del percorso educativo e della storia personale dei bambini. Questo soprattutto nella scuola dell'infanzia dove la relazione con le famiglie costituisce un asse portante del progetto pedagogico.

I racconti dei bambini sui propri genitori, sulla mamma e il papà ci dicono molto di come i bambini percepiscono e vivono la relazione con loro e come essa si manifesta nella quotidianità.

Ecco alcuni esempi sollecitati dalla lettura del libro La Regina dei baci (Aertssen, 2007), proposto alla sezione dei 5 anni:

 

Letizia: Il mio papà è il re dei baci perché mi dà tanti baci.

Alessandro: Mio padre è il papà della doccia, del lavoro, perché lavora molto e poi è il re del telefono perché guarda certe volte il telefono.

Kalkidan: Il mio papà è il re delle storie perché tutte le notti me ne racconta molte. È anche re di tutto perché mi aggiusta i giochi.

Laura: È mio papà è il re delle coccole perché mi fa sempre le coccole, tutti i giorni… Va bene.

Luca: È il re aggiustatutto perché aggiusta sempre tutte le cose.

Rita: È il re dei cuochi perché si sveglia presto prima di noi e ci prepara la colazione… È anche il re delle storie, però ci racconta solo quella della vacca vittoria e del pesciolino rosso.

Elena: Il mio papà mi bacia quando vado a letto, quando vado via e vado a scuola… quindi è il re dei baci e delle coccole.

 

È interessante notare come i racconti dei bambini descrivano un ruolo paterno che, al pari di quello materno, si esprime nelle relazioni affettive e di cura proponendo un modello maschile all'interno della famiglia molto diverso da quello tradizionale.

Appare dunque estremamente contradditorio come, a fronte di una maggiore presenza dei padri all'interno dei servizi educativi, nella relazione di cura e nella gestione dei figli, si sia d'altra parte fermamente ancorati, forse anche più che nel passato, a modalità educative che differenziano molto le scelte adottate per i bambini e le bambine in materia di vestiti, giocattoli, sport e attività ricreative, cartoni animati, ecc. [7]

Questo si registra soprattutto nei confronti dei maschi, dove la paura dell'omosessualità sembra offuscare completamente la possibilità che i bambini possano costruire, nel gioco e nella relazione con gli altri, un'interpretazione più complessa e multisfaccettata della realtà che configura in senso positivo nuovi modi di esprimere il maschile e lo stesso ruolo paterno.

 

Una lettura scomoda

 

Tra le proposte pensate per i bambini nell'ambito del progetto c'è stata, com'è nella tradizione della scuola, la scelta di alcuni libri dell'infanzia che sono stati letti da genitori volontari al mattino per gruppi di bambini delle tre sezioni.

Anche se l'acquisto dei testi, grazie al contributo della circoscrizione, è stato più ampio e finalizzato ad arricchire la biblioteca di scuola, i titoli scelti per i momenti di intersezione sono stati: Una bambola per Alberto (Zolotow e Delacroix, 2014); Mi piace Spiderman… e allora? (Vezzoli e Di Lauro, 2014); I cinque Malfatti (Alemagna, 2014).

Tra questi, il libro Mi piace Spiderman… e allora? ha destato una serie di critiche da parte di alcuni genitori, in particolare un papà che, a un incontro specifico sul progetto rivolto ai genitori, [8] ha espresso le sue preoccupazioni relativamente al fatto che Cloe, la bambina protagonista del libro, a un certo punto, decostruendo stereotipo dopo stereotipo, afferma: “Adesso so che quando sarò grande potrò avere un fidanzato o una fidanzata”.

La lunga e a tratti accesa discussione destata dalla scelta di questo libro durante l'incontro ha permesso alle insegnanti di riaffermare le motivazioni del progetto, dove la scuola è ben lontana da promuovere l'omosessualità, come l'invenzione della teoria del gender vuol far credere, o da dare giudizi di valore in un senso o nell'altro. Come però ha fatto notare una mamma nel confronto tra i genitori, i bambini vivono nel mondo, si guardano intorno, si accorgono di ciò che li circonda e si pongono domande. In particolare la signora riportava l'esempio di quanto avvenuto a casa sua in cui la figlia, vedendo la scena di una soap in cui due ragazzi dello stesso sesso si tenevano per mano e si abbracciavano, le ha chiesto spiegazioni. Gli adulti, soprattutto chi svolge il ruolo di insegnante, non può trovarsi impreparato di fronte a queste domande rispetto alle quali non si può né creare tabù né lasciarsi andare a risposte di valore personali e precostituite.

Si potrebbe fare un paragone analogo in riferimento alla morte, altra tematica scomoda che in genere mette in notevole difficoltà gli adulti. Come in questo caso non si può negare l'esistenza della morte, lasciandone però le spiegazioni alle famiglie in base alle proprie scelte morali e religiose, tanto meno si può negare oggi l'esistenza di relazioni affettive tra persone dello stesso sesso. Relazioni che magari i bambini vedono direttamente a scuola per la presenza tra le famiglie di coppie omogenitoriali. Se ignorare è una forma di discriminazione che non può essere accettata in una scuola che si ispira ai principi di uguaglianza dei diritti, come vuole la Costituzione, d'altra parte bisogna anche fare attenzione a come la scuola affronta questi temi per non rischiare ancora una volta, sul versante per così dire opposto, di ridurre il pensiero dei bambini, offrendo loro lezioncine di morale preconfezionate.

La vicenda della lettura del testo “incriminato” ha portato in collettivo un altro livello di riflessione che riguarda l'attenzione alle potenzialità che gli artefatti culturali che offriamo ai bambini (testi, immagini, materiali) hanno nello sviluppare il loro interesse prima e il loro pensiero critico successivamente.

Guardando ancora una volta le situazioni concrete, i bambini durante la lettura del libro avevano mostrato scarso interesse nei confronti della storia, per quanto la mamma lettrice fosse stata molto accurata nell'interpretazione e l'ascolto fosse stato supportato dalla proiezione delle immagini che accompagnavano il testo. Questo può essere dovuto a diversi fattori, tra i quali probabilmente anche l'età dei bambini o lo spazio ampio del salone in cui è avvenuta la lettura, ma c'è sicuramente dell'altro e questo altro sta proprio nell'operazione letteraria alla base del testo. Pur lodando la scelta editoriale che alcune case editrici stanno facendo nel promuovere testi che affrontano argomenti considerati in passato tabù e condividendo i contenuti e le provocazioni presenti nel libro, esso però si configura come un'elencazione di stereotipi e di domande e di risposte attorno ad essi già costituite. Di fatto non c'è una storia, non c'è uno spazio metaforico o interpretativo in cui si possa inserire l'immaginazione del bambino, che rischia di essere un ascoltatore passivo di una visione del mondo proposta da altri.

I bambini per fortuna non sono mai passivi ed è stata coerente e saggia la scelta delle insegnanti di proporre questo libro al termine del percorso e non, come troppe volte accade nella scuola, usando il libro come “sussidiario” intorno al quale concentrare tutta la riflessione sul complesso tema degli stereotipi di genere. I bambini hanno focalizzato, e questo dovrebbe rassicurare anche i genitori più spaventati, il fatto che a lei piacesse Spiderman, come a molti di loro maschi ma anche femmine, e che alla fine fosse felice.

Vorrei chiarire che la mia critica è rivolta non tanto al libro in sé, quanto al rischio di usare i libri come “aspirine”, come direbbe Alessia Napolitano, [9] soluzioni per affrontare i problemi, dove però il rischio è quello di mettere dentro anziché “tirare fuori”. Nel progetto della scuola, invece, l'obiettivo era proprio quello di tirare fuori le domande, i pensieri, i dubbi, il lavorio mentale dei bambini. In collettivo le insegnanti più volte si sono confrontate sulla difficoltà di procedere in questo modo.

Tutti i percorsi e gli interventi degli adulti mirati a ragionare sulla propria identità in relazione all'altro (per ciò che riguarda l'identità non solo di genere, ma anche culturale, fisica, valoriale) o che affrontano temi etici (il bene e il male, la giustizia, le regole) nascondono sempre il rischio che i bambini finiscano per dire ciò che gli adulti si vogliono sentir dire.

Quando il bambino di 3 anni a cui viene chiesto che colore vuole scegliere per dipingere il suo volto da lui ritratto risponde: “la mia faccia vorrei farla blu perché è un colore da maschi... e per le femmine”, in quei puntini di sospensione si può leggere un mondo. C'è l'aspetto positivo di un bambino che sta imparando a pensare tenendo insieme il maschile e il femminile, ma anche che forse ha capito qual è la risposta corretta; c'è dunque tutto il dubbio dell'insegnante che si interroga sul proprio ruolo, dove tenere una regia perché i bambini si possano confrontare tra loro mettendo insieme le proprie idee sul mondo in cui vivono, senza dare risposte o sostituirsi a loro, non è semplice. È però solo così che si può costruire l'autonomia di pensiero nei bambini.

 

Conclusioni

 

Ragionare con i bambini sulle differenze di genere in modo non stereotipato è un percorso che ha pienamente a che fare con la formazione dell'intelligenza, dal momento che questa non si configura tanto nella quantità di informazioni che si possiedono, quanto piuttosto nella capacità di interrogare la realtà e nella costante ricerca di risposte.

Questo vale per qualsiasi contenuto affrontiamo. I bambini arrivano spesso con delle risposte pronte su quelli che sono i possibili interrogativi che gli vengono posti; questo si verifica in parte perché è proprio del bambino cercare una soluzione e perché si tratta di un modo di esprimere l'idea che si sono fatti delle cose come forma di sintesi delle sollecitazioni che l'esperienza e gli adulti gli hanno fornito. Queste risposte sono spesso assolute e stereotipate.

Quando, ad esempio, lavoriamo con i bambini della scuola dell'infanzia su un concetto fisico come quello di forza, tra le prime risposte che danno c'è l'idea che la forza sia qualcosa che sta nei muscoli e che viene mangiando le vitamine e i famosi spinaci, che nell'immaginario sono ancora potenti anche se Braccio di Ferro è un personaggio non più attuale. Solo attraverso l'esperienza concreta, il confronto con la realtà, gli spiazzamenti, le domande aperte, la discussione con gli altri e gli strumenti per modellizzare il pensiero cominciano a intuire che la forza è qualcosa che si agisce, che posso esercitare e a mia volta ricevere e percepire.

Allo stesso modo per i bambini il mare è in prima battuta blu, ma è solo osservando le varie sfumature cromatiche che esso può assumere a seconda che sia il mare Adriatico o quello della Sardegna, che si tratti di un mare d'inverno o con la luce calda dell'estate, che i bambini sono messi di fronte a un problema cognitivo che li induce a ricercare, tra i vari materiali, la mescolanza dei colori, le diverse tonalità per rappresentare ciò di cui fanno esperienza, in modo non stereotipato.

Il percorso sull'identità e le differenze di genere riesce a problematizzare la questione degli stereotipi e a decostruirli, esercitando allo stesso modo la provocazione del dubbio, della messa in discussione. In questo modo i bambini si possono accorgere delle molte sfumature che l'identità individuale rispetto alla propria storia personale può assumere in termini di gusti, desideri e possibilità.

Da questo punto di vista, più che pensare a progetti specifici che propongono determinate esperienze, giochi, materiali ideati dagli adulti, la tematica delle differenze di genere, così come tutto ciò che a ha a che fare con lo sviluppo dell'identità, dovrebbe attraversare trasversalmente la progettualità didattica e educativa. Ancora una volta è la cultura delle insegnanti, la loro consapevolezza e conoscenza di come si strutturano gli stereotipi di genere e il loro ruolo nella formazione delle identità che possono sostenere una pratica educativa attenta e insieme capace di approfondire nella quotidianità gli aspetti salienti che strutturano l'idea di maschio e l'idea di femmina e come vengono letti e percepiti dai bambini. In questo modo non si tratta tanto di cosa proporre, quanto piuttosto di come svolgere il proprio ruolo educativo, a partire da come si allestisce il contesto, come si garantisce l'accessibilità ai materiali per i bambini e le bambine, la scelta delle parole e l'attenzione al linguaggio, le domande da porre e gli spiazzamenti a partire da quanto emerge dall'esperienza dei bambini.

In fondo alla base non c'è tanto l'idea di veicolare dei contenuti, quanto piuttosto di realizzare quell'educazione alla cittadinanza che ha a che fare con la costruzione di una capacità critica e di pensiero nei confronti del mondo.

Come evidenziato da Iacono (2009), quello della democrazia è anche un problema di ricerca: essere educati all'autonomia e a rivestire il ruolo di cittadini dipende non solo dal pur rilevante insegnamento dell'educazione civica, ma anche dall'esistenza di una mentalità individuale addestrata alla ricerca, alla domanda, al dubbio e alla critica.

I genitori che hanno accompagnato per il loro ruolo il progetto hanno capito le finalità più profonde, e lontani da sterili polemiche su un presunto pericolo di negazione delle differenze in nome di un'uguaglianza indistinta, hanno compreso come, al contrario, ciò che si cerca di fare è dare spazio al pensiero di ciascun bambino e alla sua personale visione delle cose.

Il contributo di due genitori dei 5 anni apparso sul giornalino della scuola sembra proprio cogliere questo aspetto:

 

La classe dei 5 anni si doveva recare al Duomo per la visita guidata e ho detto al mio Guido: “Mi raccomando, stai attento così poi mi racconti tutto”. La sua risposta è stata: “Mamma, io poi mi stanco ad ascoltare tutte quelle cose” e io: “Ma dai, Guido, che sono interessanti, Matteo [suo fratello] me le raccontava sempre”. La sua risposta, direi conclusiva, è stata: “Io sono un altro figlio... noi siamo diversi”… Ma quanto ha ragione il mio piccolo Guido?

 

Ogni bambino, reclamando il diritto a sviluppare una propria personalità che dialoga con le convenzioni sociali ma non le incorpora in modo acritico, sviluppa le basi per la costruzione di un pensiero autonomo quale risorsa irrinunciabile per un futuro adulto consapevole e capace di muoversi in modo competente nel mondo in cui vivrà.

Avere in mente, tra le finalità educative, l'autonomia di pensiero porta noi adulti a interrogarci sempre in modo riflessivo sulle nostre scelte e sulle nostre azioni nei confronti dei bambini. Il dubbio, non quello paralizzante che non porta mai a scegliere, ma inteso come atteggiamento interrogante che porta ogni volta a chiedere il “perché” delle cose, è proprio di quell’intelligenza emotiva prima citata.

Come evidenziato da Cervi (2012), quando un bambino cresce cercando sempre le motivazioni delle cose, dei fatti o dei comportamenti, acquisirà l’attitudine a scorgere in ogni situazione anche molto diversa da quella educativa, servita da spunto, un motivo di ogni cosa, di ogni fatto o di ogni comportamento.

Vorrei dunque concludere con le parole di una mamma, i cui dubbi rappresentano il significato di questo pensiero che non si accontenta mai e che dà pienezza alla relazione educativa:

 

Ma più di tutto mi ha portato a riflettere sugli stereotipi, e su quanto questi si facciano strada nei nostri pensieri e nelle nostre parole in modo automatico, un episodio avvenuto in prossimità del terzo compleanno di Ilaria... Ilaria sfogliando un giornale aveva visto la pubblicità di un gioco e aveva espresso il desiderio di ricevere proprio quello per il suo compleanno: si trattava di un furgoncino delle Tartarughe Ninja. La mia reazione istintiva è stata quella di domandarle se ne era proprio sicura, trattandosi di un gioco da maschio.

A mia discolpa posso soltanto dire che non ero certa che le potesse veramente piacere e che ho dubitato in ugual modo quando mi ha indicato un cofanetto di trucchi.

Lei comunque alla fine ha scelto un bambolotto, da femmina, e non paga di ciò, ha strappato tutte le pagine dei giochi da maschio, ovviamente presenti in una sezione separata rispetto a quelli femminili. Le piace molto il suo Cicciobello pioggia, lo accudisce, gli dà il biberon, lo mette a letto assicurandosi che non abbia freddo. Ma a volte mi domando quali giochi avrebbe potuto inventare con il van delle Tartarughe Ninja.

 

 

 

Bibliografia

 

Aertssen K (2007), La regina dei baci, Milano, Babalibri.

Alemagna B. (2014), I cinque Malfatti, Milano, Topipittori.

Cervi M. (2012), La ragione del cuore, Antropologia delle emozioni, Siena, Cantagalli.

Cretella C. et al., (2013), Generi in relazione. Scuole, servizi educativi 0/6 e famiglie in Emilia Romagna, Napoli, Loffredo Editore University Press.

Grossman D. (2010), L’abbraccio, Milano, Mondadori.

Iacono A.M. (2009), Filosofia coi bambini come esempio del rapporto tra ricerca e politica in un territorio. In L. Mori (a cura di), Filosofia con i bambini. Il modello ICHNOS, Pisa, ETS.

Morin E. (2002), L'identità umana, Milano, Raffaello Cortina.

Selmi L. e Turrini A. (1980), La sezione dei tre anni, Milano, Fabbri.

Veronesi I. (2005), L’alfabeto di Sergio Neri. Le parole del pensiero pedagogico di un grande educatore, Trento, Erickson.

Vezzoli G. e Di Lauro M. (2014), Mi piace Spiderman… e allora?, Cagli (PU), Settenovi.

Zolotow C. e Delacroix D. (2014), Una bambola per Alberto, Torino, Giralangolo.

 

 

 

 

[1] La ricerca "Stereotipi di genere, relazioni educative e infanzie (2011-2012) è stata promossa dall'Assessorato Sviluppo, progetto giovani, pari opportunità in collaborazione con l'Assessorato Promozione delle politiche sociali e di integrazione dell'immigrazione, volontariato, associazionismo e terzo settore della Regione Emilia-Romagna e realizzata dal CSGE (Centro Studi sul Genere e l'Educazione "Giovanni M. Bertin" dell'Università di Bologna.

[2] Solo nel Comune di Modena, su 171 educatrici/educatori di nido e 132 insegnanti di scuola dell'infanzia ci sono solo 2 uomini.

[3] Già negli Orientamenti Pedagogici del 1991 si afferma: “[…] la determinazione delle finalità della scuola dell'infanzia deriva dalla visione del bambino come soggetto attivo, impegnato in un processo di continua interazione con i pari, gli adulti, l'ambiente e la cultura”.

[4] Il corso Costruire il genere decostruendo gli stereotipi: come promuovere relazioni rispettose è stato proposto dal Centro Documentazione Donna e rivolto a insegnanti di scuola dell'infanzia e educatrici di nido.

[5] Altre domande su cui hanno lavorato e riflettuto con i bambini: il colore rosa è da maschio o da femmina? Ci sono mestieri da maschio e mestieri da femmina?

[6] In un’altra scuola dell'infanzia, la “Cimabue”, in una sezione dei 3 anni l'insegnante ha raccontato che, per un certo periodo di tempo, i bambini sia maschi che femmine facevano il gioco dell'essere “incinta”, con la classica modalità di mettere sotto la maglietta pupazzi di vario tipo presenti nella sezione. In quella stessa sezione non a caso c'erano un paio di bimbi le cui mamme erano in attesa. Il racconto condiviso con gli amici di questa esperienza si è trasformato subito in un gioco dove bambini e bambine si sono imitati a vicenda.

[7] In realtà la presenza maggiore dei padri nelle relazioni di cura è piuttosto controversa. Come apparso in un recente articolo pubblicato su “la Repubblica” (6 luglio 2015) di Maria Novella de Luca, i padri sembrano più investire il proprio tempo con i figli in relazioni di gioco prendendosi, per così dire, la parte più divertente dell'accudimento. Anche Elisa Truffelli, sempre all'interno della sopra citata ricerca per la Regione Emilia-Romagna, rivela come il coinvolgimento dei padri si manifesti in prevalenza come compartecipazione ai compiti di cura e non come loro assunzione totale ed esclusiva. È innegabile, tuttavia, che si stiano ugualmente registrando cambiamenti nel modo di svolgere e intendere il ruolo paterno e nello sguardo dei padri rispetto alla propria relazione con i figli.

[8] La serata è stata organizzata dal Consiglio di Gestione e dal gruppo di lavoro e ha visto la partecipazione di Giovanna Guerzoni (ricercatrice in Antropologia culturale, Dipartimento di Scienze dell'Educazione, Università di Bologna).

[9] Alessia Napolitano è una libraia esperta di letteratura per l'infanzia. Per le scuole e i nidi di Modena ha tenuto diversi incontri formativi e serate per i genitori.



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