Test Book

Approfondimenti

Non di soli muri

Elisa Farinacci

Sta ultimando il dottorato di ricerca in antropologia culturale presso il dipartimento di Storia, Culture, Civiltà dell’Università di Bologna in co-tutela con la Hebrew University di Gerusalemme.

Federica Filippini

Dottore di ricerca in pedagogia, lavora come pedagogista presso una scuola d’infanzia e un asilo nido. Collabora inoltre come docente a contratto con la Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione di Bologna.


Abstract

L’articolo illustra gli effetti del muro di separazione/segregazione nella vita quotidiana e nelle dinamiche conflittuali che intercorrono tra Israele e Palestina. Il muro come simbolo di incomunicabilità, distanza, de-umanizzazione. Ma quel muro non è “l’ultima parola”... Alcune testimonianze riporteranno lo spiraglio della speranza, perché il dialogo è sempre possibile anche in situazioni dolorose e complesse.



Non è possibile condensare in poche righe un conflitto complesso che prosegue da circa cento anni.1 Quello che proveremo a fare è raccontare l’oggi, dal nostro parziale punto di vista: una pedagogista e un’antropologa legate dal destino a quello spicchio di terra. Nelle pagine che seguono vi presentiamo il caso del muro di separazione conosciuto anche come barriera di sicurezza, o muro della segregazione, tentando di presentarvi sia gli effetti materiali sia psicologici ed emotivi che esso esercita sulla popolazione palestinese ed israeliana.

Nelle parole di un nostro amico che ha scelto di abitare a Betlemme emerge la drammaticità di quel muro, di ogni muro: «I muri senza appigli sono, nel mio immaginario più immediato, terra di sgomento. Al cuore evocano d’istinto una poesia della mia adolescenza, la poesia di Montale, Ossi di seppia: “E andando nel sole che abbaglia / sentir con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Confesso che la muraglia con i suoi cocci aguzzi di bottiglia non finisce di atterrirmi: disegna ai miei occhi un destino senza speranze. Il muro è duro, immobile, rimane fermo. Ti respinge. È l’esclusione. I muri ti gridano l’estraneità. Hanno nelle loro fessurazioni un grido di disumanità: “tu fuori!”. Forse per questo quando la mia generazione vide crollare un muro, sventolò un sogno: che fosse stata strappata per sempre la bandiera della disumanità? Poi, piangendo nell’anima, vedemmo altri uomini sprecare fatica e sogni a innalzare altri muri. Li vidi una sera nel tramonto a Betlemme. Erano muri imbevuti di gelo, di paura, di tramonto. Mi batté il cuore per un attimo, mi bussò il pensiero che tramontasse un sogno, il sogno che ci fa ancora degni di essere sperati. Ma questi muri sono cifra di altri muri. Ho visto quartieri della mia città circondati da muri. Più o meno invisibili. Da muri e da vigilantes. Muri sorvegliati. Come se celebrassero un’appartenenza chiusa e la diversità fosse in esilio. Ma forse i muri più gelidi sono dentro di noi, i più resistenti, i più decisivi: qui si è di una sola “pelle”, di una sola lingua, di una sola religione, di una sola cultura. Muri di paura. C’è chi teme il meticciato, temono pluralità di voci, sono monocordi. Noi invece stiamo con gli antichi che confessavano paura per gli uomini di un solo libro, gli uomini del muro» (M.).2 Vorremmo raccontare la realtà israelo-palestinese proprio a partire da quel muro tangibile segno di chiusura, estraneità, paura, che oggi serpeggia fra campi e villaggi, divide, separa, allontana, per scoprire come talvolta esso viene aggirato, scavalcato, abbattuto (metaforicamente parlando) da piccoli, ma resistenti, gesti quotidiani e progetti che aprono la via al dialogo, al riconoscimento reciproco e alla convivenza.

 

Il muro di separazione/segregazione cifra di ben altri muri

Se il processo di pace avviato alla fine degli anni ’90 aveva portato una ventata di speranza, aprendo spiragli a possibili accordi, l’attacco alle torri gemelle, l’inasprimento della lotta mondiale al terrorismo, l’uccisione di Rabin e lo scoppio delle due intifade hanno portato a una politica di chiusura e ad un irrigidimento dei rapporti da entrambe le parti, allontanando indefinitamente il possibile sogno della pace. Nel 2002, quando ormai era chiaro che il motto dei trattati di Oslo: “terra in cambio di pace” era divenuto solo utopia, il popolo palestinese e quello israeliano hanno visto concretamente realizzata la fine di quel dialogo faticosamente avviato: il muro di separazione/segregazione/difesa stava nascendo e giorno per giorno veniva costruito.

I muri sono strutture alquanto emblematiche, sia dal punto di vista funzionale e simbolico, sia per gli effetti psicologici ed emotivi che la loro presenza implica. Se dal punto di vista architettonico «i muri sono convenzionalmente considerati come strumenti funzionali per dividere, separare, conservare, proteggere, puntellare, o sostenere… i muri sono di solito percepiti come destinati a un compito materiale» (Brown, 2010, p. 73). Tuttavia i contesti in cui muri sono presenti drammaticamente influenzano le funzioni e i significati attribuiti ad essi. Pensiamo alle società contemporanee che, in un periodo storico come il nostro, in cui la globalizzazione, la mobilità delle popolazioni, il mercato globale, gli accordi di Schengen parrebbero aver abbattuto per sempre i confini e le barriere tra i diversi popoli, paradossalmente stanno registrando un trend di polarità inversa: l'innalzamento di nuovi muri. Consideriamo quello tra Messico e USA, fra Marocco e Spagna e, sempre in Marocco, per separare la zona del Fronte Polisario, fra India e Bangladesh, fra Corea del Nord e Corea del Sud, tra Uzbekistan e Kyrgyzstan, tra Arabia Saudita e Yemen, tra Zimbabwe e Botswana, tra Afghanistan e Pakistan, fra Kuwait e Iraq. Ma anche più vicino a casa nostra vengono eretti muri come quello di Belfast per dividere i quartieri protestanti e cattolici, quello presente a Cipro per separare la zona turca da quella greca, e il muro in via Anelli a Padova.

I muri dunque stanno, in maniera più o meno dirompente, tornando a serpeggiare tra le nostre società. Tuttavia, è importante capire cosa intendere quando si parla di “muro” contestualizzandolo e focalizzandosi sull’ incorporata esperienza che ne fa la popolazione. Di fatto nessuno obietterebbe al diritto alla privacy delle star di Hollywood che a Los Angeles erigono alti muri attorno alla propria dimora per tenere lontani da occhi indiscreti la loro vita privata. Allo stesso modo, raramente un cittadino si insospettirebbe nel veder costruire davanti a un palazzo situato vicino all’autostrada una barriera per proteggere gli inquilini dal rumore del traffico stradale. Pensiamo però a un passo successivo quello delle gated communities che stanno sviluppandosi sempre più frequentemente negli Stati Uniti. Questi “villaggi” interni a un quartiere erigono mura e cancellate attorno alle proprie case creando un senso di “protezione” attorno alle loro comunità e proprietà. Queste comunità appartenenti all’alta borghesia in un certo senso ci dicono qualcosa sulla funzione dei muri. Queste barriere, che rievocano vagamente le mura delle città fortificate medievali, non sono unicamente tecnologie per difendersi dalla criminalità, esse divengono anche emblema di uno status sociale: le classi ricche non devono mischiarsi con quelle popolari. Di conseguenza, ci troviamo davanti a muri che, a seconda del contesto in cui sono costruiti e a seconda di chi ne usufruisce, acquisiscono significati e funzioni molto diverse (Brown, 2010, p. 55).

Lo scoppio della seconda Intifada, gli attacchi di terrorismo e le conseguenti violente repressioni militari produssero un incremento di ostilità tra palestinesi ed israeliani, ciò diede il via al «progetto [di costruzione di una barriera difensiva] annunciato nell’aprile del 2002 e… affidato al ministero della Difesa [Israeliano]… nelle prime fasi della progettazione, il [suo] percorso fu diviso in sottosezioni, ognuna di qualche decina di chilometri» (Weizman, 2009, p. 164). La barriera è costituita per il 90% della sua lunghezza da un complesso sistema di rete metallica elettrificata e filo spinato, per il rimanente 10% si presenta nella forma di lastre di cemento alte otto metri. Il muro è un assemblaggio di diverse parti: trincee, cancelli agricoli, checkpoint, torri di guardia fortificate, corsie di pattuglia militare, filo spinato, reti elettrificate, telecamere, tornelli, metaldetector, macchinari per registrare le impronte digitali, che interagiscono tra di loro garantendo sicurezza e difesa nell’ottica israeliana e occupazione e sorveglianza per i palestinesi. Inizialmente pensato come «oggetto singolare, continuo, e[sso] si è rotto in frammenti, schegge, vettori privi di continuità. Come un verme tagliato in segmenti ognuno dei quali assume nuova vita, i frammenti di muro hanno iniziato ad avvolgersi» (Weizman, 2009, p. 180) intorno ai Territori Palestinesi separandoli a poco a poco dallo stato d’Israele e frammentandoli in numerosi arcipelaghi. A mano a mano che la costruzione del muro progrediva, sempre più esso è venuto a demarcare il confine tra i due popoli che non possono più muoversi liberamente tra quelle che sono divenute in tutto e per tutto due nazioni separate. Famiglie che vivevano in città a pochi chilometri di distanza tutto a un tratto si sono trovate divise da un muro e da un confine. Così descrive J. la sua esperienza con il muro e in particolare il sistema di controllo di entrata ed uscita che avviene ai checkpoint: «andando a trovare la mia famiglia, molte volte non potevo andare lì, è sempre come dire un’avventura, un rischio, è sempre un rischio. Ma questo, la libertà di movimento, è molto importante. Se voglio andare a Gerusalemme mi prende molto tempo, domani sono invitato, per esempio, al consolato del Belgio a Gerusalemme, però è una cena e non posso andare, perché è di sera» (J.). J. abitante di Betlemme e dunque cittadino palestinese, per poter andare a trovare la sua famiglia o come racconta, per poter partecipare ad un invito a cena, ha bisogno di permessi speciali concessi dallo stato d’Israele. Oltre a dover possedere permessi speciali, J. può passare solo a piedi il checkpoint che separa Betlemme da Gerusalemme e dunque deve mettersi in fila per quelli che possono essere minuti o ore a seconda dell’affollamento e della disponibilità dei militari israeliani. Infatti, è vietato agli abitanti palestinesi guidare con macchina targata Palestina nello stato d’Israele. Dunque J. potrà unicamente muoversi con i trasporti pubblici. Prima prenderà un autobus arabo fino alla stazione dei pullman arabi e dopodiché dovrà salire su un autobus ebraico per arrivare alla sua destinazione finale. Poco male qualcuno potrà pensare, a parte la scocciatura di pagare due mezzi di trasporto diversi sembra ancora possibile poter affrontare quello che da sette chilometri di distanza fra le due città diviene un vero e proprio viaggio. Peccato però che ci sia un ulteriore ostacolo: i pullman che portano al checkpoint smettono di viaggiare alle sette di sera costringendo J. a dover usufruire di un taxi o un autista privato. Perciò un invito a cena richiede parecchie ore di viaggio per poi rischiare di non poter tornare indietro o dover spendere cifre a dir poco sproporzionate per una distanza così breve.

La mancanza di libertà di movimento si traduce in molteplici impedimenti al normale svolgimento di attività quotidiane – lavorare, studiare, curarsi… – di coloro che erano abituati a muoversi tra località limitrofe ora sotto il controllo di due entità politiche differenti. Pensiamo alle sorti dei bambini malati del Caritas Baby Hospital raccontate da D.: «Quando [il fondatore] ha pensato all’ospedale, ha fatto un po’ di calcoli per vedere se valeva la pena costruire anche la parte chirurgica. Si era accorto che a Gerusalemme c’erano, e ci sono anche tuttora, dei reparti di pediatria chirurgica altamente specializzati per cui ha detto: “non vado a fare un doppione quando a 7 km da qua con l’ambulanza trasferisco il bambino e il post-operatorio lo facciamo qua e andiamo via tranquilli”. Questo discorso è andato bene fino alla prima Intifada, ma con la seconda Intifada sono incominciate a scricchiolare un po’ le cose. Dopo la costruzione del muro nessun palestinese può attraversare il checkpoint se non con un permesso particolare e questo succede anche con i nostri bambini, per cui quando ci arriva un bambino che ha bisogno di un intervento chirurgico, specialmente di alta chirurgia, per la quale dobbiamo trasferirlo in Israele, allora cominciamo con le pratiche per il permesso. Per le pratiche ci servono almeno sei o sette ore prima di avere il permesso e se dopo c’è un punto nero nella famiglia, un punto nero significa che magari qualcuno è attivista politico o ha fatto qualcosa per la patria, ci serve anche una settimana o undici giorni. Potete dunque immaginare cosa significa: se il bambino ha bisogno di un intervento chirurgico anche sette ore possono essere fatali. Se riusciamo ad avere il permesso, l’ambulanza palestinese si deve fermare al checkpoint e ha bisogno dell’ambulanza israeliana al di là del muro, per fare il trasferimento per permettere al bambino di arrivare all’ospedale, e non è detto che si arrivi in tempo» (D.).

Anche in questo frangente ci troviamo dinanzi a un impedimento, a una separazione, a una frammentazione di interazioni dove i due sistemi, anche se intenti a prestare soccorso, non si intersecano, ma solo fugacemente si incontrano. L’ambulanza con la targa palestinese non può entrare in Israele e all’ambulanza israeliana è proibito entrare in Palestina. Il muro potrebbe essere percepito come uno dei pochi luoghi in cui la popolazione può entrare in contatto l’una con l’altra, ma questo incontro non è mai egualitario; gli uomini e le donne comuni palestinesi si interfacciano con i soldati che detengono il potere di decidere chi far passare e se tenere aperto il cancello per permettere l’entrata e l’uscita.

Proprio nell’interazione, o meglio nella sua mancanza, troviamo il fulcro degli effetti psicologici ed emotivi del muro sulle popolazioni. Da un lato il muro ha creato una “dogana” dove solo alcuni palestinesi ricevono il permesso di passare, dall’altro un minaccioso cartello rosso all’entrata dei territori palestinesi informa i cittadini israeliani che è «illegale e un pericolo per la propria vita e contro la legge israeliana entrare nei territori sotto autorità palestinese».3

Durante una delle rare occasioni di incontro tra le due parti possiamo comprendere la profondità dell’azione separatrice del muro: «Poi una studentessa palestinese ha detto “questa è la prima volta nella mia vita che vedo un ebreo che non è né un soldato né un colono,4 ma uno studente normale come noi”. È la prima volta perché adesso con il muro, l’israeliano, l’ebreo, è il soldato o il colono israeliano. Questo non dà un’immagine veramente umana dell’altro e questo vale per entrambi… qui abbiamo una cultura del viso: non posso scrivere e-mail o avere contatti virtuali l’uno con l’altro no, devo vedere la persona, vedere la reazione, il sorriso eccetera. Così si creano le relazioni, le relazioni umane. Ecco il muro è una divisione psicologica, l’altro è un numero, non ha un viso, un nome. Questo è molto pericoloso per la maggioranza dei palestinesi, dei giovani, che conoscono gli ebrei soltanto come soldati o coloni e questo è importante» (J.) J., prete cattolico e insegnante di teologia all’Università di Betlemme, ci riporta le parole di una giovane palestinese coinvolta in un programma di incontro e scambio presso il Jerusalem Centre for Jewish-Christian Relations (JCJCR) in cui giovani studenti ebrei e cristiani hanno la possibilità di incontrarsi e conoscersi. Toccante è infatti la dichiarazione della studentessa che si accorge che gli israeliani non sono solo dei soldati, ma anche dei ragazzi e degli studenti come lei. Il muro non è solo una divisione di cemento, ma anche una separazione relazionale che nasconde l’umanità dell’altro. Come una cortina di fumo cela le somiglianze tra le due parti riducendo l’altro all’etichetta disumanizzante di nemico. «… il muro serve anche a questo, a nascondere la realtà, serve a spaccare le relazioni. Io lo chiamo “diabolico” proprio per questo, perché spacca le relazioni. C’era tanta amicizia prima, tra le persone semplici, tra i palestinesi da una parte e dall’altra gli israeliani, i musulmani, gli ebrei, i cristiani. Il muro ha spaccato queste relazioni. Allora se tu non conosci l’altro hai paura perché, c’è un proverbio arabo, “non c’è chi fa paura, c’è chi ha paura” e quand’è che uno ha paura? Quando non ci conosciamo, se io non ti conosco forse un po’ di paura me la posso permettere, ma quando ti ho conosciuto non posso più avere paura di te» (M.) E ancora J. afferma rispetto all’impossibilità di muoversi e fisicamente organizzare momenti di incontro e scambio: «non ci incontriamo, non abbiamo una faccia per loro. Siamo per loro “i palestinesi” e loro per noi “gli israeliani”. Non conosciamo delle persone e per il futuro di pace qui questo è molto grave, molto grave».

Proprio nella verticalità del muro si trova il suo potere più forte e distruttivo; proprio nella sua materialità di cemento armato si cela l’insidia per queste due popolazioni lacerate dalla paura e dal costante conflitto. Ebbene il muro lacera e spacca, come possiamo dunque parlare di pace e riconciliazione quando alle due parti è impossibile entrare in contatto? M. ci svela una grande verità non solo sul muro tra Israele e Palestina, ma su tutti i muri e sulla natura dell’interazione umana con il diverso.

M. parla di paura. Quando l’altro, il diverso perde anche il suo volto, le sue ambizioni, i suoi sogni, le sue passioni, diviene molto più facile pensare alla sua vita come spendibile; quando non lo si conosce e si ha paura di lui diviene più facile chiudere un occhio sulle ingiustizie che su di lui vengono perpetrate.

 

Andare oltre il muro

Una frase che si incontra non solo nei testi, nei diari, nelle interviste, ma che spesso ti senti ripetere dalle persone incontrate è: «Francamente non puoi capire di cosa sto parlando finché non lo vivi». Ed è effettivamente complesso provare a calarsi nei panni di una madre israeliana che volontariamente ogni mattina sceglie di far prendere ai propri tre figli autobus diversi per andare a scuola, «se avviene un attentato, così facendo, spero che almeno uno di loro torni a casa»; piuttosto che le emozioni di uno studente che vive ad Askelon, vicino alla striscia di Gaza, che ha perso compagni di scuola colpiti dai lanci di razzi dai territori palestinesi. Oppure il vissuto di un palestinese che quotidianamente fronteggia soldati israeliani, che si confronta con l’impossibilità di muoversi liberamente, vive sotto occupazione, passa fra checkpoint fissi e altri che sorgono arbitrariamente giorno per giorno, che rischia di perdere il lavoro o di non poter raggiungere gli ospedali o le scuole, che può essere incarcerato anche per diversi giorni o mesi senza la formulazione di un’accusa formale, subisce decisioni esterne che incidono profondamente sulla sua vita privata.

Il muro è un messaggio chiaro, un messaggio carico di odio e paura, di incomprensione, di distanza, ma ha un effetto concreto sulla vita delle persone. D. che lavora al Caritas Baby Hospital di Betlemme, l’unico ospedale pediatrico della Cisgiordania, ci racconta un episodio che ben evidenzia “i muri” interiori di queste popolazioni. «Ci è arrivato un bambino ebreo alcuni mesi fa e dovevano portarlo da un insediamento qui vicino a Gerusalemme, stava male e hanno preso la strada più veloce, il bambino stava male e si sono fermati lungo la strada e hanno chiesto se c’era nei paraggi un medico, un pediatra, gli hanno indicato il Caristas Baby hospital. Subito abbiamo visto che era un bambino ebreo, la mamma era terrorizzata perché le avevano sempre detto che i palestinesi erano terroristi e le avrebbero ucciso il figlio. Il nostro personale lo ha accolto, per noi è un bambino e basta, lo abbiamo curato, fatto un primo intervento per permettergli poi di andare a Gerusalemme e proseguire per l’ospedale. La mamma prima di partire in lacrime ha detto “quando tornerò al mio insediamento dirò alle persone che non è per niente vero che i palestinesi sono terroristi, anzi che sono persone che hanno fatto vivere mio figlio” quindi, se non altro, una famiglia dall’altra parte [del muro] la pensa in modo diverso. Però questo per dire il nostro personale ha un cuore grande ed è capace di andare oltre».

Il muro è una presenza costante e condiziona fortemente il proprio modo di vivere, crescere, interpretare il mondo. Così ci racconta una suora che lavora in un asilo nel campo profughi di Aida di Betlemme: «ogni tanto i bambini ci chiedono “ ma cosa c’è di là?” allora vai tu a dirgli che ci sono i campi ci sono le case, ci sono i bambini come te. Però una cosa che mi ha impressionato molto, una cosa che mi è rimasta impressa veramente, 3 anni fa, quando abbiamo fatto il primo campo scuola, c’era un gruppo di giovani italiani che voleva venire e rendersi utile alla gente del posto allora ci siamo messi d’accordo con gli scout e abbiamo organizzato un campo scuola qui da noi. L’ultimo giorno gli italiani hanno detto ai bambini “noi italiani disegniamo qualcosa della nostra terra, voi bambini disegnate qualcosa della vostra terra, del vostro paese”. Non so si pensava disegnassero il Muezzin, il minareto, disegnassero il piatto di riso, qualcosa… ma tutti, erano 40 bambini, tutti hanno disegnato il muro con la bandiera israeliana che bruciava. Cioè lì ti ha fatto vedere l’odio che il popolo ha: sono una generazione che vive nell’odio» (N.).

Superare la visione semplicistica dell’altro, andare ad abbattere i muri di chiusura non è un passo scontato o banale, ma tante sono le storie e le voci ascoltate che ci fanno scorgere crepe che ingentiliscono la barriera e danno speranza.

A., ad esempio, è un giovane palestinese di Betlemme che vive sotto occupazione. Una mattina come tutte le altre stava andando al lavoro in taxi alle 7.30 del mattino, con lui c’era uno dei suoi fratelli. Una macchina proveniente dalla colonia5 che sorge vicino a Betlemme, in zona palestinese, viaggiava in direzione opposta a forte velocità e in curva la donna alla guida, perdendo il controllo del mezzo, dopo una serie di paurosi cappottamenti, è finita fuori strada. L'autista del taxi era scioccato, A. e il fratello invece uscirono prontamente dalla vettura e fanno qualcosa che apparentemente può risultare “normale”: si preoccupano di prestare soccorso alla donna. Ma se sei arabo e dall’altra parte della strada ti trovi di fronte un colono è difficile superare una divisione invisibile eppure tangibile. «La macchina era ribaltata e c'era molta polvere, abbiamo cercato di aprire la porta, di rompere il vetro, sono arrivate altre persone per aiutarci, siamo riusciti a tirar via il finestrino e ho visto una cosa bella e triste allo stesso tempo: la donna mi porgeva il suo bambino, lui stava bene, nonostante l'incidente stava benissimo, l'ho portato in macchina, lui era tranquillo». Due “nemici” eppure da un lato non esitano ad aiutare e salvare una persona in difficoltà, dall’altro il primo gesto è quello di fiducia, di affidamento del proprio figlio di pochi mesi. Emerge la non conoscenza reciproca, lo scudo creato dal muro per nascondere e rendere invisibile chi abita a poca distanza, ma anche la meraviglia nel trovare aiuto proprio nel “nemico”. Altre decine di palestinesi in poco tempo si sono radunati per aiutare, portare acqua, chiamare l'ambulanza.

In un luogo dove anche le ambulanze per prestare soccorso devono aspettare “al di là” del muro, nella propria “zona di competenza” e far passare i feriti, malati, a piedi, questa storia commuove per la possibilità di andare oltre, di superare paure e pregiudizi e di “scommettere” su una relazione di fiducia con un altro estraneo e normalmente tenuto lontano. «È stato normale per me salvarla, perché siamo tutti umani e non possiamo vedere un incidente così e non fare nulla».

Per comprendere appieno il significato e la portata del gesto di A. bisogna però conoscerne la storia, il vissuto doloroso che si porta nel cuore. A. stava tornando da scuola, una mattina come tante sulle strade polverose verso il suo villaggio vicino a Betlemme. Ma quella mattina il suo mondo è cambiato per sempre. Correva, giocava, si attardava in compagnia del fratello minore sulla via di casa. Poi all’improvviso una macchina è sbucata dal nulla, correndo a forte velocità. I due fratelli si sono fatti da parte, spostandosi dalla carreggiata e hanno continuato il cammino. Ma quella macchina ha segnato il loro destino. Sotto gli occhi di un incredulo A., quella macchina ha centrato e investito suo fratello, trascinandolo per qualche metro. Non è stato un incidente, una fatale distrazione di chi era alla guida o una disgrazia, è stata invece la folle e crudele volontà di uccidere: la macchina è tornata indietro, ripassando sul corpo di quel bambino una seconda e una terza volta, davanti agli occhi di un altro bambino, terrorizzato e impotente. Alla guida un colono ebreo. A. aveva 8 anni, suo fratello solo 6, era il suo primo giorno di scuola.

La resistenza rispetto ai meccanismi sopra descritti in questa terra ha il sapore dell’incontro e della non-resa. Non arrendersi di fronte a chi addita l’altro come nemico e terrorista, non arrendersi di fronte a un sistema che nega le informazioni o le fornisce storpiate, sbiadite, colorate di tinte fosche, significa cercare una verità altra e un futuro diverso dove la paura si possa abbattere. Significa non arrendersi anche se viene negata la libertà, la mobilità, l’identità, la storia, la cultura, significa rivendicare tutte queste cose tutelandole e difendendole e sognando un futuro migliore per sé e per i propri figli. Significa per entrambi avere il coraggio di alzarsi e dire: “io non ci sto”, questo conflitto, questo continuo logorio reciproco disumanizzante per entrambi non mi rappresenta e farò quanto è in mio potere per aprire delle crepe, perché è dalle crepe che filtra la luce. Significa cercare il contatto con l’altro, per cambiare insieme rotta. Diverse sono le realtà impegnate a creare brecce nei muri di non conoscenza e non dialogo.

Il Parent Circle, ad esempio, è un’associazione impegnata in un difficile cammino di riconciliazione mentre il conflitto è ancora in atto. Sono genitori, famiglie in lutto, che hanno perso un parente stretto a causa delle violenze nella regione e che hanno scelto di mettere insieme le loro sofferenze al posto di cercare una vedetta o chiudersi nell’odio scoprendo di avere più cose in comune di quante sono quelle che dividono. Il primo forum di famiglie è iniziato nel 1995, e oggi conta diverse centinaia di aderenti. I loro scopi sono la prevenzione di futuri lutti e sofferenze, l’avvio di un processo di pace facendo pressione sui governi, l’educazione alla pace e alla riconciliazione, il sostegno reciproco fra i membri. Il loro raggiungimento viene portato avanti su più fronti, dalle produzioni cinematografiche e televisive a quelle teatrali, dagli incontri ai seminari formativi, dalle conferenze alle manifestazioni, dalle letture pubbliche ai campi estivi per i bambini. È davvero ricca la loro esperienza per poterla qui ridurre in poche righe. Ciò che più conta è il messaggio che portano avanti da oltre quindici anni: il dolore, quello cieco e profondo per la perdita di un caro, si può trasformare in solidarietà, in impegno per promuovere un mondo migliore. La vulnerabilità diventa la strada per creare legami e non per lasciare spazio alla paura e all’odio. Così testimonia R. «da quel giorno ho dedicato la mia vita a una cosa sola: andare da un orecchio all'altro e da persona a persona a gridare a gran voce a tutti coloro che sono disposti ad ascoltare e anche a coloro le cui orecchie sono bloccate: questo non è il nostro destino! Da nessuna parte sta scritto che dobbiamo continuare a morire e a sacrificare i nostri figli per sempre e per sempre in questa difficile e complicato paese. Possiamo e una volta per tutte dobbiamo - fermare questo circolo vizioso completamente folle di violenze, omicidi e rappresaglie, vendette e punizioni. Questo ciclo senza fine, senza scopo, senza vincitori. […] E noi, le famiglie in lutto, insieme dal profondo del nostro dolore reciproco, vi diciamo oggi e continueremo a dirlo anche domani: “il nostro sangue è dello stesso colore rosso, la nostra sofferenza è identica, e tutti noi abbiamo esattamente le stesse lacrime amare. Quindi, se noi, che abbiamo pagato il prezzo più alto possibile, siamo in grado di portare avanti un dialogo ognuno può!”».6

Machsom Watch. È un gruppo di donne volontarie che osservano e vigilano ai checkpoint per monitorare l’azione dell’esercito israeliano e prevenire determinati abusi e violenze. La sola presenza di donne ebree, infatti, funge da deterrente. Il doppio intento a vigilare in maniera non violenta e a denunciare la situazione palestinese e la realtà del muro e dei checkpoint è fondamentale, soprattutto in una società come quella israeliana in cui le notizie non giungono o giungono filtrate. Cinque donne coraggiose hanno iniziato questo movimento nel 2001 che oggi conta diversi volontari. È simbolo che non tutti i cittadini israeliani sostengono e concordano con la politica del proprio governo.

Neve Shalom – Wahat al Salam. Su una collina a metà strada fra Tel Aviv, Gerusalemme e Ramallah, è adagiata un’oasi, ma non un’oasi qualsiasi, un’oasi di pace. È un villaggio, reale e concreto, dove vivono arabi ed ebrei, tutti di cittadinanza israeliana, cristiani, ebrei e musulmani, per costruire ogni giorno una pace incarnata nella quotidianità. Gli abitanti hanno scelto di creare una comunità basata sulla condivisione, per cambiare la realtà asimmetrica delle relazioni sociali fra arabi ed ebrei, per sviluppare e promuovere modelli più egualitari di convivenza civile, nella convinzione che questa sia l’unica via per la pace. Questo villaggio è nato negli anni settanta grazie alla volontà di Padre Bruno Hussar e da allora porta i suoi ideali. Questa cooperazione si esprime attraverso alcuni principi fondamentali: quello dell’equità, della parità numerica, della gestione democratica e della partecipazione aperta e libera. Sono sorti nel corso del tempo alcuni progetti che hanno aperto la comunità anche all’esterno:

  • La scuola del villaggio, che accoglie in un sistema bilingue e binazionale bambini dalla prima infanzia fino al corrispettivo della nostra scuola media, in classe in compresenza è presente un insegnante ebreo ed uno arabo che insieme portano avanti in equità e rispetto reciproco un insegnamento bilingue e biculturale. In Israele i cittadini arabi e quelli ebrei normalmente frequentano istituti separati,7 questa proposta educativa quindi è tanto rara quanto preziosa.

  • La scuola per la pace, che promuove seminari, corsi e percorsi per diverse fasce d’età e professioni (dagli adolescenti agli adulti) in cui ebrei ed arabi si incontrano per meglio comprendersi, attraverso una profonda analisi e un critico esame delle relazioni fra i due popoli. Le attività promosse pertanto aiutano i partecipanti a sviluppare un pensiero critico e a svelare i meccanismi impliciti che mantengono lo stato sociale attuale e alimentano il conflitto stesso; non solo, attraverso i programmi gestiti dalla Scuola, i partecipanti conosco meglio la realtà in cui vivono, prendono coscienza del proprio ruolo e di come operare per cambiare la situazione, infine affrontano e conoscono il tema del conflitto da un punto di vista sociale e psicologico.

  • Infine, un centro pluralistico religioso, in cui si porta avanti un dialogo interreligioso. La religione, in accezione ampia, non più barriera e simbolo di incomunicabilità e chiusura, ma ponte fondato su possibili basi comuni.

 

Nelle parole di R. abitante del villaggio riecheggia tutto lo spirito di questa piccola e tenace oasi di pace: «Una condizione da cui partire è vedere e considerare gli altri come uguali a te. Dobbiamo iniziare a pensare a cosa abbiamo in comune. Ma in un conflitto si tende a de-umanizzarsi a vicenda. Più hai bisogno di sentirti nel giusto, più hai bisogno di far sembrare gli altri nel torto. Se ti faccio apparire nel torto tutto il tempo, ti critico, parlo male di te e mostro agli altri quanto sono migliore di te, allora mi sentirò meglio. E questo è solo l’inizio, ma non si ferma qui, devo anche iniziare a de-umanizzarti come persona. E questa de-umanizzazione è molto pericolosa perché ti può portare al punto in cui puoi commettere atti di violenza contro altre persone senza sentirti in alcun modo colpevole. Comincia con molta rabbia e la rabbia diventa odio e l’odio è un’emozione che deve essere trasformata in azione, l’azione è colpire più forte che puoi e alla fine sei capace uccidere una persona innocente sentendo quasi una sorta di soddisfazione, come una risposta ai tuoi bisogni.

A noi piace semplificare le cose, noi e loro, ebrei ed arabi, ma questo è un trucco, non è la verità, la verità è che tutti noi come individui viviamo in conflitto, e la gente non realizza che per vivere in pace e per fare la pace a un livello più grande, dobbiamo iniziare dai piccoli e insegnare nelle scuole in maniera diversa: smettere di trasmettere questa idea di nazionalismo, la nostra nazione, la nostra bandiera, il nostro inno, e tutto questo genere di cose che ci fanno sentire fieri e orgogliosi della nostra eredità, della nostra nazionalità e della nostra storia, ma questa è una bugia. Voglio dire perché dovresti sentirti differente? Per generare un cambiamento che possa modificare tutte le nostre costruzioni bisogna iniziare con le scuole, con i bambini, insegnare loro ad assumersi le proprie responsabilità, a dimenticare e perdonare, a rispettare ciascuno. Non c’è nessuna necessità per noi di sentirci superiori e diversi a causa del proprio nome, della propria storia o del proprio colore. Prima realizziamo che i nostri problemi sono universali e che siamo tutti esseri umani, prima inizieremo a trovare una soluzione» (R.).

Ichad – Israeli Comittee Against House Demolitions. Questa organizzazione nasce nel 1997 con lo scopo di porre fine all’occupazione della Palestina da parte dello Stato d’Israele liberando sia il popolo palestinese sia il popolo israeliano dal giogo della violenza strutturale e costruendo l'uguaglianza tra i loro popoli attraverso il riconoscimento e la tutela dei diritti umani. L’obiettivo principale di questo Comitato è quello – esplicitato nel suo stesso nome – di contrastare la politica di demolizione delle case e delle proprietà attuata da Israele, strumento di occupazione e umiliazione; inoltre organizzano viaggi all’interno dei territori per conoscere in maniera diretta la realtà palestinese e cercano in patria e all’estero di incidere nelle politiche interne e internazionali per avviare un processo di pace.

Come abbiamo visto, oltre a singoli episodi, quotidiani gesti di resistenza al contesto che incasella in dinamiche distruttive, esistono progetti e associazioni che creano occasioni di incontro, dialogo, scambio, perché quel muro non sia “l’ultima parola” nei rapporti fra le due popolazioni, né la tomba al processo di pace.

Le azioni di aiuto e collaborazione dal basso, anche se ancora gocce nel mare, sono importanti segnali di speranza. Con tenacia e costanza, impegno e responsabilità ogni giorno in molti scelgono un’altra via anche laddove la sofferenza riduce la capacità di guardare con occhi nuovi.

 

Riflessioni conclusive

 

In un mondo globalizzato dove non regge più la semplicistica visione del barbaro come colui che minaccia i confini nazionali, sempre più labili, l’“altro” diventa il vicino fisicamente da tenere lontano. In un mondo unico dove gli “inclusi” si asserragliano e si difendono come possono dagli “esclusi”, la minaccia non è più solo oltre i confini concreti, ma è presente, diffusa, sfuocata. Se pensiamo agli avvenimenti degli ultimi vent’anni, dalla guerra in Yugoslavia e poi in Kosovo, alla lotta al terrorismo, fino alle faide dietro l’angolo di casa nostra, dal caso eclatante di Erba alla violenza che scatta rabbiosa fra i banchi di scuola, non possiamo non accorgerci della diffusa incapacità ad «affrontare il conflitto con umanità» (Besemer, 1999, p. 9). «La nostra è l’epoca della diffidenza» (Benasayang e Del Rey, 2008, p. 9) oltre che delle passioni tristi. Il punto è proprio capire non come eliminare il conflitto, ma come vivere insieme attraverso il conflitto, assumendo anche come dato di fatto che il caos e l’ingovernabilità siano parte di noi e come tali ogni tentativo di assoggettarli o rimuoverli violentemente risulti semplicistico, talvolta disastroso ed esplosivo. Il conflitto, in condizioni che lo consentano, può essere invece affrontato come un «passaggio verso la liberazione» (Gigli, 2004, p. 5), che permettano di riprendere in esame i rapporti, le dinamiche con l’altro in maniera critica, costruttiva, di rinnovamento ed emancipazione. È la strada stessa verso la democrazia, come afferma Morin «è il gioco della diversità e dei conflitti di idee e di opinioni che rende vitale la democrazia. La democrazia deriva sì dai conflitti, ma c’è un modo per regolare gli scontri che evita la brutalità: è un gioco che permette il conflitto e la produttività. E questo significa molte cose, significa rispettare le minoranze, non unicamente le due, tre grandi visioni del mondo; ma anche le opinioni dei piccoli gruppi possono essere feconde» (Morace, 2003, p. 29).

La strada che viene tracciata è quella fondata sul dialogo, l’ascolto e la convivenza. Una strada che abbia il coraggio di superare la tolleranza, come rifugio di una convivenza che è “semplice” coesistenza delle diversità, più che reale reciprocità, come arroccamento e difesa delle proprie posizioni e della propria identità, più che ricerca di interdipendenze, osmosi, influenze (Genovese, 2003) e seppure la tolleranza «è una cosa molto difficile, perché rispettare un’idea diversa dalle nostre è un fatto soggettivamente insopportabile» (Morace, 2003, p. 29), è necessario riconoscere che «la vita dell’altro non può essere tollerata; l’altro, lo straniero, l’immigrato, perfino il “nemico” ha una sua pienezza di diritti che gli vanno riconosciuti in quanto tali, e proprio per questo vanno rispettati, sempre. Spesso il meccanismo della reciprocità non riesce a scattare, a funzionare in maniera piena perché l’universo dell’altro ci appare monolitico, insondabile e inavvicinabile: ed è qui che occorre mettere in atto quell’impegno razionale che può portarci a “comprendere”, a distinguere e vedere chiaroscuri dove tutto sembra profondamente nero» (Genovese, 2003, p. 194).

È necessario partire da noi stessi, dai nostri muri che quotidianamente ci costruiamo, talvolta anche senza esserne del tutto consapevoli, per difenderci dall’altro, da chiunque altro, dalla fatica che implica la relazione con l’altro (Grossman, 2008). Quello che la quotidianità e la brutalità del muro di separazione/segregazione ci può insegnare è porre attenzione proprio ai confini non meno tangibili che mettiamo per delineare l’io – il noi – dal tu – dal voi.

Promuovere una cultura e un’educazione della pluralità, della relazione, della responsabilità e della solidarietà è un imperativo, a mio avviso, verso cui tendere tutti i nostri sforzi e che deve farsi metodologia stessa di azione educativa. Possiamo scegliere la strada della chiusura e del barricamento oppure quella del dialogo e del confronto. Ma come illustrato dalle storie narrate, dalle voci ascoltate e dalle “buone prassi” riportate, la seconda strada apre al possibile e al cambiamento, ma soprattutto arricchisce e fa crescere, mentre la prima fa scivolare in derive pericolose per sé e per gli altri e rende il nostro orizzonte un po’ più scuro.

 

 

Bibliografia

 

Bar Tal D. e Oren N. (2006), The detrimental dynamics of delegitimization in intractable conflicts: the Israeli – Palestinian case, «International Journal of Intercultural Relations», vol. 31, pp. 111-126.

Bercovitch J. (2003), Characteristics of intractable conflicts, «Beyond Intractability», Conflict Research, Consortium, University of Colorado, Boulder, Posted: October 2003, http://www.beyondintractability.org/essay/Characteristics_IC

Benasayang M. e Del Rey A. (2008), Elogio del conflitto, Milano, Feltrinelli.

Besemer C. (1999), Gestione dei conflitti e mediazione, Torino, EGA.

Brown W. (2010), Walled States, Waning Sovereignty, New York, Zone Books.

Burgess H. e Burgess G.M. (2003), What are intractable conflict? «Beyond intractability», Conflict Research Consortium, University of Colorado Boulder, Posted: Novembre 2003, http://www.beyondintractability.org/essay/meaning_intractability.

Contini M. e Genovese A. (1997), Impegno e conflitto, Firenze, La Nuova Italia.

Deutsch M. (1973), The resolution conflict: constructive and destructive processes, New York, Yale University Press.

Genovese A. (2003), Per una pedagogia interculturale, Bologna, Bononia Press University.

Gigli A. (2004), Conflitti e contesti educativi. Dai problemi alle possibilità, Bergamo, Junior.

Grossman D. (2003), Con gli occhi del nemico, Milano, Mondadori.

Hussar B. (1996), Quando la nube si alzava. La pace è possibile, Genova-Milano, Marietti.

Neve Shalom/Wahat al salam (1994), Camminando sul filo. La scuola per la pace, Bologna, Emi.

Morace F. (a cura di) (2003), Edgar Morin dialogo. L’identità umana e la sfida della convivenza, Milano, Scheiwiller.

Madri, di Barbara Cupisti, Rai Cinema e Digital Studio, documentario Italia, 2007.

Weizman E. (2009), Architettura dell’occupazione, Milano, Bruno Mondadori.

 

Siti internet

http://beyondintractability.org

www.nswas.org

www.oasidipace.org

www.machsomwatch.org/en

www.ichad.org

www.theparentscircle.org

 



1 Le prime rivolte arabe e i primi scontri fra le due popolazioni risalgono infatti al periodo 1920-36 durante il mandato britannico sulla zona.
2 Le interviste riportate sono state raccolte nel corso delle ricerche per le tesi di dottorato delle autrici.
3 Il cartello è scritto in tre lingue Ebraico, Arabo e Inglese “This road leads to area A under Palestinian authority the entrance for Israeli citizens is forbidden, dangerous to your lives and is against the Israeli law”.
4 Colono è un termine che si riferisce ad ebrei ortodossi che per motivazioni religiose si insediano e costruiscono le loro case in territori sotto l’autorità Palestinese da loro identificati come le regioni bibliche di Giudea e Samaria.
5 Alle porte di Betlemme sorge un insediamento israeliano abitato da ebrei ortodossi.
6 http://www.theparentscircle.com/Story.aspx?ID=415, visitato in data 23 Marzo 2015.
7 Un altro progetto di scuola bilingue è Hand in Hand – www.handinhandk12.org – di cui però non ho una conoscenza diretta, come per gli altri progetti presentati.

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