Approfondimenti
“Nessuno libera se stesso. Nessuno libera l’altro. Ci liberiamo insieme” - Dai fatti di Parigi una riflessione sulla pratica della libertà in educazione rileggendo Paulo Freire
Nadia Bonora
Tutor didattico Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione
Abstract
A partire dai fatti di Parigi, con l’attentato alla redazione del giornale Charlie Hebdo e a uno dei supermercati della catena kosher Hypercacher a Porte de Vincennes, l’articolo si interroga, sulla necessità di ripensare i nostri atti educativi. Per farlo ripercorre il pensiero di Paulo Freire, pedagogista brasiliano, che ha fatto di parole come libertà, responsabilità, coscienza, un fondamento per l’azione educativa quotidiana. Anche qui, oggi, in Europa, questa necessità è urgente: nell'attuale crisi culturale, prima ancora che sociale e politica, l’impegno pedagogico deve essere volto ad affrontare la complessità delle società multiculturali con rinnovato spirito umanitario, smascherando i meccanismi di passività, individualismo, conformismo.
Dagli attentati, sono passati due mesi, Parigi è diversa. Sulla metro militari armati sino ai denti, rassicuro i bambini dicendo loro che i militari sono qui per difendere la città, ma mi guardano impauriti e mia figlia di dieci anni mi chiede: “Ma se dal mitra parte un colpo? Ho paura scendiamo?” Guardo i miei bambini correre e giocare a Place de la République, intorno alla statua ci sono ancora le candele e le scritte in ricordo di Charlie Hebdo. Parigi continua a vivere, ma non è più la ville in cui ho abitato... oggi ci siamo fermati a Châtelet alla maratona e una signora mi ha detto: “Abbiamo bisogno di allegria abbiamo subito troppo”. I media hanno parlato poco del vissuto delle persone... durante il sequestro al supermercato, in cui sono state uccisi quattro innocenti, i bambini sono stati trattenuti a scuola per ore per ragioni di sicurezza. Ovviamente le insegnanti hanno fatto il possibile per rassicurarli, ma immaginatevi il loro vissuto e quello dei loro genitori... La città ha bisogno di ricominciare a vivere, soccombere alla paura significa finire nella trappola cui i terroristi auspicano.1
Atroci attentati a Parigi il 7 Gennaio e il 9 Gennaio hanno sconvolto la Francia e non solo. Il primo, contro la redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo. Due uomini armati, i fratelli Cherif e Said Kouachi hanno aperto il fuoco e hanno ucciso dodici persone, ferite undici di cui quattro in modo grave. Tra le vittime ci sono quattro disegnatori: Wolinski, Tignous, Cabu e Charbonnier, quest’ultimo direttore del giornale. Già nel novembre del 2011 negli uffici del giornale era stata lanciata una bomba molotov. Anche allora il giornale aveva pubblicato vignette satiriche su Maometto.
Due giorni dopo, il 9 Gennaio, un altro attentatore, Amedy Coulibaly, entra in un supermercato e prende in ostaggio dei clienti. Le forze dell’ordine fanno irruzione nel supermercato kosher di Porte de Vincennes per liberare gli ostaggi. Quattro persone erano già morte durante il sequestro. I due attentatori del giornale e quello del supermercato sono uccisi dalle forze speciali di polizia.
La reazione del Paese è immediata: quasi quattro milioni di persone manifestano in tutta la Francia in difesa della libertà di espressione al grido di: “Siamo tutti Charlie!” A Parigi sfilano in corteo molti leader mondiali guidati dal presidente Francoise Hollande. Alcune di quelle presenze suscitano però polemiche dato che nei loro paesi la libertà di stampa non è proprio rispettata come la Turchia, il Gabon, l’Ungheria, la Russia e l’Arabia Saudita.
I terroristi degli attentati del gennaio 2015, particolarmente feroci, sono nati e cresciuti in Francia, qualcuno li ha già definiti “terroristi fatti in casa” e sono solo gli ultimi di una serie iniziata da due decenni. Farhad Khosrokhavar, sociologo franco-iraniano dice che «si tratta di giovani con un passato criminale, che hanno alle spalle reati per furto o per traffico di droga. Quasi tutti sono stati in carcere e quasi tutti non erano musulmani praticanti. Poi, sono diventati dei musulmani born again attraverso la riscoperta delle proprie radici o dei jihaidisti convertiti sotto l’influenza di un guru, di amici o grazie a quello che hanno letto su Internet. Tutti hanno fatto un viaggio iniziatico in un paese del Medio Oriente o in zone di guerra (Iraq, Siria, Afghanistan, Pakistan). Delinquenza, carcere, viaggio iniziatico e islamizzazione radicale sono i quattro elementi caratteristici. La loro personalità è segnata dall’odio verso la società, dall’esclusione sociale, dall’aver vissuto nelle periferie e da un forte antagonismo nei confronti degli “inclusi”, siano essi francesi gallici o di origine nordafricana. Vogliono caratterizzare la loro rivolta con azioni negative piuttosto che denunciare il razzismo e l’islam offre loro lo status di eroe negativo» (Khosrokhavar, 2015).
La ghettizzazione degli immigrati nelle banlieues parigine è sintomo di un malessere generalizzato e del fallimento del modello di integrazione alla francese, afferma Michel Wieviorka.2 Le ragioni di tale fallimento sono da ricercarsi nel contesto in cui vivono gli immigrati e nella crisi generale, a 360 gradi: sociale, istituzionale, politica, culturale. Questi giovani soffrono più degli altri dell’esclusione. È inutile chiedere agli immigrati di integrarsi se non si offrono loro gli strumenti per farlo. E il sistema scolastico non fa che riprodurre l’ingiustizia sociale. I problemi di questa fascia sociale non ricevono la dovuta attenzione da parte della rappresentanza politica. Un tempo le banlieues erano i quartieri rossi, dove era presente un tessuto associativo molto vitale ora non è rimasto più nessuno, dichiara Wieviorka. E questi vuoti vengono riempiti dagli Imam, sono loro che organizzano ad esempio il sostegno scolastico. Questo mutamento, in un paese che si proclama laico a gran voce, è allarmante. Ci sono intellettuali che si mobilitano ma non sono numerosi. La violenza ha rivelato la crisi totale del modello francese di integrazione.
Il filosofo e psicoanalista Slavoj Zizek3 in un’intervista al giornale L’Espresso (n. 7, anno LXI) fa un’analisi implacabile della situazione, dice che la minaccia non è solo esterna ma anche interna all’Occidente: è la sua decadenza. Come già aveva intuito Nietzsche. Il fondamentalismo è una reazione, fasulla e mistificatrice, alla pecca reale del liberalismo permissivo. Occorre un rinnovato appello ai valori, a una rappresentanza politica di sinistra anche radicale che tolga il terreno da sotto i piedi del fondamentalismo. Dice Zizek che siamo arrivati ad un punto morto, l’edonismo permissivo ha trasformato in osceno l’universo del super-io obbligato a godere. Il vero problema non è la minaccia islamica proveniente dall’esterno ma quella interna della nostra decadenza. Molto tempo fa Friedrich Nietzsche intuì che la civiltà occidentale si stava indirizzando verso l’Ultimo Uomo, una creatura apatica, priva di grandi passioni o senso di responsabilità.
Un uomo bene rappresentato nell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione (2015), è un intellettuale parigino, disperatamente mediocre, cui l’umanità non interessa, un “buono a niente” ma acutissimo e spietato osservatore dei suoi simili e dei loro riti, misogino e primario nelle sue aride pratiche sessuali, un cerebrale che sa però vedere e capire. Sintetizza così Goffredo Fofi (2015) il protagonista del romanzo che tanto scalpore ha suscitato, anche per la straordinaria coincidenza tra la data di pubblicazione del libro con la strage di Parigi, poiché in esso si racconta di come un leader musulmano va al potere in Francia e riesce ad imporre le sue riforme – strutturali, profonde, determinate da scelte culturali (la chiave è l’educazione, la scuola), non economiche – verso la nascita dell’“Eurabia”, un impero nuovo a cui finisce volentieri per sottomettersi una popolazione estenuata da conformismi e consumismi. Per il protagonista convertirsi all’islam non è solo un modo di mantenere la sua posizione, ma di trovare nuove eccitazioni e ragioni di vita.
Sottomettersi è bello: «il culmine della felicità umana consiste nella sottomissione più assoluta» (Houellebecq, 2015, p. 213), altri pensano e decidono per te (in Italia le conversioni paiono più facili e veloci, specialmente tra intellettuali, giornalisti e educatori), commenta sarcastico Fofi. Houellebecq ha scritto una profezia attendibile che è anche un grande romanzo, una comica “educazione sentimentale” dentro la nostra dismissione e il nostro possibile futuro, conclude amaramente Fofi.
La chiave è l’educazione, la scuola
Se la sottomissione ad un impero/potere è suggestione romanzata ma assai improbabile, il conformismo, la passività, l’edonismo, l’individualismo e il consumismo sono purtroppo realtà sociali che dovrebbero allarmare i sinceri democratici. Le società multiculturali e globalizzate odierne necessitano di cittadini laici, liberi e consapevoli, in grado di scegliere e decidere responsabilmente del futuro individuale e collettivo.
La chiave è l’educazione, un’educazione basata su una pedagogia fatta per uomini e donne liberi come diceva Freire, un’educazione come pratica di libertà.
Il pensiero e l’azione di Paulo Freire nella situazione attuale di crisi dei valori, di decadenza sociale, culturale e politica ci propongono un rinnovato impegno pedagogico per un’educazione umanizzatrice in grado di affrontare la complessità delle società multiculturali, l’aggressività del neo-liberismo che cerca di piegare l’uomo e la scuola alle richieste di un mercato senza regole.
Le sollecitazioni che ci vengono dalla pedagogia della liberazione di Freire ancora valide in questo mondo “decadente” ci costringono a non rimanere neutrali rispetto a ciò che accade nel mondo e, come educatori, ricercatori e insegnanti, a riflettere sul fatto che non c’è scissione fra educazione e politica. Freire è stato, è, uno dei più importanti teorici dell’educazione politica; oggi è quanto mai necessario recuperarne il pensiero e l’azione, esempio di maestro di un’educazione fortemente collegata ad un progetto di società democratica, libera e aperta. La grande “lezione” di Freire sta nella sua lotta, nel suo impegno contro l’analfabetismo e l’oppressione. Egli concepisce l’alfabetizzazione come umanizzazione delle condizioni di vita delle persone, degli oppressi. Una lotta che lui intraprese prima di tutto nel suo paese, il Brasile, nelle favelas ma che poi continuò in Cile e in altri paesi del mondo. Freire ha una concezione politica dell’educazione che prescinde dal contesto in cui operò che è ancora di estrema attualità non solo perché occorre liberare gli oppressi, ancora oggi numerosissimi, ma perché la sua è una pedagogia per la “responsabilità sociale”: «L’uomo non è soltanto uno spettatore della realtà, ma è immesso nell’esercizio di un potere che gli spetta esclusivamente: il dominio della Storia e della Cultura. Ed egli lo esercita accogliendo l’esperienza del passato, creando e ricreando, integrandosi nel contesto della sua storia, rispondendo alle sfide del tempo, oggettivandosi, coscientizzandosi e trascendendo la realtà» (Freire, 1977, p. 49).
Freire precisa bene il concetto di integrazione. L’uomo si integra non per adattarsi alla realtà ma per trasformarla. Il concetto di integrazione non è adattamento anzi è all’opposto: è possibilità di entrare in accordo con la realtà e allo stesso tempo di trasformarla. Se l’uomo si adatta non sceglie, accoglie il giudizio degli altri passivamente e non esercita la sua libertà di critica e di scelta. Infatti, chi rifiuta di adattarsi e dà prova di spirito rivoluzionario è chiamato sovversivo e disadattato. Ma Freire coglie un rischio, possiamo dire ancora più grande oggi, che definisce come la più grande tragedia dell’uomo moderno, quello della modernizzazione e della tecnologia che, grazie alla loro potenza, possono generare l’espulsione dell’uomo dal potere decisionale privandolo così della sua capacità di decidere e quindi della sua libertà. L’uomo moderno è sempre più dominato dalla forza dei miti, dal condizionamento della pubblicità o come diremmo oggi dal “pensiero unico” quello del mercato, da una democrazia “verticistica” come la definisce Gustavo Zagrebelsky in cui la politica partecipata non è più nelle nostre mani ma è sempre più espropriata dai vertici politici ed economici. Certamente il contesto storico in cui visse Freire era molto diverso da quello attuale, il Brasile viveva una fase di transizione in cui il popolo iniziava allora a emergere ed era perciò indispensabile una massiccia opera di alfabetizzazione soprattutto, dice Freire necessitava una formazione/educazione che consentisse al popolo una presa di responsabilità attraverso un’educazione che egli definisce “educazione dialogica attiva”. Un'educazione in grado di attivare il cambiamento del comportamento in quanto esso non può avvenire automaticamente: «... ma soltanto in forza di un lavoro educativo critico che ne avesse lo scopo specifico, un lavoro educativo, cioè cosciente del pericolo di massificazione intimamente connesso all’industrializzazione, che per noi era ed è un imperativo esistenziale» (Freire, 1977, p. 73).
L’educazione politica
Un passaggio di comportamento che si realizza grazie ad un lavoro educativo che va oltre l’acquisizione strumentale mediante tecniche di alfabetizzazione, un lavoro educativo capace di rendere cosciente il popolo del pericolo della massificazione connessa intimamente con l’industrializzazione. Perché, dice Freire, nella condizione alienata della massificazione, la dose di accomodamento è maggiore di quella dell’integrazione. L’impegno richiede conoscenza dei fatti, delle loro cause, la loro ignoranza determina il disimpegno e una percezione distorta della realtà. È indispensabile, quindi, per capire e superare la condizione di alienazione e di massificazione che l’uomo rifletta sulle sue condizioni di vita, sulla qualità della sua vita e soprattutto sulla propria capacità di agire per trasformare la realtà che lo massifica. Freire è un pedagogo, un pensatore che cerca di capire i processi sociali politici ed economici in atto nel suo tempo e nel suo contesto, rileva la forte crisi dei valori; il suo sguardo, però, è rivolto verso gli aspetti ideali ed educativi piuttosto che su quelli strutturali. Il suo campo d’azione è la pedagogia anche se sa bene che essa è strettamente connessa alla politica.
Freire è prima di tutto un educatore e quindi la sua riflessione privilegia il campo educativo ma sa anche che la sua pedagogia della libertà può aiutare la politica popolare. Sa bene che la democrazia e la libertà sono possibilità storiche e che esse non si realizzeranno senza lotta. La sua pedagogia è militante, teoria e pratica, in lui che fa una scelta di campo molto coerente, sono strettamente legate.
Le sue riflessioni ci sollecitano oggi a riconsiderare l’educazione come educazione politica soprattutto oggi in cui l’educazione è un’emergenza nazionale e mondiale.
Riprendendo l’impegno e la testimonianza di Freire e di altri pedagoghi testimoni, il mondo dell’educazione deve prendersi questa responsabilità sociale e assumere la dimensione politica dell’educazione, la politica non è solo una “cosa sporca”!
Oggi le nuove generazioni vivono un processo di perdita del tempo e dello spazio, sono generazioni del presente, della vita quotidiana che ha come spazio quello del mercato che deruba dalla vita, dalle scelte, dal pensiero. Nella scuola vengono avanti processi involutivi per quanto riguarda per esempio l’inclusione dove le priorità paiono date dal merito, ma quale? E dalla gerarchizzazione dei saperi.
L’ossessione del possesso e il culto dell’utilità finiscono per inaridire il pensiero “inutile” dice Nuccio Ordine nel suo L’utilità dell’inutile (Ordine, 2013), mettendo in pericolo le scuole, le università pubbliche, l’arte, la creatività e alcuni valori fondamentali come la dignità dell’uomo, l’amore e la verità. In questo libro Nuccio Ordine dichiara e richiama un atteggiamento militante nei confronti del sapere e della democrazia, la democrazia morirà se non ci saranno cittadini liberi, critici e militanti.
L’educazione come esperienza democratica
Freire denuncia l’inesperienza democratica dei brasiliani nella storia del Brasile una società chiusa, coloniale, schiavista, riflessa e antidemocratica. I brasiliani non hanno avuto formazione democratica e perciò non avevano comportamenti partecipanti che li mettessero nella condizione di costruire la loro società.
La partecipazione richiede esperienza e conoscenza della vita pubblica, la democrazia prima di essere una forma politica è una “forma di vita” e occorre fare esperienza democratica perché la democrazia si sviluppa solo a certe condizioni. L’educazione da mettere in atto per formare cittadini partecipanti non è puramente strumentale, come si è già detto, è un’educazione che deve tenere conto del contesto in cui viene applicata perché essa non ha valore assoluto non è libera da condizionamenti. L’educazione non da sola, da sola non fa nulla!
«Vogliamo dire che da sola non farà nulla, perché, per il fatto stesso di essere isolata, non può essere uno strumento valido. Perciò se insiste nel non corrispondere alla dinamica delle altre forze che trasformano il contesto strutturale, diventa un semplice ornamento ed è sempre meno utile come strumento. Non si può quindi considerare l’educazione come un valore assoluto e neppure la scuola come un’istituzione libera da condizionamenti» (Freire, 1977, p. 108).
E il contesto sociale di questa parte del mondo, estremamente complicato, si riflette nella scuola in cui le disuguaglianze sociali si diffondono e si ampliano, in cui occorre generalizzare le competenze funzionali all’esercizio di una cittadinanza attiva.
Il problema dell’esercizio della democrazia e della partecipazione responsabile dei cittadini alla vita pubblica italiana è abbastanza allarmante, se più della metà degli italiani ha difficoltà a comprendere l’informazione scritta e molti anche quella parlata! È il quadro inquietante che fa Tullio De Mauro sull’analfabetismo di ritorno e non si può che condividere le sue preoccupazioni sulle influenze negative di questa gravissima situazione, sul grado di consapevolezza con cui i cittadini e gli elettori esprimono le loro scelte politiche e civiche.
È indispensabile ripensare al sistema di istruzione perché sia più equo e di qualità per tutti che faccia sì che le competenze chiave di cittadinanza siano il riferimento primario per insegnanti, genitori e cittadini.
Freire si preoccupa che il cittadino abbia i mezzi e la struttura mentale per resistere alle armi che mettono in atto la modernizzazione e la tecnologia: «La produzione in serie, come organizzazione del lavoro umano, diventa uno degli strumenti più efficaci per la massificazione dell’uomo nel mondo eminentemente tecnico dei nostri tempi. Quando si esige dall’uomo un comportamento meccanico per la ripetizione di uno stesso atto con cui realizza solo una parte del progetto di lavoro, che gli diventa estraneo, lo stiamo “addomesticando”. Quando non si esige un atteggiamento critico di fronte a ciò che produce, lo stiamo disumanizzando. Gli spezziamo gli orizzonti con la ristrettezza della specializzazione esagerata. Ne facciamo un essere passivo, pauroso, ingenuo» (Freire, 1977, p. 109).
Occorre un’educazione critica che problematizzi le situazioni e che renda capaci le persone di lottare e di non sottomettersi per non sradicarsi: «Escluso dalla sfera delle decisioni, sempre più ristretta a piccola minoranza, egli è comandato dagli strumenti della pubblicità a tal punto che non confida più in niente e in niente più crede, all’infuori di quello che ascolta alla radio, alla televisione, o legge sui giornali. Ne deriva la forma mitica di spiegarsi il mondo. Il suo comportamento è quello dell’uomo che perde dolorosamente il proprio indirizzo. Diventa un uomo sradicato» (Freire, 1977, p. 111). Ciò su cui ci avvisava Freire alcuni decenni fa è ancor più vero oggi. Nel Nord dell’Europa non nel profondo Nord Est del Brasile di Freire, un esempio di disumanizzazione e alienazione prodotta da alta tecnologia di un’azienda modernissima: Amazon. Il resoconto di quanto succede in una delle aziende di Amazon ci è dato da un giornalista (Cadwallard, 2014), che si è fatto assumere in un magazzino del Galles dove vivono e lavorano gli “Elfi di Amazon”, moderni schiavi, bianchi. Il magazzino è grande quanto undici campi di calcio, ha in vendita milioni di articoli di qualsiasi genere. Lì si lavora più di dieci ore al giorno. In quel luogo ci si trova di fronte ai recessi più oscuri del consumismo: c’è tutto ciò che si può comprare! Ma non c’è rappresentanza sindacale, i dipendenti riscuotono il minimo salariale e solo una parte di loro ha diritti. Possono essere trattati così perché non c’è alternativa. Dentro Amazon si guarda nel vivo della carne la nostra smania collettiva di oggetti, grazie alla pubblicità che induce al desiderio di possedere ogni ultima “uscita”. Ciò che spinge le persone è il modello dell’induzione all’acquisto e alle nuove tecnologie. È un modello che fa ribrezzo ma evidentemente è molto apprezzato dai sempre più numerosi clienti che fanno click su “aggiungi al carrello” standosene comodamente seduti in poltrona senza pensare a cosa c’è dietro a tutto questo!
Conoscenza e capacità critica sono elementi indispensabili per comprendere i processi di modernizzazione o di innovazione. L’alta tecnologia ha funzione emancipatrice se porta miglioramento nelle condizioni di vita delle persone diversamente è disumanizzante se induce allo smantellamento dei diritti, delle garanzie, delle conquiste dello stato sociale.
L’educazione depositaria
Freire rifiuta categoricamente l’educazione tradizionale che definisce “depositaria” dice che essa ha un’ansia irrefrenabile nel narrare argomenti che sono estranei all’esperienza di vita degli educandi. La denuncia di Freire è valida ancora oggi, spesso le modalità educative sono astratte, frammentarie dove il sapere iperspecializzato è suddiviso in competenze differenziate e sempre più limitate, sprovviste di cornice comune. Tanto che le idee generali spesso sfuggono, dice Gustavo Zagrebelsky nel suo libro Fondata sulla cultura (Zagrebelsky, 2014) ed è sempre più difficile giungere a concetti compiuti. Zagrebelsky usa una metafora efficace per rappresentare l’uomo del nostro tempo: Funes el memorioso di Borges, capace di ricordare ogni dettaglio anche il più insignificante ma che non sa pensare!
Nella forma depositaria dell’educazione non c’è potere creativo, dice Freire, quello che esprime capacità di trasformazione della realtà. I ruoli dei soggetti dell’educazione sono rigidi, l’educatore dispensa, elargisce il sapere e aliena da sé l’ignoranza; l’educando è nella posizione di colui che non sa, è contenitore da riempire, è ignorante. L’educazione liberatrice, invece, supera la contrapposizione: l’educatore e l’educando sono l’uno e l’altro. L’educazione depositaria si basa su una serie di postulati che richiamano rapporti “verticali” praticati ancora oggi nella quotidianità scolastica.
Il contenuto del dialogo dell’educatore dialogico che problematizza la realtà non è imposizione ma restituzione organizzata, sistematica e arricchita di ciò che le persone, gli educandi, desiderano sapere. È dalla realtà del vissuto che occorre partire non dal racconto elaborato dal vertice. Ciò comporta che l’educatore sia a conoscenza delle condizioni strutturali. Ma soprattutto Freire critica il gusto della parola vuota e di come sia travisato il concetto di teoria: «Quasi sempre, quando si critica il gusto della parola vuota, della verbosità nella nostra educazione, si dice che il suo peccato consiste nell’essere “teorica”. Si identifica così in modo assurdo la teoria con la verbosità. Invece noi abbiamo bisogno di teoria, di quella teoria che implica un inserimento nella realtà, un contatto analitico con ciò che esiste, per provarlo, per viverlo, e viverlo pienamente, nella pratica. In questo senso teorizzare equivale a contemplare; non però nel senso deviato che significa opposizione alla realtà, astrazione. La nostra educazione non è teorica perché le manca questo gusto della sperimentazione, dell’invenzione, della ricerca. È verbosa, parolaia, sonora, assistenzialista; non comunica, ma dirama comunicati, il che è ben differente» (Freire, 1977, p. 114). L’educazione depositaria abitua alla passività e ciò è funzionale all’oppressore che non ha alcun interesse a mettere a nudo la realtà e la sua necessaria trasformazione, anzi, l’oppressore è spinto alla conservazione delle cose, a dominare gli oppressi rendendoli adatti alla situazione, cioè trasforma gli oppressi e non la realtà che li opprime dice Freire citando Simone De Beauvoir. Occorre richiamare i veri umanisti nella loro ricerca della liberazione a superare la concezione depositaria della cultura anche per non cadere in contraddizione con loro stessi.
L’essere di più
La liberazione autentica è umanizzazione in processo non è una cosa che si deposita. È una prassi che comporta azione e riflessione degli uomini e del loro mondo, per trasformarlo. È un’educazione problematizzante data dall’intenzionalità. L’educazione problematizzante è rapporto dialogico tra i soggetti: educatore/educando nell’atto di conoscere, dove l’oggetto della conoscenza è il mezzo non il fine. Quanto più gli educandi dovranno affrontare i problemi tanto più si sentiranno stimolati a rispondere alla sfida, in rapporto con gli altri problemi in cui la comprensione diviene sempre più critica e per questo sempre più libera dall’alienazione. In questo modo prenderanno coscienza del loro impegno e avverrà un movimento di ricerca verso l’esser di più, che bella espressione, verso l’umanizzazione degli uomini, che non si realizza nell’isolamento, non nell’individualismo, ma nella comunione, nella solidarietà delle esistenze concrete.
In conclusione, dopo i fatti di terrorismo, in Francia si sono aperte inevitabilmente molte discussioni su come la scuola debba essere in prima linea per la trasmissione dei valori civici e repubblicani, il primo ministro e il ministro dell’istruzione francesi hanno annunciato l’avvio di progetti specifici. Ma questa è una risposta abbastanza ovvia e soprattutto inadeguata che non prende in esame le problematiche da cui occorre partire per raggiungere l’obiettivo, problematiche che si trovano fuori dalla scuola e se non si affrontano quelle: i drammi, il caos, le rotture... i cambiamenti sperati non ci saranno. La scuola non da sola, diceva Paulo Freire. La scuola deve in qualche modo fare la sua parte: trascinare tutti anche e soprattutto chi viene dalle banlieues verso una consapevolezza di quelle realtà al fine di trasformarle, direbbe Freire.
Zagrebelsky dice che spesso gli uomini di pensiero non sono capaci di decisione di azione e viceversa. Freire è un esempio raro di uomo di azione e di pensiero, di educatore militante che assume la responsabilità sociale di trasformare una realtà che opprime.
Freire è esempio di testimonianza concreta e coerente, un esempio vissuto, un testimone come Freinet, Don Milani, Aldo Capitini, Danilo Dolci e altri meno noti testimoni di una prassi impregnata di forti idealità e sostenuta da una profonda visione filosofica-pedagogica. Ancora oggi Freire risveglia l’esigenza di essere testimoni del nostro tempo, della nostra realtà.
Agli insegnanti, agli educatori spetta il compito di azione e di pensiero e di non lasciare ad altri tale ruolo, a non lasciarsi prendere dal senso di impotenza dato dalla frammentazione sociale e culturale attuale.
Freire ci insegna ancora oggi la forza emancipatrice della scienza, della cultura, dell’educazione e della comunicazione, ci dice come sia valida la sua concezione dell’educazione per la sua capacità di liberare, per la sua potenzialità liberatrice.
La pedagogia di Freire centrata sulla persona, sul soggetto e la sua libertà, è una base eccezionale dalla quale partire per riflettere sui temi dell’educazione, sulla conoscenza diffusa quale opportunità per la vita democratica, per un rinnovato concetto di libertà per evitare l’asservimento a nuove forme di schiavitù, più sofisticate e subdole.
Ha un’idea di educazione militante, egli pensa che possa avere un ruolo fondamentale nella costruzione di una società democratica, una società che non può essere costruita dalle élite ma dalle lotte delle masse popolari. Crede nell’azione non direttiva degli intellettuali nella azione culturale per la libertà. Egli intende l’utopia non in senso idealistico di qualcosa di irrealizzabile ma come possibilità umana, crede nella capacità dell’uomo di azione trasformatrice della realtà. Una definizione fondamentale del tipo di educazione che la scuola deve fornire, diceva che «in tempi in cui non si sa bene quale sia il senso di ciò che stiamo facendo, tempi in cui gli alunni vanno a scuola senza capire esattamente il senso di quello che vanno a fare, allora la scuola deve essere soprattutto un laboratorio sociale, l’educatore un creatore di senso». «Educare è impregnare di senso gli atti quotidiani»: un insegnante può definirsi tale quando educa nel significato originario della parola “insegnare”, quando cioè marca con un segno, costruisce un senso (Gadotti, 2002, p. 8).
Bibliografia
Cadwallard C. (2013), Gli schiavi di Babbo Natale, “Internazionale”, vol. 21, n. 1031, dicembre 2013, pp. 20-26.
Fofi G. (2015), Michel Houellebecq, è irritante e geniale, “Internazionale”, vol. 22, n. 1087.
Freire P. (1977), L’educazione come pratica della libertà, Milano, Mondadori.
Gadotti M. (2002), Il messaggio di Paulo Freire. Dieci punti per una riflessione, Milano, Forum Internazionale Paulo Freire.
Houellebecq M. (2015), Sottomissione, Milano, Bompiani.
Khosrokhavar F. (2015), L’identikit del jihadista, “Internazionale”, vol. 22, n. 1085.
Ordine N. (2013), L’utilità dell’inutile. Manifesto, Milano, Bompiani.
Zagrebelsky G. (2014), Fondata sulla cultura, Torino, Einaudi.
1 Testimonianza di Anna Pileri PhD, Ricercatrice presso il Dipartimento Scienze dell’Educazione, Università di Bologna, membro del Laboratorio di ricerca Psychomuse, Università di Paris Ouest, Nanterre - La Défense
2 Michel Wiewiorka, direttore di studi presso l’EHESS, Parigi, e Presidente dell’Associazione Internazionale di Sociologia.
3 Slavoj Zizek, sloveno, filosofo e psicoanalista, direttore del Birkbeck Insitute for the Umanities di Londra, docente dell’European Institute Graduate School
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