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Approfondimenti

La Russia che ci rappresentiamo, tra ignoranza ed esotismo

Federico Zannoni

Federico Zannoni è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione, dell’Università di Bologna. È attualmente impegnato in un progetto europeo finalizzato a promuovere l’educazione interculturale in Russia.


Abstract

Poco conosciuta e oggetto di diffusi stereotipi, la Russia è da sempre al centro di rappresentazioni ingannevoli, esoticizzanti e fuorivanti nell'immaginario collettivo occidentale, radicate al punto tale da divenire veri e propri ostacoli per il dialogo e il reciproco incontro. Soprattutto in tempi di difficili relazioni politiche e diplomatiche come quelli attuali, fortemente caratterizzati dalle conseguenze della crisi in Ucraina, appare quanto mai necessario educare alla decostruzione degli stereotipi e a un nuovo atteggiamento di apertura.



Dal Libro di Giobbe

Nella serata del trionfo per il messicano Alejandro González Iñárritu, che con il racconto dell’ultimo volo del suo Birdman ha conquistato l’Oscar 2015 per il miglior film, la statuetta per la miglior pellicola straniera è andata alla storia in bianco e nero della polacca Ida, di Paweł Pawlikowski, eroina triste e coraggiosa di un’epoca, quella in cui il mondo era diviso in due e la Polonia apparteneva al blocco a influenza sovietica, storicamente conclusa, ma ancora ben presente nei retaggi culturali e nella memoria di coloro che l’hanno vissuta.

Ne esce sconfitto il Leviathan del russo Andrei Zvyagintsev, nonostante il Golden Globe da poco conquistato nella medesima categoria. Il film narra la storia, tratta dal Libro di Giobbe ma ambientata ai giorni nostri, di Kolia, contadino che abita in una remota località rurale costiera nel nord della Russia, e della sua lotta contro un sindaco prepotente e corrotto, deciso a tutti i costi a sottrargli le sue terre. L’accanimento di quel burocrate corrotto, che tiene ben visibile la foto di Putin appesa nel suo ufficio, si fa tale da provocare disastri a catena nella vita di Kolia, tenace ma impotente innanzi a tutta quella violenza prevaricatrice. Nelle intenzioni del regista, il film avrebbe dovuto essere una straziante metafora sull’umanità, ma nello stesso tempo non avrebbe concesso sconti al suo paese, la Russia, guardato con occhio severo, senza patriottismo, quasi senza affetto per come oggi si presenta. «Viviamo in un sistema feudale dove tutte le cose sono in mano di una sola persona, e tutti gli altri sono risucchiati in una spirale di subordinazione» (Walker, 2014), afferma il regista nel definire il sistema di potere che ha voluto rappresentare con il suo film, un sistema in cui il baciare le mani e l'inginocchiarsi costituiscono le pratiche più diffuse per ottenere qualcosa, e in cui il parlamento nazionale ha ormai del tutto rimosso dai suoi programmi la dimensione etica e morale, provando a procurare alla gente nulla più che un mero miglioramento nelle condizioni materiali.

L’intero film è popolato da una desolante antropologia di personaggi: mafiosi, corrotti, legati alla nomenclatura politica o a una chiesa ortodossa senza contenuti né morale, oppure persi nell’apatia e nell’alcolismo. Eppure, in fase di produzione, l’opera aveva ottenuto finanziamenti statali e, una volta uscita nelle sale cinematografiche russe, un’accoglienza positiva da parte della critica, colpita dall’indubbia qualità. Quando, a poco a poco, il film ha cominciato a ricevere attenzioni e premi in Occidente, l’entusiasmo in patria si è raffreddato, soppiantato dalla preoccupazione di come, oggi come ai tempi della Guerra Fredda, i russi siano tornati a interpretare, agli occhi della parte di mondo un tempo opposta e ostile, il ruolo dei cattivi, il male assoluto. Lo conferma il grande successo, negli Stati Uniti, della serie televisiva The Americans, che narra le vicende di un gruppo di spie sovietiche nella Washington della Guerra fredda.

 

Le spie venute dal Freddo

Di intrighi internazionali e pericolose spie sovietiche si nutre la saga decennale del più celebre investigatore di Sua Maestà, a partire dal 1962, quando nelle sale uscì Agente 007 - Licenza di uccidere. Donne dalla bellezza glaciale e dal cuore ibernato, o anche personaggi il cui aspetto fisico bizzarro e sgradevole rispecchia un’anima malvagia e sporca, e poi megalomani di potere, soggetti che giocano a dadi col destino del pianeta, coriacei antagonisti, ma talvolta improbabili e valorosi alleati: interpretati sovente da attori stranieri, inesorabilmente i personaggi russi all’interno dei vari episodi della saga si caratterizzano per l’eccentricità, per la spregiudicatezza, molto spesso per la malvagità e, sempre, per la loro diversità. Sono diversi dagli eroi occidentali, tutti sfacciatamente belli, buoni, dalla parte del bene.

Nana occhialuta è Rosa Klebb, interpretata da Lotte Lenya in Dalla Russia con amore (1963), ex capo reparto dello Smersh, il cui nome è la storpiatura di un vecchio slogan sindacalista che rivendica “pane e rose” per tutte le donne; nascoste dentro le scarpe tiene lame velenose ribaltabili, ma ovviamente non riuscirà a sconfiggere Bond. Di tutt’altra prestanza è Tatiana Romanova, interpretata dall’italiana Daniela Bianchi nel medesimo film, che puntualmente finirà tra le braccia del nostro eroe, scavalcando le barriere ideologiche e redimendosi dalle iniziali cattive intenzioni. Chi può resistere al fascino del bello da morire James Bond? Anya Amasova, nome in codice Tripla X, è La spia che amava (1977), interpretata da Barbara Bach, che nel finale della pellicola, anziché uccidere il suo collega (non più Sean Connery, ma Roger Moore), spara a un tappo di spumante. La bellezza delle donne sovietiche intriga e ammalia, prova ad appropriarsi del corpo dell’uomo occidentale per poterlo ingannare, ma quest’ultimo è troppo più astuto, troppo più abile, troppo più consapevole di come gira il mondo. Tutti noi, guardando quei film, ci sentiamo dei provetti James Bond. E molti di noi uomini “occidentali”, sotto sotto, sogneremmo di incontrare le algide spie sovietiche per provare a riscaldare il loro cuore, o in alternativa a distruggerle straziandoci. Questo, anche dopo la fine della Guerra fredda. Nel 1995, in GoldenEye, Izabella Scorupco interpreta Natalya Simonova, programmatrice informatica alleata con l’Agente 007 per disinnescare un sistema di armamento cosmico russo finito nelle mani sbagliate, mentre Famke Janssen è Xenia Onatopp, bella e cattivissima assassina che uccide le proprie vittime soffocandole tra le sue cosce, salvo poi morire strangolata con un cavo di sicurezza a Cuba: «Le contusioni le sono sempre piaciute», commenta Bond senza tradire commiserazione.

Crudelissimo e doppiogiochista è pure Arkady Ourumov, responsabile dell’uso militare dello spazio per il Ministero della Difesa russo, capace di assaltare e distruggere un centro di controllo satellitare, incolpando presunti separatisti siberiani e freddando il proprio ministro di riferimento quando i primi sospetti vengono a galla, ma nel finale inesorabilmente ucciso da Bond, al termine di una furiosa caccia all’uomo per le strade di San Pietroburgo. Tutto è cambiato dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ma all’ex agente del Kgb Valentin Zukovsky, interpretato dallo scozzese Robbie Coltrane, Il mondo non basta (1999) e per questo è ben attivo nel giro della mafia, commerciando armi, traendo profitti dal gioco d’azzardo e nascondendo un’arma dentro a una stampella. Ritornando ai tempi in cui la Cortina di Ferro ancora esisteva, in Octopussy – Operazione piovra (1983) il Generale Orlov, interpretato da Steven Berkoff, è un comunista integralista deciso a colpire la Germania Ovest con una bomba atomica nascosta tra le carrozze di un circo ambulante, ma che come i suoi predecessori e successori non ha fatto i conti con l’intuito di James Bond, che per l’ennesima volta riesce a salvare le sorti dell’Occidente dalla pericolosa minaccia sovietica. Il Generale Anatol Gogol, dal canto suo, interpretato da Walter Gotell, è stato in numerosi episodi della saga il capo del Kgb e, a differenza di molti dei personaggi sopra citati, è dotato di umanità, lealtà e buonsenso. Forse, il cognome che porta vuole sottolineare la statura morale e intellettuale più importante dell’uomo in questione; allo stesso modo, nel film Zona pericolo (1987) anche il suo successore, il Generale Leonid Pushkin, interpretato da John Rhys-Davies, porta il nome di un importante letterato, e insieme a Bond riuscirà a catturare l’ex collega Gheorgi Koskov, ormai dedito al traffico internazionale di oppio. La maggiore nobiltà d’animo e d’intelletto concessa ai due generali che portano cognomi così importanti vuole essere un omaggio e nello stesso tempo una constatazione. Un omaggio ai grandi intellettuali e artisti che hanno popolato e animato storia e cultura russa, in tempi ormai lontani, quando ancora gli zar dominavano e il comunismo non esisteva: sono stati forse tempi migliori, tempi in cui la Russia era veramente grande, proprio come i suoi scrittori? Accanto all’omaggio, vi è la constatazione di come tutta questa grandezza abbia ormai lasciato il posto a pericolo, povertà e dissoluzione nei consumi, a un vuoto di contenuti e di moralità capace di trasformarsi in minaccia su scala planetaria, dipingendo in questo modo uno scenario di una tragicità tale che neppure la migliore prosa di Pushkin, Gogol, Tolstoj o Dostoevskij è riuscita a rendere. Questa è la Russia che emerge dai film americani ed europei più popolari, terra d’intrighi e prevaricazioni, di minaccia e tristezza, che ha un regime al posto di un parlamento e terribili spie al posto di eleganti ambasciatori.  

Come già evidenziato nella serie di James Bond, è interessante notare la tendenza nelle produzioni occidentali a fare interpretare ad attori non russi i ruoli di personaggi russi: assai celebri sono l’egiziano Omar Sharif nei panni del Dottor Zivago (1965) e Julie Christie in quelli dell’amata Larissa “Lara” Antipova, la svedese Greta Garbo nei ruoli della tragica Anna Karenina (1927) e della comunista convinta Ninotchka (1939), Robin Williams che interpreta il sassofonista Vladimir Ivanov (Mosca a New York, 1984), in memorabili pellicole dirette rispettivamente dal britannico David Lean, dall’americano Edmund Goulding, dal tedesco Ernst Lubitsch, dall’ebreo americano di remote origini ucraine Paul Mazursky.

E che dire dell’icona Ivan Drago, acerrimo nemico di Rocky Balboa, interpretato dallo svedese Dolph Lundgren, capace di uccidere vigliaccamente sul ring l’ormai quarantaduenne Apollo, scatenando la furia vendicatrice, ma leale e corretta, del combattente di Philadelphia? Diretto dallo stesso Sylvester Stallone, Rocky IV è stato girato nel 1984 e il personaggio di Ivan Drago raccoglie su di sé tutte le caratteristiche che la propaganda americana, e quindi anche quella europea della parte atlantica, attribuivano al nemico russo: glaciale nello sguardo e nei sentimenti, inespressivo nei tratti del viso, potente nel corpo, crudele dominatore nell’indole e nei comportamenti. Ivan Drago parla poco, molto spesso si fa sostituire dalla moglie e dai suoi collaboratori nelle conferenze stampa, ma quando lo fa, si esprime con l’inglese dell’attore svedese che grottescamente vorrebbe ricalcare l’accento russo. Per molti americani ed europei, l’accento russo è proprio quello di Ivan Drago. Generazioni di bambini e ragazzi italiani sono cresciuti divertendosi a ripetere, con l’improbabile accento russo inventato dal doppiatore Renato Mori, la mitologica minaccia “Ti spiezzo in due”, con tanto di geniale introduzione della lettera “i” nel bel mezzo della voce verbale. Poi, quando nel finale il buon Balboa lo mette al tappeto, succede l’apoteosi, una catarsi collettiva pervade gli spettatori: il Nemico è sconfitto, il Bene ancora una volta ha trionfato. È significativo il fatto che, a distanza di molti anni, in un mondo dagli equilibri ormai cambiati, questo film continui a essere trasmesso in televisione con sorprendente frequenza, suscitando nelle nuove generazioni, e ri-suscitando nelle vecchie, reazioni e sensazioni non troppo diverse da quelle che riusciva a provocare alcuni decenni fa. Il mondo va avanti, le guerre si susseguono, gli accordi di pace a volte reggono e a volte no, nuovi personaggi e nuovi potenti irrompono sulla scena pubblica, la stessa Russia è cambiata moltissimo, eppure la sua immagine, l’idea con cui è rappresentata, sembra condannata a rimanere sempre uguale a se stessa, a non mutare, a non evolvere, nei prodotti culturali, nei pensieri della gente e nell’immaginario collettivo occidentale.   

 

Ryszard Kapuściński nel turbine del pregiudizio

Di certo, la storia ha avuto un suo peso. Soprattutto in chi direttamente li ha vissuti, i drammatici eventi del Novecento hanno lasciato cesure non marginabili e continuano a influenzare fortemente la visione della realtà e dei contesti. Il polacco Ryszard Kapuściński, nato nel 1932 e scomparso nel 2007, è stato un importante giornalista, scrittore e saggista, ma prima di tutto un grande viaggiatore, vero e proprio decano e cantore di un modo consapevole, rispettoso e arricchente di viaggiare. Attraverso i suoi viaggi, ha elaborato importanti riflessioni sul valore dell’incontro, sull’importanza di considerare la diversità come un valore da tutelare e promuovere, come un arricchimento reciproco per chi sa condividerla: «Ogni incontro con l’altro è dunque un indovinello, qualcosa di ignoto se non addirittura di segreto» (Kapuściński, 2007, p. 11). In prima battuta si reagisce con diffidenza, insicurezza, timore, poi sono tre le possibilità di scelta: «Fargli guerra, isolarsi dietro a un muro o stabilire un dialogo» (ibidem, p. 66). Kapuściński indica la terza soluzione come l’unica possibile, ma si rende conto di quanto sia anche la più faticosa, la più difficile, la più irta di rischi perché facilmente scopre la nostra vulnerabilità. Citando Conrad, parla della meraviglia insita nell’incontro con l’altro, di comunione col mondo intero, di solidarietà come antidoto alla solitudine: «Riusciremo ad ascoltarci e a capirci a vicenda? Riusciremo insieme a trovare, come dice Conrad, “ciò che parla alla nostra capacità di provare meraviglia e ammirazione, al senso del mistero che circonda la nostra vita, al nostro senso della pietà, del bello e del dolore, della segreta comunione con il mondo intero e, infine, alla sottile ma insopprimibile certezza della solidarietà che unisce la solitudine di infiniti cuori umani, all’identità di sogni, gioie, dolori, aspirazioni, illusioni, speranze e paure che lega l’uomo all’uomo e accomuna l’intera umanità: i morti ai vivi e i vivi agli ancora non nati”?» (ibidem, pp. 76-77).

Appare sorprendente come, nel suo volume di Riflessioni sul XXI secolo intitolato Nel turbine della storia (2009), l’intellettuale polacco assuma un atteggiamento decisamente poco improntato alla comunanza e all’apertura nei confronti della popolazione russa. Il titolo del capitolo loro dedicato è lapidario: Imperialismo, misticismo e miseria. La Russia. L’intervento si apre disquisendo sulla natura euroasiatica, piuttosto che europea, della Russia, e sul «grande pasticcio» (Kapuściński, 2009, p. 113) di atlante storico su cui si situa. In modo particolare, distingue tra «l’Asia delle civiltà cinese, indiana, giapponese, delle religioni più pacifiche e umanistiche del mondo» e «l’altra Asia delle steppe russe, da sempre minacciosa», precisando come «tutto ciò che proveniva dal fondo delle steppe è sempre stato massimamente distruttivo» (ibidem, p. 113). Liquidando secoli e secoli di storia, e manifestazioni sociali, politiche e culturali variegate quanto complesse, nella definizione secondo cui la Russia non sarebbe altro che l’evoluzione in impero multinazionale del grande principato moscovita, avvenuta con la forza delle armi, Kapuściński arriva a riconoscere la russità nel mero fatto che «la Russia non ha confini», nella dimensione dell’imperialismo più aggressivo (ibidem, p. 114). Decine di generazioni di russi, senza distinzione né precisazione di appartenenza sociale e senza un’adeguata collocazione temporale lungo il filo mai lineare della storia, avrebbero sacrificato vita, felicità e benessere per il solo scopo di partecipare alla costruzione di un impero sterminato, agognato al punto tale da giustificare ogni male e miseria personale e collettiva. Un processo storico così fortemente caratterizzato avrebbe lasciato tracce indelebili nelle personalità delle genti russe: «Il russo non conosce mezze misure. O ama, o odia. Gli manca quel coerente e creativo spirito critico che caratterizza la mentalità dell’uomo occidentale. Per un russo le cose sono o talmente perfette che non c’è nulla da cambiare, oppure talmente disperate che non c’è niente da fare» (ibidem, p. 115). Si tratta di un’affermazione a dir poco forte e certamente controversa, alimentata da un livore di fondo che con astiosa aggressività si palesa nella nettezza con cui è formulata, nel non lasciare spazio al dubbio, all’approfondimento, alla complessità. Eppure, è un’affermazione di un’assoluta debolezza intrinseca. Per mostrarne l’infondatezza, basterebbe mostrare un quadro di Marc Chagall, declamare una poesia di Marina Ivanovna Cvetaeva, assistere a un concerto della cantautrice rock Zemfira: c’è più spirito critico in una pennellata, in un aggettivo accostato a un nome, in una sequenza di note ad accompagnare un ritornello, piuttosto che nell’affermazione dell’intellettuale polacco. Allo stesso modo, basterebbe solo approfondire la conoscenza e l’amicizia con persone comuni, con il russo della porta accanto, familiarizzare con i loro pensieri, con i loro problemi, con le loro soggettive peculiarità, per apprezzare il grande spirito critico con cui affrontano gli eventi. Ovviamente, chi più chi meno, proprio come noi italiani, proprio come i nostri vicini francesi: è sempre rischioso generalizzare.

Come possono essere interpretate attitudini così severe e così poco problematizzanti da parte di un intellettuale dal fine pensiero e dalla conclamata sensibilità quale è Kapuściński? Una plausibile spiegazione può essere rintracciata nella sua biografia di polacco cresciuto sotto il regime filo-sovietico e sostenitore convinto della rivoluzione di Solidarność, che ancora rintraccia nel popolo russo la colpa di non aver «mai regolato fino in fondo i conti con lo stalinismo» (ibidem, p. 122) e di aver tramandato nella coscienza un senso di vittimismo, di rimpianto e, nei giovani, soprattutto di oblio, ma mai di corresponsabilità: «Questa generazione non vuole sentire parlare del passato e di regolamenti di conti: ha calato la saracinesca sull’argomento» (ibidem, p. 124). Ne scaturisce un ritratto di uomo russo fatalista, masochisticamente sofferente e pessimista, incapace di ribellarsi e di prendere in mano il proprio destino: «La folla russa è una folla silente, ferma per ore, per giorni, per notti in mezzo al gelo e alla neve senza una parola, come una pietra, come una roccia» (ibidem, p. 126). Chissà cosa penserebbero le Pussy Riot, e molti altri con loro? E come reagirebbero al decalogo della buona rivolta declamato con le seguenti parole: «Non bisogna dimenticare che per la vera rivolta – non per una sommossa all’acqua di rose, ma per una vera rivolta civile e sociale – occorre un minimo di esistenza umana, mentre l’uomo sovietico è un essere che fatica dalla mattina alla sera, all’eterna ricerca di qualcosa da comprare. È un uomo mortalmente stanco, che a malapena si regge in piedi. Camminando per le strade o spostandosi in metropolitana si vedono facce di gente distrutta dalla stanchezza. Probabilmente è questo a mantenere la folla nel suo stato di sottomissione: di quando in quando qualcuno inveisce o manifesta scontentezza, ma non si passa mai a forme di azione collettiva» (ibidem, p. 127). In queste righe, l’autore arriva perfino a disumanizzare l’uomo (e la donna?) sovietico, definendolo “un essere”, un triste faticatore che porta sulle spalle una cronica, mortifera stanchezza, addirittura che a fatica mantiene una posizione eretta, nonostante le corporature in molti casi possenti, poco supportato dalla disponibilità di adeguati strumenti da lavoro: «L’unico attrezzo di cui dispone un idraulico moscovita è un martello» e «i muratori impastano il cemento a mano, non hanno neanche la cazzuola» (ibidem, pp. 127-128). Oggi, a distanza di non molti anni da quando questo scritto fu prodotto, a Krasnoyarsk, popoloso centro siberiano, così come in moltissime altre città, è possibile accedere alla rete WiFi nei parchi, nei locali pubblici, nelle scuole, nelle università, in tutti i luoghi della socialità. Alla miseria degli alloggi, delle risorse naturali, delle tecnologie, si affiancherebbe «la miseria dei rapporti interumani: diffidenza reciproca, paura, aggressività e cafoneria» caratterizzerebbero «una civiltà sprofondata in un buco nero senza fondo» (ibidem, p. 128). È possibile trovare altre parole per descrivere un inferno terrestre?

 

Idee e opinioni su Russia e russi

N. ha ventisette anni, è figlia di padre italiano e madre siriana e si è laureata discutendo una tesi di pedagogia interculturale. Probabilmente si troverebbe d’accordo col saggio di Kapuściński, la sua opinione sui russi non è per niente positiva: «Poco attenti ai diritti civili, la libertà di espressione è ridotta ai minimi termini, sono omofobi e intolleranti. Quando vengono in vacanza spendono e spandono come nessuno e sono anche un po’ arroganti nel modo di fare da ricconi che possono permettersi tutto, anche di trattare male le persone. Freddi e distaccati, bevono molto. Un’amica che ci è stata mi ha detto che nessuno parlava inglese, quindi ne ho dedotto che non sia il posto ideale in cui perdersi».

F. ha trentasei anni, ed è stimato ricercatore di filosofia politica. Premette di non avere informazioni dirette e precise sui russi, poi esprime la sua personale opinione: «Per me sono un popolo di pochi oligarchi spietati e panzoni e una massa depressa e alcolizzata, tutti sottomessi a un dittatore ridicolo e nano (ma dallo sguardo terrificante)».

Anche S., trentatre anni, traduttrice specializzata nella lingua tedesca, non ama Putin e il suo popolo, pur ammettendo di non conoscerlo approfonditamente: «Le mie opinioni, quindi, sono probabilmente il frutto di stereotipi filtrati dalle notizie che passano in TV e poco altro e sarei pronta a smentirle o rivederle in ogni momento. Non ho un’opinione particolarmente favorevole nei confronti della Russia, per prima cosa perché la vedo come il correlato opposto agli Stati Uniti, Paese senz’altro pregno di contraddizioni, ma che amo comunque tantissimo e che, invece, ho avuto modo di conoscere e vivere in prima persona. Politicamente, la Russia mi sembra una copia peggiorata dell’Italia; noi avevamo/abbiamo Berlusconi, loro Putin. Mi fanno entrambi schifo, ma se il primo mi fa ridere, il secondo mi incute decisamente più timore. Anche loro hanno politici fantoccio che agiscono in nome e per conto di qualche manovratore nascosto. Come e peggio che in Italia, la Russia è percepita come un regno di corruzione e di corrotti, per cui a volte anche per avere dei visti lavorativi c’è da sganciare la marchetta (questo è un racconto che mi ha fatto un amico che lavora in una ditta di Reggio, quindi suppongo sia veritiero). Inoltre, penso che la Russia sia un Paese di forti disparità, fatto di pochi oligarchi, presumibilmente vicini al presidente o comunque non ostili, e di milioni di sudditi, più che di cittadini, poveri. Penso anche che ormai in Russia il delitto politico sia abbastanza sdoganato. Infine, penso alla Russia come un popolo di antica gloria ormai in decadenza, una decadenza più atroce rispetto a quella che ormai coinvolge anche il fu Bel Paese. Questo è quanto più o meno penso della Russia come Paese ed entità politica. Sui russi in quanto popolo ho idee molto vaghe, propenderei più per una certa diffidenza dovuta al fatto che non li conosco (e al fatto che parlano una lingua che non s’ascolta!)».

N., F. e S. sono dichiaratamente, attivamente di sinistra. Più conservatrice nelle intenzioni di voto, ma ugualmente diffidente nei confronti dei russi, in modo particolare delle donne, è E., 34 anni, impiegata contabile. La sua disanima è implacabile: «Ho avuto modo di conoscere i Russi in vacanza, per questo li definirei chiassosi e poco propensi al rispetto di culture differenti, della quiete altrui. La reazione umana alla passata povertà del paese si nota davanti al Russo danaroso, per intenderci chi può permettersi la vacanza, che crede di poter comperare tutto, solamente aprendo il portafoglio, non comprendendo che esiste in primis il rispetto altrui. Pensando all’uomo Russo la mia mente mi riporta a personaggi consumatori di alcool anche in situazioni paradossali, anche fra una sauna e l’altra si reidratano con una birra, il loro motto sembra essere “alcool e chiasso perché io PAGO”. Sulle donne Russe, si potrebbe aprire una grande parentesi. La Russa Danarosa è quella che in fondo prende le decisioni, mentre il marito paga lei gestisce ogni questione monetaria, donna dal carattere forte, gelosa molto gelosa. Finge di essere sottomessa, ma comanda!!! La Russa arrampicatrice sociale: è la classica ragazza che per disperazione, per raggiungere una vita migliore con poca fatica, non ha alcun scrupolo nell’aggirare l’uomo, appena intravede la dolce vita, si trasforma in geisha per l’uomo che crede possa farla stare bene!!! Il fatto è che molto spesso questo non è vero amore, ma pura convenienza... La Russa Badante in Italia: è colei che sacrifica lo stare con la propria famiglia per racimolare qualche soldino che manderà ai propri figli fino a quando... un italiano si innamorerà perdutamene di lei... e lei abbandonerà tutto per vivere con il suo nuovo amore... Infine esistono anche le Russe che, pur essendosi innamorate (e bada bene che si innamorano sempre dei buoni partiti), decidono di lavorare perché è giusto così, perché il lavoro nobilita. Ragazze italianizzate, molto carine, affabili, ma che difficilmente si fanno fregare, utilizzano la furbizia in ogni situazione. In poche, semplici parole le definirei bellissime donne glaciali pronte a scaldare i cuori per raggiungere uno scopo».

Anche G., quarantaquattro anni, impiegato presso il servizio dell’acqua pubblica, è orientato decisamente a destra, ma la sua opinione sul popolo russo, forse per ragioni di genere meno astiosa nei confronti delle donne, è opposta: «Tolti i pregiudizi legati ai tempi sovietici adesso ho una gran stima della Russia e dei russi, li considero un popolo molto più eretto di noi, attaccato più di noi alla sua storia ed alla sua cultura, che difendono in modo coerente e deciso, nel bene e nel male. Possono non piacere i loro metodi, ma sono più decisi e sicuri di cosa vogliono per loro a “casa loro”, niente compromessi con altre culture o religioni per loro invasive, forse hanno ancora nel d.n.a. il sentire o il credere di essere una grande nazione, quello che sono stati con l’URSS, e Putin li rappresenta benissimo col suo carisma, sempre nel bene e nel male! Li considero un baluardo di una vecchia Europa scomparsa che oramai ha perso ogni identità e credibilità internazionale con le nostre ipocrisie ed imborghesimento. Loro la propria identità provano a difenderla almeno! Per certe cose ci vorrebbe un Putin anche in Italia!».

S., quarantacinque anni, insegnante e musicista, dichiaratamente di destra, si pone sulla stessa corrente di pensiero: «Simpatizzo con Putin! Ne avremmo bisogno anche noi, altro che sanzioni contro la Russia! Provo un grande movimento interiore d’affetto nei loro confronti (mia sensazione e percezione istintiva...), e per quanto riguarda i posti, purtroppo, non mi è dato conoscere nulla e non so se mai potrò togliermi questa soddisfazione prima del mio transito terrestre... A mio modo di vedere le sanzioni decise dall’ “occidente” sono una cosa demenziale, di pari livello e adeguata a questa Unione Europea nella quale faccio molta fatica a identificarmi».

Quelle riportate sino a questo momento sono posizioni piuttosto nette e radicali, di amore incondizionato oppure odio pressoché assoluto nei confronti di quello che Russia e russi sono e, soprattutto, rappresentano. La percezione di rappresentazioni, piuttosto che la rielaborazione di esperienze dirette, accomuna tutte e sei le persone interpellate, dal momento che nessuno di loro è mai stato in Russia né vanta rapporti interpersonali profondi con persone da lì provenienti. Si tratta quindi di opinioni costruite su notizie e conoscenze filtrate dalla televisione, dai siti internet, dai giornali, che vanno ad alimentare un atavico immaginario popolato da spie cattive nei film, donne tormentate nei grandi romanzi, paesaggi a forte impatto scenografico, guerre, zar e rivoluzionari; a questi, si aggiunga il contatto con immigrati presunti russi nei nostri parchi la domenica, quando, per lo più donne, possono riposare dalle loro occupazioni settimanali e incontrarsi: anche se, in verità la schiacciante maggioranza di loro non sono russe, bensì ucraine.

Ai nostri occhi, ad accomunare russi e ucraini fino a indurci a confonderli, sono l’incomprensibilità delle loro lingue, certe presunte abitudini comuni e tratti somatici che si vorrebbero simili, dimenticando, o non conoscendo, la pluralità delle etnie che convivono in entrambi i paesi, in molti casi con caratteristiche diversissime tra loro. Gli inganni della percezione visiva che spinge a uniformare contrastano, in maniera marcata in questi tempi di crisi politica e civile in Ucraina, e di conseguenti rapporti difficili tra Russia ed Europa, le nostre prese di posizione, che si rivelano spesso rigide, talvolta acritiche. In certi casi, la sola immagine di Putin assurge a rappresentazione di un intero paese: simpatizzare per Putin implica lasciarsi affascinare dalla Russia, così come odiare il suo presidente e le scelte che fa porta a gettare cattiva considerazione su quel popolo e su quei luoghi. 

Per provare a indagare più a fondo su immagini, rappresentazioni, opinioni e sentimenti che la Russia e i suoi abitanti riescono a suscitare, si è scelto di effettuare una piccola indagine esplorativa di tipo qualitativo, chiedendo a trenta persone, di età compresa tra i venticinque e i quarantacinque anni, tutte lavoratrici e in possesso di diploma di laurea, di rendere nella forma di una  breve composizione scritta il proprio punto di vista, rispondendo a una sola, semplice domanda: “A cosa pensi, quando senti nominare le parole Russia e russi?”. Si è trattato di un a sorta di esperimento iniziale per un progetto di ricerca che assumerà ulteriori, più approfonditi sviluppi. La numerosità del campione coinvolto non è sufficientemente alta per consentire generalizzazioni e categorizzazioni, tuttavia dal materiale raccolto è già possibile trarre interessanti spunti di riflessione. Non tutti i soggetti interpellati hanno assunto le posizioni nette presentate poc’anzi; al contrario, l’autoconsapevolezza di quanto le proprie conoscenze siano vaghe, poco precise, indirette perché non esperite in prima persona, ha portato i più a provare a individuare elementi sia positivi, sia negativi, palesando tuttavia una sorta di spaesamento nel rispondere, come se la vastità e l’impenetrabilità della Russia e dei suoi abitanti avesse arrecato una sorta di vertigine nel momento del pensare e dello scrivere. 

R. ha ventisei anni, è laureata in lingue straniere e lavora come guida turistica presso i castelli italiani e francesi. Ha meno famigliarità con i monumenti e con le meraviglie naturali della Russia, che tuttavia descrive con inesatta, lacunosa efficacia: «Quando penso alla Russia, l’immagine nella mia mente appare sfocata, lontana, sconosciuta e “fredda”, molto fredda. Non per niente chi dice “Russia”, spesso, dice o pensa “Siberia”. L’idea è quella di inverni senza fine e di spesse coltri nevose, poste a smorzare i vivaci colori delle uniche città che mi sembra di ricordare: Mosca e San Pietroburgo, con le loro cattedrali dalle forme a cipolla. Tutto il resto non è altro che una sconfinata terra desolata, così estesa da sfiorare le coste dell’Alaska».

Si tratta di parole che potrebbero rimandare alle maestose scene dei treni a vapore rumorosi e lenti che attraversano sterminati spazi di erba, ghiaccio, brina e foreste in alcuni trai momenti più spettacolari dell’indimenticabile Dottor Zivago, storia di amore e rivoluzione nella Russia zarista, dal romanzo di Boris Pasternak. Prodotto dagli americani nel 1965, in piena Guerra Fredda, il film fu girato in un’area di oltre quarantamila metri quadrati nelle vicinanze dell’aeroporto di Madrid: appare paradossale come certe rappresentazioni di Russia, in grado di affascinare e di contribuire alla costruzione dell’immaginario di milioni di spettatori, di generazione in generazione, siano in verità state realizzate proprio nella calda Spagna, come se la terra del sole si possa confondere con la terra del ghiaccio.

Di questo grande paese, culla di artisti, intellettuali e scrittori ancora ricordati con riverenza e rispetto, in molti casi pur non avendone letto le opere, in molti conoscono, celebrandone la bellezza e l’importante patrimonio culturale, solo le due città più famose e più vicine all’Europa (Mosca e San Pietroburgo), ignorando l’esistenza di numerosi altri popolosissimi centri, in certi casi con popolazioni che superano il milione di abitanti, o che comunque si attestano sull’ordine di grandezza delle centinaia di migliaia, proprio come Krasnoyarsk, nella Siberia centro-meridionale, che in un recente articolo sulla locale “fabbrica delle modelle”, pubblicato in una popolare rivista italiana per donne, viene invece localizzato nelle gelide propaggini settentrionali. Allo stesso modo, l’antica e prospera città di Kazan, sede del parlamento della Repubblica del Tatarstan, di una importante università e di realtà sportive di eccellenza a livello internazionale, distante circa ottocento chilometri dalla capitale moscovita, con la sua popolazione che supera il milione di abitanti è di recente stata definita una “località a est di Mosca” dal cronista di una delle più seguite reti televisive italiane. Occorre ricordare che i dizionari definiscono “località” i centri urbani di piccole dimensioni: non è questo il caso di Kazan, eppure le parole sono importanti, costruiscono nell’immaginario degli ascoltatori realtà parallele che possono fissarsi e divenire, nelle loro convinzioni, più reali del reale.

Mentre in molti mettono in relazione la necessità, soprattutto da parte dei maschi, di proteggersi dal grande freddo ricorrendo anche alla vodka, magari abusandone, e talvolta provocando la fuga verso l’Europa di donne esasperate dai mariti “sbevazzoni”, G., trentacinque anni, dottore di ricerca in sociologia e attualmente impiegata nella commercializzazione dei prodotti agricoli, prova a spingersi più in profondità nell’analizzare la contrapposizione tra il lusso e la corruzione che caratterizzerebbero Mosca e San Pietroburgo e una sorta di ancestrale, pauperistico e comunitario stile di vita contadino che sarebbe proprio dei villaggi sperduti nelle lande gelate: «Se penso alla Russia e ai russi mi viene in mente come prima parola: discordanza! Da un lato povertà diffusa, enormità di spazi e luoghi freddi e non troppo densi, paesini chiusi, ostilità nell’entrare, comunicazione difficile con chi non è del posto, ma anche grande umanità, alcol, focolare e clima di festa nella sottomissione e solidarietà tra i poveri. Dall’altro lato penso a Mosca a San Pietroburgo, alla loro grande ricchezza e freddezza. Alla classe schifosamente ricca che se ne fotte di tutto il resto, alla corruzione esagerata che c’è».

M., trentaquattro anni, impiegato comunale, punta il dito contro l’eccessivo consumismo: «Credo che fosse un popolo idealista, che odiava i compromessi, prova ne è che sono passati dallo zar al comunismo, difficile dire quale sia la padella e quale la brace. Ora hanno smesso con le dittature e si sono gettati a capofitto nel consumismo, quello più becero, da noi ormai fuori moda, quello di chi deve rivalersi delle passate privazioni ostentando ricchezza e potere. Forse hanno solo sostituito un ideale con un altro».

E., trentasei anni, informatico, è stato in vacanza a San Pietroburgo e, diversi anni fa, in Crimea. In quei contesti, ha avuto modo di osservare i comportamenti di quelli che definisce “New Russian”: «I nuovi russi di oggi (“New Russian”) sono più capitalisti degli americani stessi. Molti russi non hanno nessun valore se non il dio soldo. A volte l’educazione è assente insieme al rispetto per il prossimo. Per i “New Russian” l’apparire è tutto, senza badare a nulla, nemmeno al gusto».

Di contro, ben diversa, quasi velata di nostalgia, è la descrizione del vero russo, ancora non perso e corrotto dietro le mode capitalistiche: «Il vero russo non svende il proprio sorriso, non svende la propria amicizia. I valori sono molto intimi e veri rispetto a quelli italiani e quindi molto meno esternati e più rari. La popolazione russa non si piega a ricatti di super potenze (America). Inoltre, la vodka standard è spettacolare, così come lo sono le donne russe».

Qualcuno interpreta questa presunta riservatezza come eccessiva freddezza, altri mettono in risalto il loro essere tendenzialmente silenziosi, cordialmente distaccati, più concentrati sugli aspetti materiali piuttosto che su quelli spirituali. Dal canto suo A., quarantadue anni, avvocato, e con lui anche altri, considerano quello russo “un popolo davvero ospitale e affettuoso, prova ne sono gli abbracci e i baci con cui accolgono i turisti”. Gli occhi chiari, il pallore nella pelle, i visi squadrati, la forza fisica e la capacità di resistere al freddo, gli sguardi tra il gioviale e il glaciale, insieme alla bellezza delle donne, sono caratteristiche che sembrano appartenere a tutti i russi, percepiti come un unico, omogeneo gruppo di ceppo slavo, quando invece la realtà fa registrare la presenza di più di un pluralismo culturale, etnico, linguistico e religioso poco raccontato dai mezzi di informazione.

Con i suoi diciassette milioni di chilometri quadrati che si estendono dal Mar Baltico all’Oceano Pacifico, e del Mar Glaciale Artico al Mar Nero, al Mar Caspio e al Mar del Giappone, la Russia è il più grande Paese del mondo. Al suo interno sono ufficialmente riconosciute ottantanove realtà politiche in vario modo autonome (repubbliche, territori, provincie), con caratteri etnici e storici anche profondamente diversi, così come decine di lingue locali e regionali affiancano il russo e, seppure la religione ortodossa è prevalente, non mancano consistenti gruppi di musulmani, buddisti, ebrei e animisti (Corna Pellegrini, 1998).

Oggi come nel passato, le rappresentazioni di Russia cui siamo soggetti ci incutono paura. Fanno paura la diversità di questa grande federazione e delle sue genti, il protagonismo e la politica aggressiva e secondo alcuni poco democratica del suo presidente Putin. Fa paura l’eco della sua storia: l’impero degli zar, la rivoluzione bolscevica, le guerre mondiali, la Guerra Fredda, Lenin e Stalin, sino alle recenti crisi in Cecenia e Ucraina. Fa paura, ma nello stesso tempo affascina, reca in sé la seduzione del proibito, dell’inarrivabile, dello sconosciuto, come afferma S., trentatre anni, impresario di pompe funebri: «Resta comunque che RUSSIA è una parola che affascina e spaventa perché siamo sempre cresciuti con il “timore” per la Russia (e dall’altra parte ovviamente c’era il mito americano che gli si contrapponeva), quindi sarebbe sbagliato dare altre descrizioni che possano minimamente tangere argomenti politici e/o storici».

 

Concludendo

Considerando il pregiudizio una forma di pensiero presente in tutti gli individui che, pur non fondandosi su dati obiettivi e neppure sull’esperienza diretta, arriva a generalizzare i suoi contenuti e a formulare un giudizio sulla base di valutazioni di natura emotiva (Allport, 1973), è possibile rintracciare nello stereotipo il nucleo cognitivo del pregiudizio (Mazzara, 1997).

Pierre-André Taguieff (1999) definisce lo stereotipo un’idea fissa, standardizzata, associata a un determinato gruppo umano, prodotta da una attitudine a categorizzare rigida e persistente, che resiste ai cambiamenti, deforma e impoverisce la realtà sociale fornendone una griglia di lettura semplificatrice, razionalizzando così il comportamento del soggetto nei confronti del gruppo categorizzato. Il processo di categorizzazione stereotipante implica l’accentuazione sia delle differenze tra il gruppo di appartenenza e gli altri gruppi, sia delle somiglianze all’interno dei rispettivi gruppi.

Riferendoci ai gruppi nazionali, soprattutto a quelli che non conosciamo o di cui non abbiamo esperienza diretta, il ricorso all’attribuzione di condivisi tratti stereotipati e diffuso. Secondo Bruno Mazzara (1997, p. 36) ogni stereotipo contiene un nocciolo di verità e nello specifico «i contenuti degli stereotipi nazionali non sono del tutto arbitrari, né creati ad arte dagli avversari e dagli stranieri, ma esprimono delle tendenze che sono in certa misura reali, risultato di complesse sedimentazioni di tipo storico e culturale». Ciononostante, è opportuno considerare che, soprattutto nell’attuale epoca di globalizzazione e migrazioni transnazionali, le diverse società e culture sono continuamente soggette e repentine trasformazioni, che si susseguono con un ritmo di gran lunga superiore a quello necessario allo stereotipo per adeguarvisi.

Tendenzialmente, più le caratteristiche di un gruppo nazionale ci sembrano distanti dalle nostra, più tendiamo a fossilizzarci sui caratteri stereotipati e a rifiutare un confronto. Edward Said (2001) introduce il concetto di orientalismo per indicare il modo con cui noi ci siamo messi e continuiamo a metterci in relazione con l’Oriente, a partire non dalle sue caratteristiche reali, bensì dal posto che esso occupa nell’esperienza europea occidentale. Dal momento che l’Oriente è uno dei più ricorrenti e radicati simboli del Diverso, per contrapposizione ha contribuito a definire «l’immagine, l’idea, la personalità e l’esperienza dell’Europa (o dell’Occidente). Nulla, si badi, di questo Oriente può dirsi puramente immaginario: esso è una parte integrante della civiltà e della cultura europee persino in senso fisico» (Said, 2001, p. 12). A partire dalla propria distinzione ontologica con l’Oriente, l’Occidente intraprende il percorso di definizione e ridefinizione della propria specifica identità, traendo conferme e sicurezze nella contrapposizione all’alterità: «Proprio come l’Occidente, l’Oriente è un’idea che ha una storia e una tradizione di pensiero, immagini e linguaggio che gli hanno dato realtà e presenza per l’Occidente. Le due entità geografiche si sostengono e in una certa misura si rispecchiano vicendevolmente» (ibidem, p. 15). Il rapporto tra Occidente e Oriente non è soltanto una questione di idee, lingue e culture, ma anche, e forse soprattutto, di configurazioni di potere, di dominio, di pretesa egemonia occidentale. Said invita a focalizzarsi sul fatto che nei discorsi e nelle pratiche interculturali a circolare non sono le verità, ma le rappresentazioni, e «ciò cui occorre prestare attenzione sono lo stile, le figure retoriche, il contesto, gli artifici narrativi, le circostanze storiche e sociali, e non la correttezza della rappresentazione, la sua fedeltà rispetto all’originale» (ibidem, p. 30). La forza dell’orientalismo e l’efficacia degli strumenti di cui si avvale sono tali da rendere addirittura superflua l’effettiva esistenza dell’Oriente: «Il valore dell’orientalismo, il suo senso, dipendono dall’Occidente ben più che dall’Oriente, e tale senso emerge attraverso varie tecniche di rappresentazione occidentali che rendono visibile e comprensibile l’Oriente entro il discorso che lo riguarda. A loro volta, queste rappresentazioni dipendono da istituzioni, tradizioni, convenzioni, codici largamente condivisi, ben più che da un Oriente lontano e spesso indefinito» (ibidem).

Alla luce degli eventi storici e di quelli attuali, dei decenni di Guerra fredda che videro il mondo spaccato in due (e noi dalla parte degli americani) e delle notizie che quotidianamente ci arrivano semplificando con titoli a slogan e analisi poco approfondite le complesse situazioni che si sono venute a creare in Ucraina e all’interno della Federazione Russa, è possibile riferire numerosi tratti dell’analisi di Said alle modalità con cui l’Europa e il mondo occidentale guarda alla Russia. Nei discorsi dei capi di governo, che ampia risonanza hanno tra la gente, nei film, nei romanzi, nei filmati e nei messaggi umoristici pubblicati sui social network, la Russia e i russi sono stati e continuano a essere il Diverso, persone lontane dalla lingua incomprensibile, che abitano territori inesplorati e inospitali, quando non il Nemico, responsabile di conflitti e atrocità, e quindi da debellare, controllare, ridimensionare, nel nome del Bene di cui l’Occidente si fa portatore.

Seppure conclusasi con la caduta di muri e cortine, la Guerra Fredda ancora lascia i suoi strascichi, nelle forme delle rappresentazioni rigide, aggressive e superficiali. Ne consegue la necessità di promuovere conoscenza e incontro, decostruire gli stereotipi, permettere di addentrarsi nella complessità umana e paesaggistica, allacciare nuove cooperazioni e ideare progetti che possano favorire la reciproca comprensione, trasformando le diversità in elementi di reciproco arricchimento. Il punto non è dimenticare la storia, ma conoscerla, e con essa il presente, affinché in futuro gli stessi errori non possano essere ripetuti.

 

 

 

 

Bibliografia

 

Allport G.W. (1973), La natura del pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia.

Corna Pellegrini G. (1998), Il mosaico del mondo. Esperimento di geografia culturale, Roma, Carocci.

Genovese A. (2003), Per una pedagogia interculturale. Dalla stereotipia dei pregiudizi all’impegno dell’incontro, Bologna, Bononia University Press.

Kapuscinski R. (2007), L’altro, Milano, Feltrinelli.

Kapuscinski R. (2009), Nel turbine della storia. Riflessioni sul XXI secolo, Milano, Feltrinelli.

Künzel T. (2012), Le spie russe contro James Bond, «Russia Oggi», 5 ottobre 2012, http://it.rbth.com/articles/2012/10/05/le_spie_russe_contro_james_bond_18079.html.

Mazzara B. (1997), Stereotipi e pregiudizi, Bologna, il Mulino.

Rampini F. (2015), Da Putin al Califfato gli Oscar spiegano le crisi del mondo, «La Repubblica», 22 febbraio 2015.

Said E.W. (2001), Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano, Feltrinelli.

Taguieff P.A. (1999), Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, Milano, Raffaello Cortina.

Walker S. (2014, November 6), Leviathan director Andrei Zvyagintsev: “Living in Russia is like being in a minefield”, «The Guardian», http://www.theguardian.com/film/2014/nov/06/leviathan-director-andrei-zvyagintsev-russia-oscar-contender-film.

 

 

 



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