Approfondimenti
La più famosa storia di un figlio di migranti. Raccontare il Natale a scuola
Anna Granata
Ricercatrice di Pedagogia, Dipartimento di filosofia e scienze dell’educazione Università degli Studi di Torino e docente di Pedagogia generale interculturale, Corso di laurea in Scienze della Formazione primaria.
Abstract
Quasi ogni anno, in corrispondenza delle feste natalizie, in alcune scuole pubbliche si pone la questione se sia opportuno o meno ricordare il Natale in presenza di bambini di origini e religioni diverse da quella cattolica. I singoli episodi, spesso amplificati dai media, sollecitano un dibattito importante sul ruolo dei simboli e del discorso religioso nella scuola italiana. Non di rado, tale dibattito si polarizza però tra chi sostiene la necessità di eliminare qualsiasi simbolo e discorso religioso in nome di un presunto rispetto dei credi degli altri, e chi invece vuole mantenere la tradizione, ma in nome e in difesa di una presunta cultura locale. L’articolo cerca di andare oltre tale visione dicotomica, proponendo a insegnanti e educatori un’interpretazione interculturale della questione, che trae spunto dalla letteratura e da alcuni episodi di vita scolastica raccolti dall’autrice entro percorsi di ricerca condotti nel contesto lombardo dal 2009 al 2013.
Maria quest’anno la recita di Natale non la vuole fare. Non è certo timida ed è anche molto brava a cantare, ma l’idea di travestirsi da pastorella o angioletto o asinello, e davanti alla folla di genitori armati di macchine fotografiche cantare canzoni strappalacrime, non le va proprio. Lo ha detto alla maestra che per quest’anno le consentirà di assumere un ruolo defilato: suggerire dal pubblico le parole della recita ai suoi compagni… 1
Fatima è in Italia da poco più di un anno. In Tunisia, nei lunghi pomeriggi d’estate, lei e le sue sorelle leggevano libri in lingua francese, viaggiavano già col pensiero per le strade, nelle case, dentro alle scuole che di lì a poco avrebbero raggiunto con la famiglia al di là del Mediterraneo. Molte storie riguardavano il Natale, quel periodo magico di cui assaporavano, tra le righe, l’atmosfera… È in prima fila tutta emozionata, Fatima, a fare la recita di Natale: finalmente è arrivato il momento di dare forma concreta a quelle parole da favola.
I dati relativi allo scorso anno scolastico ci dicono che sono iscritti a scuola quasi 711.000 studenti non italiani, circa l’8% della popolazione scolastica. La più alta incidenza si riscontra ovviamente nella scuola dell’infanzia (8,6%), nella primaria di primo grado (9%) e in quella di secondo grado (8,8%), con una concentrazione particolare nei grandi centri urbani del Nord come Torino e Milano (Istat, 2012). La legge italiana sulla cittadinanza (L.91/92 – che ricalca un disegno di legge del lontano 1912), basata sullo ius sanguinis, per cui è italiano solo chi ha genitori italiani, identifica come “cittadini stranieri” sia i ragazzi neo arrivati da un altro Paese sia le “seconde generazioni” propriamente dette: bambini e ragazzi nati in Italia che parlano, pensano e sognano da sempre in italiano, “italiani di fatto” anche se non ancora di diritto (Granata, 2010; 2011).
Questi ultimi, oggi, sono più della metà di coloro che chiamiamo “alunni stranieri”, all’interno delle scuole dei grandi centri urbani. Il “sorpasso” delle seconde generazioni a scuola, così come messo in luce dalla Fondazione Agnelli di Torino (2010), interroga la scuola italiana nel profondo. Non si tratta più soltanto di attuare processi di integrazione (l’accoglienza a scuola, l’insegnamento dell’italiano L2, l’inserimento nella società e nella cultura locale, ecc.) ma piuttosto di aprirsi a percorsi interculturali, che, come esprime la parola stessa, implicano un movimento reciproco di scambio e negoziazione di significati.2
La presenza di alunni provenienti da famiglie straniere e cresciuti all’interno di comunità religiose di minoranza induce la scuola a guardarsi con occhi diversi, rinnovando la propria identità, rimettendosi in gioco e ponendosi domande profonde su cosa significhi oggi fare scuola. Più concretamente, essa è portata a porsi domande quali: come insegnare la storia? Quali confini dare alla nostra geografia? Quale idea di cittadinanza comunicare a bambini e ragazzi non riconosciuti ancora come cittadini? E infine, quale ruolo attribuire al discorso religioso e ai suoi simboli all’interno delle nostre scuole?
Domande che i figli di immigrati pongono (spesso con la loro stessa presenza, più che per loro volontà o iniziativa) in maniera forte, ma che la società globalizzata stessa dovrebbe sollecitare in un contesto storico in cui le culture, le religioni, le identità stesse “si dialettalizzano” (Cambi, 2006) e non sono più circoscrivibili a singoli territori, ma sempre più dinamiche e in movimento.
Entro questa società, valori condivisi, dati per scontati, trasmessi di generazione in generazione ma talvolta svuotati di significato, rischiano di divenire museumized values, oggetti da museo poco interessanti agli occhi dei nostri bambini e ragazzi (Das Gupta, 1997). I figli delle minoranze, ma spesso anche i figli della maggioranza, non si accontentano più di concetti di cui non colgono a pieno il valore: piuttosto, nel continuo flusso di informazioni cui sono sottoposti a scuola, in casa, e soprattutto nel denso spazio virtuale entro cui trascorrono molto del proprio tempo libero, selezionano solo ciò che per loro racchiude un significato autentico.
La festa di chi?
«Il Natale è la festa della nostra tradizione, non possiamo rinunciare a trasmetterla!». Spesso è con questa argomentazione che si è reagito di fronte alla proposta di sostituire il tradizionale allestimento del presepe con una recita di Cappuccetto Rosso o di chiamare la festa di Natale “festa delle luci”,3 o ancora di sostituire Gesù bambino con il più “innocuo” albero o Babbo Natale.4 Proposte che nascevano spesso da insegnanti o genitori italiani, autoproclamatisi portavoce di famiglie di religione musulmana. Quasi mai la proposta nasceva direttamente da queste famiglie che di rado hanno espresso apertamente un’opinione negativa in merito.
La questione sollevata tuttavia riguarda più nel profondo la possibilità di sopravvivenza di alcuni simboli della religione maggioritaria nella società multiculturale. Ciò che accade, come spesso nella nostra società italiana, è che il dibattito si polarizzi su due fronti: quello di chi chiede di cancellare questi simboli “per rispetto” verso le persone di altre religioni e quello di chi chiede invece di mantenere i simboli della cristianità «come segni che esprimerebbero “la civiltà occidentale” o la “tradizione italiana”» (Santerini, 2004).
Entrambi gli approcci sono fuorvianti, come spiega Milena Santerini (2004). Il primo perché aderisce a una visione relativista che col pretesto di mettere le culture sullo stesso piano, le cancella dallo spazio pubblico e impedisce un dialogo tra di esse, il secondo perché aderisce a una visione universalista che riduce una fede universale a simbolo di una cultura locale (occidentale, italiana).
Il Natale, invece, non è la festa dell’Occidente né il simbolo della cultura italiana. È piuttosto un’icona della cristianità che, insieme alla Croce, viene raccontata entro culture le più diverse, a partire da quel primo episodio storico nel cuore del Medio Oriente. Come spiega infatti Enzo Pace (2008), sociologo delle religioni, i simboli e le festività religiose possono essere considerati come un patrimonio interculturale, liberamente circolante nelle società umane, molto prezioso per questo motivo soprattutto nelle società plurali. «I grandi simboli, di cui le religioni sono spesse depositarie, infatti, non appartengono in modo esclusivo a una civiltà rispetto a un’altra, a una cultura sola e solitaria» (Pace, 2008, p. 42). Si muovono piuttosto entro «grandi famiglie religiose», spesso molto più intrecciate di quanto possiamo immaginare (Pace, 2008).
Oggi, ai bambini e ai ragazzi che frequentano la scuola multiculturale, vale la pena raccontare questa storia, prima di tutto per il suo significato umano. È la più famosa storia di un figlio di migranti, che ha vissuto l’esperienza della clandestinità, della povertà, dell’essere parte di una famiglia “per cui non c’era posto”. Una storia che potrà forse più facilmente essere compresa da chi ha vissuto l’esperienza della povertà, del vivere in un rifugio precario, senza riconoscimento da parte della comunità, durante una migrazione forzata, com’è l’esperienza di alcuni, tra i figli di migranti.
Poco importa se questa storia verrà trasmessa in famiglia come esperienza di fede, essa fa parte, come sostiene Natalia Ginzburg a proposito del crocifisso, della storia del mondo. «I modi di guardarlo e non guardarlo sono, come abbiamo detto, molti. Oltre ai credenti e non credenti, ai cattolici falsi e veri, esistono anche quelli che credono qualche volta sì e qualche volta no» (Ginzburg, 1988). L’importante non è cancellare quel simbolo, né tantomeno imporlo come esperienza di fede, ma piuttosto fare in modo che sguardi diversi possano porre su di esso, così come su altri simboli religiosi, il proprio sguardo, rispecchiarsi in quel vissuto e interiorizzare i valori umani e condivisi che comunica.
E i bambini musulmani?
Le maestre della scuola di un piccolo Comune lombardo si chiedono se sia opportuno, quest’anno, data la presenza di numerosi bambini musulmani, organizzare la recita di Natale. Ad Afef, mamma egiziana, in Italia da più di dieci anni, le maestre chiedono di indagare presso le mamme arrivate qui più di recente e chiedere loro come si pongono di fronte a questa questione. Racconta Afef che quelle mamme risposero, sorprese, che era ovvio per loro preparare la recita di Natale, anzi, se potevano intromettersi, bisognava rappresentare in maniera più credibile gli abiti dei pastorelli e l’ambientazione mediorientale (essendo in materia decisamente più preparate delle maestre!).
Spesso siamo portati a pensare, all’interno delle nostre scuole, che non si possa raccontare il Natale a motivo della presenza di bambini musulmani. Un pregiudizio “al contrario” suggerisce che vi siano resistenze, là dove più spesso non ci sono. Non abbiamo numeri precisi, ma le famiglie musulmane che addirittura decidono di mandare i propri figli nelle scuole cattoliche non sono poche e sono in crescita. Come dice Sumaya Abdel Qader (autrice del libro Porto il velo, adoro i Queen. Nuove Italiane crescono, Sonzogno, 2008), la scelta di una scuola cattolica per le sue figlie nasce dal desiderio di trovare uno spazio in cui l’aspetto religioso possa essere accolto e rispettato.
Non sono pochi d’altra parte gli aspetti in comune tra cristiani e musulmani, oltre all’esperienza di fede stessa, anche il riconoscimento di figure quali Gesù, profeta dell’Islam, e Maria, cui è dedicata un’intera Sura del Corano (Sura XIX). Un patrimonio religioso distinto ma con figure e storie in comune da cui può partire un dialogo.
Anche a livello istituzionale, sebbene i musulmani in Europa non abbiano un’unica struttura gerarchica che li rappresenti come nel caso della Chiesa cattolica, non sono state poche le reazioni negative nei confronti di chi voleva, di tanto in tanto, eliminare simboli religiosi e festività cristiane in nome di un presunto rispetto verso le persone di fede islamica. È a seguito di iniziative come queste, per esempio, che un gruppo di imam italiani ha sentito l’esigenza di dichiararsi favorevole alla partecipazione dei bambini musulmani a feste cristiane che si svolgano in ambito scolastico (Nigri e Scaranari Introvigne, 2008).
Chi oggi afferma con violenza che andrebbero eliminati i simboli religiosi dalle scuole o che andrebbero invece branditi come strumenti difensori di una cultura locale (Simone, 2005; Aime, 2004; Colaianni, 2009), in realtà utilizza lo stesso linguaggio e produce, magari senza esserne consapevole, gli stessi effetti. Chi si accanisce contro i simboli in nome del rispetto delle differenze, così come chi si accanisce attraverso i simboli per difendere un’identità fragile, è figlio in realtà della stessa cultura refrattaria al dialogo e che si presenta talvolta come integralista e talvolta come laicista. Quando questa dinamica accade nel contesto della scuola è più facile metterla a fuoco, per i suoi effetti:
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dividere i figli degli italiani dai figli degli stranieri (a partire da incomprensioni che sono, eventualmente, solo dei genitori);
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impedire l’accesso gli uni alle storie degli altri (come diceva Amos Luzzatto, leader storico delle comunità ebraiche, «fino a quando i cattolici leggeranno solo il Vangelo, gli ebrei solo la Torah e i musulmani solo il Corano sarà impossibile realizzare una vera integrazione a scuola e nella società») (Biano, Crudo e Guerrisi, 2012, p. 11);
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ostacolare la possibilità di riflettere serenamente sul tema dell’accoglienza, della pace, dell’ospitalità, dell’uguaglianza (valori universali contenuti nel racconto del Natale, che vengono veicolati soltanto entro un contesto coerente di apertura all’altro e non come bandiere da sventolare o imporre).
Formare gli insegnanti
La scuola è luogo di istruzione ma anche di educazione e formazione della persona nella sua interezza. Tutti gli aspetti cui la scuola decide di non dedicare attenzione, come il riconoscimento delle lingue d’origine, l’educazione alla cittadinanza in chiave globale, la storia e la geografia dei popoli e non solo della nostra nazione, così come l’avvicinamento alla sfera del sacro, costituiscono dei vuoti formativi. La scuola interculturale richiede che vi sia un’attenta formazione all'incontro con l’altro, per superare paure e pregiudizi,5 rendere consapevoli gli alunni della loro cittadinanza globale e avvicinarli alla storia delle civiltà e della contemporaneità in cui viviamo, che necessariamente porta con sé anche l’elemento religioso.
Certamente, un Paese come il nostro che conosce da tempi piuttosto recenti, rispetto ad altri contesti europei, l’esperienza del pluralismo confessionale cristiano e di quello religioso, così come il dinamismo introdotto dalle migrazioni internazionali, è un Paese che arriva in ritardo e impreparato «all’appuntamento con il pluralismo religioso nella scuola» (Pajer, 2009, p. 222). Non a caso l’Italia è ancora uno dei paesi in Europa in cui l’insegnamento religioso a scuola è ancora “Insegnamento della Religione Cattolica” (IRC), di taglio confessionale e talvolta catechetico, con il rischio (spesso non voluto) di trasmettere alle nuove generazioni rappresentazioni parziali del sacro e di indurre reazioni di difesa o rifiuto del tema religioso, piuttosto che formare all’apertura e al dialogo (Saggioro e Giorda, 2011; Pagano, 2006).
Cruciale diviene dunque formare le nuove generazioni di insegnanti (di religione e non solo) a un’intercultura del religioso, che tenga conto delle diverse appartenenze e valorizzi i contenuti umani e storici della formazione religiosa senza negare la sfera religiosa né all’opposto farne oggetto di una catechizzazione. La soluzione, infatti, non è quella di negare la presenza e la conoscenza del sacro a scuola, lasciando il campo a visioni irrazionali, esoteriche e fanatiche del fatto religioso,6 né quella di enfatizzare la religione della maggioranza come bandiera o strumento di catechesi. In entrambi i casi infatti si nega il pluralismo culturale e religioso della nostra società e si abdica al compito formativo di preparare gli alunni al mondo plurale in cui vivono e crescono.7
Tornando al tema del Natale a scuola, la recita o il presepe non bastano a formare al sacro né a comunicare i valori universali della convivenza e del dialogo. I simboli hanno una funzione importante nel veicolare significati solo se attorno a essi vi sono esperienze che li attualizzano e rendono coerenti. La scuola, specchio della società, deve rendere conto anche delle sue contraddizioni: come parlare di ospitalità e accoglienza, attraverso l’icona straordinaria del presepe, a bambini musulmani che non hanno in città un luogo di culto dove sia possibile pregare con le loro famiglie? Quale percorso di pace, così come la figura di Gesù invita ad approfondire, raccontare a chi è scappato dalla guerra e si ritrova clandestino in terra straniera? Quale idea di uguaglianza comunicare a chi, domani, scoprirà di non poter andare in gita scolastica all'estero coi propri compagni per essere privo della cittadinanza italiana? E le domande potrebbero continuare.
Riportare il Natale a scuola, coi suoi messaggi profondi e universali, richiede anche questo: rimetterci in gioco, come società e come scuola, non solo per salvare i simboli ma soprattutto i loro significati nella vita concreta e reale delle nuove generazioni.
Bibliografia
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Biano I., Crudo F. e Guerrisi M. (2012), È ora delle religioni?, «IRInews Insegnare le religioni in Italia», Notiziario trimestrale di Benvenuti in Italia e di Uva-universolatro, 1° ottobre 2012.
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Nigri A.T. e Scaranari Introvigne S. (2008), I ragazzi musulmani nella scuola statale. Il caso del Piemonte, Torino, L’Harmattan.
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Saggioro A. e Giorda M.C. (2011), La materia invisibile. Storia delle religioni a scuola, una proposta, Bologna, Emi.
Pagano N. (2006), Per una “storia delle religioni”. Un’alternativa laica all’ora di religione nella scuola pubblica, Torino, Claudiana.
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Simone M. (2005), La presenza del crocifisso nelle scuole pubbliche, «La civiltà cattolica», n. 3710, pp. 180-186.
1 Primo di tre stralci di narrazioni presentati nell’articolo, raccolti dall’autrice all’interno delle seguenti esperienze di ricerca: programma di ricerca europeo “ARCKA – Assessing, Recognizing Competences and certifying Knowledge Acquisition. Valuing human capital of children of foreign origin in Education and Training in Europe” (2009-2012), progetto finanziato con fondi europei e promosso da Galdus Società Cooperativa e Synergia s.r.l., in partenariato con altre istituzioni e centri di ricerca europei; programma di ricerca Prin 2008 “Competenze interculturali: modelli teorici e metodologie di formazione” (2009-2011), coordinato da Milena Santerini, Università Cattolica di Milano; programma di ricerca finanziato dalla Fondazione Intercultura “Le competenze di una generazione interculturale” (2011-2013), Centro di ricerca sulle relazioni interculturali dell’Università Cattolica di Milano.
2 L’esperienza interculturale, d’altra parte, non avviene soltanto sui banchi di scuola, ma anche all’esterno, nei contesti della socialità, nei luoghi informali dell’educazione (come nelle società giovanili di calcio, dove i figli di immigrati sono più di 10.000). Una recente indagine dell’Istat (2012) ci dice che oltre il 78% degli alunni italiani ha almeno un compagno di origine straniera (nel Centro-Nord) e più del 40% frequenta questi compagni anche fuori dalla scuola. Cfr. sulla differenza tra logica di integrazione e logica interculturale a scuola, il volume curato da M. Santerini, La qualità della scuola interculturale. Nuovi modelli di integrazione, Trento, Erickson, 2010.
3 La “festa delle luci” esiste davvero è il Diwali, una festa induista che presenta molte similitudini con il nostro capodanno. In questo caso l’intento era però di “laicizzare” la festa del Natale, attribuendole un significato più neutro e scostato dal discorso religioso.
4 Ci si riferisce qui a casi emersi dalla cronaca locale di alcune città italiane come Treviso, Modena, Cremona, nel corso degli anni 2010-2013. Già alcuni anni fa Marco Aime ha analizzato, nel suo Eccessi di culture (Torino, Einaudi, 2004), una sequenza di casi arrivati alla ribalta della cronaca italiana: il caso di un preside di una scuola della provincia di Cuneo che ha concesso un giorno di vacanza agli alunni musulmani per il Ramadan ed è stato accusato di piegarsi alle esigenze dei musulmani o il caso di alcune maestre della provincia di Como che hanno respinto il sindaco travestito da Babbo Natale per il timore che turbasse coi simboli della cristianità i bambini musulmani presenti a scuola.
5 Viene alla mente l’episodio, avvenuto lo scorso mese di ottobre, di una scolaresca di Parma che si è rifiutata di andare a visitare la moschea della città, in occasione della giornata cittadina del dialogo, “per paura”. L’iniziativa, promossa dal Forum interreligioso locale e rivolta ai ragazzi delle scuole superiori, aveva lo scopo di favorire nelle giovani generazioni opportunità di conoscenza e confronto con le comunità religiose della città. La paura, sostiene Martha Nussbaum nel suo ultimo libro, è una “preoccupazione offuscante” perché getta gli altri intorno a sé nell'ombra e porta ad agire senza tenere minimamente in conto gli effetti delle proprie azioni. “Per quanto sia valida ed essenziale in un mondo effettivamente pericoloso, costituisce in sé uno dei pericoli maggiori dell’esistenza (Nussbaum, 2012, p. 67).
6 Si tratta del trionfo di quella che Debray (2002) chiama “laicità di incompetenza”, che esclude il religioso dalla nostra sfera di conoscenza, diversa dalla “laicità di intelligenza”, che invece include la necessità di conoscere il fatto religioso in un’ottica culturale e umana, al di là dei singoli credi.
7 A tal proposito va detto che il pluralismo religioso non costituisce un’assoluta novità nel panorama italiano. Esso è sempre esistito (si pensi ad esempio all’Islam, religione presente in Sicilia fin dal periodo medioevale, a Livorno con comunità attive fin dal Seicento, nelle zone di Trieste e del Trentino Alto Adige con l’impero austro-ungarico), anche se oggi tale pluralismo assume notevoli aspetti di maggiore visibilità. Cfr. L. Luatti, Introduzione. Una nuova geografia religiosa, «Educazione interculturale», vol. 7, n. 2, maggio 2009, pp. 153-160.
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