Esperienze
Avvicinarsi a un pensiero interculturale riflettendo sull’esperienza
Silvia Forti
Insegnante di Scuola dell’Infanzia di ruolo dal 2005, ha conseguito nel 1997 un master di perfezionamento per il coordinamento dei servizi infantili organizzato dalla società Reggio Children Comune di RE. Dal 2012 ricopre il ruolo di supervisore di tirocinio presso il corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria, per due anni presso la sede di Reggio Emilia, dal 2014 presso la sede di Bologna.
Abstract
Il tirocinio, all’interno del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria, gioca un ruolo importante nella formazione dei futuri insegnanti, per coltivare una professionalità aperta al futuro, fatta di ricerca, sperimentazione e innovazione e, allo stesso tempo, una professionalità che affonda le sue radici nella capacità di ascolto del contesto, di riflessione su di esso e di mediazione tra teoria e pratica educativa. L’autrice mette a fuoco alcune esperienze di tirocinio con tematica interculturale, realizzate nella scuola dell’Infanzia, che ha seguito direttamente come supervisore di tirocinio in collaborazione con l’Associazione “Amici di Gancio” che, sul territorio reggiano, è molto attiva e si spende con entusiasmo nell’integrazione degli studenti stranieri. Il tirocinio, come una lente di ingrandimento, mette a fuoco le realtà del territorio e la somma delle tante esperienze degli studenti compone un mosaico dove ogni frammento non contiene il tutto, ma ha in sé una coerenza interna e una coesione con l’esterno che ci fa cogliere l’ampio respiro della progettualità interculturale.
Premessa
Quando si parla di inserimento di bambini “stranieri” nella scuola, ancora oggi si affollano nella mente di insegnanti e genitori molte paure e pregiudizi, sostenuti da una lettura superficiale del fenomeno, che considera l’incontro con l’altro un rischio, più che un’opportunità. Lo straniero è percepito come elemento dissonante, che crea fatica, problemi e nonostante il contesto con il quale gli insegnanti si confrontano sia molto variegato (basti pensare alle scelte che le famiglie autoctone fanno per i loro figli in ambito alimentare, sanitario, religioso, ecc.), le differenze di chi proviene da lontano, di chi ha tratti somatici e colore diverso sono più “difficili” da com-prendere, da accogliere, da valorizzare. Se da una parte ciò può essere considerato piuttosto “naturale”, visto che la categorizzazione noi-loro comporta un processo cognitivo di accentuazione della percezione che mette in rilievo nel gruppo del noi (autoctoni) soprattutto le somiglianze e nel gruppo del loro (stranieri) soprattutto le differenze, dall’altra parte deve sollecitare interrogativi sul nostro rapporto con la diversità, sulla nostra idea di cultura, sulla nostra idea di educazione interculturale.
Riflettere su di sé e sull’altro, sulla relazione tra sé e l’altro come sull’educazione alla relazione con l’alterità è di grande importanza nel percorso professionale dell’insegnante sia per la formazione di un pensiero interculturale sia per la sua trasformazione in prassi educativa. Infatti, acquisire consapevolezza degli impliciti culturali e degli stereotipi che sottendono la “valorizzazione delle differenze” e in particolare la “valorizzazione delle culture di origine” aiuta a evidenziare i processi interpretativi messi in atto, permette di ri-elaborare le conoscenze nell’ottica di un punto di vista altro e stimola ad attivare strategie capaci di far evolvere l’interazione con le differenze nell’opportunità di un incontro.
Come insegnante di scuola dell’Infanzia nell’I.C. 1 di Bologna, in cui la presenza di stranieri è superiore al 40% e come supervisore di tirocinio a tempo parziale presso il Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Reggio Emilia, ho avuto la possibilità di seguire gli studenti, che si preparano al lavoro di insegnanti, nel loro mettersi alla prova in contesti multiculturali e qui di seguito proverò a presentare alcuni momenti del loro tirocinio come “pretesto” per condividere alcune riflessioni sulla formazione in un futuro insegnante di un approccio interculturale.
Partire dai campi di esperienza
Nel progettare il proprio tirocinio, gli studenti trovano particolarmente impegnativo individuare l’orizzonte di senso dentro cui inserire il loro intervento, cioè scegliere un traguardo e declinarlo in obiettivi specifici e verificabili. Le Indicazioni Nazionali per il curricolo (D.M. 254 del 16 novembre 2012) definiscono per la scuola dell’Infanzia i traguardi di sviluppo della competenza al termine dell’ultimo anno di frequenza e questi traguardi sono divisi in cinque campi di esperienza. Quando pensiamo ad un progetto per valorizzare le diversità presenti nella scuola, è immediato fermare lo sguardo sul campo di esperienza “Il sé e l’altro” in cui si fa riferimento esplicito alla maturazione dell’identità personale e al riconoscimento dei principali segni della propria cultura, al dialogo e al confronto con gli altri.
Nella parte descrittiva del campo di esperienza si legge anche che, nella fascia d’età 3-6 anni, «si definisce e si articola progressivamente l’identità di ciascun bambino e di ciascuna bambina come consapevolezza del proprio corpo, della propria personalità, del proprio stare con gli altri e esplorare il mondo» (D.M. 254 del 2012, p. 24). In questa frase si condensa una responsabilità grande e ci si rende conto che il lavoro da mettere in campo ha una rilevanza maggiore di quello che si poteva pensare, perché richiede di essere strutturato percorrendo in modo trasversale i vari campi di esperienza. Il sé e l’altro, infatti, non possono riconoscersi né porsi in relazione se non attraverso tutto ciò che costituisce il mondo del bambino e il suo imparare a stare nel mondo. Il sé e l’altro diventa perciò conoscenza reciproca attraverso il corpo, diventa narrazione (parole dette e ascoltate, storie conosciute e sconosciute, pensieri ed emozioni), diventa lettura di immagini, ascolto di suoni consueti e inconsueti, ricerca di tempi e di spazi, osservazione scientifica, scoperta di categorizzazioni (uguaglianze, somiglianze e differenze) e linguaggi (dal matematico all’artistico).
È riduttivo allora pensare a un percorso interculturale che per “valorizzare le differenze” e “valorizzare le culture di origine” ponga l’accento solo su tradizioni e costumi, su storie e filastrocche di altri paesi, su differenze che potremmo definire “accattivanti”, anche perché fermandoci a questo livello si corre il rischio di trasmettere della differenza un’immagine stereotipata che toglie significato alle storie personali, alle specificità familiari, a tutti quegli aspetti originali che ogni bambino porta con sé ogni giorno a scuola. Diventa perciò necessario interrogarsi sul significato di sé e di altro e riflettere su quanto le differenze e le somiglianze si intreccino nel sé e nell’altro per elaborare percorsi e progetti che considerino come punto di partenza la trasversalità della differenza e della somiglianza e promuovano la relazione di ognuno con entrambe.
L’individuazione dei traguardi allora come la declinazione degli obiettivi potrà essere meno astratta, potrà essere calibrata sull’idea di differenza come risorsa, ma anche come limite, potrà partire dalle esigenze dei bambini e dalle esigenze delle insegnanti per promuovere in ogni caso la capacità di avvicinarci all’altro, alla sua storia, al suo punto di vista.
Le esperienze di tirocinio come risorsa riflessiva
Ho scelto, tra i percorsi di tirocinio seguiti in questi tre anni, di presentare tre brevi focus, per ragionare sulla possibilità di formazione a un pensiero interculturale, un pensiero che si interroga e problematizza, e che può essere sviluppato anche attraverso esperienze “semplici”.
Le esperienze che presenterò non sono da considerarsi “perle rare” ma un piccolo spaccato di una realtà scolastica molto vivace che, soprattutto per quanto riguarda la scuola dell’Infanzia, fa del territorio di Reggio Emilia un’eccellenza nel mondo. Un elemento di qualità, che genera qualità, è l’idea che la scuola non può vivere di autoreferenzialità e l’atteggiamento, quasi imprenditoriale, delle scuole mette in moto sinergie che alimentano la sperimentazione e l’innovazione. Questo atteggiamento si ritrova anche nella scelta organizzativa dei tirocini: l’Università attiva collaborazioni con associazioni del territorio per favorire contesti di qualità in cui inserire gli studenti.
In particolare, per quanto riguarda l’area interculturale, l’Università di Modena e Reggio Emilia e il Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria hanno attivato già da parecchi anni una collaborazione con l’Associazione “Amici di Gancio”1 per offrire una consulenza sia nell’ambito della formazione sia per indirizzare i tirocinanti in scuole dove la presenza di un’alta percentuale di bambini stranieri ha messo in moto buone pratiche per l’integrazione. Un aspetto interessante di questa collaborazione tra l’Associazione e l’Università è l’impegno a offrire una formazione condivisa tra insegnanti-tutor accoglienti e studenti tirocinanti per tracciare insieme alcune linee guida per la realizzazione del progetto. Questa opportunità è sicuramente un valore aggiunto che va nella direzione di un pensiero dialogico, di un pensiero in movimento, di una progettualità che desidera essere radicata nel territorio e si nutre di un confronto tra mondo accademico e risorse territoriali per produrre consapevolezza ed innovazione.
Pur collocandosi tutte all’interno della consulenza attivata dall’Associazione “Amici di Gancio”, queste esperienze mettono in risalto come il punto di partenza della progettazione interculturale possa essere diverso, interessi personali, esperienze di vita vissuta, elementi del contesto incontrato, e come la percezione della differenza e le riflessioni che ne sono scaturite possano dare “significato” al percorso e divenire occasione di formazione “interculturale” per gli studenti.
Iniziamo da Federica,2 molto precisa e scrupolosa, che sollecitata da un testo (Gigli, 2005) ha proposto il pane come filo conduttore del suo percorso. La sua intenzione è quella di valorizzare le diverse culture di appartenenza attraverso il pane. Tale intenzionalità non nasce dall’osservazione del contesto ma da un’idea di educazione interculturale agita attraverso simboli. Il rischio di questa proposta è quello di rappresentare la cultura dell’altro in modo stereotipato e sottolineare le differenze attraverso elementi che possono assumere carattere folklorico. Tale rischio, nel caso specifico, è accentuato dall’avere previsto soprattutto attività grafiche, mediate dall’uso di schede pre-definite sulle diverse tipologie e forme del pane.
L’incontro con gli insegnanti e gli operatori dell’Associazione “Gancio” e soprattutto il confronto con le esperienze e le riflessioni di altri studenti ha sollecitato alcuni interrogativi: quale idea ho io di cultura di appartenenza? quale immagine ho io della cultura del bambino “straniero”? Come posso rintracciare aspetti della cultura di appartenenza dei bambini di origine straniera senza correre il rischio di fare proposte lontane dalla loro esperienza? (cfr. Bolognesi e Di Rienzo, 2007) Il confronto e la discussione sono serviti alla studentessa per rivedere le proprie idee e trasformare il pane da simbolo culturale in oggetto di mediazione interculturale. Ne è scaturito un progetto molto articolato, dove il pane è stato introdotto dalla narrazione, giocato a livello sensoriale e manipolativo, analizzato “scientificamente” nei singoli ingredienti per riconoscerne caratteristiche, profumi e sapori, ed è stato, infine, occasione di scoperta di somiglianze e differenze delle diverse culture familiari, quelle dei bambini presenti nella scuola, grazie all’invito fatto ad alcune mamme di portare a scuola il pane fatto in casa. Il riferimento ad abitudini e tradizioni concrete, vissute dai bambini nella quotidianità della casa e condivise a scuola tra i pari, ha permesso di evitare di rinchiudere l’altro in immagini precostituite e ha fatto emergere somiglianze e differenze presenti nel patrimonio culturale della sezione stessa. Dalle parole dei bambini, riportate nelle relazione di tirocinio, emerge l’emozione di aver conosciuto, attraverso l’assaggio del pane, la mamma di Aymen e il suo Batbout, pane marocchino cotto in padella, la mamma di Noboni e il suo Chapati, pane indiano simile alla piadina, oltre alla mamma di Lucia e di Assad che hanno portato un po’ di pane casareccio. L’incontro tra mamme e tra mamme e bambini ha generato interesse per l’altro e ha aperto la possibilità di costruire nuove relazioni e forse nuove interpretazioni della differenza.
L’incontro e la conoscenza dell’altro presuppongono la possibilità di usufruire di un tempo e di uno spazio dedicato al dialogo. Il dialogo come spazio che genera pensiero, che realizza incontro tra soggettività, che educa all’esercizio della cittadinanza (Mortari, 2008) è proprio della scuola dell’Infanzia che ha tra i suoi caratteri costitutivi quello di essere luogo di relazione tra adulti, tra bambini e tra adulti e bambini. Nelle sue pratiche l’educazione all’incontro con l’altro è concretizzata dal dare spazio e tempo sistematico all’ascolto e all’espressione dei pensieri dei bambini, sostenendoli nelle loro rielaborazioni cognitive ed emotive, nell’apertura al confronto con i pari e nel decentramento dal proprio punto di vista.
Nell’esperienza di tirocinio che Anna3 ha svolto in una piccola scuola statale della periferia di Reggio Emilia, ritroviamo la volontà di “valorizzare le differenze” attraverso l’esercizio della conversazione a grande gruppo, molto diffusa nelle scuole Comunali della città. Il suo proposito progettuale si è però scontrato con la difficoltà di sollecitare il dialogo, sia perché in questa scuola il momento della conversazione non era adeguatamente curato sia perché i bambini, soprattutto quelli più piccoli, mostravano molte difficoltà nel formulare un pensiero proprio e nel prestare attenzione a quello degli altri. La proposta di parlare della propria casa, nonostante adeguata all’età dei bambini e al vissuto di ognuno, non attivava il confronto e le “conversazioni” risultavano povere di pensieri ed emozioni.
La fortuna di Anna è stata quella di avere trovato un’insegnante tutor che si è messa in dialogo con lei, ha compreso e apprezzato la sua esigenza e le ha suggerito una modalità di mediazione che le ha fatto vedere la situazione da un altro punto di vista. L’insegnante ha suggerito di proporre la lettura della storia dei tre porcellini e di drammatizzarla aiutando i bambini a “realizzare” con l’uso di materiali ecosostenibili le loro case. Il ribaltamento della prospettiva ha lasciato spazio all’azione dei bambini e il coinvolgimento emotivo ha fatto emergere il desiderio di parlare della loro casa, facendo affiorare rielaborazioni più personali. In questa esperienza il dialogo tra adulti, interessati alla realizzazione di un progetto educativo, ha consentito di costruire anche il dialogo tra bambini. Un dialogo che non si può dare per scontato, anche dove è pratica diffusa, soprattutto quando è l’adulto che sceglie di cosa parlare, e che comunque ha bisogno della condivisione di esperienze vissute a scuola per attivare collegamenti con le storie e le tracce identitarie della cultura familiare.
Nella terza esperienza incontriamo Natasha,4 madrelingua inglese, che nel pensare a un progetto per valorizzare le differenze ha riflettuto su come il suo essere “diversa” poteva essere una risorsa per la scuola. Cresciuta negli Stati Uniti, con papà americano e mamma italiana, ha avuto l’opportunità di sviluppare una maggiore elasticità nell’apprendimento delle lingue e ha così pensato di proporre un progetto in cui far assaggiare ai bambini sonorità linguistiche diverse, per sollecitare una riflessione sui diversi modi per nominare gli stessi oggetti. La proposta di introdurre qualche parola in inglese, che spesso viene fatta nella scuola dell’Infanzia per accontentare i genitori che chiedono di anticipare gli apprendimenti disciplinari, in questo caso è diventato contenitore di esperienze.
Confrontare suoni, associare suoni a immagini, cogliere somiglianze, discriminare le differenze, rapportarsi con soggetti che si esprimono con lingue diverse, sono operazioni legate allo sviluppo del pensiero e del linguaggio proprio dei bambini di questa fascia d’età e favoriscono il processo di decentramento cognitivo, aprendo al bambino la possibilità di entrare in relazione con la complessità del contesto sociale. Infatti «la consapevolezza della propria identità cresce all’interno della dialettica identità-alterità che si origina fin dall’infanzia, sempre all’interno di una relazione» (Bolognesi, 2013, p. 68). Certamente avere un’alterità riconosciuta come valore positivo favorisce l’accoglienza del percorso da parte dei genitori e da parte dei bambini che sono molto motivati a mettersi in gioco e a sperimentare la possibilità di esprimersi in un’altra lingua, l’inglese. Ma se Natasha fosse stata madrelingua albanese il suo progetto sarebbe stato ugualmente apprezzato?
La domanda non è superflua e i diversi tentativi di darle risposta chiariscono alla studentessa che avvicinare i bambini alle lingue degli altri assume per tutti un valore positivo se la lingua è riconosciuta come lingua che conta, ma in un’ottica interculturale bisogna esserne consapevoli e porsi l’obiettivo di dare valore e dignità anche alle lingue minori, viste nella scuola come un ostacolo all’apprendimento dell’italiano. Un percorso che vuole valorizzare le diverse culture di origine deve tener conto anche delle lingue parlate dalle famiglie dei bambini per valorizzarne e sostenerne l’uso in ambito familiare, per renderle visibili all’interno degli spazi scolastici attraverso la cartellonistica, gli avvisi per i genitori, uno scaffale multiculturale, esperienze periodiche di ascolto di narrazioni, canzoni e filastrocche nelle lingue d’origine, affinché ogni bambino possa esserne orgoglioso. In questo modo il percorso di Natasha darà valore al potenziale bilinguismo di ogni bambino con lingua madre differente e avrà la possibilità di suscitare interesse e ammirazione per tutti quei compagni che provano ad esprimersi in italiano e nella lingua dei loro genitori.
In sintesi
Cosa ho provato a mettere in evidenza con i tre focus? Per prima cosa la necessità per gli insegnanti in formazione iniziale (e anche per quelli in servizio) di una formazione interculturale che, a mio avviso, ancora oggi, viene data un po’ per scontata e ridotta a percorsi “sulle tradizioni culturali” o sull’apprendimento dell’italiano. Una formazione che non ha bisogno di conferenze o lezioni ma di confronto tra operatori, insegnanti ed esperti. È il dialogo, tra chi è impegnato in ambito educativo e didattico, che consente di individuare o ritrovare quel fare pensato capace di creare confronto “culturale” tra i bambini e tra gli adulti, promuovendo integrazione.
Strettamente collegata alla prima è l’importanza del porsi domande. Anche per porsi domande è necessaria forse una formazione, nel senso che occorre imparare a dar valore alle proprie incertezze, ai dubbi, alle sensazioni di disagio e di resistenza all’altro. Sono gli interrogativi che possono aiutarci a «riconoscere quali possono essere le implicazioni educative di uno sguardo etnocentrico e di un agire educativo connotato culturalmente, determinato dalla propria appartenenza culturale, di genere, dalla propria storia, dai propri studi ed esperienze» (Bolognesi, 2013, p. 168) e sono sempre gli interrogativi che possono contribuire ad avviare un processo di consapevolezza della dinamicità della propria e altrui cultura.
L’altro elemento su cui porre infine attenzione è il fatto che in tutte le esperienze considerate le tirocinanti partono dalle loro idee e/o dai loro interessi. È solo in seconda istanza che l’intenzionalità progettuale delle studentesse viene rivista per intrecciarsi con le esigenze del contesto e le risposte dei bambini. L’importanza di progettare a partire dall’osservazione dei bambini, dall’ascolto dei loro pensieri, dalle loro specificità, ribadita dalle diverse teorie pedagogiche e didattiche, nell’approccio interculturale è ancora più importante perché ci protegge dal rischio di rappresentare ciò di cui si parla solo secondo il nostro punto di vista.
Come supervisore al tirocinio ho provato anche io ad intrecciare le mie esperienze con quelle delle studentesse, le mie riflessioni con il loro desiderio di mettersi in gioco per suscitare in loro il bisogno di approfondire, di interrogarsi e di ritornare sui loro passi. Anche questo io credo è stato un po’ interculturale.
Bibliografia
Bolognesi I. e Di Rienzo A. (2007), Io non sono proprio straniero, Milano, FrancoAngeli.
Bolognesi I. et al. (2007), Di cultura in culture, Milano, FrancoAngeli.
D.M. 254 del 16 novembre 2012, Indicazioni Nazionali per il Curricolo della scuola dell’Infanzia e del primo ciclo di istruzione.
Genovese A. (2003), Per una pedagogia interculturale, Bologna, BUP.
Gigli A. (2005), La favola del Pane, albo illustrato da Raffaella Brusaglino, Certaldo (FI), Federighi Editori.
Mortari L. (2008), Educare alla cittadinanza partecipata, Milano, Mondadori.
Pinto Minerva F. (2002), L’intercultura, Bari, Laterza.
Santerini M. (2010), La qualità della scuola interculturale. Nuovi modelli per l’integrazione, Trento, Erickson.
1 “Amici di Gancio” è un’Associazione di volontariato che si spende con competenza ed entusiasmo sul territorio reggiano con l’obiettivo di valorizzare le esperienze di integrazione degli alunni stranieri nelle scuole primarie e secondarie, attraverso il coinvolgimento degli studenti delle scuole superiori in attività di volontariato, in orario extrascolastico. Dal 1996 l’Associazione “Amici di Gancio” collabora anche con l’Università di Modena e Reggio Emilia. Per maggiori informazioni: www.amicidigancio.com.
2 Ha svolto il tirocinio del terzo anno nell’A.S. 2012-2013 presso la scuola dell’Infanzia di Carpaneto, inserita nell’ I.C. Carpaneto Piacentino (PC).
3 Ha svolto il tirocinio del terzo anno nella scuola comunale La Villetta di Reggio Emilia, per il tirocinio del quarto anno, invece, ha scelto la scuola dell’Infanzia Statale “Maria Immacolata” di Marmirolo (RE), che fa parte dell’IC Einstein di Reggio Emilia.
4 Ha svolto il tirocinio del terzo anno nella scuola dell’Infanzia “Neri” presso l’IC Ferrari di Parma.
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