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Approfondimenti

Abitudini della mente. Riflessioni sul valore dell’imprevisto in Nepal Occidentale

Samuele Poletti

Ph.D candidate in Social Anthropology, University of Edinburgh, UK.


Abstract

Un antropologo in Nepal per compiere una ricerca, una storia e serie di imprevisti sono l’occasione per riflettere sul relativismo culturale o meglio ragionare sulle diverse modalità di essere-nel-mondo. Interrogarsi sul proprio sguardo e su quello altrui diventa necessario ogni qualvolta si incontra l’alterità e per poter sviluppare quella che l’autore definisce una “mente multiculturale” in grado di muoversi agilmente in contesti altri, pur rimanendo se stessi.



Come spesso accade quando è un antropologo a scrivere, tutto comincia con una storia. Era l’inizio di dicembre quando, ancora prima dello spuntar del sole, ho trovato sistemazione nella cabina di un camion adibito al trasporto di passeggeri e merci lungo la strada impervia che da Gamgadhi – capoluogo del distretto di Mugu, nel Nepal nord-occidentale – porta verso sud. Mi ero spinto fin lassù per una visita esplorativa della zona, al termine della quale mi apprestavo a fare ritorno nella valle di Sinja, situata una trentina di chilometri più a sud nell’adiacente distretto di Jumla. Lì sto conducendo i diciotto mesi di ricerca di campo che mi consentiranno di raccogliere un adeguato corpus di materiale empirico nell’ambito del mio dottorato di ricerca in antropologia sociale presso l’Università di Edimburgo.

Quella gelida mattina, poco prima delle 6, dopo i soliti contrattempi e le infinite attese che immancabilmente precedono ogni spostamento motorizzato in questo piccolo Paese dell’Asia meridionale, finalmente l’autocarro si mette in marcia verso la mia destinazione, che, vengo rassicurato più volte, raggiungeremo nel pomeriggio. Felice di fare ritorno al contesto sociale che inizia ad essermi famigliare e che in qualche modo funge da unico riferimento orientativo in un panorama socioculturale che mi è per molti versi assolutamente nuovo ed estraneo, mi metto comodo sul sedile cercando di ignorare gli strapiombi che una decina di centimetri separano dalle ruote del veicolo. Tuttavia, dopo nemmeno un’ora di viaggio ci imbattiamo in un camion che transita in senso contrario, impossibilitato al movimento dal giorno prima a causa del fango nel quale le ruote erano rimaste impantanate; situazione del tutto comune sulle strade sterrate di queste zone rurali impervie.

Non essendo la carreggiata sufficientemente larga per permettere l’aggiramento dell’ostacolo e vigendo per fortuna la regola generale dell’“aiuto al camerata”, ci fermiamo a ponderare sul da farsi per liberare il mezzo dalla trappola di acqua e fango – a quest’ora del mattino ancora completamente congelati – che lo tiene ostaggio. Eppure, nonostante gli innumerevoli tentativi di traino, inizia ad apparire chiaro che la situazione è più complessa del previsto. Di conseguenza, subentra l’usuale risposta fatalistica della popolazione locale a situazioni del genere, sbalorditiva per colui che non ne è abituato: gli equipaggi dei due autocarri accendono un fuoco improvvisato e iniziano a commentare ironicamente le condizioni di sottosviluppo del loro Paese, a confronto invece dell’immagine idilliaca della Svizzera che si sono fatti. Nel frattempo, alcuni passeggeri hanno trovato rifugio in una vicina abitazione, in cui del tè è stato messo loro a disposizione. In questo modo trascorriamo le circa quattro ore di attesa che ci separano dall’arrivo del primo veicolo a motore che circola su questa pista: un bel trattore blu per la cronaca. Con l’aiuto determinate dello stesso, dopo un po’ le ruote intrappolate decidono quasi miracolosamente di liberarsi, facendo fare al camion bloccato un balzo in avanti che ricorda l’attacco di un coccodrillo, avvolto in una nuvola di fumo e dall’odore di plastica bruciata del copertone.

Così, dopo una mattinata intera passata in questo modo e con un certo senso di sollievo che fatico a nascondere, la marcia riprende. Nonostante il significativo contrattempo resto fermamente fiducioso di arrivare a destinazione entro notte, in quanto la distanza che ci separa è tutto sommato ragionevole e l’equipaggio mi pare motivato a proseguire un viaggio che, in quattro giorni, porterà a Surketh.1 Quest’impressione, tuttavia, è destinata ad infrangersi contro il muro della realtà degli eventi nemmeno mezz’ora dopo. Giunti a un bivio il mezzo si ferma e tutti smontano. Non comprendendo la natura di quest’arresto inaspettato, scendo anch’io e inizio a fare domande. Così apprendo che, in seguito al suggerimento di uno dei passeggeri, è stato deciso all’unanimità che, già che ci siamo, perché non fare una bella deviazione per andare a vedere il Lago Rara, situato non troppo distante sopra il punto in cui ci troviamo?! Nonostante ci fossi già stato e fossi certamente più entusiasta di fare ritorno al “mio” villaggio, dopo essere stato rassicurato più volte che, in ogni caso, sicuramente entro sera ci saremmo arrivati, cerco di fare mio il fatalismo indigeno e, sebbene un po’ a malincuore, li seguo. In ogni caso non vi sono alternative, dato che mi trovo in mezzo al nulla.

Giunti in un prato dove la strada carrozzabile di terra battuta e sassi finisce ai margini di un bosco fitto ci arrestiamo: da qui, in una decina di minuti, un sentiero conduce ad un punto panoramico sul lago. Dato che l’intento dei passeggeri è unicamente quello di contemplare brevemente la bellezza di quest’area, decido di attenderli nei pressi del veicolo leggendo un libro al piacevole tepore del timido sole tardo-autunnale. Ed è qui che succede l’episodio fulcro della riflessione contenuta in queste pagine. Oltre un’ora dopo la sparizione dei miei compagni di viaggio nella macchia, una coppia di anziani del luogo emerge dalla foresta e mi si ferma accanto. In seguito ad una conversazione surreale in un misto tra nepalese e inglese che ha poco a che fare sia con l’uno sia con l’altro, realizzo poco a poco che sono stato abbandonato lì, in quanto il resto dei passeggeri pare aver deciso di pernottare nei dintorni. Dopo un momento di furente indignazione e irrazionale perdita di compostezza che pare oltremodo divertire gli anziani coniugi, non sapendo che altro fare mi metto in cammino seguendoli fino a riguadagnare la strada principale sottostante, che raggiungiamo in un’oretta buona di cammino. Avendo ormai completamente perduto ogni speranza di arrivare a destinazione in giornata, proprio quando inizio a ponderare la possibilità di venire ospitato per la notte da qualche buon’anima risiedente nella zona, quasi per miracolo compare una jeep delle Nazioni Unite che, una volta ascoltata la mia storia, mi dà un passaggio fino alla mia meta.

L’esperienza appena narrata è sintomatica di una situazione ben più estesa, che da quando vivo in Nepal mi sta facendo riflettere sulla temporalità e sulle diverse modalità socioculturali con cui essa viene esperita. Mi rendo conto ora che in Europa mi sono assimilato (o sono stato assimilato…) a quella logica tutta occidentale del “tempo è denaro”. Per quanto mi riguarda, non è tanto la prospettiva finanziaria ad essere rilevante, ma piuttosto quella relativa al concetto di produttività, inteso nell’accezione di rendimento dello sforzo per rapporto al tempo. D’abitudine infatti mi sento realizzato quando, riflettendo sulla giornata appena trascorsa, mi compiaccio del numero di mansioni diverse che sono riuscito a svolgere, e più ne compio più questa sensazione viene accentuata. Di per sé non credo ci sia nulla di male in questo, non fosse altro per il fatto che, se si vogliono raggiungere degli obiettivi o dei risultati nel mondo in cui viviamo, è necessario sviluppare una certa attitudine alla sistematicità organizzativa. Il lato oscuro però consiste nel concepire il minimo inconveniente o imprevisto come un ostacolo al nostro progetto piuttosto che come un’opportunità, e dunque ci infastidisce. A causa di questo tipo di mentalità, chissà quante cose molto probabilmente ci sfuggono, poiché, essendo totalmente immersi nell’esecuzione di un piano più o meno rigidamente prestabilito, non ci fermiamo a considerare le intrinseche possibilità che un imprevisto potrebbe offrire. 

Il popolo nepalese invece mi sembra così abituato a far fronte a tutta una serie di inconvenienti, di cui la vita quotidiana è costantemente costellata in questa parte del mondo, da apparire praticamente immune ad ogni sorta di nervosismo o irrazionale perdita di contegno, apparentemente prerogativa quasi esclusiva dell’uomo occidentale (per lo meno da questo punto di vista). Ovviamente comunque, pure il Nepal paga un prezzo per una tale attitudine di apparente rilassatezza, ovvero il fatto che tutto va a rilento nel Paese; ciò che sicuramente comporta delle conseguenze sotto molti aspetti. Per esempio, prendiamo in considerazione il cosiddetto “sviluppo”, per lo meno così come lo intendiamo noi occidentali.2 Senza voler entrare troppo a fondo nel merito, giacché un intero libro non basterebbe per trattare il problema in maniera esaustiva, è pur vero però che il fatalismo ha pesanti ricadute sullo stato in cui versa il Paese (si veda Bista, 1991). Infatti, quest’attitudine pone in essere una negligenza e indifferenza disarmanti per un osservatore esterno. Al di là dei vari relativismi, il fatto che si possa ancora morire per una semplice infezione o giustificare l’atteggiamento di molti uomini nei confronti delle mogli che soffrono di prolasso uterino,3 appaiono problemi oggettivi. Questo porta alla ribalta una tematica fondamentale nell’incontro tra culture, espressa molto bene dall’antropologo britannico Michael Carrithers, il quale, in un articolo apparso qualche anno fa, afferma il principio: «relativismo culturale, sì, relativismo morale, no» (2005, p. 434). E, facendo mie queste parole, non posso esimermi dal prendere posizione considerando i fenomeni sopra accennati francamente inaccettabili.

Cionondimeno, per quanto concerne la gestione del tempo e degli imprevisti il confine risulta meno netto, tanto che una risposta univoca non è affatto facile da fornire, sempre ammesso sia questo lo scopo. Infatti, più che stabilire chi sia stato a vederci giusto e chi invece si ostini a perseverare nell’errore, è forse più sensato ragionare sulle diverse modalità di essere-nel-mondo che ci si presentano davanti, e che inevitabilmente entrano in contatto ogniqualvolta ci si rapporti ad un’alterità di qualche tipo. Eppure, la sospensione del giudizio non è cosa facile e scontata. Nel mio caso, anche se poi ho avuto modo di riderci sopra ed esserne grato per lo stimolo di riflessione che mi ha fornito, non nascondo che, mentre stavo vivendo la vicenda che ho narrato in apertura, ne fossi profondamente disturbato. Tra l’altro, ciò pone in evidenza come la ricerca di campo in una società altra – e più in generale l’incontro tra culture – sia un’esperienza eminentemente schizofrenica, in quanto l’osservatore partecipante passa da momenti di assoluto entusiasmo a picchi di miserabile disperazione. Durante quest’ultimi, descritti esemplarmente e con molta onestà da Nigel Barley nel suo libro The innocent anthropologist (1986), il ricercatore è indotto a sentirsi acriticamente grato di non appartenere al mondo che sta studiando, riscoprendosi innamorato come mai in precedenza del proprio contesto di provenienza.

Tuttavia, una volta calmatasi la tempesta emozionale che mi ha investito nell’immediatezza dell’“abbandono”, allorché con più calma ho avuto modo di ragionare su quanto successo e sul mio modo di percepire la situazione, ammetto di essermi scoperto in qualche modo profondamente affascinato dall’accaduto. Quello che mi intriga maggiormente è come, nella circostanza, l’unico attore per il quale ciò che stavamo vivendo apparisse totalmente privo di logica fossi proprio io, mentre per gli altri passeggeri il tutto rientrava nella perfetta normalità delle cose, ed era semmai la mia reazione di sdegno ad apparire ingiustificata o perlomeno anomala. E allora, in base a un approccio squisitamente antropologico, non posso non fermarmi a riflettere sul senso che diamo alla temporalità, e in particolar modo sul come la percezione del suo scorrimento in vari contesti culturali possa differire al punto da farci percepire come assurde certe dinamiche e situazioni che ci troviamo a vivere.

Per portare il discorso su un piano più generale, non penso sia tanto l’effettiva perdita di tempo a spazientire l’osservatore-partecipante occidentale, che apprende in fretta a non muoversi mai senza portare con sé un libro tascabile, spesso unica barriera preventiva contro il completo smarrimento del senno. Piuttosto, credo sia la sensazione di completa assenza di una qualsivoglia forma di organizzazione sistematica a spiazzarci, che sembra essere una caratteristica socioculturale essenziale del funzionamento delle società occidentali, e un riferimento importante per la nostra attribuzione di senso alla realtà che ci circonda. E questo, ancora una volta, ci parla delle diverse modalità con cui diversi gruppi umani hanno scelto di impostare la propria vita di comunità, e conseguentemente la loro ontologia culturale intersoggettivamente costruita.  

Apparentemente, infatti, nell’Occidente in cui ci troviamo a vivere,4 abbiamo scelto di privilegiare il funzionalismo organizzativo e il conseguente rendimento sistematizzato delle varie attività umane, rispetto alla rilassatezza di un più quieto vivere. E questo vivere “alla giornata”, apparentemente “in balia” degli eventi, coincide con una più blanda misurazione del tempo, legata ai vari cicli naturali – che siano essi quelli lunari, stagionali, o altro – piuttosto che al minuzioso computo di ore o minuti. Esemplare di questa differente prospettiva è il domandare, quando si viaggia da un luogo all’altro del Nepal, quanto dista la località che intendiamo raggiungere (tra l’altro ancora una volta sintomatico del nostro bisogno di conoscere esattamente le tempistiche, per poterci organizzare di conseguenza…). Nel giro di qualche minuto si può comodamente raccogliere, per la stessa distanza, un ventaglio di opinioni che vanno dal paio d’ore al paio di giorni (!), passando per tutta la scala intermedia, senza che nessuno mostri la benché minima incertezza al riguardo. Allora, si è quasi automaticamente spinti a chiedersi: o queste persone sono incompetenti e inaffidabili – che non è proprio il punto di partenza ideale quando lo scopo che ci si è prefissati è quello di tentare di sospendere il proprio giudizio, nel tentativo di comprendere un’altra prospettiva esistenziale –, oppure ci deve essere sotto qualcos’altro.

E questo “qualcos’altro” credo consista appunto, come già accennato, in una diversa concezione dell’essere-nel-mondo, che sta alla base delle modalità con cui la nostra vicenda esistenziale comune viene esperita nei vari contesti socioculturali. Il che determina non da ultimo (e forse, chissà, addirittura in primo luogo) una diversa percezione della temporalità, e dei modi in cui viviamo di conseguenza. Così, quello che per alcuni è un ostacolo e l’indesiderata alterazione di una pianificazione metodica e lineare stabilita in precedenza, per altri è un simpatico fuori programma, benvenuto in una vita priva di molti degli orizzonti di possibilità che sono a noi offerti, e che troppo spesso diamo per scontati. La questione potrebbe essere quindi formulata nei termini di una discrepanza tra le possibilità dell’avere rispetto alle possibilità dell’essere, sebbene sarebbe una maniera forse un po’ troppo riduttiva di interpretare queste dinamiche, non facendo piena giustizia dell’elevata complessità insita nell’argomento.

In effetti, è bene precisare che non è affatto mia intenzione di dipingere i nepalesi come gli “assolutamente altri”, come persone che vivono un’esperienza ontologica irrimediabilmente differente dalla nostra. Ogni alterità umana non può mai essere “assoluta”, altrimenti l’impresa della “traduzione di culture”, o semplicemente l’incontro prettamente fenomenologico di due persone appartenenti a due realtà diverse in un mercato o in un aeroporto, sarebbe del tutto impossibile. Le varie «forme di umanità» (Remotti, 2002) sono piuttosto sfumature di tonalità differenti all’interno della stessa cornice dell’esistenza umana. Esperienze eminentemente particolaristiche che comunque racchiudono in sé un’ovvia apertura verso l’universale, senza la quale non potrebbe esistere un’antropologia, nel senso più ampio del termine. Proprio per tale motivo, però, colui che sceglie di spingersi nelle “zone grigie” dove le linee di confine tra i mondi socioculturali si toccano ed entrano in relazione tra loro, focalizzando la propria attenzione, attraverso il proprio vissuto personale, dove le nette distinzioni concettuali sono automaticamente trasmutate in sfumature dall’incontro con la realtà così come direttamente esperita e vissuta, è privilegiato nella realizzazione di quanto poco scontate e “naturali” siano le nostre abitudini del pensiero.

Con questo non intendo in alcun modo sostenere che i nepalesi non conoscono fretta o pianificazione pragmatica, prima di tutto in quanto non si tratta di una moltitudine di individui costruiti in serie, ognuno con le stesse identiche predisposizioni ed attitudini. Secondariamente perché fretta e pragmatismo sono intrinsecamente alla base di una società che è ancora molto legata ad una prospettiva contadina, continuamente sottoposta ai ritmi incalzanti dettati dai tempi dell’agricoltura. Piuttosto, ciò che trovo interessante è che essi sembrano presentare una diversa attitudine all’imprevisto, la quale porta a un’inevitabile riconsiderazione dei propri piani, spesso in disaccordo con quanto desiderato o pianificato in precedenza. Simile attitudine è intrisa dello stesso fatalismo a cui si accennava in precedenza, che come detto è causa di una buona parte dei problemi del Nepal contemporaneo fino ai più alti livelli istituzionali, e che è quasi sconcertante per la comprensione etica5 dell’osservatore (quell’attitudine dell’“è andata così, che ci vuoi fare ormai”, tanto per capirsi). Allo stesso tempo, esso offre anche un’interessante opportunità di riflessione per la mentalità occidentale post-cartesiana da cui volenti o nolenti siamo un po’ tutti influenzati, che avverte quest’attitudine fatalistica come fumo negli occhi.

Ed è proprio qui che a parer mio sta il nocciolo della questione. Al di là di una superficiale e caleidoscopica moltitudine di soggettività differenti c’è una dimensione più profonda, un impronta socioculturale che trascende e agisce in maniera per lo più autonoma dalla sfera del nostro cogitum riflessivo. Questa dimensione pre-logica e pre-riflessiva è però tutt’altro che irrilevante, e si manifesta in una molteplicità di modi nell’esistenza quotidiana di ognuno di noi. Infatti, essa soggiace a molte delle nostre scelte ed atteggiamenti, sebbene non si manifesti in maniera conscia se non raramente, in particolari occasioni che la spingono a emergere in superficie. Non è mia intenzione in questa sede tracciare una panoramica dello sviluppo storico dell’“imprinting” socioculturale che la società occidentale esercita sugli individui che la compongano vis-à-vis a quella nepalese. Semplicemente, mi pare importante soffermarsi a riflettere sull’esistenza di un tale fenomeno, e sugli effetti che esso produce sul nostro modo di esperire eventi e situazioni che di volta in volta ci troviamo a fronteggiare quando confrontati con una realtà che scardina le nostre categorie preconcette, e che fatichiamo a ricondurre alle nostre strutture di pensiero.

Sono convinto sia esattamente questa la grossa lezione che il contatto con l’alterità insegna e trasmette, di cui la vicenda qui narrata è un esempio concreto, per quanto puntuale e specifico possa essere. Al di là dei giudizi e degli sconcerti passeggeri, è la dove il mondo “non va come voglio io” che risiede una grossa opportunità di crescita personale. Questo può aiutarci a scardinare le gabbie mentali dell’abitudine o del dato per scontato a cui, in un modo o nell’altro, siamo tutti un po’ succubi. Dopotutto, la scelta riguardante la modalità più vantaggiosa di relazionarsi con gli altri e con il mondo – i.e. il mio infastidimento vs il loro entusiasmo per un fuori programma – risiede unicamente nelle nostre mani o, meglio, nelle nostre rappresentazioni mentali. E ciò vale pur volendo ammettere un certo grado di “predisposizione culturale” che influisce sulle scelte che vengono operate di volta in volta. Dicendo questo non intendo certo farmi paladino di una conversione di massa della società occidentale al fatalismo nepalese, ma solo fornire una riflessione riguardante il valore che l’imprevisto può assumere per un mondo piuttosto rigidamente strutturato come il nostro. Quest’apertura verso la possibilità è in definitiva ciò che può permettere di concepire l’uomo come “progetto”, come suggerito da Husserl, Heidegger e Sartre. La consapevolezza della possibilità, perciò, è forse l’unica via per sfuggire alla palude del vincolo opprimente dell’abitudine, in cui stagnano le nostre qualità migliori, per favorire una più fluida e flessibile attitudine mentale.

Inoltre, questo suggerisce un'altra attitudine di fondo, specialmente tenendo conto delle dinamiche contemporanee sempre più improntate a uno scenario di dibattito e interazione tra culture. Come suggerito da Anolli (2006), si tratta di sviluppare una mentalità multiculturale o flessibilmente plurale. Essa è da vedersi come la capacità di orientarsi all’interno di codici culturali differenti, così da elaborare gli strumenti concettuali per passare più o meno facilmente da un registro mentale all’altro in base alla situazione, per consentire un’adeguata attribuzione di significato anche a dinamiche che alla nostra forma mentis possono apparire inizialmente come estranee e bizzarre. In un mondo complesso e dinamico come quello attuale, questa qualità non è più prerogativa esclusiva di una cerchia ristretta di “addetti ai lavori” (antropologi, diplomatici, esploratori, ecc.), ma diventa una componente essenziale per riuscire a districarsi in molte situazioni della vita di tutti i giorni, che forzatamente ci confrontano con la presenza dell’“altro”. Di conseguenza, lo sviluppo di questa mente multiculturale ci porta obbligatoriamente a riconsiderare le nostre strutture di pensiero preconcette in rapporto a un’alterità dapprima percepita come poco familiare, e l’impattare di queste forme mentali è suscettibile di smussare gli angoli più affilati delle nostre categorie mentali. Perciò, non si tratta né di operare una scelta arbitraria a favore esclusivo di una delle parti in causa, né di auspicare l’omogeneizzazione livellatrice di tutte le differenze umane, quanto piuttosto di elaborare molteplici chiavi di lettura per riuscire a spostarsi più agevolmente “tra i mondi” in costante interazione. In questo modo, pur rimanendo chi si è, da ciascuno di essi si possono trarre interessanti stimoli di riflessione e crescita personale, beneficiando così di una più vasta e articolata esperienza dell’essere-nel-mondo.

 

 

Bibliografia

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Remotti F. (a cura di) (2002), Forme di umanità, Milano, Mondadori.



1 Surketh è uno dei principali capoluogo del Nepal sud-occidentale, centro di grande importanza per le attività commerciali di tutta la regione e importante snodo di transito sull’asse che dai distretti nel nord conduce verso l’India e il resto del Paese.
2 Infatti, su cosa sia o debba essere lo “sviluppo” – o anche solo sulla legittimità di porre la questione in questi termini – il dibattito è aperto e le opinioni a riguardo sono tutt’altro che univoche e a-problematiche.
3 Tale disturbo è particolarmente rilevante nel Nepal occidentale. Ne sono affette in prevalenza giovani donne, a seguito di gravidanze in troppo tenera età, di gravidanze troppo ravvicinate, e della mancanza di un periodo di riposo post-parto adeguato. In simili circostanze, invece di venire aiutate con un intervento chirurgico che risolverebbe il problema, ma che costa denaro, i mariti spesso le abbandonano e si trovano un’altra moglie, condannando le sfortunate ad una vita estremamente difficile.
4 Non è, infatti, detto che anche a casa nostra sia sempre stato così, e una panoramica storica potrebbe facilmente incrinare l’illusione di dipingere i mondi culturali come bloccati in un perpetuo presente etnografico, anche se questo non è lo scopo che ci si prefigge in questo articolo.
5 All’interno dell’ambito disciplinare dell’antropologia socioculturale, con “etica” si intende la prospettiva che un osservatore esterno – di norma identificata col punto di vista del ricercatore – ha su una determinata realtà. “Emica” è invece la visione che l’indigeno ha del proprio mondo, una visione “dall’interno”.

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