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Approfondimenti

Programmazione di interventi didattico-educativi specifici e valutazione formativa per la riuscita scolastica degli alunni stranieri. Il binomio forte da rivisitare

Domenico Sarracino

In passato docente nei vari ordini scolastici, poi preside di scuola media e dirigente scolastico dell’I.C. “Martiri di Civitella”, Badia al Pino (AR). Referente provinciale per l’integrazione degli A.S. per l’USP di Arezzo. Ha organizzato e diretto vari corsi di formazione/aggiornamento del personale della scuola. Attualmente è presidente dell’Associazione professionale “Proteo-fare-sapere” della provincia di Arezzo.


Abstract

Nonostante il cammino compiuto in tema di inte(g)razione, inclusione e successo scolastico di tutti gli alunni, sono ancora presenti alcune pesanti criticità. La Programmazione didattico-educativa e la Valutazione formativa sono un binomio di grande portata, che contiene gli strumenti operativi per attuare l’individualizzazione-personalizzazione dei percorsi scolastici curvati sui bisogni dei singoli alunni. È tempo che si torni a riflettere su questi strumenti, rivisitandone lo stato di salute, per rilevare le condizioni di un loro potenziamento in rapporto agli sviluppi in corso ed evitare il rischio che si riducano a tecnicalità e routine, prive della necessaria tensione alla ricerca che non deve mai fermarsi. Occorre anche rivisitare impegno e condizioni operative in particolare dei docenti e dirigenti, ma anche dei Consigli di classe, come insostituibili strumenti di cerniera e raccordo. E ciò anche alla luce della recente direttiva sui Bisogni Educativi Speciali (BES) e degli ostacoli, soggettivi e oggettivi, che una fase difficile della storia della scuola fa emergere. Occorre lavorare con rinnovato slancio e più affinati strumenti per il successo scolastico di tutti gli allievi e, più in generale, per costruire la cittadinanza interculturale e una nuova e più ampia coesione sociale.



Tra gli straordinari cambiamenti in corso da decenni che stanno modificando il volto del mondo, segnandolo con vaste ricadute sociali, politico-economiche e demografiche e in generale sulla condizione umana, l’antico fenomeno migratorio ha assunto dimensioni e implicazioni vastissime. In esso forti appaiono le ricadute sui minori in età scolastica che hanno diritto a vivere una vita “normale” – istruirsi, crescere in salute e sicurezza, stando bene con sé e gli altri – e che invece la loro condizione di figli di migranti rende precaria e difficile, spesso dolorosa. Questa sfida riguarda per tanti aspetti i sistemi scolastici e anche il nostro in particolare, dove il fenomeno è arrivato ormai dalla fine degli anni ’80, con qualche ritardo rispetto ad altri Paesi. E anche noi l’abbiamo affrontato, tenendo conto in parte delle esperienze altrui, spesso andando a tentoni, poi con più consapevolezza, esperienze e strumenti; prima con poche e incerte indicazioni, poi a mano a mano attrezzandoci meglio, accumulando e diffondendo esperienze, producendo ricerche e materiali: le idee si sono andate chiarendo e dalla fase caratterizzata sostanzialmente da un certo spontaneismo e “ottimismo della volontà”, del cercare e ricercare, si sono fatti strada procedure, dispositivi, modelli e forme organizzative più lineari e organici. Siamo andati avanti, abbiamo percorso un buon tratto di strada, e possiamo certamente dire che abbiamo già una storia e punti fermi, ma il cammino ancora non può dirsi compiuto, anche perché in questo campo esso è sempre in divenire.

Difatti, nonostante gli indubbi progressi compiuti – a macchie di leopardo, dove più dove meno – alcuni dati sono lì a indicarci inadeguatezze ancora da superare e nuove mete. Sebbene il che fare e come organizzarsi siano ormai venuti delineandosi con una certa chiarezza, le pratiche scolastiche che si agiscono nel nostro lungo Paese mostrano ancora punti deboli e aree di criticità, non essendo riuscite a rimuovere le cause e gli ostacoli che impediscono di dare a ciascuno secondo i suoi bisogni educativi e a liberare potenzialità ed energie. I dati (MIUR e Fondazione ISMU, n. 1/2014) su ritardo scolastico, ripetenze, dispersioni e abbandoni, su una certa canalizzazione delle scelte scolastiche verso gli istituti professionali e tecnici, evidenziano nettamente il cammino ancora da compiere e le “disparità” irrisolte, dovute a condizioni familiari, a deprivazione socio-culturale, a storie personali: insomma a fattori esterni alle volontà soggettive e alle dirette responsabilità personali. Che sono, poi, gli ostacoli da rimuovere, innanzitutto attraverso l’azione delle scuole, a cui richiamano l’art. 3 della Carta Costituzionale e altri importanti documenti. Nella pratica il nostro sistema di accoglienza-inte(g)razione-inclusione registra ancora zone di inadeguatezza che si producono lungo le varie tappe del processo di inclusione.

 

Un binomio di straordinaria forza innovativa

È dagli anni ’70 che si è cominciato a parlare di Programmazione didattico-educativa (P) e Valutazione formativa (VF), un binomio di straordinaria forza innovativa, volto a superare la scuola dei programmi centralizzati, trasmettitrice di saperi nozionistici e ripetitivi; per realizzare, di contro, la nuova scuola, fondata sulla centralità dell’alunno e dei suoi bisogni, e capace di elaborare e organizzare in proprio i saperi, le conoscenze e lo sviluppo culturale e sociale degli allievi, per la formazione dell’uomo e del cittadino e lo sviluppo della partecipazione democratica.

Può essere utile, nel ragionamento che stiamo svolgendo, richiamare la forza e la valenza di questi due strumenti, che restano le due leve fondamentali per avviare, realizzare e controllare gli interventi delle scuole in rapporto alle svariate condizioni di partenza che presentano le varie tipologie di alunni. I due strumenti sono reciprocamente complementari. La VF, che osserva e monitorizza criticamente l’insieme dell’azione didattica, accompagnando, rischiarando e controllando la P, permette a questa di adattarsi in corso d’opera, di farsi flessibile, di rimodulare contenuti, metodi e strumenti, di provare e riprovare al fine di intercettare al meglio le potenzialità dell’alunno, di accompagnarlo più da vicino, facendo incontrare la situazione di apprendimento con gli oggetti dell’apprendimento. Così la P perderebbe la precipua connotazione data dalla flessibilità, se nel suo svolgersi non fosse accompagnata e controllata da criteri e strumenti della VF (osservazioni, monitoraggi, rilevazioni, verifiche) volti a controllare e regolare l’efficacia del percorso formativo, confermarlo o rivederlo in rapporto agli obiettivi previsti.

Insomma P e VF delineano un modello di lavoro scolastico costruito sulla capacità delle scuole di adattarsi alle differenti esigenze degli alunni, di partire dai loro bisogni formativi, individuando in queste capacità i profili di una nuova professionalità docente che sa comporre, scomporre e ricomporre saperi e conoscenze, annodare fili e svegliare curiosità e interesse, apprezzare e valorizzare le diverse intelligenze, organizzare ambienti scolastici capaci di promuovere la collaborazione-cooperazione, la solidarietà e la responsabilità verso se stessi, le persone e le cose.

Questi rappresentano i pilastri della scuola italiana, ormai da diversi decenni, e intorno ad essi si è svolta l’antica dialettica tra intenzioni e realtà. Da un lato la tensione all’innovazione e al cambiamento sempre in divenire; dall’altro le resistenze, il passato che non vuole passare, che ha teso a celare vecchie pratiche sotto le forme e i linguaggi delle novità. Un fenomeno presente in tutti i segmenti scolastici, in alcuni più circoscritto e ormai residuale, in altri (alcune tipologie di scuole superiori) purtroppo ancora forte e persistente.

 

L’instabilità del sistema

L’integrazione degli alunni stranieri – un mondo entro cui abbiamo imparato a distinguere, e che si sfaccetta a sua volta in vari sottomondi caratterizzati da ulteriori specificità e proprie peculiarità: gli alunni neo-arrivati (NAI), i nati in Italia appartenenti alle seconde generazioni (2G), quelli adottati, i rom e camminanti per fermarsi a questo livello di distinzione – ha trovato in questi due strumenti di lavoro scolastico le forme e i modi per essere praticata e sperimentata, rafforzati ulteriormente dal DPR sull’Autonomia scolastica (DPR 275/1999)[1] che sollecita le scuole, nell’elaborare il POF, ad attivare percorsi didattici individualizzati, nel rispetto del principio dell’inte(g)razione degli alunni nella classe e nel gruppo, nel quadro degli obiettivi e delle finalità generali della scuola.

L’impressione che si ha nel valutare lo stato delle cose è che la scuola – che da tempo insieme al sistema sociale ha bisogno di una riconfigurazione adeguata ai cambiamenti in corso – stia vivendo perciò una lunga fase di instabilità e tensioni che riguardano indirizzi culturali, aspetti organizzativi e di funzionamento, modelli didattici e pedagogici, condizioni e rapporti di lavoro e assetti giuridico-amministrativi; e che tutto ciò abbia portato a un certo logorio, prodotto zone di stanchezza e sfiducia, e una qualche tendenza a ricondurre questi strumenti (P e VF) entro pratiche abitudinarie e mere tecnicalità, come armi un po’ spuntate di un’azione didattica che si fa routine, accompagnata da poco “animo e passione”. Mentre tutti sappiamo che l’obiettivo della scuola che risponde ai bisogni di tutti e di ciascuno ha bisogno sempre di finestre aperte e aria fresca, di spirito critico teso alla ricerca e mai del tutto pago, nella consapevolezza della portata “politica” del compito che si sta affrontando; e che – permettendo sviluppo, liberazione di potenzialità, inte(g)razione – allarga gli orizzonti di tutti, propone nuovi sguardi al mondo, costruisce ponti e relazioni, rende più disponibili a ciò che è altro, crea terreni comuni, sviluppa identità dinamiche e nuova coesione sociale, in una società che difatti è già multietnica e multiculturale ma non sempre ne ha adeguata consapevolezza.

 

Il ruolo dei docenti, del Ds e dei Consigli di classe

Tutto ciò non è ancora un dato acquisito: la riuscita scolastica degli alunni stranieri – e di quelli comunque in condizione di svantaggio – implica un lavorio sia sugli apprendimenti che sugli apprendenti, e sulle modalità didattico-valutative: sugli apprendimenti per programmarli e adattarli, graduarli e declinarli nelle forme più opportune; sugli apprendenti per accoglierli, insieme ai genitori, indagarne retroterra, storie, capacità, scolarizzazione pregressa e potenzialità; sulle modalità d’intervento scolastico, per scegliere priorità, accorgimenti negli orari e nell’uso delle risorse professionali e di eventuale collaborazioni con altri soggetti compartecipi del progetto educativo, per attivare laboratori specifici, lavori in piccoli gruppi, forme di aiuto reciproco, interventi in compresenza. Un lavorio che richiede competenze professionali sempre più raffinate e avanzate che riguardano la prospettiva dell’educazione interculturale, la piena padronanza epistemologica delle discipline insegnate, le problematiche dell’alunno straniero chiamato ad apprendere in particolare condizioni psicoaffettive e socio-ambientali; e poi capacità di lavoro di squadra e di cooperazione, di organizzazione di tempi, spazi e risorse.

L’impresa chiama in causa l’insieme dei soggetti che operano nelle istituzioni scolastiche: dei singoli docenti (di cui abbiamo appena detto), ma bisogna anche riconsiderare il ruolo e la responsabilità del ds e dei consigli di classe: del ds come garante dei diritti degli alunni, principale responsabile del servizio scolastico, agente sollecitatore e animatore che è chiamato a guidare e sostenere la comunità scolastica nella costante tensione al meglio, sulla cui figura professionale e sua “evoluzione”, in una scuola che deve ancora costruire uno stabile quadro di figure intermedie, pesano responsabilità amministrative, burocratiche e organizzative che tendono ad appannarne la dimensione culturale e educativa. Del cdc, al cui buon funzionamento – capacità di programmazione, coordinamento, condivisione e decisione – è legata la riuscita del lavoro con la classe e dei percorsi scolastici individualizzati-personalizzati; e che è chiamato a svolgere una funzione centrale e di cerniera, sul cui stato di salute e sulle attenzioni da dedicarvi da tempo non si discute (la continuità ed efficacia delle riunioni, il modo di discutere e di decidere, conduzione, responsabilità, partecipazione).

 

Una ricerca realizzata in provincia di Arezzo

Dentro questa visione di una scuola che accompagni più da vicino gli alunni e, in particolare, quelli in condizioni di svantaggio si profila un’evidenza, che è una rilevantissima criticità: i passaggi da un ordine scolastico a quello successivo, e in particolare dalla scuola secondaria di primo grado a quella superiore, sono tra i momenti più difficili.

Prendendo in considerazione un lavoro realizzato[2] nella provincia di Arezzo (a.s. 2011-12), durante un’attività di formazione in servizio condotta con un gruppo di docenti di diverse discipline e differenti ordini scolastici, responsabili dell’orientamento scolastico e dell’integrazione-inclusione degli alunni stranieri, è stato discusso il dato inquietante delle ripetenze, abbandoni e dispersioni nel primo anno delle scuole superiori, un anno cruciale per tutti gli alunni; il dato dice che viene fermato il 36,5% degli alunni stranieri (a.s. 2010-11) (con una dispersione nei professionali dell’11%), a fronte del 16% degli alunni italiani, che pure non è poco.

Nell’attività già citata se ne ricercavano le cause e le possibili correzioni, ripercorrendo le azioni delle scuole, riattraversando le condizioni e le storie degli alunni, interrogandosi sulle possibili vie d’uscita, praticabili e realistiche. Emergevano così alcune inadeguatezze e criticità che erano e sono anche indirizzi di lavoro per il cambiamento: il nodo, ancora una volta, dell’importanza della formazione sui temi dell’inclusione e dell’individualizzazione-personalizzazione dei piani di studio e dell’educazione interculturale che deve riguardare tutti i docenti di tutte le discipline e di tutti gli ordini scolastici e non solo il referente e qualche altra “anima buona”, gli stessi ds e le altre figure scolastiche; la tendenza a delegare alle figure di sistema e a qualche altro la responsabilità e la realizzazione del progetto di inte(g)razione; una concezione statica e rigida della valutazione, mai del tutto superata e che tende qui e là ancora a riaffiorare, ancora poco incline a curvare le peculiarità dei percorsi scolastici sulle specifiche condizioni di partenza e, su tali basi, a esprimere giudizi ed apprezzamenti in itinere e finali connotati da flessibilità e aderenti agli adattamenti previsti nelle specifiche programmazioni.

Ma oltre a ciò si evidenzia che P e VF – accorgimenti, adattamenti, le scelte compiute e le priorità individuate, criteri e modalità di valutazione adottati decisioni assunte – non transitano adeguatamente – o talvolta del tutto – da una scuola all’altra, soprattutto nel passaggio dal primo ciclo al secondo, non accompagnano, o lo accompagnano in modo discontinuo, l’alunno nella nuova scuola determinando cesure, ritardi e oscuramento del cammino fatto, delle scelte e decisioni assunte, con ricadute penalizzanti sui risultati. Insomma, dal lavoro di Arezzo emerge la necessità di costruire cornici e quadri di riferimento più ampi e lunghi, che nella P e VF dei percorsi specifici avvicinino gli ordini scolastici, assicurando continuità e sviluppo.

Alle scuole verticalmente intese sono richieste perciò una più ampia e nuova capacità di lavoro progettuale e capacità di collaborazione che prevedano nel contempo occasioni di confronto, di scambio, di raccordo e condivisione di linguaggi e pratiche didattico-valutative che evitino fratture, discontinuità e disorientamento, le cui forme e modalità organizzative, scandite in tappe, tempi e strumenti specifici, vengono indicativamente esemplificate nel documento citato, finalizzate a ridimensionare quel dato del 36,5% di ripetenze, espressione di una delle più acute criticità del nostro sistema di accoglienza-inclusione.

In questo contesto risulta però doveroso segnalare che la non facile impresa di realizzare la conversione dalla scuola dei programmi e dei voti rigidi, a quella dei percorsi individualizzati e personalizzati e della valutazione formativa incontra altre complesse difficoltà, dovute a fattori esterni. Perché la scuola che è richiesta, vicina gli alunni, che li accompagna anche secondo le singole situazioni personali non può essere contenuta in risorse, strutture, orari, spazi e attrezzature che invece di allargarsi vanno restringendosi.

 

Qualche parola su valutazione, BES e PDP

Sul tema della valutazione va sgombrato il campo da qualche equivoco e dalle conseguenti rigidità – risuonati in varie occasioni –, indotti dalla frase “I minori con cittadinanza non italiana sono valutati nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani”, contenuta nel Regolamento sulla valutazione del 2009 (DPR n. 122/2009). Le recenti Nuove linee guida per l’integrazione degli alunni stranieri (C.M. del 19/2/14) dedicano una pagina alla questione, nella quale dopo varie considerazioni si ribadisce il concetto di VF e le buone pratiche sperimentate nelle scuole: “Occorre tener conto del fatto che da molti anni è emersa una riflessione sull’opportunità di prevedere una valutazione per gli alunni stranieri, modulata in modo specifico e attenta alla complessa esperienza umana dell’alunno straniero in un contesto culturale e linguistico nuovo, senza abbassare in alcun modo gli obiettivi richiesti, ma adattando gli strumenti e le modalità con cui attuare la valutazione stessa” (ibidem, p. 12).

L’anno scolastico che si è chiuso è stato segnato dall’intenso e appassionato dibattito indotto dalla direttiva (D.M. del 27/12/12) sulla questione dei “Bisogni Educativi Speciali”, tra i quali sono stati inclusi anche quelli relativi agli alunni stranieri. Essa ha avuto certamente il merito di chiamare il mondo della scuola e della ricerca pedagogica quantomeno a riaccendere i riflettori sulla questione degli alunni e delle loro specifiche esigenze educative e degli interventi da attuare. Ma a una parte della scuola ha dato anche e subito l’impressione che mancasse di una dimensione importante, cioè che si proiettasse tutta in avanti, in un modo un po’ astratto e velleitario, mancando di una riflessione adeguata sulla “storia” della questione: le esperienze realizzate, i punti acquisiti, i limiti riscontrati, i nodi irrisolti. Nella mancanza di un bilancio e una riflessione critica, nel non indagare carenze, limiti e ostacoli si è intravisto il rischio che questi si possano ancora riproporre, perché per costruire bisogna che si conosca lo stato del sottosuolo e che le fondamenta siano poste su basi sane. Dopo una fase lunga e difficile, in cui le scuole sono state percorse da tanti interrogativi e preoccupazione, la C.M. del novembre 2013 ha raccolto le fila della discussione e, tenuto conto del dibattito e delle preoccupazioni, ha sintetizzato la situazione, fornito chiarimenti, recuperato continuità, sgombrato il campo da eccessi formali e burocratici, richiamato la centralità dell’alunno e dei suoi bisogni specifici, sottolineando le possibilità operative previste dall’Autonomia delle scuole per mettere in campo tutte le forme di flessibilità che si ritengono opportune nell’attivazione di percorsi didattici personalizzati.

Una breve riflessione va fatta in riferimento alla discussione dei Piani Didattici Personalizzati (PDP), uno dei punti più dibattuti. A tale proposito la circolare appena citata – andando alla sostanza della questione – ha sgombrato il campo richiamando il ruolo e l’importanza delle scuole e in particolare dei cdc nel considerare le situazioni concrete e decidere la portata degli interventi e degli adattamenti, il ricorso a PDP formalizzati o a interventi più circoscritti, transitori e ordinari. Insomma PDP o non PDP, ciò che veramente conta è che le scuole non si perdano dietro a bizantinismi, sigle e acronimi, ma si concentrino a focalizzare le situazioni e i bisogni, si dedichino a curare l’aggiornamento professionale, a impiegare al meglio le risorse e a valutare e realizzare gli interventi opportuni, ben sapendo che questi possono essere più o meno circoscritti, più o meno strutturati e duraturi, e nei casi più complessi dando luogo a PDP formalizzati e definiti.

 

Conclusione

È per le considerazioni fin qui svolte che bisogna ripensare questi strumenti del lavoro scolastico affinché non se ne affievolisca la capacità di cambiamento in essi inscritta, e si affinino ulteriormente arricchendoli con le esperienze realizzate e dotandoli dei mezzi, delle risorse e di professionalità necessari.

Nel documento La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri (MIUR, 2007) è contenuta un’importante considerazione: la presenza di alunni stranieri non è il “problema”, ma rappresenta soltanto la spia di quanto stia cambiando il mondo e di quanto sia importante e urgente aggiornare la nostra scuola. È un’acuta considerazione, rivelatrice di una prospettiva di vasta portata per le aperture che autorevolmente sollecita e le speranze a cui apre, per vedere negli alunni stranieri i volti di altri mondi che entrano nelle nostre scuole, che ci pongono sfide e impegno, ma anche l’occasione per crescere e prepararci a vivere meglio il nostro tempo. Siamo già nei fatti in un mondo nuovo segnato da multiculturalità e multietnicità: si tratta di fare finta di non vedere o piuttosto di attrezzarci per contribuire a “governarlo”. Occorre perciò lavorare con più lena perché questi mondi, il “nostro” e il “loro”, si incontrino e si fondano: per creare nelle scuole e nei luoghi della società “un fare insieme” che produca aggregazioni, interazioni e socializzazione, in cui tutti i ragazzi delle nostre città si possono avvicinare, collaborare e “scoprirsi” reciprocamente facendo cadere steccati e paure, costruendo la nuova coesione sociale negli spazi comuni della cittadinanza interculturale, attiva, democratica e responsabile.

 

Riferimenti bibliografici

C.M. del 19/2/14

D.M. del 27/12/12

DPR n. 275/1999

DPR n.122/2009

Luatti L. e Sarracino D., Alunni stranieri: le criticità nel passaggio dalla scuola secondaria di 1° grado alle scuole secondarie superiori e i miglioramenti possibili, documento conclusivo Formazione provincia di Arezzo, consultabile al link http://www.badiacomp.it/Materiali/2011_2012/Documento%20finale.pdf.

Luatti L. e Saracino D., Una proposta operativa per sperimentare l’introduzione del compagno –tutor più grande, www.edscuola.eu/wordpress/?p=22454.

MIUR (2007), La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri.

MIUR e Fondazione ISMU (2014), Quaderno ISMU, n. 1.

 

[1] Cfr. in particolare l’art. 4 dedicato all’autonomia didattica. 

[2] Cfr. L. Luatti e D. Sarracino, Alunni stranieri: le criticità nel passaggio dalla scuola secondaria di 1° grado alle scuole secondarie superiori e i miglioramenti possibili, reperibile online http://www.badiacomp.it/Materiali/2011_2012/Documento%20finale.pdf

Cfr. anche L. Luatti e D. Sarracino, Una proposta operativa per sperimentare l’introduzione del compagno –tutor più grande, www.edscuola.eu/wordpress/?p=22454.

 


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