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Approfondimenti

Bisogno di competenze interculturali per una società sempre più complessa

Marta Milani

Assegnista di ricerca presso il Centro Studi Interculturali dell’Università degli Studi di Verona.


Abstract

Oggi la tecnologia e la globalizzazione hanno reso il mondo molto più piccolo, veloce, in contatto. Questi fenomeni irreversibili ci impongono la necessità di misurarci con molteplici diversità, di cui forse quella linguistica-culturale è il segno più tangibile. Tali cambiamenti hanno consentito l’incontro – e lo scontro – di una pluralità di orizzonti normativi, modalità relazionali, stili di vita e valori inediti, dando luogo a notevoli vantaggi e, nel medesimo tempo, ad aspetti problematici. Per porre un orientamento etico alla globalizzazione, l’educazione può ancora costruire l’alternativa: occorre quindi acquisire competenze di carattere realmente interculturale indispensabili per leggere e gestire le situazioni.



Introduzione

L’accrescimento della comunicazione, la mescolanza di stili di vita e l’incontro tra culture differenti a seguito di migrazioni o rapidità dei trasporti hanno determinato un incremento del numero di identificazioni, che si intrecciano trasformando la vita quotidiana. Infatti oggi la tecnologia ha reso il mondo molto più piccolo e i massicci flussi migratori che, come in un sistema di vasi comunicanti, portano una moltitudine di uomini a spostarsi per le ragioni più disparate ci impongono la necessità di misurarci con molteplici diversità, di cui forse quella linguistica-culturale è il segno più tangibile. Come afferma Portera (2013a), tali cambiamenti, denominati globalizzazione, new economy, rivoluzioni informatiche, non sono di carattere meramente economico e produttivo, ma toccano la persona umana nella propria essenza e attengono in particolare alla sfera educativa. Pertanto influiscono sulle dimensioni della noosfera, ovvero quell’«universo di simboli e valori che è il prodotto più specifico della specie umana» (Cambi, 2006, p. 57). In tal senso, ciò che la globalizzazione ha indotto a scoprire è che non vi sono culture “pure” e chiuse, ma ibride, meticce, alveolari. L’identità personale, quindi, non va più considerata come qualcosa di statico, ma come qualcosa di dinamico e in perenne evoluzione.

In mezzo a tale società fluida (Bauman, 2009), la pedagogia interculturale si configura come la disciplina principe per fare fronte alle molteplici sfide della complessità, tramutandole in reali opportunità di arricchimento e di crescita individuale e collettiva. A differenza degli altri approcci (trans- e multi-),[1] la pedagogia interculturale rimanda a un ethos e a una formae mentis inediti: plurali, dinamici, aperti, ponendosi a metà strada tra universalismo e relativismo ma superandoli entrambi in una nuova sintesi costruita nello spazio (fisico e mentale) dell’incontro con l’Altro. Le società, infatti, «sono multiculturali se mantengono uno stato di indifferenza o di tolleranza verso le varie culture, mentre diventano interculturali se stabiliscono rapporti interattivi tra le diverse realtà presenti» (Garcea, 1996, p. 53).

La chiave di volta diviene la necessità di fondare e istituire un dialogo, accordi, intese, confini tra persone con differenti retroterra culturali, facendo in modo che «culture diverse convivano senza ignorarsi: dal momento che la non conoscenza del pensiero dell’Altro, da sempre, scava fossati, aggrava pregiudizi e stereotipi, alimenta i conflitti sotterranei» (Demetrio e Favaro, 1992, p. 30). Elementi fondanti della pedagogia interculturale sono il confronto e la disponibilità a rivedere le proprie posizioni: ergo l’ascolto attivo. Scrive Melucci: «[…] per incontrare l’alterità occorre essere pronti a cambiare; non possiamo comunicare e metterci in relazione con le differenze semplicemente restando noi stessi. La possibilità della convivenza richiede qualche capacità e volontà di incontrare l’altro, e ha una profonda implicazione morale: la necessità di mantenere e di perdere, di misurarsi con le paure e le resistenze, ma anche di trascendere le nostre identità già date» (2000, p. 51). Si tratta di imparare – attraverso l’ausilio di tale disciplina – a leggere una realtà che è sempre più complessa e sfuggevole a partire da ipotesi interpretative diversificate, confrontando le molteplici forme di lettura che ne possono scaturire, accorgendosi che più sguardi sulla realtà ne rimandano un’immagine molto più articolata; in altre parole, è necessario acquisire competenze di carattere interculturale.

 

Competenza interculturale: teorie

La definizione di competenza interculturale appare complessa e non univocamente definita dagli studiosi. Su di essa esiste un’ampia letteratura internazionale – sovente poco tradotta in italiano – che sembra convergere nel definirla una dimensione composita in cui conoscenze, autoconsapevolezza, attitudini ed esperienze entrano in gioco in un divenire processuale continuo, come evidenzia Bennett (2008, p. 97): «[there is] an emerging consensus around what constitutes intercultural competence, which is most often viewed as a set of cognitive, affective, and behavioral skills and characteristics that support effective and appropriate interaction in a variety of cultural contexts». Essa, infatti, può essere descritta come: «a multifaceted concept involving aspects of emotional, contextual, and interpersonal intelligence to combine to form a person who is emotionally caring yet controlled, sensitive to interpersonal dynamics, and genuinely perceptive when in complex and highly interactive situations» (Lonner e Hayes, 2004, p. 92) o, più icasticamente, come scrive Deardorff (2009a, pp. xi-xiv): «[an] appropriate and effective communication and behavior in intercultural situations».

Fantini (2000) sottolinea che, sebbene la ricerca definisca il concetto di competenza in molteplici modi, generalmente si fa riferimento a tre temi principali (o domini): la capacità di sviluppare e mantenere le relazioni; l’abilità di comunicare in modo efficace e adeguato; la capacità di cooperare. Tali abilità sono trasversali e necessarie in qualsiasi contesto, a maggior ragione quando culture diverse (e, conseguentemente, diverse visioni del mondo) si incontrano. L’autore definisce la competenza interculturale secondo differenti componenti:

  • tratti (qualità innate) e caratteristiche (acquisite) tra cui la flessibilità, l’apertura, l’empatia, la curiosità, la pazienza, la tolleranza per l’ambiguità, il rispetto, la motivazione, l’interesse, il senso dell’umorismo e la capacità di sospendere il giudizio;

  • quattro dimensioni: conoscenza, attitudini positive, abilità e consapevolezza. Per Fantini quest’ultima dimensione è centrale; essa è sempre relazionata al Sé, riflessiva, introspettiva, e ha a che fare con i processi di esplorazione, sperimentazione ed esperienza della realtà. La awareness permette perciò di assumere un punto di vista critico sul contesto sociale, portando a trasformazioni del Sé e delle sue relazioni con gli altri, oltreché a interazioni critiche e creative con la realtà;

  • competenza in una lingua straniera: la capacità di comunicare in un’altra lingua apre un ventaglio di concettualizzazioni del mondo che possono essere colte ed espresse. Secondo l’autore tale aspetto è spesso trascurato dagli interculturalisti, che non sempre danno la giusta importanza alla stretta relazione che corre tra cultura e linguaggio, mentre l’abilità di esprimersi e concettualizzare in un’altra lingua influisce sulla consapevolezza interculturale;

  • l’acquisizione e lo sviluppo di competenze interculturali si configurano come un processo lungo, dinamico, che si costruisce durante tutto l’arco della vita. In questo cammino, possono essere contemplati momenti di avanzamento, di regressione, di stagnazione, ma non si giunge mai a un punto finale di arrivo. Infatti, potrebbe essere difficile definire con precisione quali siano i contenuti desiderabili della competenza interculturale senza precisare quali sono i contesti nella quale essa dovrebbe esplicarsi; le situazioni sono pressoché infinite e, come mette in rilievo Fantini, ciò che può essere studiato è la performance, non la competence.

All’interno di tale complessità, poi, diverse discipline attribuiscono ai vari elementi della competenza maggiore o minore importanza. Secondo Franca Pinto Minerva (2002, p. 35) la competenza comunicativa non è riducibile a una pura competenza linguistica. Essa è piuttosto una competenza socio-psicologica nell’avvicinarsi all’estraneo, nel vincere la propria paura di entrare in contatto con altri e di concordare qualcosa con loro. Essa ha a che fare anche con la mediazione linguistica, con il dialogo e l’arte di ascoltare. Imparare ad ascoltare le storie degli altri «contribuisce ad arricchire le nostre visioni della vita, ad approfondire il significato della nostra esistenza, a lasciarsi attraversare da emozioni e riflessioni che finiscono col far emergere la pregnanza e, al contempo, la complessità della propria storia, a rendersi permeabile agli altri per portare alla luce l’inesauribile ricchezza della propria plurale identità […]. Come dire che l’ascolto testimonia la disponibilità a una “cura” dell’altro che può tradursi in cura di se stessi» (Pinto Minerva, 2002, p. 35).  Decentramento ed empatia divengono allora pilastri (competenze) fondamentali della relazione autenticamente interculturale, dove per empatia intendiamo «la capacità di comprensione profonda della persona con la quale si sta interagendo, (il) tentativo di immedesimarsi, di mettersi nei panni degli altri, di calarsi nell’altro possibilmente senza atteggiamenti preconcetti o stereotipi» (Portera, 1997, p. 171). Non solo: attraverso l’ascolto attivo e non giudicante, l’empatia, l’astensione dai giudizi, l’apertura all’altro diverso da Sé, diverrà possibile una gestione positiva dei conflitti. Poiché questi ultimi – specie in un contesto pluralistico e multiculturale – sono ineliminabili, è indispensabile sviluppare capacità di mediazione, negoziazione e cooperazione imparando a riconoscerli (distinguendo il problema specifico dalla persona che si ha di fronte) e gestirli opportunamente.

Riconoscere l’Altro attraverso la capacità di comunicare, dialogare e risolvere conflitti implica poi che lo si comprenda e la comprensione è generata dalla conoscenza. Un punto qualificante nel processo di comprensione interculturale è la verifica critica, che tende a neutralizzare l’influenza del proprio punto di vista nella percezione della cultura altrui; ciò presuppone uno sforzo continuo per capire i meccanismi celati della propria cultura, per cui si può dire che l’apprendimento della comprensione culturale esige che si conferisca la medesima importanza all’esplorazione e alla conoscenza della propria cultura di riferimento mentre si stanno esplorando quelle straniere.

 

Competenza interculturale: modelli

Secondo la ricostruzione operata da Spitzberg e Changnon (2009), l’ambito di ricerca relativo allo studio delle competenze interculturali è nato nel Nord America a partire dagli anni Cinquanta; si tratta quindi di una storia breve, che consente però già di individuare cinque filoni principali entro cui collocare i diversi modelli (in prevalenza anglosassoni): compositional, co-orientational, developmental, adaptational e causal process.

  • Compositional models: questi modelli individuano delle componenti ipotetiche della competenza, senza specificare quale sia la relazione intercorrente tra le stesse. Si tratta di modelli che presentano un elenco di caratteristiche, tratti e abilità ritenuti significativi e rilevanti per realizzare un’interazione efficace in contesti multiculturali.

  • Co-orientational models: sono modelli orientati primariamente a concettualizzare il processo che conduce alla comprensione interculturale o alcune delle sue variabili tra cui l’empatia, l’accuratezza percettiva, la chiarezza espositiva, la capacità di comprensione, ecc. Essi riprendono aspetti di altri, ma si concentrano su un criterio particolare di comunicazione reciproca e di significati condivisi sulla base dei quali essa avviene.

  • Developmental models: attribuiscono un ruolo precipuo alla dimensione temporale, che viene enfatizzata. Si tratta di un approccio che privilegia una visione evolutiva delle competenze interculturali, la cui acquisizione prevede una serie di stadi di maturazione. Gli elementi costitutivi della competenza sono condivisi con le altre tipologie di modelli.

  • Adaptational models: tendono a distinguere due caratteristiche; in primo luogo identificano un’interazione multipla nel processo e, in secondo luogo, enfatizzano l’interdipendenza dei molteplici soggetti coinvolti nell’interazione configurando un processo di adattamento reciproco. La flessibilità che caratterizza le interazioni è considerata un aspetto cruciale della competenza in oggetto.

  • Casual process: questi modelli riflettono più specificamente le interrelazioni tra i diversi elementi costitutivi della competenza interculturale e vengono formalizzati o espressi da proposizioni verificabili. Essi tipicamente prendono una forma simile a un percorso, con un sistema identificabile di concetti collocati a distanze differenti, in una direzione che sancisce gradualmente un criterio crescente di competenza.

Le diverse tipologie di modello non sono mutualmente esclusive, ma più spesso vengono applicate contemporaneamente; identificarle può essere utile per delineare le differenze di approccio effettivamente presenti tra modelli sorti all’interno di contesti disciplinari differenti.

 

Aspetti critici

La moltitudine di teorie e modelli di competenza interculturale esistenti ne conferma la natura prismatica, sfaccettata, la quale concorre a delineare un processo complesso. Tale processo «include aspetti cognitivi, abilità linguistiche e sociali, motivazione e attitudini positive in un duplice senso (individuale/sociale), nonché un livello meta-riflessivo e meta-strategico che regola il processo e lo implementa presumibilmente ad infinitum» (De Angelis, 2011, p. 52), anche se poi nei diversi modelli differisce il grado di importanza che viene attribuito a ciascuno di questi aspetti.[2] Tuttavia, diversi autori mettono in luce alcuni limiti e “trappole” presenti nel filone anglosassone dei testi di comunicazione e/o competenze cosiddette “interculturali”.

Portera (2011) ricorda come spesso si tratta di un approccio prevalentemente multiculturale nel quale le culture sono considerate in maniera fissa, rigida (e quindi senza tenere conto del loro dinamismo intrinseco e delle molteplici forme di appartenenza linguistica e culturale delle persone), e come si ricorra ai confini geografici o alla nazionalità per delimitare le appartenenze identitarie o culturali. Non solo: vi è il rischio della stigmatizzazione (laddove si presentano aspetti stereotipati, folcloristici dell’alterità), nonché del potenziale etnocentrismo di alcuni modelli.

Scrivono a tal proposito Spitzberg e Changnon (2009, pp. 43-44): «most of the models and related assessments have been developed in Western or Anglo contexts. It is difficult to ascertain at present the extent to which such contexts may bias or shift emphasis. For example, the Western emphasis on individuality would tend to prioritize assertiveness skills, whereas the collectivistic tendencies of Eastern perspectives might emphasize empathy, sensitivity, and conformity. Yet, even within U.S. social scientific approaches to social skills, assertiveness training has fallen out of favor, whereas empathy, perspective taking, and adaptability continue to serve as the hallmarks of most models of intercultural competence, regardless of the cultural origins of the authors or models».

Un ulteriore aspetto controverso messo in evidenza è la mancata considerazione del ruolo svolto dal gioco delle interazioni tra gli attori coinvolti; la prospettiva occidentale, nella maggior parte dei casi, ha infatti focalizzato la propria attenzione sull’individuo trascurando la dimensione relazionale, dialogica: «many models assume a partner, but most define skills and knowledge as possessed by the individual, thereby locating the competence in the individual’s possession or level of these competencies. Relational perspectives […] permit far more sophisticated modeling of competncies located in the interaction itself, in addition to the competencies located in the individuals who comprise the interaction process» (ibidem, p. 44). Si apre quindi la strada a un cambiamento di prospettiva di indubbia rilevanza, in cui i futuri modelli di competenza interculturale dovranno focalizzarsi sugli aspetti relazionali – «[…] which means focusing on the relationships and on all interactants involved beyond the individual (who is the primary focus of Western models and definitions)[…]» (Deardorff, 2009b, p. 265) – oltre a tenere conto di comunanze, etnocentrismi, stereotipi e pregiudizi. Occorre poi avere consapevolezza della differenza semantica dei concetti chiarendo l’impiego delle diverse terminologie, dal momento che spesso – come rileva sempre Portera – «in Italia, nonostante le numerose circolari ministeriali, anche fra educatori, insegnanti e responsabili della politica scolastica, […] i principi fondamentali dell’educazione e delle competenze interculturali sembrano essere fraintesi, poco conosciuti e poco condivisi» (Portera, 2011, p. 162).

 

Conclusioni

Il nostro futuro dipende dalle azioni e dalle scelte che compiamo oggi, così come il futuro di una società rispettosa dei diritti umani dipende dalla nostra abilità di acquisire e agire competenze interculturali. La misurazione con molteplici forme di diversità rende pertanto sempre meno rilevante il diploma posseduto – il “pezzo di carta” che dovrebbe attestare la professionalità raggiunta –, a favore dell’acquisizione di competenze compiutamente interculturali «laddove l’altro non è solo osservato, descritto (spesso in maniera stereotipata) e conosciuto, ma entra a far parte di un rapporto dinamico e interattivo» (Portera, 2013b, p. 88). Per poter raggiungere tale obiettivo, occorre costruire uno “spazio terzo” di fiducia e reciproca trasformazione in cui ognuno possa essere disponibile al mutuo cambiamento. Investire sull’educazione alla competenza interculturale significa farsi promotori di interazioni che tengano conto del punto di vista dell’altro, affinché gli scambi siano basati sull’autenticità empatica, sulla fiducia e il rispetto reciproco. Solo così l’alterità potrà divenire il veicolo della nostra dilatazione, perché è comprendendo l’altro che è in me che io dilato me stesso.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Sternberg R.J., Grigorenko E.L. (2004) (Eds.), Culture and competence: Context of life success, Washington, DC: American Psychological Association.

 

[1] Per un approfondimento del settore epistemologico-concettuale si rimanda a: A. Portera, Globalizzazione e pedagogia interculturale, Trento, Erickson, 2006.

[2] Nell’ambito del Centro Studi Interculturali dell’Università degli Studi di Verona è stato realizzato uno studio teso ad analizzare criticamente i modelli di competenza interculturale esistenti, per poi elaborare un nuovo modello teorico fondato sull’approccio interculturale e con implicazioni sui piani teorico, pratico-operativo, metodologico e della formazione. Tale ricerca era inserita nel quadro più ampio di un Progetto di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale del MIUR (2008) relativo alle “Competenze interculturali in differenti contesti sociali” (scolastico-educativo, aziendale, giuridico, socio-sanitario, della mediazione culturale/interculturale) al quale l’Unità di Ricerca dell’Università degli Studi di Verona (coordinata dal professor A. Portera) ha preso parte assieme a quelle dell’Università Cattolica di Milano (professoressa M. Santerini, capofila), Sassari (professor P. Calidoni), Messina (professoressa C. Sirna) e Torino (professor M. Castoldi). Per approfondimenti si rimanda a: Portera A. (2013) (a cura di), Competenze interculturali. Teoria e pratica nei settori scolastico-educativo, giuridico, aziendale, sanitario e della mediazione culturale, Milano, FrancoAngeli.


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