Introduzione
Questo paper nasce da una relazione ricorsiva e multiforme tra esperienza professionale sul campo e attività di ricerca. Lavoro nel settore dell'accoglienza dei MSNA dal 2011; in questo intervallo di tempo ho raccolto oltre 300 interviste biografiche e negli ultimi due anni ho avuto il privilegio di condurre una ricerca dottorale sul mondo dell'accoglienza italiana, utilizzando una metodologia ispirata alla Grounded Theory costruttivista. Un ampio supporto di memo auto-etnografici accompagna lo sviluppo del paper.
L'operatività nei centri per minori è un universo complesso, in cui si intrecciano gesti improvvisi e richieste inaspettate, burocrazia e impedimenti, progettualità flessibile e stringente necessità di una condivisa attitudine al cambiamento. Nelle fasi ricorsive di raccolta e analisi dei dati ho messo in relazione e codificato per astrazioni successive le categorie emergenti da fonti diverse: interviste a operatori del settore (educatori, assistenti sociali, psicologi, mediatori) e minori («ospiti», «beneficiari», «utenti», a seconda del linguaggio istituzionale utilizzato). Esiste uno spazio di empatia e comunicazione possibile tra ragazzi e operatori? Come entrano in relazione le aspettative degli uni e degli altri? Come entrano in rotta di collisione il mandato professionale e quello migratorio?
L'epistemologia di riferimento è quella sistemico-costruttivista; la cornice teorica degli studi post coloniali permette di interpretare il fenomeno dei minori stranieri evitando il rischio di spiegare in modo etnocentrico la complessità dell'esperienza migratoria. Il paper dà conto del mandato migratorio, dei «mediorami», delle «aspirazioni» (Appadurai, 2011) che nutrono la capacità dei MSNA di ambire-desiderare-investire nella costruzione del futuro in una condizione particolare, assumendo con il termine «condizione» un terreno permanente di conflitto, mediazione e accomodamento fra vincoli di riproduzione sociale e pratiche di agency e resistenza, presenti sia nel vissuto individuale dei minori che nella co-costruzione della relazione con gli operatori.
Nella costruzione della relazione e nel vivere quotidiano dell'accoglienza confluiscono e coesistono temi spesso antitetici, come l'estetizzazione della subalternità, le emozioni legate alla rivolta o al silenzio, l'ideologia di chi osserva, il rapporto delle scienze sociali con il potere e il problema della scrittura e della creazione di mondi fatti a immagine e desiderio degli studiosi. In questo paper si assume un'ottica della migrazione interpretata come fatto sociale totale (Mauss, 1924), privilegiando un approccio transdisciplinare che collega Sayad (1999) con Beneduce (2004) e Moro (2009): in quest’ottica il fenomeno MSNA può essere studiato e interpretato in coerenza con la complessità che gli è costitutivamente propria.
MSNA e operatori sociali
Sospeso tra l'immaginario descritto da espressioni come «campagne benefiche», «culto della fanciullezza» (Petti, 2011) ed «eccedente-sovraccosto-sovrannumero», il minore straniero non accompagnato rappresenta un elemento critico, problematico e spaesante, dissonante e difficile da concettualizzare. Etichettato e definito dai decreti e dalle normative, immaginato e rappresentato dal linguaggio mediatico, il MSNA, non diversamente dal migrante adulto, può essere descritto con l'efficace immagine proposta da Bourdieu nella prefazione al testo di Sayad (1999, p. 6): «[...] atopos, senza luogo, fuori luogo, inclassificabile. Fuori luogo nel senso di incongruo e inopportuno, suscita imbarazzo [...] ovunque di troppo, sia nella sua società di origine che in quella di accoglienza [...]».
Molti studi sulla minore età forniscono informazioni e descrizioni accurate su questo periodo della vita, correndo il rischio di presentarne implicitamente un’interpretazione stereotipata, come un periodo naturale, imprescindibile, dello sviluppo umano: il minore migrante assume i toni di un oggetto di rottura e di messa a nudo dei nostri paramenti definitori; il minore migrante ci fornisce una lente per guardare il riflesso del nostro sistema socio-educativo.
Nel regolamento del Comitato per i minori stranieri (D.P.C.M. 535/99, art. 1) è definito «minore straniero non accompagnato» quel minore «presente nel territorio dello Stato non avente cittadinanza italiana o di altri Stati dell’Unione Europea che, non avendo presentato domanda di asilo, si trova in Italia privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano».
Lo status dei minori stranieri non accompagnati in Italia è regolato in parte dalla normativa riguardante i minori (Convenzione di New York, codice civile, legge 184/83, ecc.) e in parte dalla normativa riguardante l’immigrazione, che negli ultimi anni ha subito profonde innovazioni (Testo Unico-TU 286/98, regolamento di attuazione Decreto del Presidente della Repubblica-Dpr 349/99, regolamento del Comitato per i minori stranieri, Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dpcm 535/99, ecc.). Dal 27 Marzo 2017 l'Italia ha emanato una legge organica e omologante per l'intero territorio nazionale: la «Legge Zampa». Per avere un'idea delle proporzioni del fenomeno, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali mette a disposizione report statistici aggiornati mensilmente,[footnote]http://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/immigrazione/focus-on/minori-stranieri/Pagine/Dati-minori-stranieri-non-accompagnati.aspx (ultimo accesso: 15/03/2018).[/footnote] che evidenziano l’infondatezza della retorica mediatica sul concetto di «invasione» che sta avendo un ruolo centrale nella comunicazione politica italiana.
Nella mia ricerca ho intervistato 34 operatori: sono educatori professionali, assistenti sociali, psicologi, mediatori linguistico-culturali, persone esperte nella relazione di cura che hanno competenze interculturali, figure professionali chiamate a coprire un vasto campo di intervento: giuridico, con competenze relative alla normativa che regola il settore e alle procedure di carattere amministrativo in materia d’immigrazione; organizzativo, in merito al funzionamento delle istituzioni pubbliche e della rete di servizi e strutture di accoglienza che operano sul territorio nazionale e locale; metodologico, relativamente alle prassi operative previste dalle linee guida delle strutture di accoglienza. Dalle interviste emergono alcuni dati costanti, come quelli riguardanti descrizioni dense di motivazione, passione e impegno etico; coesistono – in una relazione simile a un doppio vincolo batesoniano – frustrazioni e rese, immobilismo e spaesamento: la maggioranza di questi lavoratori dell'accoglienza riconosce ed è consapevole di operare nel disagio.
La scelta metodologica
«Sebbene gli studiosi possano indossare un mantello di oggettività, l'attività di ricerca è intrinsecamente ideologica. L'analisi della letteratura e la struttura teoretica sono “luoghi” ideologici nei quali si afferma, localizza, valuta e difende la propria posizione» (Charmaz, 2014, p. 305). I fenomeni sociali in generale, e le migrazioni in particolare, sono il frutto di processi di costruzione sociale multidimensionali e complessi, non concettualizzabili come fenomeni empirico oggettivamente misurabili. Assumendo la complessità come dato di partenza, la migrazione di minorenni prende corpo in una rete dinamica e contraddittoria: è in questa prospettiva che la scelta della Grounded Theory, nell'interpretazione costruttivista proposta da Kathy Charmaz (2014), rappresenta una buona scelta, coerente con la processualità e la ricorsività del fenomeno indagato.
Per questa ricerca, avendo come assunto di base la co-costruzione di significati, si è scelta la GT costruttivista perché particolarmente indicata per esplorare ambienti in continua trasformazione, non definibili in modo statico: come sostiene Tarozzi (2006), la GT è un buon metodo per la ricerca in intercultura, perché interroga i fenomeni e le categorie interpretative, esplicita in maniera significativa elementi problematici, fa confluire i diversi rivoli della ricerca nel fiume narrativo che tiene insieme tutto. Il fenomeno MSNA è studiato partendo non da una questione epistemica, bensì da un problema socio-educativo avvertito come rilevante dai componenti dalla comunità coinvolta: non avendo l'ambizione di convalidare un'ipotesi preesistente, questo lavoro intende perseguire un valore d’uso – quello, appunto, di elaborare una teoria grounded a medio raggio o teoria sostantiva – che consenta di progettare percorsi di umanizzazione (Bianchi, 2016) e possa servire come riferimento di buone pratiche, traducendosi in linee di intervento per gli operatori del settore.
Il processo di ricerca
L'epistemologia costruttivista di Charmaz auspica un coinvolgimento «robusto» del ricercatore nel contesto: «i ricercatori con limitati coinvolgimenti nei loro rispettivi campi probabilmente non possono capire le limitazioni delle loro classificazioni e astrazioni» (lezione di Charmaz, Giugno 2016; Summer School, Università di Pisa). Per dar conto del mio posizionamento, scelgo di dedicare uno spazio di riflessione alla metafora del ricercatore imbombegà (Piasere, 2002, p. 160). Piasere considera appropriato il concetto di «empatia» e fa sua la metafora dell'«impregnazione» proponendone una versione veneta: «immergendosi» nell’esperienza del campo, il ricercatore dovrà esserne imbombegà, intriso come una spugna.
Durante le diverse fasi del campionamento teorico, il mio essere imbombegà mi ha permesso di arrivare a livelli di profondità altrimenti difficilmente raggiungibili nelle interviste.
Il campionamento teorico, che avviene simultaneamente alla raccolta e all'analisi dei dati, svolge una funzione intimamente legata alla costruzione della teoria, è imprescindibile dall'elaborazione concettuale e guida il processo analitico nell'elaborazione-revisione delle categorie interpretative progressivamente individuate. Tutti i dati raccolti nei centri di accoglienza italiani sono stati implementati con note autoetnografiche e con numerosi memo, dando vita a un corpus denso e carico di significati. Le fasi ricorsive di acquisizione, analisi e interpretazione dei dati si sono svolte nel periodo Marzo 2016-Settembre 2017 in 7 Regioni italiane: Lazio, Campania, Molise, Umbria, Sicilia, Piemonte e Toscana. Solo a posteriori – cioè verso la fine del tempo disponibile per la Ricerca di Dottorato, si potrà definire compiutamente il campione teorico; ad oggi, il campione è costituito da 58 interviste intensive[footnote]L'epistemologia costruttivista non interpreta l'intervista come uno specchio della realtà o come una «semplice» interrogazione per rispondere a una domanda. L'approccio costruttivista considera le interviste come interazioni emergenti in cui si possono sviluppare legami sociali (Charmaz, 2014, pp. 56-57). I teorici GT definiscono l'intervista intensiva perché condividono la situazione e la costruzione dell'intervista stessa, la costruzione del racconto e dei silenzi. Un'intervista intensiva è progettata per guidare gentilmente alla narrazione e rappresenta una tecnica emergente flessibile; è pensata come non direttiva, il suo focus è sulla comprensione delle proprietà dei dati: tutto si sviluppa per seguire il fiume narrativo in modo ampio e rispettoso; il ricercatore chiede di essere a sua volta intervistato così da co-costruire la trama di significati.[/footnote] (34 agli operatori, 19 ai minori, 5 a neomaggiorenni); 6 focus group; 9 progetti educativi individualizzati relativi a 9 minori di nazionalità albanese che non sono stati disponibili a essere intervistati; 20 schede di ingresso; 60 «frammenti Facebook» tratti da profili pubblici di ex-minori.[footnote]È possibile utilizzare le informazioni dei profili Facebook in quanto sono profili pubblici relativi a persone maggiorenni.[/footnote]
Nel processo ricorsivo di progressiva astrazione teorica che caratterizza una ricerca grounded, il ricercatore individua in itinere alcune categorie concettuali efficaci a descrivere il fenomeno studiato; ogni categoria è caratterizzata da alcune proprietà e le categorie sono in relazione tra loro.
La categoria è una concettualizzazione utilizzata per un alto livello di astrazione, mentre la proprietà è una caratteristica concettuale della categoria con un livello inferiore di astrazione.
Le categorie emergenti che vengono qui presentate sono: operando nel disagio e io ti educherò. Le proprietà relative alla categoria operando nel disagio, ricavate privilegiando il lessico dei partecipanti, sono: essere consapevoli di lavorare nell'incertezza, barcamenarsi nella burocrazia, agire l'improvvisazione e trovare soluzioni inedite, risparmiare-recuperare-riciclare, progettare in maniera flessibile, scontrarsi con i tempi delle pubbliche amministrazioni, reperire informazioni utili ed efficaci, aspettare gli stipendi per lunghi periodi, mediare continuamente, fronteggiare l'aggressività, ascoltare e comprendere incondizionatamente, gestire la propria e altrui frustrazione. Queste proprietà sono state individuate sintetizzando i dati nella subcategoria «accoglienza all'italiana», emersa dalle parole di A., psicologa di un grande centro di accoglienza di Catania:
Ricercatore (R): Che vuoi dire quando utilizzi l'espressione «accoglienza all'italiana»?
A: Accoglienza all'italiana serve a passarsi la mano sulla coscienza (A. si passa la mano sul petto, lentamente)… cioè, siamo tutti buoni e bravi, accogliamo-accogliamo, ma in realtà non è un’accoglienza, perché accoglienza significa lavorare per integrare realmente... dare una possibilità a questi ragazzi. [...] Non sto bene! sono molto frustrata e credo di essere in burn-out…. gli operatori sono lasciati da soli… lavoriamo sempre in emergenza! E ti ritrovi ad avere chiamate ogni giorno da Prefettura e Comune: «Avete posti?», anche andando contro le regole… lavoriamo perennemente in emergenza, senza supporti. E tu operatore, hai le tue frustrazioni anche per le risonanze emotive! Questi ragazzi portano dei racconti...
R: sì, sì...
A: … Non lo so se ci dormi la notte!... Non ti ci abitui mai. E siamo lasciati soli!
R: La gestione del dolore... io negli anni ho sempre avuto questo sottofondo di inadeguatezza.
A: Sì... ovviamente io sono proiettata sul problema, rischiando di non vedere le risorse interne ed esterne. Sicuramente sono concentrata sul dolore, sull'empatia, sull'alleanza con questi ragazzi... il dolore condiviso... il dolore può essere, e lo è, anche risorsa... questo lavoro si basa principalmente sull'emotività... noi ci alimentiamo con il dolore... Modello di accoglienza all'italiana... modello un po' approssimativo, un po' borbonico, un po' buonista che però di fatto non esclude una forma di distanza, razzismo... Sembra che l'Italia sia un Paese non razzista e accogliente. Io dico che non è così... esiste questa nuova forma di razzismo strisciante che si insinua nelle menti, che prima ti accoglie poi però non ti vuole fra le scatole... vieni, ti vesto perché hai freddo, ti faccio andare a scuola perché ti devo istruire, poi zitto! Viviamo l'onda d'urto della guerra tra poveri... non ho competenze per leggere dove stiamo andando.
Da Catania ci spostiamo a Torino: un educatore professionale, con ruolo di coordinatore educativo, mi dice quanto segue:
L'educatore... tu sai bene che è una figura che spesso la strattonano a destra e a manca… nel senso che hai mille competenze e ti mancano invece quelle che ti servirebbero. Qua in Piemonte, per i MSNA c'è un «comparto» fatto dalla Questura, codice fiscale, tessera ISI, altro e io e la mia collega impieghiamo tantissimo tempo per queste cose... torniamo al quotidiano, banalmente per iscriverli a scuola ti chiedono il codice fiscale e tutto va bene se leggi la Convenzione di Ginevra, le leggi, tutto benissimo… poi se un'istituzione come la scuola ti chiede il c.f., per cui o ce l'hai o non ce l'hai, non puoi inventarti cose. Il comparto sanitario pure... fargli avere un medico di base… ehmm… noi ad esempio facciamo ore di fila in ospedale per una caviglia slogata! Ci sono tantissimi step da incastrare! Quindi tornando alle competenze sicuramente le acquisisci sul campo, perché non è che ti spiegano a Scienze dell'educazione si fa così e colà [...] insomma, ci vuole tempo per capire come districarsi... poi a me non appassiona questa cosa, preferirei riflettere sull'educazione in senso ampio.
Gli operatori dell'accoglienza spesso lavorano soli, non hanno uno stipendio puntuale e dignitoso, vivono sulla loro pelle una percezione di abbandono. Accanto a questi vissuti convivono motivazione, competenza, passione, resilienza, creatività e una buona dose di ironia; questa convivenza antitetica è una delle relazioni che compongono il doppio-vincolo dell'accoglienza italiana. Gran parte del campione si lamenta di non aver tempo per fare una riflessione, direi una meta-riflessione, sul proprio ruolo educativo: oberati dal lavoro agito, in cerca di risposte e soluzioni, sempre pronti a disinnescare l'emergenza, sentono la mancanza di un momento, sia individuale che di gruppo, in cui «pulire la mente», meta-pensare, sciogliere nodi e fare valutazioni.
Le proprietà relative alla categoria Io ti educherò fanno riferimento a una particolare attitudine linguistica dei professionisti intervistati: necessità di definire il minore, classificazione dei comportamenti, tendenza alla patologizzazione, adeguamento alla scuola italiana, riconoscimento e rispetto delle regole e sorveglianza, monitoraggio, necessità dell'utilizzo di provvedimenti disciplinari, urgenza di progettare un piano educativo individualizzato, riconoscimento del bisogno di formazione.
Dalle codifiche line by line e dalle prime concettualizzazioni relative alle codifiche focalizzate, emerge che gran parte degli operatori intervistati danno vita, in modo a mio avviso poco consapevole, a un discorso intriso di parole del potere, un lessico che, come la relazione di cura stessa, è intriso di rapporti di potere, tendenzialmente asimmetrici e spesso inconsapevoli, che necessiterebbe di un ripensamento strutturale della relazione educativa stessa.
I destinatari di questo sistema discorsivo e performativo, i minori, non hanno voce in capitolo: forse una voce sottile e soffocata che, nella migliore delle ipotesi, prende vita dalle parole scritte su carta (report, relazioni socio-educative, PEI,[footnote]PEI: Progetto Educativo Individualizzato.[/footnote] schede-Procura) da qualche educatore professionale e/o assistente sociale.
Di seguito alcune parole di questo sistema discorsivo e performativo.
PEI di un minore albanese, Latina:
«[...] ha dimostrato buone capacità di adattamento al contesto nel quale è inserito, ha accettato di buon grado le regole del centro e si è impegnato a rispettarle».
A., educatrice di Casacalenda, CB:
«Nel momento dell'ingresso è dura, non è semplice fargli rispettare le regole, fargli capire le cose, poi... dopo qualche mese si masterizzano (ride)...».
L., educatrice professionale, Latina:
«[...] a differenza dei tunisini diciassettenni del 2011, che avevano uno scopo, i ragazzini egiziani di adesso arrivano e non sanno niente... sì, sanno che devono lavorare per restituire il debito, ma non vengono qua solo per il lavoro, stanno qui e brancolano nel buio. Non sanno che devono fare, hanno quindici anni... e poi? E poi? E poi il nulla».
Relazione educativa, struttura di accoglienza di Roma:
«... aggiornamento al 25/06/2016: B. si sta integrando perfettamente».
A., psicologa, Roma:
«[...] soprattutto quelli più piccoli sono istruiti a entrare in un’ottica educativa fatta di regole, quando entrano hanno un’educazione che non si può considerare educazione... appena arrivano gli spiego che devono essere puntuali, non saltare molte ore, a volte diventa un po’ complicato, ma in linea di massima non ci sono grandi problemi. Oppure avallo regole che già vengono imposte dall’educatore, loro mi chiedono conferme e io do conferme».
T., coordinatore casa famiglia, Roma
«Spesso è frustrante, perché non arrivano i risultati in base al lavoro che fai, alle responsabilità e agli insulti che ti prendi... alla fatica per spiegare le regole, spieghi e ragioni con loro sul perché della regola, non la imponi... certe volte... è necessario imporsi, perché tendono a non ascoltarti, se ne sbattono delle regole. Questa è una tendenza di tutti gli adolescenti... se poi pensi che sono adolescenti cresciuti in realtà tra virgolette un po’ barbare, in cui le regole sono molto di meno, loro sono abituati a lavorare fin da piccoli... e secondo me il non rispettare le regole è tipico dei paesi in cui ci sono regimi militari, come l'Egitto... non vengono rispettate se non con la forza… “se posso evadere una regola e non c'è nessuno che mi fa niente... evviva!”».
La triangolazione tra dati provenienti da fonti diverse (documenti istituzionali, schede a uso interno, PEI, diari di bordo e interviste intensive) mette in evidenza quanto le parole degli operatori dell'accoglienza siano intrecciate con cliché pedagogici che pretendono di spiegare ai MSNA chi dovrebbero essere e quali dovrebbero essere i loro comportamenti.
«Ho imparato tante cose, anche dalle persone, poi da solo... tante dagli operatori, dalle persone normali… poi gli operatori mi hanno aiutato a capire le regole, mi aiutano a capire le cose, le regole italiane... la cosa più importante è andare a scuola».
(O., 17 anni, Catania)
«[...] qui non c'è la guerra, quindi sto bene... e posso andare a scuola. Io sono venuto per lavorare, ma prima devo andare a scuola. Mi piace andare a scuola, è importante».
(M., 17 anni, Casacalenda, CB)
«La scuola in Albania fa schifo. Io avevo un'ossessione per l'Italia, in Italia la scuola è bellissima, è avanzata. [...] Mio padre stava a Genova a lavorare negli anni '90. Io avevo questa cosa... questo sogno dell'Italia. Adesso sto bene, sto benissimo... ho fatto tante cose, corsi, musica, scuola, spettacoli».
(B., 17 anni, Cisterna di Latina)
Una sorta di «affidamento culturale», di assoggettamento, che afferisce a quel sistema che Fanon (1961) descrive senza mezze misure nelle prime pagine de I dannati della terra, quando afferma che non sono tanto la dominazione e lo sfruttamento dei colonizzatori, quanto l’interiorizzazione di stereotipi discriminatori a rendere i colonizzati simili a zombie. Mentre i professionisti intervistati sono spesso coinvolti in discorsi e «pratiche di bianchezza» che trasformano i giovani migranti in soggetti bisognosi di sostegno e di recupero, questi ragazzi sono coinvolti in pratiche discorsive che oscillano tra vincoli di riproduzione sociale e pratiche di agency e resistenza.
Molti dei discorsi dei minori intervistati si inscrivono in quella che Butler (1997) definisce performative politics, definendo e ridefinendo il pensiero egemonico. In proposito, una delle categorie emergenti è interpretando il buon migrante, relativa alla pratica di compiacere e intuire le aspettative dell'educatore (cfr. Migliarini, 2017): emergono nelle interviste gli effetti spesso intollerabili che l'educazione e l'integrazione sociale attuate producono. A questo proposito sono utili le riflessioni di Butler che, riprendendo il costrutto di pratiche discorsive di Foucault (1988), ragiona sulla costruzione del soggetto come subordinato e conforme all'idea che ne ha l'adulto.
Secondo Foucault (1988), la persona è assoggettata attraverso la costruzione discorsiva; il potere si concretizza nella costruzione del discorso. Il soggetto si trova a essere categorizzato, classificato, gerarchizzato, normalizzato, sorvegliato e spinto all'autosorveglianza. Le tecniche di assoggettamento sono realizzate all'interno di varie istituzioni e questo non perché tali istituzioni sono apparati di stato ideologici, ma perché le istituzioni improvvisano, citano e utilizzano cornici discorsive confinanti che coincidono con il potere di chi assoggetta. Il linguaggio che alimenta queste pratiche è un linguaggio neo-coloniale in cui le parole del colono sembrano essersi modernizzate e aver imparato a nascondere le parole politicamente scorrette, come barbari-primitivi-malati-folli: il linguaggio del colono ha imparato a camuffare la disumanizzazione dell’altro.
Dall'elaborazione delle codifiche emerge il nesso che lega il linguaggio al dato culturale; le parole intrise di questa cultura evidenziano che la mentalità del colono non è scomparsa, è solo mascherata, «evoluta»: «a un certo punto si è potuto credere alla scomparsa del razzismo, ma questa impressione euforica e artificiosa non era che la conseguenza dell’evoluzione di forme di sfruttamento».[footnote]Testo dell’intervento di Fanon al primo Congresso degli Scrittori e degli Artisti Neri di Parigi, settembre 1956, pubblicato nel numero speciale di «Présence africaine», giugno-novembre 1956.[/footnote]
Blanchard e Bancel (1998, De l'indigene a l'immigré) ripercorrono il percorso storico che ha condotto il primitivo, il nativo, il colonizzato verso quel profilo sociale oggi a noi più familiare con il termine «immigrato».
Nella mia interpretazione, i professionisti coinvolti, in maniera spesso poco (o troppo poco per il ruolo di responsabilità che rivestono) consapevole, utilizzano parole che fanno riferimento a quel sistema di significati proprio del linguaggio del colonizzatore, linguaggio che agisce pratiche di bianchezza.[footnote]Il costrutto di bianchezza è proprio delle teorie critiche della razza. La bianchezza si esplicita in quello che Barbara Flagg (2005, pp. 79-83) chiama il «fenomeno della trasparenza, ovvero la tendenza da parte dei bianchi, a non pensare affatto alla (loro) bianchezza; loro, al contrario, tendono a guardare la razza, per così dire, dall’esterno».[/footnote]
Dentro il mandato migratorio: vietato fallire
Il minore ha l'obbligo del successo, e risponde lui stesso costruendo la doppia menzogna che accompagna la migrazione: menzogna in partenza sostenuta da menzogna in arrivo, come risulta evidente dai frammenti di intervista che seguono.
In questa intervista emerge chiaramente quanto il trafficante, che ha convinto il ragazzino quindicenne a partire, abbia utilizzato i media italiani per generare un panorama immaginario.
«[...] lui ha detto che ti danno 30 euro al giorno, un laptop, vestiti, mangiare e poi ti trovano un lavoro in Italia, l'Italia è un posto fantastico. Ora io mi sento un coglione. Mio padre ha venduto la casa di proprietà per farmi partire, io mi sento male adesso, mi sento un coglione».
(S., 16 anni, Roma)
Il panorama immaginario diventa spinta propulsiva:
«In Italia si lavora subito. In Italia i soldi li trovi per strada, io sono venuto per lavorare [...] tutti mi hanno detto che in Italia si sta bene, erano partiti tutti. Sono venuto per lavorare e aiutare la mia famiglia».
(E., 17 anni, Torre Annunziata, Na)
La doppia menzogna
La rappresentazione mediatica del fenomeno migratorio è una costruzione doppiamente «falsa»: da una parte la rappresentazione del viaggio come obbligo di successo, pena l'esclusione dal contesto di origine; dall'altra, la rappresentazione del fenomeno migratorio come emergenza – invasione, legata a retoriche vittimistiche, propria del Paese di approdo.
Approfondendo la bugia originaria legata al successo del migrante, questa analisi propone un avanzamento del costrutto di doppia menzogna proposto da Sayad (1999) in un tempo in cui l'utilizzo dei media non era così marcato e i social network non esistevano: attualmente questi detengono un ruolo propulsivo nell'alimentare panorami immaginari e sostenere narrazioni di successo.
Non si può fallire il viaggio migratorio: a sostegno dell'infallibilità troviamo una serie di azioni volte a sostenere e amplificare la bugia in partenza; la codifica che utilizzo è alimentando l'idea di benessere, efficacemente rappresentata dalle foto profilo Facebook nella Figura 1, in cui i migranti simulano la guida di macchine costosissime sono davanti a vetrine di negozi di lusso oppure si mettono in pose «proprietarie» nelle frutterie dove vengono sfruttati per 12-18 ore al giorno dai loro connazionali.
Fig. 1 Collage realizzato con selezione di foto profilo pubbliche di Facebook degli intervistati.
Scrive in proposito Appadurai (2011, p. 120):
«Il confine tra i panorami realistici e quelli finzionali cui assistono è sfumato, così che quanto più questi spettatori sono lontani dall’esperienza diretta della vita metropolitana, tanto più è probabile che costruiscano mondi immaginati di tipo chimerico, estetico e addirittura fantastico, soprattutto se questi mondi sono misurati in base ai criteri di qualche altra prospettiva, di qualche altro mondo immaginato. I mediorami tendono a essere rendiconti di porzioni di realtà e quel che offrono a coloro che li utilizzano e modificano è una serie di elementi con i quali è possibile dar forma a sceneggiature di vite immaginate».
Queste sceneggiature aiutano a costruire narrazioni dell’altro e narrazioni fantastiche di vite possibili, fantasie che possono diventare premesse al desiderio di cambiamento; la potenza dei social media nella costruzione dell'immaginario mi coinvolge direttamente, come emerge nell'intervista a B., 17 anni:
B: [...] e poi... la verità è che in Albania sanno che lavoro, ho una casa e ho tanti soldi. Hai visto la foto che ho con te (immagine profilo Facebook)... eh! Tutti sanno che sei la mia fidanzata.
R: Eh! andiamo bene!
B: (ride)... che ti importa, non capiscono niente! Le mie compagne di classe hanno detto che sei bellissima... ricca fidanzata italiana.
Alcune riflessioni conclusive: oltre il «doppio vincolo» dell'accoglienza
A quali intuizioni ci apre la strada l'esperienza dell'ambiguità e della molteplicità?
A che punto l'improvvisazione disperata diventa un'importante conquista?
(Mary Catherine Bateson, 1992, p. 19).
Il discorso sull'accoglienza dei MSNA in Italia è complesso, multifocale, spaesante: l'idea che sia proprio il «doppio vincolo» a caratterizzarlo in modo sovraordinato nasce dai molteplici livelli di conflittualità e paradosso.
Il doppio vincolo è connesso al tema della doppia menzogna: accanto a quella legata al viaggio nelle fasi di preconoscenza e arrivo-mantenimento della narrazione fantastica, convive la menzogna mediatica e rappresentazionale propria del Paese di approdo.
La percezione degli operatori è di lavorare nel disagio, in continua emergenza, in un Paese assediato e invaso, una percezione di affaticamento continuo; gli operatori fanno i conti, nella stessa misura con la quale lo fanno i minori accolti, con una quotidianità assai lontana sia dalle loro aspettative, sia dai manuali di servizio sociale e pedagogia interculturale.
Eppure gli operatori trovano strade alternative, agiscono pratiche di resistenza – come i ragazzi accolti ‒ nonostante la fatica dell'improvvisazione e della risoluzione immediata di problemi, nonostante il senso di impotenza che si palesa nelle criticità quotidiane: «quando non posso fare nemmeno un codice fiscale, come posso riflettere sul mio lavoro educativo e immaginare percorsi educativi efficaci?» (memo autoetnografico, settembre 2017).
In questo terreno liquido si innesca il conflitto tra gli obiettivi degli attori coinvolti: la relazione tra il mandato professionale dell'operatore e il mandato migratorio del minore è, in ultima istanza, conflittuale e richiede una faticosa ristrutturazione quotidiana degli obiettivi, che spesso porta a svilimento e frustrazione. Progettare e realizzare percorsi «possibili», gestendo la rottura con le aspettative della famiglia d'origine del giovane migrante, è faticoso e delicato: la famiglia spinge e crea tensioni continue, il mandato familiare è irrinunciabile, quasi costitutivo, la legge italiana e la realtà impongono un adeguamento alle normative e, soprattutto, l'Italia impone l'obbligo scolastico e vieta il lavoro minorile.
Doppio vincolo, ancora, che si esplicita nella costituzione di un sistema di accoglienza che prevede e definisce, progetta e valuta e che della relazione di cura mantiene l’ambiguità costitutiva di un benessere imposto, sanzionato, definito e definitivo, classificatorio, amministrativo.
La relazione di cura stessa, come il lessico, è intrisa di rapporti di potere, tendenzialmente asimmetrici, spesso inconsapevoli, che necessiterebbero di un ripensamento strutturale, in direzione del superamento della logica accoglienza-integrazione, verso una vera umanizzazione.
Esistono realtà italiane in cui si lavora per umanizzare i processi di accoglienza, in cui lo spaesamento è risorsa interculturale, dove il malinteso, l'imbarazzo e la frustrazione sono risorse insperate e forse poco consapevoli, in cui un ambiente familiare e il supporto della comunità fanno la differenza.
Agire l'umanizzazione significa agire l'intercultura, accedere a posizioni plurime nel rapporto con le narrazioni proposte, fare lo sforzo costante di accomodare i significati alle azioni e alle parole, accedere a un pluriverso, evitare una narrazione unica e un punto di vista unitario, permettere versioni anche contrastanti, elicitare l’irriverenza, de-costruire le premesse delle singole persone e del gruppo al fine di far vivere ipotesi alternative e nuove mappe possibili.
L'umanizzazione può liberare da quella colonizzazione della mente che Thiong'o (2015) individua tra le cause di una riproduzione culturale escludente e segregante, generatrice di nuovi razzismi trasformativi.
Bibliografia
Appadurai A. (2011), Le aspirazioni nutrono la democrazia, Milano, Et Al.
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