Ricerche empiriche / Empirical research
La seconda accoglienza come spazio conflittuale e le competenze degli operatori
Second reception services as conflictual spaces and social workers’ skills
Tiziana Tarsia
Ricercatrice a tempo determinato in Sociologia generale presso il dipartimento Cospecs dell’Università di Messina. Insegna nell’ambito del corso di laurea in Scienze del Servizio sociale. Si interessa di sociologia del conflitto, di formazione degli operatori sociali e di esplorazione delle marginalità
Autore per la corrispondenza
Tiziana Tarsia
Indirizzo e-mail: tarsiat@unime.it
Via Concezione, 6 – 98100 Messina
Sommario
Il lavoro d’équipe nei progetti territoriali di seconda accoglienza può essere considerato come spazio sociale di apprendimento in cui malintesi e conflitti permettono di creare i presupposti per una comprensione più autentica dell’altro in una cornice operativa che è quella della relazione di aiuto tra utente, operatore sociale e organizzazione. Il metodo Trascend di J.Galtung e il modello M-m ed E-E di P. Patfoort sono usati per leggere le dinamiche conflittuali emergenti e ricostruirle a partire dall’utilizzo di esempi emersi durante la ricerca sul campo realizzata in Calabria, Sicilia dal 2014 ad oggi e, appena iniziata, in Sardegna e al periodo di osservazione diretta nelle riunioni del gruppo di operatori del progetto Sprar di Sant’Alessio in Aspromonte. Il contributo propone alcune chiavi attraverso le quali la sociologia del conflitto può contribuire alla domanda di formazione interculturale che emerge dagli operatori del Sistema di protezione. Parole chiave: sprar, sociologia del conflitto, lavoro d’équipe.
Parole chiave
Sprar; sociologia del conflitto; lavoro d’équipe.
Abstract
Teamwork in second reception services for refugees and asylum seekers can be seen as a conflictual space. In such a social environment, intercultural misunderstandings are opportunities for learning because they stress the help relationship between refugees, social workers and organisations, and highlight related frameworks. J. Galtung’s Transcend method and P. Patfoort’s M-m and E-E model offer heuristic perspectives useful for reading intercultural conflicts within the protection system. Many examples are taken from field research (from 2014 onwards) carried out in reception centres in Calabria, Sicily and Sardinia, and from weekly professionals’ meetings observed as part of the Sprar project in Sant’Alessio in Aspromonte, in the Calabrian Apennine mountains. The paper offers viewpoints through which the sociology of conflict can contribute to the intercultural training demands that social workers engaged in the protection system highlight.
Keywords
Sprar; sociology of conflict; teamwork.
Introduzione
Questo contributo ha l’obiettivo di proporre una lettura dei servizi di seconda accoglienza dei migranti forzati come spazio sociale conflittuale di apprendimento (Galtung, 2010; Patfoort, 2006; Novara, 2011). Gli operatori vi si sperimentano come soggetti capaci di «agency» (Folgheraiter, 2011) e si relazionano con i colleghi, altri professionisti, nell’ambito del lavoro di équipe inteso come «campo» (Lewin, 1980).Si imbastisce una relazione di interdipendenza (Simmel, 2005; Lewin, 1980), nella quale i social workers investono tempo e intenzionalità in azioni di sensemaking and enactment (Weick, 1993; 1997).
La riflessione sulle competenze degli operatori nasce dall’analisi e dall’elaborazione delle osservazioni in presenza delle riunioni di équipe realizzate da agosto 2017 a maggio 2018 presso il progetto SPRAR di Sant’Alessio in Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria. Il periodo di osservazione si è inserito in una ricerca già avviata nel 2014 che aveva l’obiettivo di descrivere e analizzare la seconda accoglienza dal punto di vista degli operatori che vi lavorano: attraverso focus group e interviste in profondità sono stati così ascoltati finora 46 social workers che operavano nelle strutture sprar della Sicilia, della Calabria e della Sardegna.1
Fin dall’inizio della ricerca sono sempre stata ben accolta dalle équipe dei diversi sprar. Solo in rari casi i coordinatori hanno temporeggiato per riuscire a organizzare i focus group o le interviste in profondità, dicendomi che in quel determinato momento gli operatori stavano vivendo una situazione di difficoltà relazionale e stavano gestendo con fatica la routine quotidiana.
In una seconda fase della ricerca, attraverso sessioni di osservazione diretta dichiarata, ho analizzato le dinamiche relazionali che si manifestavano durante l’incontro settimanale che ilgruppo di lavoro di Sant’Alessio in Aspromonte teneva il lunedì pomeriggio presso la sala consiliare del Comune, ente titolare del progetto.
In base al rapporto 2017 del Ministero dell’Interno più della metà degli sprar attivi al 2016 svolge una riunione di équipe una volta a settimana, la restante metà ogni quindici giorni e una quota minima ogni mese. La riunione di équipe è quindi considerata dagli operatori uno spazio formalizzato di lavoro che permette di esplicitare e fronteggiare situazioni di conflitto con i beneficiari, con i cittadini o altri stakeholders.
Gli operatori di Sant’Alessio in Aspromonte si sono mostrati, fin dall’inizio, disponibili ad accogliermi: alcuni già mi conoscevano per la parte della ricerca iniziata nel 2014. In questa fase del lavoro ero stata presentata a tutta l’équipe dal presidente dell’associazione Coopisa (ente gestore del progetto) che conoscevo personalmente. Prima di avviare le osservazioni avevo avuto modo di contattare singolarmente gli operatori grazie alle interviste in profondità realizzate con loro. Avevo anche avuto con il presidente e la coordinatrice un incontro ad hoc per spiegare il mio disegno di ricerca. Prima di accettare la mia presenza come osservatrice i componenti dell’équipe avevano avuto modo di discutere della mia richiesta. Nel tempo si è creato un rapporto di fiducia, ci siamo scambiati i numeri di telefono, mi chiamano se secondo loro c’è «qualcosa di interessante da osservare» e mi invitano alle diverse iniziative che realizzano in paese.
Gli operatori osservati sono stati in tutto quindici: il presidente dell’associazione Coopisa, medico, responsabile del progetto per l’ente attuatore; la coordinatrice dell’équipe di lavoro, antropologa; le assistenti sociali, l’operatrice socio-sanitaria, l’operatrice per l’integrazione e l’inserimento lavorativo, la psicologa, l’operatore legale, le insegnanti di lingua italiana, le mediatrici culturali, il personale amministrativo. Il gruppo non è mai stato tutto al completo, era sempre presente il responsabile e gli altri componenti dell’équipe variavano: in media erano presenti circa otto persone. La mancanza, a turno, di alcuni operatori alle riunioni non era percepita come una criticità, né da chi presiedeva la riunione né dagli altri colleghi. La necessità di assentarsi per altre funzioni era sempre concordata in precedenza: l’operatore che non avrebbe potuto partecipare informava della propria assenza e «lasciava dette» a qualcun altro eventuali comunicazioni utili per illavoro degli altri. L’osservazione sul campo è continuata anche oltre il tempo delle riunioni settimanali in momenti dedicati a eventi esterni come le feste nella piazza del paese, i viaggi in automobile con alcuni degli operatori per raggiungere la sede, i momenti di attesa nel loro ufficio e il laboratorio dedicato alla cura genitoriale proposto dalla psicologa dello sprar.
I servizi di seconda accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati costituiscono uno spazio di indagine dai contorni apparentemente definiti ma in realtà molto flessibili e non sempre individuabili chiaramente, in cui riveste una particolare rilevanza il ruolo strategico giocato dagli operatori: sono uno «spazio sociale giocato» (Bourdieu, 2009, pp. 26 e 45) in cui è stato possibile, nel tempo, cogliere lo sviluppo delle dinamiche relazionali e degli habitus professionali (Bourdieu, 2003, p. 211) delle figure impegnate.
In particolare si è scelto di osservare gli operatori in situazione, quella della riunione settimanale, perché l’équipe all’interno di questi centri assume in sé i compiti e le funzioni propri del servizio erogato: non solo è lo strumento di lavoro indicato dal manuale operativo per operatori sprar (2015) come necessario per imbastire la relazione di aiuto con i beneficiari, ma è anche considerato dagli operatori stessi come uno spazio di risonanza e di sostegno strategicamente funzionale al proprio lavoro: tutti gli operatori ascoltati dichiarano che far parte di un gruppo di lavoro è conditio sine qua non per svolgere le proprie funzioni in maniera produttiva.
Operatori sociali e lavoro di équipe
Il sistema di seconda accoglienza in Italia assume proporzioni ampie e interessa un numero crescente di operatori sociali direttamente ingaggiati nei ranghi del sistema governativo di protezione: sono nel 2018 circa 11.000 gli operatori della rete sprar (Pacini, 2018) tra professionisti impegnati negli enti gestori e negli enti titolari dei progetti, nella stessa Anci (Associazione nazionale comuni italiani), presso il ministero dell’Interno e il Servizio centrale Fra le figure professionali presenti nei progetti territoriali vi sono mediatori culturali, operatori legali, assistenti sociali, amministrativi, psicologi, antropologi, operatori dell’accoglienza e dell’integrazione, insegnanti e educatori.
Tutti questi operatori sono collocati all’interno di una rete articolata multilivello che include strutture di governo nazionale (il Ministero e il Servizio centrale) e locale (sedi territoriali del Ministero, progetti sprar, enti locali) cui si assegna come mandato principale quello di costruire percorsi di integrazione.
A marzo del 2018 i progetti sprar attivi sono 876; quelli che non ospitano minori non accompagnati e soggetti con disagio mentale o disabilità sono detti ordinari e sono 681; in totale i posti disponibili sono 35.869. I Comuni coinvolti sono in tutta Italia e il maggior numero di progetti è presente in Calabria (125), Sicilia (114), Puglia (112) e Campania (90). È un sistema complesso che interessa gli enti locali in qualità di titolari del progetto, le organizzazioni del terzo settore in quanto ente gestore nonché le comunità di cittadini dei territori ospitanti gli sprar.
Nell’ambito dei singoli progetti gli operatori lavorano in gruppo. Le équipe degli sprar sono multiprofessionali e «interne» (Raineri, 2001), sono cioè composte da più professionisti ma contrattualizzati dalla stessa organizzazione: tutti gli operatori sono infatti dipendenti o consulenti (sia a tempo pieno che parziale) dell’ente gestore del servizio, hanno un mandato istituzionale e sociale comune, quello dell’«accoglienza integrata» (Servizio centrale, 2015) e mandati professionali differenti. In alcuni casi alcune figure professionali (ad esempio le assistenti sociali) sono prestate dall’ente titolare al progetto per alcune ore di lavoro ma negli sprar che ho incontrato non fanno parte dell’équipe.
Dal momento che la maggior parte degli operatori (60% circa del totale) hanno un contratto part-time, succede non di rado che gli stessi appartengano a più gruppi di lavoro: questo è un caso frequente con i mediatori/interpreti ma anche con altre figure. In alcuni casi gli operatori svolgono funzioni diverse in altri sprar gestiti dalla stessa cooperativa: ad esempio J. è la mediatrice culturale di riferimento per alcuni beneficiari presso lo sprar di Sant’Alessio e Laganadi (Reggio Calabria), ma è anche l’addetta all’amministrazione presso lo sprar di Calanna, o ancora W. è stata per un certo periodo di tempo una delle assistenti sociali dello sprar di Sant’Alessio e contemporaneamente la coordinatrice di un altro progetto di accoglienza gestito dalla stessa associazione.
In altri casi alcuni operatori sono impegnati solo in un’attività di consulenza presso il progetto mentre svolgono la loro attività lavorativa prevalente in un altro ente. Mi è capitato di assistere al passaggio tra una riunione del progetto di Laganadi e uno di Sant’Alessio o tra un progetto ordinario e uno per persone con disagio psichico gestiti sempre dall’associazione Coopisa e gli operatori non sembravano avere alcuna difficoltà ad abbandonare il progetto precedente per iniziare a discutere di quello successivo: si aveva la sensazione che il contenitore relazionale e operativo fosse sempre lo stesso, l’associazione, chi cambiava erano i beneficiari.
Una funzione importante, in termini di condivisione di mission, probabilmente è rivestita dalle riunioni regolari, extraprogetto, svolte dal direttivo di Coopisa con l’intento di indirizzare e accompagnare il lavoro di tutti gli operatori impiegati nei diversi progetti.
L’équipe può essere strutturata come si ritiene più opportuno e solitamente saranno il coordinatore e il responsabile dell’ente gestore del progetto locale a lavorare per la sua composizione. Il Servizio centrale richiede di mantenere, da un punto di vista numerico, un rapporto di un operatore ogni quattro beneficiari, rapporto che si riduce nel caso di soggetti considerati «vulnerabili» o di minori non accompagnati. Stabilisce invece che «la composizione qualitativa e quantitativa dell’équipe, come il livello di partecipazione del personale di ente locale e di ente gestore, dipendono dai connotati del progetto di accoglienza, dalle caratteristiche delle persone accolte, dal contesto territoriale e dalle peculiarità dello stesso ente locale titolare dell’intervento» (Servizio centrale, 2015, p.10).
Il manuale operativo predisposto dal Servizio centrale del Ministero dell’Interno, che indica le linee guida per proporre progetti di seconda accoglienza, prevede la necessità di lavorare in équipe dando rilievo a una presa in carico del beneficiario che sia il più possibile olistica e che ricopra un ampio raggio di azioni di supporto. Di conseguenza le figure professionali che costituiscono le équipe o che ruotano intorno ai progetti locali sono molto eterogenee e possono essere ricondotte a queste macro aree: «mediazione linguistico-culturale; accoglienza materiale; orientamento e accesso ai servizi del territorio; formazione e riqualificazione professionale; orientamento e accompagnamento all’inserimento lavorativo; orientamento e accompagnamento all’inserimento abitativo; orientamento e accompagnamento all’inserimento sociale; orientamento e accompagnamento legale; tutela psico-sociosanitaria» (Servizio centrale, 2015, p. 11).
Imparare dal conflitto
La cornice entro cui leggo le strategie di fronteggiamento delle criticità con i beneficiari riportate durante le riunioni di équipe fa riferimento a un paradigma conflittualista (Simmel, 1998), strutturalista (Galtung, 2010) e costruttivista (Berger e Luckman, 2009; Bennett, 2003), che assume il conflitto come dimensione fisiologica della relazione umana e come evento trasformativo e funzionale al cambiamento sociale.
Questa stessa prospettiva sarà usata per decodificare quelle che sono percepite come incongruenze che emergono nell’ambito della relazione di aiuto e di cura: quelli del conflitto sono un tempo e uno spazio di confine in cui è possibile incontrare l’altro per conoscerlo e riconoscerlo come individualità.
Alla base di questo costrutto vi è un’idea di conflitto inteso come dinamica generativa: «l’esperienza quotidiana mostra come facilmente un contrasto tra due individui modifichi il singolo non soltanto nella sua relazione con l’altro, ma anche in se stesso» (Simmel, 1998, p. 263). Il punto di partenza è proporre la relazione conflittuale come necessaria a un’integrazione funzionale al gruppo: «a voler dissimulare ad ogni costo i conflitti, si finisce per bloccare qualunque soluzione, compresa quella della negoziazione, e per esasperare l’opposizione fra le diverse parti» (Freund, 1995, p. 178). Il conflitto sarà quindi usato come categoria di lettura delle relazioni reciproche tra operatori ma anche della relazione di aiuto tra beneficiari e operatori.
L’ipotesi che questo lavoro ha esplorato riguarda le strategie che i professionisti osservati adottano per ricomporre le proprie esperienze conflittuali con i beneficiari nell’ambito dello Sprar: se lavorare attraverso l’équipe è il metodo considerato necessario alla riuscita del processo di accoglienza degli ospiti, allora diventa interessante capire qual è il processo decisionale che viene attivato nei casi di conflitto con i migranti.
Sia Patfoort che Galtung costruiscono la propria prospettiva a partire dall’osservazione di situazioni conflittuali e di violenza. Il loro metodo di lavoro è induttivo e dettato da anni di pratica in contesti interculturali: questo tipo di approccio, allo stesso tempo descrittivo e analitico, permette di offrire una casistica esemplificativa a supporto di una teoria del conflitto che è di per sé piuttosto complessa. Alcune prospettive mutuate dai due autori ci aiuteranno a comprendere meglio le dinamiche che emergono nella gestione dei conflitti durante le riunioni settimanali dell’équipe del progetto sprar di Sant’Alessio in Aspromonte e saranno utilizzati come matrice concettuale utile a proporre uno schema di analisi che potrebbe anche essere usato per suggerire alcuni dei contenuti propri dei percorsi formativi rivolti ai social workers del settore.
Il metodo Trascend
Quello di Galtung è un approccio analitico, clinico, che rinvia il conflitto alla fisiologia delle relazioni tra persone, indicando la strada di una possibile evoluzione del conflitto a partire dalla capacità creativa che metta nelle condizioni gli attori sociali di superare le posizioni iniziali e la rigidità dei contesti: è quel che si intende per trascendenza.
Il metodo «Trascend» ruota intorno ad alcuni concetti esplicativi: quello di conflict formation e di conflict arena e quelli di attitudes, behaviour e contradictions (Galtung, 2010). I primi due concetti definiscono, secondo il sociologo, la cornice in cui i conflitti possono essere letti nella loro complessità: nella conflict formation gli attori sociali, considerati weberianamente (1980) come soggetti che si muovono in base a un agire dotato di senso, si combinano tra di loro a partire dalla incompatibilità, reale o percepita, tra i propri obiettivi; conflict arena è lo spazio in cui si sviluppa ed evolve il conflitto. Galtung ritiene che i conflitti possano essere compresi se non vengono minimizzati e se ci si impegna in un approccio il più possibile analitico. È in questa prospettiva che costruisce l’abc triangle, ai cui tre angoli colloca tre componenti di un conflitto (su indicati): attitudes, behaviour e contradictions. A partire dalla possibile combinazione di queste tre componenti si potrà, secondo l’autore, spiegare le dinamiche conflittuali. Nell’approccio di Galtung assumono rilievo la posizione degli attori, i loro interessi, i valori e gli obiettivi che intendono perseguire: nulla è dato per scontato, tutto va studiato e compreso con attenzione.
L’approccio di Galtung ha la peculiarità di pensare il conflitto come uno spazio creativo, da esplorare e in cui gli effetti possono essere molteplici e inaspettati. La relazione di aiuto tra operatore e beneficiario verrà quindi guardata come mera interazione non tra attori sociali, che si muovono senza vincoli personali e sociali, ma tra persone che scelgono all’interno di una rete complessa di rapporti in cui anche le questioni più ampie della disuguaglianza, della giustizia e delle povertà assumono valore nella capacità di progettazione e di azione del singolo.
Ciò che questo contributo vuole restituire non è l’idea che gli attori sociali siano determinati aprioristicamente ma che, invece, siano «atomi», direbbe Galtung, che si muovono in una struttura complessa che va deframmentata e compresa e di cui è importante essere consapevoli. In questo senso mi sembra utile riportare di seguito alcune situazioni idealtipiche e connetterle con le storie emerse dalle interviste e nelle osservazioni: a titolo esemplificativo si parlerà di the structural conflict, the frustaction, the dilemma e the dispute.
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Del structural conflict per Galtung non sono noti né gli attori né gli obiettivi, ma si manifesta piuttosto un’incompatibilità di fondo degli obiettivi a livello di sistema. Nonostante non si riescano a precisare volti, nomi e fini di questo agire, esso ha degli effetti sulla realtà che ciascuno può percepire. La maggiore o minore propensione dell’operatore a collocare il suo fare e le sue relazioni in un quadro storico, politico e sociale più ampio influisce sulla sua possibilità di agire i livelli conflittuali a lui più prossimi tenendone in considerazione i presupposti più ampi. Sarà utile, ad esempio, durante la fase esplorativa del conflitto, prendere anche le distanze dal fatto accaduto per riuscire a ricondurre l’incompatibilità di visioni con il beneficiario a una dimensione più ampia, ad esempio all’esperienza coloniale o di oppressione introiettate (Boal, 2009; 2011) perché: «perdere di vista queste differenze implicherebbe d’altronde un’idea di riconoscimento secondo la quale non si può sfuggire a una soggettivazione che passi necessariamente attraverso l’esperienza dell’assoggettamento e della subordinazione» (Beneduce, 2013, p. 115).
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Un secondo esempio è quello che Galtung definisce in base alla presenza di un obiettivo che non viene raggiunto; la conseguenza del mancato conseguimento è la frustration del soggetto. L’insoddisfazione espressa da molti operatori rispetto al lavoro con i beneficiari va letta attraverso questa chiave: non sempre, di fronte a percorsi non coerenti con le proprie attese, il professionista riesce a mettere in questione le proprie aspettative e a guardare dall’esterno la soglia dei comportamenti per lui ritenuti non accettabili. Quando i beneficiari «se ne vanno senza salutare!» o «scelgono di seguire i propri connazionali su strade poco chiare» ci sono dei risvolti conflittuali che riguardano l’operatore: farsi carico del proprio conflitto intrapersonale è un passaggio di consapevolezza non scontato ma indispensabile per ricomporre componenti etiche, affettive, cognitive della delusione che caratterizza il proprio vissuto professionale (Tarsia, 2010).
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La situazione in cui è presente un unico attore con due obiettivi viene definito, nella teoria dei conflitti di Galtung, come «dilemma»: è il caso in cui il soggetto deve affrontare una scelta. Diversi sono i casi in cui gli operatori si trovano a vivere conflitti legati all’incongruenza tra mandato istituzionale, ad esempio quello dell’«accoglienza integrata» (Servizio centrale, 2015) e i mezzi (soprattutto materiali) che si hanno a disposizione per raggiungere l’obiettivo. E lo stesso può valere per il beneficiario che ad esempio si trova a dover scegliere tra il rispetto di una regola interna allo sprar, ad esempio il divieto di ospitare altri connazionali negli appartamenti, e la consapevolezza di stare disattendendo ad una norma non detta che regola i rapporti ad esempio tra le persone provenienti dalla Nigeria (Bertani, 2010; Manfridae Serafini, 2010).
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Nelle «dispute», invece, sono presenti due attori che hanno lo stesso obiettivo e quindi vivono una situazione di concorrenza. Il caso della disputa può essere esemplificato con due situazioni anch’esse raccontate dagli operatori. Per i migranti è il caso in cui i beneficiari di un servizio sprar, vivono una situazione di risorse limitate come, ad esempio, la possibilità di accedere al tirocinio formativo. Nel caso degli operatori invece potremmo pensare alla situazione in cui le diverse organizzazioni entrano in competizione per ottenere l’attribuzione del servizio: negli anni di ricerca sul campo è capitato che lo sprar di uno stesso Comune mantenesse l’ente titolare del progetto ma cambiasse l’ente gestore. Quest’ultima situazione ha determinato ad esempio, in alcuni casi, un passaggio, non facile, degli operatori e dei beneficiari da un ente all’altro.
Il modello «M-m e E-E»
Pat Patfoort costruisce un modello che si struttura su alcuni elementi centrali: la diversità tra esseri umani, spesso messa in ombra nelle dinamiche di conflitto; l’istinto di conservazione, grazie a cui si tende a custodire la propria identità in situazioni burrascose;la comunicazione.
Secondo l’antropologa i conflitti che hanno origine in situazioni di disuguaglianza possono generare situazioni di violenza determinate dallo scarso riconoscimento dei valori e dei fondamenti di coloro che occupano una posizione down: «una persona si trova in posizione “minore” quando ciò che è, fa o desidera non è compatibile con quelle che sono le norme della società, della cultura nella quale vive. Ne consegue che le persone che rispecchiano e vivono compatibilmente alle caratteristiche di queste norme, sono considerate normali e messe in posizione “Maggiore”» (Patfoort, 2006, p.34). I fondamenti (tenuti invece in considerazione dal modello E-E dell’eguaglianza) sono dei capisaldi culturali e cognitivi a cui le persone sono socializzate e a cui sentono collegata la propria identità personale: si capisce come sia difficile confrontarsi se non c’è chiarezza sui reciproci fondamenti e se chi è in una posizione di supremazia non tiene in considerazione questi presupposti.
Il modello M-m intende svelare i meccanismi di violenza e assoggettamento dell’altro, pensato come minore, e invita a leggere queste situazioni cogliendone le possibili evoluzioni e conseguenze.
Secondo Patfoort l’escalation, la «catena della violenza» e «l’interiorizzazione», sono i meccanismi della violenza che si possono generare nelle situazioni di conflitto in cui l’altro finisce per essere «reificato» (Honneth, 2007) e «infantilizzato» (Sennett, 2004).
Anche nella presentazione di questo modello mi sembra utile pensare ad alcuni esempi di situazioni tipo in cui operatori e beneficiari dello sprar possono venirsi a trovare.
Possiamo ricondurre l’esperienza dell’escalation a tutte quelle esperienze in cui i malintesi (La Cecla, 2005) possono generare un aumento di aggressività reciproca che si somma a condizioni di disagio pregresse anche non direttamente collegate ma probabilmente poco esplorate: casi di questo genere possono essere quelli in cui i beneficiari che sono costretti a vivere nello stesso appartamento con altri ospiti a loro sconosciuti si trovino a confliggere sull’amministrazione della casa. Ad esempio, il caso di Marion, di cui si è discusso durante una riunione di équipe, che litigava e andava in escalation con le compagne di casa perché avrebbe voluto che tutte quante riordinassero il proprio letto come faceva lei. Su questo stesso conflitto si può imperniare il contrasto tra operatori e beneficiari ad esempio sul rispetto delle regole: in questo caso, se il beneficiario intende rimanere nel sistema di protezione, l’ultima parola ce l’ha il servizio e quindi l’operatore. Ciò che caratterizza l’escalation è il ribaltamento dei ruoli, per cui chi è in posizione «minore» crede di potersi difendere aggredendo l’altro e provando a diventare «Maggiore», facendo scivolare in una posizione down colui che è individuato come il nemico.
Il secondo meccanismo della violenza è quello della catena: «l’energia che non riusciamo a indirizzare verso il nostro aggressore, la dirigiamo verso qualcun altro, una terza persona. Nel momento in cui riversiamo questa energia su una terza persona, ci sentiamo «liberati», ci sentiamo meglio, ma nel contempo è quest’altra persona che soffre per essere in posizione minore. Questo è l’inizio di una catena» (La Cecla, 2005, pp.157-158). In alcuni focus group sono emerse situazioni in cui gli operatori, frustrati, perché gravati da un’eccessiva mole di lavoro e malpagati (a volte il ritardo dei pagamenti arriva anche a nove mesi e un anno), si erano trovati a reagire «a catena» con gli ospiti, irrigidendosi, ad esempio, sul rispetto delle regole.
L’ultimo meccanismo è quello dell’interiorizzazione: possono avvenire situazioni di conflitto che generano violenza a partire dall’introiezione di un vissuto di oppressione che come abbiamo visto in Galtung può essere esperito sia dagli operatori che dai beneficiari. In questo caso l’energia che si genera nel conflitto si ritorcerà contro la persona. Sono tanti i racconti di operatori che vivono il problema di non riuscire a risollevare i beneficiari da situazioni che loro definiscono di depressione: in questa situazione il migrante finisce per chiudersi in se stesso, non partecipa alla vita comunitaria, si isola. Lo stesso può valere, anche se per motivi differenti, anche per gli operatori che possono finire per trovarsi in situazioni da stress da lavoro correlato, meglio conosciuto come burnout.
I conflitti che possono emergere sono molti e vari e possono attenere a diversi livelli. Quello che ci interessa in questo contributo è non perdere di vista la complessità della relazione di aiuto tra operatori e beneficiari e tra professionisti della stessa équipe (Viel, 2015, p. 33; Morin, 1977, p.135; Morin, 1991, pp. 59-60): da un lato è utile ricordare che gli operatori e i beneficiari agiscono all’interno di un sistema di protezione governativo che rimanda a esperienze e percezioni ambivalenti e che condiziona le loro scelte, ma dall’altro è possibile scoprire strategie e atteggiamenti capaci di svelare le dinamiche di oppressione ed esplorarne i conflitti che ne derivano. Gli operatori agiscono all’interno di questi processi di comunicazione e negoziazione costanti ed è per questo che assumono rilievo la loro professionalità e le competenze che decidono di investire in queste relazioni.
La relazione di aiuto e i conflitti emergenti
Durante il periodo di osservazione nello sprar di Sant’Alessio ho avuto modo di cogliere strategie e modus operandi degli operatori che si sono trovati ad affrontare situazioni di conflitto soprattutto con i beneficiari. Le situazioni che porterò come esempi riguardano quindi la relazione di aiuto. È opportuno definire la cornice entro cui ho inserito e ho letto questa relazione di supporto/cura.
È nota nel campo dei servizi sociali la teoria per cui alla base della richiesta di aiuto degli utenti vi è sempre una disfunzione legata a un conflitto di ruolo (Perlman, 1957; Leonard, 1966; Sennett, 2004; Goldestein, 1987): questo è quanto mai vero nell’ambito dei servizi rivolti ai migranti (Barberis e Boccagni, 2014; 2017; Omizzolo, 2018).
L’operatore sociale propone un servizio che è incorniciato e circoscritto in frames culturali che sono il risultato di rappresentazioni sociali, codici e linguaggi che invitano a un certo tipo di lettura della realtà che spesso è in netto contrasto con l’immaginario e le aspettative del beneficiario che si trova a essere incanalato in un circuito di assistenza programmato, con tempi e spazi predeterminati in cui è richiesto di accettare un patto di convivenza.
Gli operatori della seconda accoglienza, sebbene abbiano ruoli professionali diversi, condividono un mandato ambivalente, poiché viene chiesto loro, da un lato, di aiutare i migranti e, dall’altro, di collaborare attivamente a un sistema di controllo e di limitazione della loro libertà di movimento.
Il tipo di relazione in cui viene inserito il beneficiario è una relazione di aiuto che, in ogni caso, è da considerarsi come un rapporto asimmetrico in cui esiste e si mantiene un dislivello di potere connesso al ruolo e alla posizione sociale dei soggetti direttamente coinvolti della relazione. Lena Dominelli, descrivendo un welfare dai tratti «punitivi», chiarisce come «il “sociale” crea simultaneamente le relazioni di aiuto e quelle relazioni di controllo che fanno parte delle tecniche per tenere sotto controllo la popolazione. Forgiando tali relazioni, il “sociale” media lo spazio che separa l’onesta classe lavoratrice dai suoi elementi più pericolosi» (Dominelli, 2005, p. 174).
I social workers si trovano a dover sostenere un conflitto di partenza, quello di ruolo, a cui non sempre sentono di essere stati formati o preparati adeguatamente e che, in molti casi, non viene esplicitato e formalizzato come dato iniziale della domanda di aiuto nemmeno nella presa in carico dell’utente/beneficiario: la relazione di aiuto che si costruisce nel qui ed ora dell’incontro, nel caso dei migranti, è anche frutto di narrazioni individuali e collettive che la precedono. Quale rappresentazione portano con sé il migrante e l’operatore? Quali pregiudizi e stereotipi reciproci? Quale idea di accoglienza e integrazione? Quale idea di aiuto, cura e supporto? Quali concetti di individuo e collettività? Sono tutte categorie di lettura della realtà che non possono essere date per scontate.
Sono domande che svelano la necessità di costruire un terreno di negoziazione permanente che prenda come punto di partenza l’esistenza di un conflitto iniziale e connaturato nell’esperienza della migrazione forzata, determinato dalla condizione di disuguaglianza strutturale (Patfoort, 2006; Galtung, 2010) e dalle rappresentazioni reciproche tra operatori e beneficiari. Un conflitto che avrebbe bisogno di essere esplorato, ampliato e compreso nella sua complessità. Un conflitto nel quale operatori e beneficiari, così come gli altri attori sociali interessati, potrebbero scegliere di agire con intenzionalità (Novara, 2011) per «trovare in ciò che ancora non è stato realizzato la cura di un passato ferito e umiliato, di garantire a quest’ultimo la possibilità di essere detto (testimoniato) ogni qual volta sia necessario, di pensare un riconoscimento non di ciò che si è ma di ciò che si desidera essere» (Beneduce, 2013, p. 116).
Già Goffman ci svelava i sofisticati meccanismi su cui si costruiscono le relazioni di aiuto e di cura descrivendo anche come gli operatori giochino un ruolo attivo nella riproduzione degli stigmi sociali e nella costruzione delle «carriere morali» (Goffman, 2001) delle persone che hanno in carico.
C’è da dire che il frame di riferimento cui si ascrive la relazione di aiuto è spesso connotato da una visione volontaristica e caritatevole del lavoro sociale che fa fatica a sganciarsi da un immaginario fondativo, fatto di coinvolgimento e investimento totalizzante nella relazione di supporto ma da cui probabilmente, per gli operatori, sarebbe utile «congedarsi» (Camarlinghi e D’Angela, 2007, p. 22).
Venkat Pulla spiega bene, a mio avviso, che attivare una modalità di valutazione dei bisogni il più possibile partecipata con l’utente può aiutare l’operatore a ridimensionare la sua percezione del potere inteso come potere di rispondere a tutto e sempre e, allo stesso tempo, permette alla persona che vive una fragilità di prendere coscienza dei propri punti di forza. «When clients seek help, they are usually in a vulnerable position; they have relatively little power which is often associated with the reason why they seek help. The strengths perspective provides for a balanced power relationship between social workers and clients, by reinforcing client competence and thereby mitigating the significance of unequal power. To minimize the power imbalance between worker and client, it is also important to make assessment a joint activity in which the worker inquires, listens, and assists client in discovering, articulating, and clarifying whereas the client provides direction to the content of the assessment. A positive relationship between the social worker and the client is a key factor in the process of recovery» 2(Pulla, 2012, p. 62).
Gli atteggiamenti professionali degli operatori sono il frutto degli studi e del sapere informale, della cultura professionale e di quella organizzativa con cui costruiscono legami affettivi e valoriali e sono anche condizionati da un’idea di welfare residuale. Difatti, sebbene le dimensioni della cura e del controllo si sovrappongano e a volte entrino in collisione nei servizi socio-assistenziali (Guggenbuhl-Craig, 1983; Di Lernia, 2008; Zanotelli e Pellecchia, 2010; Eastmond, 2011, p. 281; Fumagalli, 2015, pp. 30-31; Omizzolo, 2018, pp. 123-150), le questioni connesse a questi due aspetti del lavoro sociale e quindi all’esercizio del potere sull’altro non sempre riescono a essere tematizzate nella formazione rivolta agli operatori, così come nella pratica professionale.
Che un operatore sociale svolga anche una funzione di controllo scandalizza i cittadini e genera sensi di colpa negli operatori. La vulgata relativa alle assistenti sociali che «prendono i bambini», oggetto di rappresentazioni letterarie e cinematografiche anche datate, potrebbe essere anche sintomo della difficoltà a ricomporre nell’immaginario collettivo aspettative di cura e mansioni di tutela o controllo; come se proprio la rappresentazione più favorevole della professione, quando si scontra con eventi che apparentemente la contraddicono, si ripercuotesse «come un boomerang sull’assistente sociale, diventando elemento delegittimante della sua persona e della sua professionalità» (Facchini, 2010, p. 39). Sarebbe invece più utile, probabilmente, farsene carico in termini di elaborazione personale e professionale per evitare di riprodurre interventi asfittici e promuovere invece stili di lavoro creativi e proattivi.
A volte gli stessi operatori rimangono imprigionati nel tentativo di dare risposte a problemi nell’immediato e tamponare così urgenze, piuttosto che veicolare percorsi che possano essere maggiormente proiettati sulla progettazione e la programmazione (Vergani, 2016). Il rischio è quello di cadere nella trappola di un tecnicismo-burocratico piuttosto che «stile riflessivo» e che si esprime nell’«essere disponibili a interrogare le proprie pratiche e le proprie visioni sulle situazioni» (Fargion, 2013, p. 37).
Il potere legittimo (Weber, 1980, p. 51), inteso come«la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, a un comando che abbia un determinato contenuto», è una variabile sensibile nelle relazioni all’interno delle organizzazioni e degli enti gestori dei progetti sprar, che emerge con particolare evidenza nel rapporto tra i diversi stadi della struttura gerarchica dell’accoglienza. Gli operatori si possono trovare, infatti, a fare i conti con situazioni di conflitto determinate anche da gap esistenti tra il mandato sociale, i mandati professionale e quello istituzionale. Una voce rappresentativa del Terzo settore osserva:«Tra i vari servizi messi in campo i Cie, così come concepiti dalla legge Bossi-Fini, non dovrebbero anzi rientrare tra quelli assunti dal lavoro sociale in quanto tale, e per questo dovrebbero venire rifiutati dalle organizzazioni del terzo settore, poiché sono interventi che richiedono lo svolgimento di un’attività di sicurezza pubblica e non di sicurezza sociale» (Panizza, 2016, p. 140).
I progetti sprar locali sono uno spazio in cui gli operatori possono agire la propria discrezionalità non solo in termini di decisioni da prendere nei confronti dei beneficiari ma anche in relazione al proprio ruolo di policy maker, di soggetti in grado di agire e implementare politiche sociali più o meno conservative dello status quo.
Per concludere: una proposta per la formazione degli operatori
Nello sprar di Sant’Alessio in Aspromonte l’atmosfera emotiva durante la riunione e lo stile di conduzione sembrano ispirarsi a un modello di leadership democratica (Lewin, 1980). Durante le osservazioni sul campo vi sono state situazioni in cui i singoli operatori proponevano visioni diverse della stessa situazione ma in questi casi il livello di conflittualità veniva abbassato dall’intervento di chi presiedeva la riunione: la leadership del presidente è riconosciuta da tutti gli operatori in termini di competenze ed esperienza. I suoi modi sono sempre molto garbati e l’ironiaè il modo di comunicare che sceglie di adottare e che tutta l’équipe sembra apprezzare. Le tensioni vengono così smorzate ma mai minimizzate o banalizzate. Possiamo considerare queste riunioni come sedi in cui i conflitti, raccolti in fase emergente dagli operatori, sono elaborati unilateralmente dall’organizzazione dando ai singoli membri il mandato di riportarne la posizione condivisa. La ricerca di soluzioni pragmatiche sembra il criterio che guida la composizione di situazioni in cui la diversità culturale può emergere come chiave interpretativa in maniera più o meno plausibile.
Per meglio spiegare come sia possibile adottare una modalità esplorativa e trasformativa che sveli i rapporti gerarchici insiti nella relazione di aiuto, mi sembra utile illustrare un esempio e proporre alcune domande che gli operatori possono addestrarsi a porre a se stessi e ai componenti del gruppo di lavoro in un’ottica circolare. La situazione è descritta in una nota di campo relativa a un’osservazione di una riunione di équipe dello sprar di Laganadi (la maggior parte degli operatori sono gli stessi dell’équipe di Sant’Alessio):
La psicologa sostiene che H. ha un problema di percezione rispetto al conflitto con Y., parla di delirio di persecuzione. K., l’assistente sociale, continua: durante il laboratorio sulla genitorialità si è parlato del modo in cui le mamme usano il tempo con i propri bambini ma Y. «si metteva al cellulare». Le assistenti domiciliari affermano che H. non vuole stare con i bambini. Interviene il presidente e suggerisce che forse nella loro esperienza non è solo la madre a occuparsi dei propri figli ma un’intera comunità. Ognuno parla liberamente e a turno, tutti ascoltano con attenzione. L’insegnante di italiano ricorda che la scorsa volta non ha potuto fare lezione perché H. e Y. avevano litigato. A questo punto vorrebbe fare una lezione con H. e una con Y. Riferisce inoltre che Y. ha chiesto un incontro con il presidente per potergli parlare di H. Interviene la psicologa e suggerisce di evitare di far fare la lezione insieme. Il presidente annuisce e continua a osservare gli altri mentre scambiano le loro opinioni stando in silenzio. Appena tutti terminano di discutere ricorda: «Noi abbiamo sempre in sospeso l’ipotesi del trasferimento». Richiama un altro litigio in cui H. e un’altra beneficiaria «si sono prese per i capelli in strada». Tutti parlano con il vicino di sedia e contemporaneamente. Poi la psicologa risponde al telefono e così il presidente. La riunione finisce e le operatrici di Laganadi vanno via.
Quella presentata è una situazione molto complessa, che si sviluppa in un tempo lungo in cui le beneficiarie sono ospiti di un progetto rivolto a soggetti cosiddetti «vulnerabili»: nel caso specifico, donne singole con minori a seguito. Volendo usare gli strumenti di lettura proposti da Galtung, gli operatori avrebbero potuto elencare gli attori sociali in gioco (conflict formation), quelli immediatamente visibili e quelli più nascosti, ma anche quelli ostili o meno evidenti; avrebbero poi potuto procede alla definizione dello spazio del conflitto (conflict arena): è sempre utile scegliere una situazione precisa. Dove è accaduto l’evento? Quando è successo? Come si è evoluto? Per arrivare poi a determinare i tre angoli dell’ABC triangle:quali sono le emozioni, i valori, i fondamenti – direbbe la Patfoort- (attitudes); qual è il motivo del litigio? Qualè la risorsa limitata per cui si discute? (contradictions);cosa hanno fatto e detto gli attori sociali in gioco? (behaviour).
Tutto questo avrebbe potuto, forse, aiutare Y. e H. ma anche gli operatori (che svolgono una funzione di mediatori e facilitatori) a esplorare il conflitto e a trovare quella che Galtung chiama «una formula sia/sia» (Galtung, 2008, p. 37) che non sia necessariamente una rinuncia o un compromesso ma piuttosto una soluzione creativa e allo stesso tempo sostenibile per tutte le parti in causa: «il conflitto è trasformato perché abbiamo modificato e ruotato un po’ gli obiettivi. Se questa trasformazione è accettata, e in più è sostenibile possiamo parlare di “soluzione”» (Galtung, 2008, p. 37).
L’esempio appena riportato fa intravedere le possibilità che si aprirebbero se si riuscisse a problematizzare in chiave conflittuale la relazione di aiuto tra operatori e beneficiari adottando uno sguardo globale sulle équipe degli sprar: leggere la diversità dell’altro in termini funzionali al suo adattamento al contesto in cui dovrà vivere dopo l’uscita dal Sistema governativo è qualcosa di molto difficile e a volte insostenibile per gli operatori. Se partiamo dal presupposto che la relazione di aiuto è un rapporto asimmetrico in cui l’operatore ricopre un ruolo «Maggiore» (per mandato istituzionale) nei confronti del beneficiario che invece è «minore», a questo si associano la responsabilità e il peso quasi quotidiano di scegliere ciò che è giusto per un altro (dilemma) che in un momento particolare della propria vita non ha tutti gli strumenti conoscitivi per valutare. La relazione di aiuto genera negli operatori senso di impotenza, conflitto con se stessi (frustrazione e interiorizzazione).
Gli operatori svolgono un ruolo strategico e politico nella riproduzione sociale dei meccanismi di oppressione che spesso vivono coloro che vengono accolti nei servizi e che, di fatto, finiscono per introiettare un immaginario caratterizzato da logiche assistenziali e di dipendenza che però può essere decostruito in un rapporto di reciprocità con la contestuale rielaborazione dei propri stereotipi e pregiudizi da parte degli operatori (Siebert e Floriani, 2010). Coloro che sono stati intervistati nonostante vivano la frustrazione del trasfert burocratico (Tarsia, 2010) che, in alcuni casi, si genera con i rifugiati scontenti, avvertono la responsabilità di dover mediare i rapporti tra i beneficiari e un esterno molto eterogeneo (cittadini, commercianti, funzionari di altri uffici). Sanno che la reputazione personale e della cooperativa è una garanzia necessaria per attivare rapporti di lavoro o contratti di affitto o anche opportunità di socializzazione e provano, anche se non in tutti i progetti e non sempre con la stessa intenzionalità, a trovare lo spazio di riflessione sulle dinamiche di aiuto e sorveglianza che si generano e sui meccanismi di autopoiesi che si perpetuano nel sistema.
Lo sprar è uno spazio in cui la rappresentazione che gli operatori sociali proiettano sui beneficiari dei servizi determina il quadro di significati in cui la relazione di aiuto si costruisce mediante, l’interpretazione del bisogno e la proposta dell’intervento da adottare (Sen e Nussbaum, 1993; Dominelli, 2005; Sennett, 2004). Se è vero che gli attori sociali (Goffman, 2003; 2009; 2013) hanno il potere di nominare ed etichettare, la costruzione e l’implementazione di un habitus (Bourdieu, 2003, 2009) di ricerca come anche la consapevolezza di quello che Giddens (1979) chiama «doppio processo ermeneutico» possono portare alla luce i meccanismi di oppressione nella relazione fra operatori e utenti e attivare invece percorsi di consapevolezza e di rottura seppure in condizioni di «razionalità limitata» (Boudon, 1985, p. 63).
Gli operatori si trovano coinvolti in un quadro ricco di potenzialità conflittuali. I migranti non sono i soli «portatori di differenze». Ci sono in gioco professionalità in via di formazione e profili più definiti e queste condizioni diverse possono convivere nello spazio di uno stesso servizio. Ci sono saperi e stili relazionali che derivano da diversi campi d’esperienza: il contesto sociale dei piccoli centri in cui i servizi sono situati e reclutano parte del personale, l’università, la militanza politica e associativa. Ci sono aspetti più sottili legati alla polarizzazione dell’opinione pubblica sul tema delle migrazioni, che coinvolgono gli operatori in termini non prevedibili.
È proprio partendo dallo sprar come spazio sociale eterogeneo ancora in via di istituzionalizzazione (Alberoni, 2014) che si può progettare con gli operatori una formazione orientata a sostenere il conflitto e interrogarlo come risorsa euristica. L’implementazione della sensibilità interculturale (Bennett, 2003) è strettamente connessa alla capacità di esplorare il conflitto nelle sue potenzialità trasformative ed emancipatorie (Patfoort, 2006; Galtung, 2010).
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Note
1 I nomi dei testimoni privilegiati sono fittizi. Ringrazio tutti gli operatori e i coordinatori dei servizi sprar per la generosa collaborazione. Alcune utili intuizioni sono maturate nei focus group didattici organizzati con gli studenti di Servizio sociale dell’Università di Messina, sede di Modica-Noto, e dell’Università Dante Alighieri di Reggio Calabria. Grazie a MC. Albano e A. Tuzza per aver condiviso la conduzione di alcuni focus e la riflessione sui risultati.
2 «Quando i clienti cercano aiuto, di solito si trovano in una posizione vulnerabile; hanno relativamente poco potere, il che è spesso legato al motivo per cui hanno bisogno di aiuto. La prospettiva dei punti di forza tende a una relazione di potere equilibrata tra operatori sociali e clienti, rafforzando la competenza del cliente e quindi mitigando il senso di asimmetria. Per minimizzare lo squilibrio di potere tra operatore sociale e cliente, è anche importante fare della valutazione un'attività congiunta in cui l’operatore indaga, ascolta e aiuta il cliente a scoprire, articolare e chiarire mentre il cliente orienta il contenuto della valutazione. Una relazione positiva tra l’operatore sociale e il cliente è un elemento chiave nel processo di sostegno». Traduzione dell’autrice.
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ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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