Riflessioni e teorie / Thoughts, theories, analysis
Trasformazione dell’universo in multiverso. La transculturalità come pratica d’inclusione
Transformation of the universe into multiverse. Transculturalism as a practice of inclusion
Raffaele Tumino
Nato ad Acarigua (Venezuela) il 25 maggio 1959, laureato in filosofia nel 1992, cum laude e dignità di stampa della tesi, presso l’Università degli Studi di Catania; dottore di ricerca nel 2000 in Modelli di formazione, analisi teorica e comparazione presso l’Università degli Studi di Cosenza, è attualmente Professore Associato di Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli Studi di Macerata, Dipartimento di Scienze della formazione, Beni Culturali e Turismo
Autore per la corrispondenza
Raffaele Tumino
Indirizzo e-mail: raffaelino.tumino@unimc.it
Università degli Studi di Macerata, Dipartimento di Scienze della formazione, Beni Culturali e Turismo (Piazzale Luigi Bertelli – Contrada Vallebona 62100 Macerata)
Sommario
Il passo cruciale da compiere nelle pratiche di inclusione è cogliere la sostanziale costruzione transculturale e meticcia delle nostre identità. Richiamandosi alla letteratura antropologica e pedagogico-filosofica sul tema, con una particolare attenzione all’etno-antropologia, il contributo intende richiamare l’attenzione alla necessità di abbandonare un modello monolitico di cultura, per adottarne uno transculturale, che vede la cultura come profondamente permeata dal meticciamento e dall’ibridazione. In questo modo è possibile cogliere le «identità migranti» come storie da narrare a sé e agli altri, generando pratiche d’inclusione discorsive e relazionali che consentano di creare spazi sociali inediti e condivisi.
Parole chiave
transculturalità, interculturalità, meticciamento, identità, alterità.
Abstract
The crucial step to be taken in inclusion practices is to grasp the substantial cross-cultural, mixed building of our identities. Referring to anthropological and pedagogical-philosophical literature on the subject, with particular attention paid to ethno-anthropology, the paper intends to draw attention to the need to abandon a monolithic model of culture and to adopt a transcultural one, which sees culture as deeply permeated by intertwining and hybridisation. In this way it is possible to grasp "migrant identities" as stories to be narrated both to oneself and to others, generating discursive and relational inclusion practices that allow new and shared social spaces to be created.
Keywords
transculturality, interculturality, mingling, identity, otherness.
Divenire plurali, sfidare l’esterno, «sviare» per l’altrove.
Perché non c’è apprendimento senza esposizione, spesso pericolosa, all’altro.
Non saprò mai più chi sono, dove sono, donde vengo, dove vado, per dove passare!
(M. Serres, Il mantello di Arlecchino, pp. 28-29)
Un itinerario romano tra identità migranti e memorie transculturali
Pomeriggio romano, il cielo si ritrae improvvisamente, fragoroso, gravido di minacce, ventre gonfio di acqua. Sprovvisto di ombrello, impavido, mi incammino tra le vestigie del passato imperiale. Ho come fidi compagni di viaggio un fotogiornalista romano, Rino Bianchi, e una scrittrice somala, Igiaba Sciego, e la loro guida: Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città (2014). Una guida sui generis, singolare, inusuale, con foto in bianco e nero, perché se, da un lato, la scelta risponde a un’esigenza artistica, dall’altro assume un valore simbolico quasi a mostrare la distanza dalla società globalizzata, incapace di riconoscere il vissuto comune rievocato dalle persone ritratte: «il soggetto delle fotografie di Rino non diventa mai oggetto, ma vive […] rimanendo soggetto, ovvero portatore della propria storia e della propria anima. Un soggetto che rivendica la storia del suo dolore rappresentata dai monumenti di un colonialismo dimenticato» (Bianchi e Sciego, 2014, p. 135). Una sorta di riscrittura della storia per parole e immagini attraverso la riappropriazione simbolica di alcuni spazi fondamentali.
Percorro quartieri, vie, piazze, costeggio viali, monumenti ed edifici romani di un passato imperialista riuscendo a osservarli con quello «sguardo nuovo sul mondo» (Gualtieri, 2015, p. 43) che costituisce una peculiarità delle scritture dell’Africa e dall’Africa e che mi permette di cogliere significati altri, ignorati o dimenticati. Spazi noti da de-costruire, da riconsiderare a partire dallo sguardo dell’altro e non più da celebrare solamente come ce li ha consegnati quella storia millenaria di cui siamo stati noi i fautori. Tale binocularità dello sguardo fa trasudare questi usuali luoghi di altri significati.
Piazza di Porta Capena: il luogo del non detto in riferimento alla campagna di Etiopia durante il fascismo. La stele di Axum: portata in Italia come bottino di guerra è stata solo da alcuni anni restituita all’Etiopia. Il cinema Impero a Tor Pignattara: edificio che risale al colonialismo di epoca fascista, costruito nel 1938 per celebrare l’Impero italiano, chiuso nel 1983. Infine, Piazza dei Cinquecento: antistante alla stazione Termini, svela una connessione con una delle precedenti fasi coloniali, in omaggio ai caduti italiani di Dogali nel 1887 cui inneggia anche la stele di Via delle Terme di Diocleziano. Ma questa piazza è ridefinita in senso postcoloniale come la piazza dei migranti, la piazza babilonia dove convivono culture e lingue diverse: «È questo il vero ombelico di Roma, quasi più del Colosseo, qui dove in una Babele folle le lingue si intrecciano e si contaminano con la lingua di Dante. […] i cinquecento citati nel nome della piazza sono i cinquecento caduti di Dogali. Non so bene quando l’ho scoperto. Forse l’ho sempre saputo. E forse anche per questo, per un caso fortuito della vita, è diventata la piazza dei somali, degli eritrei, degli etiopi e anche di tutti gli altri migranti. Una piazza postcoloniale suo malgrado, quasi per caso. Perché è qui che la storia degli italiani in Africa orientale è stata cancellata» (Bianchi e Sciego, 2014, p. 68).
«Figlia del Corno D’Africa e figlia dell’Italia», quale si definisce, Sciego ribadisce la volontà e il dovere di ricordare. La stessa Italia deve ridefinirsi e recuperare una parte di sé, della propria storia dimenticata, affermare anch’essa la propria molteplicità, accettare la «sfida che emerge da una complessità rimossa» (Chambers, 2003, p. 133). «Solo prendendosi in carico il passato si può costruire un paese davvero meticcio, un paese dove l’individuo venga valutato in quanto essere umano e non in quanto stereotipo» (Sciego, in Bianchi e Sciego, 2014, p. 125). Occorre diventare consapevoli dei meccanismi di rimozione, manipolazione e sfruttamento; superare particolarismi; sconfiggere pregiudizi e stereotipi; costruire una memoria condivisa in grado di rielaborare in modo critico il passato; iniziare sul serio a comprendere che l’identità è fatta di alterità e che non dobbiamo avere paura di perdere l’identità, perché queste non sono altro che forme di divenire (Maalouf, 2005, p. 35).
Da vicine lontananze sopraggiungono il marocchino Bouchane (1991), il tunisino Methnani (2006), i senegalesi Pap Khouma, (1994) e Moussa Ba (2008), il moldavo Lilin (2009), l’algerino Lamri (2009), gli albanesi Kubati (2007) e Ibrahimi (2012); il togolese Komla-Ebri (2003): scrittori forse meno noti ma non meno significativi nell’avere facilitato innesti tra le culture, nell’avere ricordato (senza rancore) la storia del colonialismo, nell’avere aperto nuovi orizzonti di senso. La loro odissea, vissuta e narrata, ha squarciato il buio delle periferie urbane e dei quartieri dormitori, ha smascherato la natura dei pregiudizi, ha fatto barcollare la nozione di identità e di appartenenza culturale, ed è riuscita a conferire tanti nomi all’amore e alla speranza.
Chi potrà dividere – aggiungo – nella cultura italiana, con precisione da ragioniere, il peso lordo, la tara e il netto? Tutta la letteratura migrante e quella postcoloniale (Sayad, 2002; Gnisci, 2003; Chevrier, 2004; Mellino, 2012; Ianniciello e Quadraro, 2015), fonti preziose per questo contributo, è una letteratura contrassegnata dal meticciamento, di identità ibride e composite, che arricchisce, ubi consistam, il nostro sguardo sul mondo, sugli altri.
Mescolare le identità
Meticcio deriva dal tardo latino mixtīcius, mescolare, e questo, a sua volta, probabilmente, dal francese, métis. Meticciato come capacità di integrare le molteplici appartenenze, le molte individualità di cui ciascuno è formato. «In ogni uomo e donna si incontrano molteplici appartenenze, che a volte si contrappongono tra loro e lo costringono a scelte penose. Se ciascuno di questi elementi, cosiddetti identitari, può riscontrarsi in un gran numero di individui, non si trova mai la stessa combinazione in due persone diverse. Ed è proprio ciò che fa sì che ogni essere sia unico e insostituibile» (Maalouf, 2005, p. 29). C’è già, in questo, un’affermazione potentissima ed è una testimonianza importante perché viene da un immigrato e ci dice che noi siamo tutti, indipendentemente dalle culture, delle identità composite, soprattutto oggi, in una società sempre più caratterizzata da ibridazioni e meticciati.
Anche per Bodei, «la natura della identità non è quella di unico filo, ma piuttosto d’una corda lentamente e pazientemente intrecciata». A suo parere occorre rifuggire dal rischio di proporre una «gerarchia tra le culture» sia di quello complementare di «metterle sullo stesso piano» (Bodei, 1992, pp. 45-51).
Meticciamento, dunque, come coesistenza non necessariamente pacifica delle diverse identità culturali, come moltiplicazione dei dialoghi interni, come lavoro di ascolto e di integrazione dei differenti sé. L’ascolto dell’alterità interna rappresenta un iter formativo che favorisce l’edificazione di un’identità più ricca e articolata, capace di integrazione, e non di esclusione, delle diverse visioni di umanità elaborate dalle varie culture. In tal senso, il valore educativo della transculturalità sta nello sfidare ogni tendenza monolitica dell’identità invitandola ad accogliere l’altro, compiendo un pari lavoro di accoglienza verso gli “altri” interni. Di più, per usare luoghi molto noti della riflessione di Lévinas, è un invito a partire non dal Sé, ma dall’Altro, in quanto questo non è mai appropriabile né assimilabile. È l’Altro che «mi parla e così mi invita a una relazione» (Lévinas, 1980, pp. 205-206), non io che invito l’Altro. L’atteggiamento da tenere nei confronti dell’altro è quindi quello dell’ospitalità. Ciò richiede poi, parallelamente, come si diceva, di trovare lo spazio per metterci in ascolto e accogliere la presenza dell’altro.
Uno spettro si aggira per l’Europa…
Le ultime note possono sembrare giacobine in un contesto segnato dalla globalizzazione capitalistica che, dietro la retorica del villaggio globale, genera anche nel ricco Occidente crescenti disuguaglianze e sacche di disagio in cui matura l’ostilità verso gli immigrati e il cui atteggiamento monoculturale, basato sulla tecnoscienza, ostacola l’instaurarsi di un autentico dialogo con l’Altro. L’immigrato extracomunitario continua ancora a essere lo spettro che s’aggira per l’Europa, uno spettro che agita timori, paure, sospetti, fobie razziste (Taguieff, 1994, p. 38). Che non sia uno spettro, perché ha un corpo, un nome (Abdelmalek, Jahlil, Khaled, Amin, Demir, Sepideh, Untel), è un dato acquisito (faticosamente acquisito!) dai centri (o dai recinti?) di accoglienza, dai servizi socio-sanitari e scolastici di primo intervento.
La stessa designazione di «extracomunitario» assume valore emblematico dei riduzionismi e degli annullamenti delle specificità e delle alterità, accomunando, in negativo, popoli asiatici e africani, latino-americani ed europei orientali, islamici, induisti e confuciani, e ancora gli atei e i fondamentalisti, alleati tradizionali e nemici storici delle categorie onnicomprensive della tradizione eurocentrica: quella di non far parte della Comunità Europea e della cultura ellenico-giudaica-cristiana (Taguieff, 1994, pp. 39-42). La teoria evoluzionista dello sviluppo progressivo funge ancora da paradigma esplicativo unificante le differenti determinazioni di flussi emigratori dal XV secolo all’attuale società post-industriale: l’immigrato extracomunitario continua insomma ad essere percepito dall’immaginario sociale non per la sua alterità culturale e simbolica, ma per la sua differenza economica di sviluppo storico, precedente, primitivo; pertanto sottosviluppato o in via di sviluppo (Latouche, 1992, p. 73).
La recente letteratura antropologica, oscillante tra un «discorso autentico sulla rilevazione» e una «descrizione classificatrice della diversità» (Affergan, 1991, p. 11), ha dimostrato a più riprese che come non c’è una società primitiva in sé, così non c’è in sé un popolo-in-via-di sviluppo, pertanto non c’è in sé un Paese del Terzo mondo. Esistono particolari e diverse società primitive (particolari e diversi Paesi sottosviluppati del Terzo mondo) che presentano l’una all’altra (l’uno all’altro) differenze paragonabili a quelle che si esibiscono nei confronti dell’Occidente tecnologicamente avanzato e perciò moderno, progredito, civile. Oggi però, quando ogni città occidentale si avvia a diventare un concentrato delle differenze del mondo, l’immigrazione viene egualmente oggettivata e le sue fondamentali differenze interne vengono appiattite e rimosse ancora in nome della «emancipazione». Con stile «occidentale» si riconoscono razionalmente solo le differenze quantitative, giustappunto differenziali, piuttosto che farsi carico delle particolarità qualitative, delle appartenenze, delle identità specifiche, delle alterità.
La relazione con l’alterità, declinata secondo modalità al contempo conflittuali e dialogiche (lungo il corso della storia umana), riproposta con maggiore forza dall’esistere contemporaneo, mette in dubbio le tradizionali categorie di pensiero dell’Occidente. I flussi migratori attuali ci pongono di fronte a un dato di fatto: «C’è un’invasione di segni, segnali, eventi, problemi, condizioni, di cui si fa diretta esperienza, non fosse altro che come “invasione” della complessità, di “troppa” e “troppa poco” complessità al tempo stesso» (De Bernart, 1993, p. 37). L’eterogeneità della fenomenologia culturale è resa ulteriormente inestricabile dall’ingresso di sempre nuovi soggetti portatori e creatori di cultura, comportando una pressione costante a mutare, a tradurre quello che eravamo prima in nuovi codici e nuove forme di relazione in cui sono messi in discussione categorie attraverso cui si cercava di distinguere il cittadino dal barbaros, affermando le peculiarità del primo in virtù della sua «appartenenza» a uno Stato-nazione, a una etnia, a una «maggioranza», a una comunità stanziale.
L’irruzione e la penetrazione del mondo occidentale (del suo immaginario, del suo sofisticato impianto comunicativo) nelle culture altre sono state tali da provocare in esse lo spaesamento, la perdita delle radici, delle tradizioni, del modo di essere e di esistere tra cielo e terra, tra le cose umane e quelle divine.
Dall’interculturale al transculturale
Tali riflessioni appaiono non solo opportune, ma anche urgenti e indispensabili nella formazione della professionalità e finanche nell’atteggiamento di quanti operano negli ambienti educativi, sociali e medici, contrassegnati dal multiculturalismo. Anche «se per incanto si riuscisse a risolvere tutti i problemi della scuola, della salute, della casa, dei servizi, l’integrazione rimarrebbe ancora un obiettivo utopico senza una svolta culturale» (Scorcia Amoretti, 2011, p. 229-230, corsivo dal testo).
Se poniamo attenzione ai nuovi comportamenti che l’adattamento alla «globalizzazione» richiede e che all’educazione è chiesto di far acquisire, si può avere l’impressione che siano prevalsi (e continuano a prevalere) le esigenze del mondo occidentale che, di per se stesso, risulta estraneo ai valori che fondano l’originalità di altre regioni e di altre culture del mondo.
Marcien Towa (1981; 2007), a cui si devono pregevoli studi sulle pratiche amministrative europee in fatto di immigrazione, rileva che l’unica possibilità concessa alle altre culture per sopravvivere all’incontro con il Pantagruel occidentale passa per la negazione di sé: «negare se stessi, mettere in questione l’essere stesso del sé, europeizzarsi profondamente […], negare il nostro essere intimo per diventare l’Altro […], mirare espressamente a diventare come l’Altro, simile all’Altro, e in tal modo non colonizzabile da parte dell’Altro» (Towa, 2007, pp. 61-72).
La sperimentazione compiuta dai Paesi europei alla ricerca della miglior forma di convivenza possibile con la «diversità» sembra avere messo in luce i limiti di soluzioni ritenute in passato auspicabili e incoraggiate. Caduti i modelli dell’assimilazione e dell’integrazione (Cfr. Demetrio e Favaro, 1992, pp. 24-28) rivelandosi arduo (e forse ormai improponibile) quello del crogiuolo multiculturalista (Gibson, 1976, pp. 7-18; Sleeter e Grant, 1987, pp. 421-444; Banks, 1993, pp. 234-267; Lanzillo, 2006, pp. 157-172), la via interculturale rimane quella da seguire per affrontare il nuovo cosmopolitismo documentato dalle migrazioni e dai contatti e dagli scambi culturali che esse attivano.
Ma dopo quasi trent’anni dalla formulazione dell’interculturalità nei programmi della Comunità Europea (Rey, 1986, pp. 35-47; Perotti, 1986, pp. 72-93), dopo tante sperimentazioni e un’ingente produzione pedagogica e didattica sotto il segno dell'interculturalità, sono fin troppo noti i fenomeni di disagio e di esclusione che continuano a vivere gli immigrati a cui si aggiungono quelli di adattamento che i figli della migrazione hanno vissuto e stanno ancora vivendo quando debbono il più rapidamente possibile mutare e, al contempo, conservare, per non perdere lingua e consuetudini che li legano alla famiglia (Cesareo, 2015, p. 7; Tarozzi, 2015, pp. 210-212). Per tale ragione è quasi superfluo ricordare che tali tracce, negli ancor pochi privilegiati che transitano alle superiori (optando le ragazze e i ragazzi nati qui o immigrati per l’inserimento lavorativo o, tutt’al più, per la formazione professionale), sono vistose e penalizzanti. Tutto ciò sembra debba far parte del patto di ammissione proposto agli immigrati: un patto di subalternità e marginalità, con vincoli pesanti alla loro «emancipazione». La linea di confine che gli immigrati non possono varcare è stabilita dal «reticolo» di norme di carattere sociale, culturale, finanche professionali: l’integrazione ha le sue regole!
Senza voler screditare i meriti di questo paradigma pedagogico, che ha operato contro la discriminazione, rigettando l’etnocentrismo e incoraggiando un’etica di riconoscimento e rispetto della differenza (Zoletto, 2012, pp. 31-33), ed è servito, nella sua pratica educativa, a ottenere diritti, servizi e spazi fondamentali in favore dei figli degli immigrati (Deluigi, 2012, pp. 115-145), bisogna comunque riconoscere i limiti di tale paradigma a fronte delle criticità sopra accennate. Ritengo che questo dipenda dalle aporie e dalle acrisie interne alla pedagogia interculturale e principalmente dal non avere sciolto un nodo gordiano: qual è l’immagine di «cultura» che sostiene un’idea, una ricerca, un progetto, una proposta che si definisce interculturale? Non è pleonastico ricordare che le radici della «pedagogia interculturale» affondano in Europa e che l’immagine della cultura (e la sua veicolazione) è quella dell’Occidente. Il suo raggio d’azione, rileva acutamente Demorgon (2003), è ancora occidentale, locale, le relazioni coinvolgono l’interpersonale più che la responsabilità societale, si orientano direttamente verso il pragmatismo cooperante piuttosto che verso la ridefinizione dei rapporti.
Da diversi fronti, ancora, è stata rilevata la matrice determinista e fortemente identitaria del concetto di cultura che soggiace nell’interculturalità. Il concetto tradizionale di cultura, caratterizzato dall’omogeneizzazione sociale, dalla consolidazione etnica e dalla delimitazione interculturale (Hannerz, 1996, p. 36; 1997, pp. 117-141; Welsch, 1999, pp. 194-196) risulta inadeguato di fronte alla molteplicità di interconnesioni culturali sempre più fitte e complesse del processo di globalizzazione e transnazionalizzazione. In un contesto multiculturale che coinvolge l’intero ecumene, i prestiti, gli incontri, i conflitti e le contaminazioni tra persone, popoli e culture si moltiplicano e oggi più che mai si rivela improponibile la concezione chiusa dei sistemi culturali, i quali da sempre si nutrono di ibridazioni e di scambi.
La dimensione che viviamo è quella della frammentazione, del mosaico; per dirla con un termine francese, è quella del métissage. Abitiamo tutti in una terra di frontiera e dovremmo, di conseguenza, pensare seriamente di agire, educare e formare, in una terra di frontiera. Il passaggio da una linea di confine a terra di frontiera (concetto ripreso dai border studies) fa guardare diversamente le culture, le diverse esperienze, i valori e le strategie di sopravvivenza di quanti abitano, presidiano e attraversano le terre di frontiere. Rispetto a una linea di confine dove si deve per forza restare o di qua o di là, in una terra di frontiera ci si trova più spesso nel mezzo, senza poter dire se si è più da una parte o dall’altra, sentendoci anzi un po’ qui e un po’ là (Anzaldúa, 1987, pp. 23-34; Cometa, 2004, pp. 86-96; Clifford, 2008, pp. 74-82).
Al di là delle difficoltà incontrate nella diffusione di un progetto come quello interculturale, non è quindi peregrino chiedersi se, alla base delle quante buone intenzioni della proposta dell’interculturalità, non sarebbe il caso di bandire la pedagogia interculturale o semplicemente procedere a una variazione di paradigma, ad una diversa concezione delle relazioni tra culture e individualità. Ecco allora emergere il senso della «scommessa pedagogica» della transculturalità. Se nei settori psicologici e psichiatrici l’attributo transculturale è ormai scientificamente consolidato (basti pensare alla psichiatria transculturale), anticipando (e persino superando) la concezione interculturale, tale approccio in campo pedagogico, dopo un generale sospetto e una iniziale resistenza, inizia ad essere accolto e praticato.
Sin dagli inizi del nuovo millennio, Duccio Demetrio, poneva alcuni punti di domanda sull’attività interculturale promossa dagli specialisti e nella scuola che meritano ancora una particolare attenzione: «Quante migliaia e migliaia di cittadini immigrati sono infatti loro stessi all’oscuro di tradizioni, forme d’arte, filosofie del loro paese natio in quanto entità nazionale? […] Quante volte, infatti, grazie a una didattica attenta alla declinazione interculturale dei saperi, i bambini, i ragazzi e le ragazze immigrati hanno appreso del loro paese d’origine cose che non avrebbero imparato nelle loro scuole?» (Demetrio, 2003, p. 177). Da questi interrogativi, Demetrio enunciava le linee del suo «neouniversalismo esistenzialista» che consiste nel promuovere autentiche relazioni tra culture riconducendole ai grandi temi della soggettività individuale: l’amore, la sofferenza, la morte, il conflitto, la dimensione religiosa, la dimensione estetica, che prescindono dalla loro collocazione, letteralmente dalla loro declinazione locale (Demetrio, 2003, pp. 178-179).
In tempi coevi alla proposta di Demetrio e all’edizione in lingua inglese dell’opera di Wolfgang Welsch, di cui presto tratterò, la Santelli Beccegato, da attenta osservatrice, faceva osservare: «Comincia a delinearsi la dimensione della transculturalità in quanto creazione di un nuovo comune progetto che va oltre le culture esistenti. Con transculturalità […] si intende evidenziare la tensione verso una visione dell’uomo e del mondo unitaria e omnicomprensiva, in grado di superare ogni segmentazione, ogni confine fisico, mentale, espressivo […]. È uno sforzo di riflessione e di progettazione di grande rilevanza dove si trovano i problemi del presente e gli sviluppi educativi e sociali di un prossimo futuro in cui la presenza di alunni di diversa nazionalità sarà, prevedibilmente, sempre più numerosa» (Santelli Beccegato, 2005, p. 176).
In questo momentaneo richiamo storico, ma spero significativo, come non ricordare l’approccio transculturale nelle relazioni di aiuto di Alain Goussot: un sapere/agire educativo che ha tra le sue fonti di ispirazione l’umanesimo etnologico di Ernesto De Martino, l’antropologia interpretativa di Clifford Geertz e l’etnopsichiatria di Georges Devereux, riconoscendo a Goussot il merito di aver fatto conoscere per la prima volta in Italia l’opera e l’attività di Devereux (Goussot, 2014a). L’approccio ermeneutico interviene nel vissuto dell’immigrato volto a riconoscere la sua storia personale che è anche la nostra storia, un processo che ci costringe continuamente a ridefinirci continuamente e a scoprire i processi meticci e di cambiamento che si formano durante l’esperienza storica. Il lavoro educativo, in questa prospettiva, riduce drasticamente le azioni riparatrici, assistenzialiste, ghettizzanti, ma anche la medicalizzazione della sofferenza dell’immigrato, del diverso (Goussot, 2012, pp. 229-250; Goussot, 2015, pp. 35-43).
Richiami e moniti che continuano ad agire nella riflessione critica sull’interculturalità congiuntamente alla presenza sempre più consistente di bambini, di allievi e allieve con background migratorio nelle scuole, all’eterogeneità dei contesti educativi e sociali. Chiara e perentoria è Ivana Padoan che in un recente intervento dichiara: «diventa quasi impossibile separare la prospettiva interculturale dal transculturale. Porre il problema dell’intercultura oggi significa vedere attraverso il cannocchiale della transcultura la dimensione “trancontestuale” della società attuale che coinvolge le nostre azioni dall’etica all’economia, dai soggetti alle comunità agli stati […] La casa della transcultura può diventare la base sicura da cui partire, proprio perché sarà in sé la condizione della maggior parte dei soggetti e delle comunità […] L’educazione ha tutto da guadagnare mettendosi in una prospettiva transculturale: può permettersi di intervenire senza la necessità di dominio culturale su altre forme. Per la sua interdisciplinarietà, l’istruzione può aiutare l’educazione a diventare transculturale mettendo in atto diverse strategie di conoscenza, pratiche, imparando dai saperi degli altri» (Padoan, 2017, p. 187).
La transculturalità va oltre i confini stabiliti dalle culture nazionali, razziali, professionali e di “genere”, superando la chiusura delle loro tradizioni, delle determinazioni linguistiche e dei valori che il paradigma interculturale ancora presuppone e che la transculturalità è in grado di dirimere.
Nella direzione di compiere un ulteriore passaggio senza ritorno, le questioni inerenti alla proposta transculturale sollecitano un ulteriore sforzo di chiarificazione.
La transculturalità secondo Welsch
Come è stato chiarito dallo stesso Welsch, principale teorico (1999, pp. 4-10), il termine transculturality non è nuovo. Fu usato per la prima volta come transculturazione nel 1940 dal sociologo cubano Fernando Ortiz, nel suo studio sociologico Contrapunteo Cubano del Tabaco y el Azúcar nel contesto di uno studio sulla cultura afro-cubana per descrivere il processo di selezione e di rielaborazione inventiva di una cultura dominante da parte di un gruppo subordinato o marginale, comprendendo in questo modo i processi di creolizzazione che vengono studiati nell’ambito degli studi comparativi delle letterature contemporanee (Ortiz, 1940/1982). Successivamente il termine riappare in varie discipline accademiche negli anni Novante, principalmente nell’ambito tedesco e francofono.
Flechsig, a tale proposito, sottolineò la differenziazione precoce e pedagogica tra multiculturale e transculturale nell'educazione cosmopolita già affrontata da Traugott Schöfthaler nel 1984 (Flechsig, 2003a, p. 57); Eckerth e Wendt riportano che il primo utilizzo del termine è stato nel 1990 nell’apprendimento della seconda lingua con riferimento all'uso di apprendimento transculturale per migliorare l'apprendimento interculturale (Eckerth e Wendt, 2003a, p. 12). Welsch parla di una rete e anzi, come variante più culturale, di un progetto di rete (Netzwerk-Design) che egli formula per prendere le distanze dalle raffigurazioni del filosofo Herder di singole culture come isole autonome, ciotole o altrimenti bolle. Scrive lo stesso Welsch (2002): «La pluralità, nel suo senso tradizionale delle singole culture, sta diminuendo [...]. Invece, un diverso tipo di pluralità di stili di vita diversi cresce, secondo un progetto transculturale. [...]. non più riguardo a specifiche geografiche o nazionali, ma piuttosto nel regno dello scambio culturale. A questo proposito, sono appena diventati veramente [...] culturali le nuove formazioni culturali. Ciò si traduce anche nel mondo, nella sua interezza, adottando un disegno di rete piuttosto che un progetto di separazione» (trad. mia).1
Attraverso questa metafora «design by network», Welsch visualizza la «nuova struttura [...] delle culture attuali» (Welsch, 2003, trad. mia).2 Secondo Welsch queste culture si «intrecciano» e si «caratterizzano fortemente attraverso la loro sincresi» (trad. mia).3 Esiste «assolutamente nulla di straniero che rimane al loro interno nella misura in cui ciò che è originale e ciò che è estraneo sono diventati indistinguibili» (trad. mia).4 «Siamo mongoli culturali»: con questo Welsch significa che l'uomo oggi è «determinato da diversi background e relazioni culturali» (trad. mia).5 Il concetto di transculturalità di Welsch designa le società in cui sempre più individui hanno contatti personali e che forniscono una vasta gamma di discorsi (sub-) culturali, che avvengono anche via internet. Come la sfida culturale del ventunesimo secolo, Welsch presenta la sua visione come «l'intreccio di nuove reti transculturali» (trad. mia).6 Crede che sia necessario che, in futuro, i fili per questa rete debbano venire dalle formazioni transculturali che esistono già oggi.7 Welsch adatta il termine di transculturalità allo scopo di «ibridare le culture esistenti, cioè i loro reciproci livelli di integrazione tra la popolazione e la circolazione di merci e informazioni» (Eckerth e Wendt, 2003b, trad. mia).8
Se il concetto di interculturalità si basa sulla premessa di entità solide che sono la premessa teorica per qualsiasi scambio «tra le culture», il paradigma transculturale differisce nel fatto che il suo obiettivo è l'esatto opposto: abbattere le entità, spostarsi oltre i confini lasciandoli indietro introducendo variazioni nei limiti o convertendoli per liberare il loro potenziale. Welsch si fa ispirare nelle sue considerazioni da una citazione di Wittgenstein: «bisogna considerare che il mondo non «cammina in una linea retta ma in maniera sinuosa, in continua evoluzione» (Welsch, 2003, trad. mia).9 Tali continui cambiamenti di direzione generano un tipico slancio per la transculturalità che produce direttamente quelle «nuove relazioni» spontanee. Tale formazione di relazioni implica che le culture non sono date oggettivamente, ma piuttosto costruite da specifici contesti discorsivi. La transculturalità esiste ben al di là delle implicazioni di una complessità culturale; postula la commensurabilità di tutte le culture, sia in senso collettivo che individuale. Questo è precisamente ciò che genera il transculturale: una trasversalità culturale da ciò che in origine era una semplice gerarchia.
A causa dei sempre più elevati livelli di internazionalizzazione, migrazione e reti crossmediali, «esiste una costante necessità di una reciproca vitalità e negoziazione dei significati dell’interazione sociale e linguistica» (Eckerth e Wendt, 2003b, trad. mia).10 Questo vale per tutte le persone sia a livello sociale che personale. In questo modo, vengono modellate nuove «forme transculturali di stili di vita interdipendenti» (Welsch, 2002, trad. mia):11 questi hanno sostituito le culture individuali e tradizionali che esistevano in precedenza. Il variegato stile di vita degli individui, la loro routine quotidiana, il loro comportamento come architetti delle proprie biografie, la loro autoinvenzione e i loro metodi di interazione sociale sono, per Welsch, un oggetto di ricerca e l'incarnazione di una nuova comprensione della cultura etichettata sotto il termine di transculturality.
Welsch cerca di eliminare l'oscurità prodotta dai contenuti vaghi del dialogo interculturale. Il prefisso trans, connotato dinamico, rappresenta, in questo contesto, un orientamento al di là del tipo di dicotomia suggerito dalla divisione interculturale statica, in bianco e nero, in amici e nemici, che fortifica l'idea di sé e dell’altro. La transculturalità rivela questo modello di pensiero come problematico e cerca di trascenderlo attraverso tentativi di confutare le rappresentazioni di identità stabili che per lungo tempo hanno dubitato della loro legittimità e di confutare l'omogeneità e la coerenza di culture e generi proponendo, invece, una topografia di spazi in mezzo.
Altro aspetto non meno importante, correlato a questa condizione della transculturalità, è la proposta di Welsch di una patria che si possa scegliere individualmente. Nel suo significato postmoderno, la trasgressione implica la messa in discussione di confini, norme e modelli di ordine. Nella definizione di transculturalità di Welsch, la «patria» deve supportare le decisioni individuali riguardanti l'appartenenza multipla; per cui la nozione di patria nel senso tradizionale legato allo spazio è obsoleta. Sta diventando il caso che sempre più persone scelgono la propria appartenenza. Le persone possono trovare la loro vera patria lontana da quella in cui sono nate. Nelle parole di Horkheimer e Adorno: «La patria è uno stato di fuga [...] Quindi patria non è una categorizzazione naturalmente innata o immutabile, ma piuttosto una scelta culturale e umana» (Welsch, 2003, trad. mia).12
Welsch, facendo leva sulla smaterializzazione dei confini nazionali e sulle connessioni globali, pensa una società mondiale caratterizzata da un’intersoggettività culturalmente ibridata ab origine. Tuttavia lo studioso non tiene conto, come fa invece e a ragione Fornet-Betancourt, dell’importanza dell’approccio interculturale come momento preparatorio alla prospettiva transculturale. Scrive, infatti, Betancourt (2006): «Per questo occorre precisare che l’interculturalità come prospettiva per mondializzare l’universalità non si oppone alla scelta della transculturalità dei soggetti, ma piuttosto la facilita, dal momento che è la condizione per la transitabilità delle culture» (p. 99).
Se, da una parte, è vero che l'interculturalità rimane uno snodo fondamentale per costruire la transitabilità delle culture, più problematica rimane per la prospettiva interculturale, la mondializzazione dell'universalità, dal momento che, in una prospettiva interculturale, la relazione-opposizione tra le culture corre il rischio di eleggere ad universale la narrazione teorica, storica ed etica del più forte, giacché, non dimentichiamolo, è sempre dentro le maglie del pensiero occidentale che si generano la maggioranza degli strumenti concettuali di cui serve l’interculturale. La transculturalità designa una volontà di interagire a partire dalle intersezioni piuttosto che dalle differenze e dalle polarità, una consapevolezza del transculturale che c’è in noi per meglio comprendere e accogliere ciò che è fuori di noi, una visione che privilegia la flessibilità, il movimento e lo scambio continuo, la rinegoziazione continua dell’identità.
Le identità come storie. Uno strumento per gli operatori
La transculturalità respinge l'omogeneità, la rigidità e la coerenza di culture e di generi, mette in evidenza il processo di ibridazione tra le culture generando a sua volta nuove forme creole e imprevedibili. Il variegato stile di vita degli individui, la loro routine quotidiana, il loro comportamento come architetti delle proprie biografie, la loro auto-invenzione e i loro metodi di interazione sociale costituiscono l'incarnazione di una nuova comprensione delle culture. Una naturale ermeneutica capace di svelare i condizionamenti, ma anche la possibilità di riappropriazione della storia personale. Non è un caso che la transculturalità affondi le sue radici nell’antropologia, nell’etnopsichiatria e nella psichiatria transculturale, ovvero di quelle scienze centrate sul nesso tra cultura, personalità e sviluppo psicologico (Devereux, 1972; Inghilleri, 1994; Nigris, 1999; Moro, De La Noe, 2009; Beneduce, 1998; 2007; Mazzetti, 2003).
La premessa era necessaria per introdurre Devereux e Nathan e nell’economia del presente lavoro non posso che accennare in modo significativo e in linea con gli assunti della ricerca. La teoria e la tecnica etnopsichiatriche di Devereux possono sicuramente dare un sostegno validissimo nell’incontro con l’altro, del migrante, un incontro caratterizzato dal riconoscimento, dalla reciprocità, dall’inclusione, votato all’effettivo inserimento.
Rapportarsi ai problemi dell’immigrazione significa avere a che fare con storie. Occorre abbandonare per sempre un’idea univoca di identità abbracciando un paradigma pedagogico centrato sulla narrazione. Credo che sia emerso con sufficiente chiarezza nell’incontro con la letteratura migrante e postcoloniale.
Devereux (1975; 1980) e Nathan (1986; 1994; 2001) intendono la narrazione, anche quella autobiografica, in termini squisitamente educativi. Essa è uno strumento di holding per ricollocare gli eventi in un ordine temporale dotato di senso dopo aver esperito la sofferenza, di controllo della crisi e delle manifestazioni di perdita. Nell’esperienza migratoria, specie se forzata e accompagnata da eventi traumatizzanti, il racconto e la memoria possono costituire un valido momento di organizzazione dei progetti e dei desideri a lungo termine, spesso bloccati o infranti dagli accadimenti. È proprio la pratica del racconto che consente di co-costruire assieme al migrante il significato della violenza migratoria, controllandone così gli effetti devastanti e le crisi reiterate che non trovano possibilità di contenimento.
Va sottolineato che il setting è a questo proposito molto importante in quanto il significato della migrazione, rinarrato, diventa un prodotto sociale e socialmente distribuito.
La pratica del racconto e la co-costruzione dei significati offre al migrante la possibilità di utilizzare il rituale come dispositivo. Tale dispositivo consente di ripensare lo sradicamento e il trauma che ne è derivato non in isolamento, ma nel contesto della narrazione, favorendo il restauro di uno sguardo sul mondo sociale e culturale delle persone. La salute mentale del migrante e la sua psiche si avvantaggiano gradualmente dell’incrementale capacità di realizzare una storia di sé coerente e probabile, che tenga conto delle molteplici connessioni di senso che legano i mondi personali e culturali, nel paese di arrivo e nel paese di provenienza. La narrazione tiene dunque conto di queste molteplici connessioni e definizioni di realtà, includendo mondi visibili e invisibili, rituali del paese di origine per mettere il soggetto educando in una posizione di vantaggio nei confronti del paese di accoglienza, e del viaggio migratorio. Quando questi incontri si sono realizzati è possibile parlare di «narrazione formativa» nel senso che il significato della migrazione viene creato nel racconto stesso tramite la «narrativizzazione» della migrazione dove l’azione del soggetto prende forma (in seguito i valori culturali e le relazioni sociali del Paese di accoglienza collocheranno l’individuo e il suo personale percorso migratorio all’interno di riferimenti etici locali).
L’orientamento etno-sistemico-narrativo nella clinica (Losi, 2004) ne rappresenta uno sviluppo e una specificazione. Da questa prospettiva assumono importanza gli artefatti, la memoria storica e culturale, e tutti quei sistemi di informazione, dalla famiglia alle istituzioni, dalla religione all’arte, che stanno fuori dal soma e dalla psiche individuali, fonte di apprendimento cognitivo e di sviluppo affettivo in situazioni di cambiamento (Inghilleri, 1994).
A conclusioni analoghe giunge Goussot quando propone nelle scuole un laboratorio didattico sul viaggio, sulla storia dell’emigrazione (italiana e non) tramite i racconti, le storie, le esperienze, le testimonianze e gli scrittori. Una preziosa fonte per una azione educativa che valorizzi le similitudini e le diversità (Goussout, 2014b).
Lo spazio del racconto è l’unico, il più vero e affettivo luogo pedagogico dell’accoglienza, del riconoscimento. In un porto, in un centro, in una comunità, in un’aula, dove possano prender forma e maturare le radici del pensiero e della speranza. Tre sono i requisiti che rendono qualsiasi occasione di incontro con donne e uomini spaesati, con e per i loro figli, un luogo significativo:
-
la possibilità di raccontare, o scrivere, di sé in assoluta libertà e spontaneità;
-
la possibilità di poter sviluppare, ampliare, arricchire il racconto;
-
la possibilità di lasciare a se stessi e ad altri noti o sconosciuti un messaggio che possa essere raccolto e diffuso.
Si istituisce, in tal modo, una triangolarità ideale, un luogo abitato di parole inventate o trovate per descrivere il mondo e descriversi, nella speranza di essere poi ri-descritti da chi ha ascoltato o ha letto. Si costruisce così quello che Demetrio chiama uno «spazio autobiografico» (Demetrio, 1996) rassicurante, avalutativo, ristrutturante. Parlare e parlarsi da soli o con altri infatti incoraggia a non temere il giudizio altrui e consente a ciascuno indipendentemente dall’origine e dalla lingua a ritessere l’involucro della propria (solo questa) identità ferita, offesa, dispersa, dalla migrazione, dallo spaesamento, dalla rinuncia al racconto in luoghi dove il proprio idioma non è compreso.
Il racconto, nella forma del diario, dell’autobiografia, delle storie di vita (Demetrio, 1996; 2008; 2012), la letteratura della migrazione, con la quale ho esordito, la dimensione estetica, nelle infinite forme di rappresentazione del Sé e degli Altri, delle relazioni tra il Sé e gli Altri (dalla letteratura alla musica, al cinema), possono offrire la possibilità di comprendere meglio i meticciamenti culturali che ordiscono le trame esistenziali di tutte le individualità e definire di volta in volta le nostre pratiche di inclusione (Santerini, 2008; Cuconato, 2017; Wulf, 2018; Tumino, 2012; 2017; 2018).
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Note
1 «Plurality, in its traditional sense of individual cultures is dwindling [...]. Instead, a different kind of plurality of different life-styles grows, according to a transcultural blueprint. [...] yet no longer concerning geographic or national specifications, but rather in the realm of cultural exchange. In this regard, they have only just become truly cultural [...]. The new cultural formations This also results in the world, in its entirety, adopting a design by network rather than a design by separation» (pp. 34-37).
2 «new structure [...] of current cultures» (p. 19).
3 «they strongly characterize through their syncresis» (pp. 19-20).
4 «absolutely nothing foreign remains within them to the extent that what is original and that which is foreign have become indistinguishable» (pp. 21-22).
5 «determined by different backgrounds and cultural relationships» (p. 23).
6 «the interweaving of new transcultural networks» (p. 31).
7 «I believe that the threads for this network must come from the transcultural formations that already exist today» (p. 38)
8 «to hybridize existing cultures, ie their mutual levels of integration between the population and the circulation of goods and information» (p. 11).
9 «We must consider that the world does not walk in a straight line but in a sinuous, constantly evolving» (p. 13).
10 «there is a constant need for a reciprocal vitality and negotiation of the meanings of social and linguistic interaction» (p. 23).
11 «transcultural forms of interdependent lifestyles» (p. 57).
12 «The homeland is a state of escape [...] So homeland is not a naturally innate or immutable categorization, but rather a cultural and human choice» (p. 40).
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ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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