Test Book

Studi e ricerche / research studies

Workaholism: cosa c’è di nuovo?
Workaholism: What’s new?

Yura Loscalzo

Scuola di Psicologia, Dipartimento di Scienze della Salute, Università degli Studi di Firenze

Marco Giannini

Scuola di Psicologia, Dipartimento di Scienze della Salute, Università degli Studi di Firenze



Sommario

Questa rassegna si propone di analizzare le pubblicazioni scientifiche degli ultimi anni sul workaholism, al fine di evidenziare eventuali aree da approfondire relative alla sua concettualizzazione, alle sue conseguenze, ai suoi antecedenti e agli interventi per il suo trattamento e la sua prevenzione. È emerso che una definizione condivisa è ancora assente, nonostante le nuove concettualizzazioni e i nuovi strumenti di misura proposti. Inoltre l’analisi degli antecedenti organizzativi è un’area di ricerca ancora poco sviluppata, così come quella relativa al trattamento e alla prevenzione della dipendenza da lavoro. Si conclude quindi che al momento sia necessario stabilire una definizione condivisa che possa permettere una conoscenza maggiormente accurata del fenomeno del workaholism.

Parole chiave

workaholism; antecedenti; conseguenze; trattamento; dipendenza.


Abstract

This review aims to analyse the latest scientific publications on workaholism, in order to identify possible areas to examine regarding its conceptualisation, its consequences, its antecedents and interventions for its treatment and its prevention. We found that a shared definition is still lacking, despite the new conceptualisations and the new instruments proposed. Furthermore, the analysis of organisational antecedents is still an understudied research area, as is that relating to the treatment and prevention of addiction to work. We can conclude that currently it is necessary to establish a common definition that would allow more accurate knowledge of the phenomenon of workaholism.

Keywords

workaholism; antecedents; outcomes; treatment; addiction.


Il workaholism (dipendenza da lavoro) è una dipendenza comportamentale che non è classificata nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013). Come unica categoria diagnostica relativa alle nuove dipendenze è stato inserito soltanto il Disturbo da Gioco d’Azzardo. Dipendenze comportamentali quali la dipendenza da sesso, da esercizio fisico o da acquisti non sono state inserite nel capitolo del Manuale relativo ai Disturbi Correlati a Sostanze e Disturbi da Addiction a causa della scarsa presenza di letteratura basata su evidenze scientifiche che consentisse di definire in modo corretto i criteri diagnostici e il decorso di questi comportamenti (APA, 2013).

Un caso clinico, che può essere utile presentare ai fini di una comprensione intuitiva del workaholism, è quello di Raluca, una giovane ragazza dedita al lavoro per quasi 24 ore al giorno, single, con pochi amici e con un peso estremamente basso, che venne trovata morta nel suo appartamento nel 2007 (Gheorghiţa, 2014). Il caso di Raluca non è isolato, dato che studi recenti hanno individuato una prevalenza dell’8.3% in un campione di lavoratori norvegesi (Andreassen et al., 2014) e del 10% negli Stati Uniti (Sussman, Lisha, & Griffiths, 2011). In Italia la dipendenza da lavoro sembrerebbe caratterizzare anche gli adolescenti (Vilella et al., 2011).

Si tratta quindi di una dipendenza comportamentale diffusa e la cui analisi, se guidata da un unico riferimento concettuale condiviso dai ricercatori, potrebbe favorire una miglior comprensione delle sue caratteristiche, del suo decorso e delle strategie efficaci sia a livello preventivo che clinico.

L’obiettivo della presente rassegna è quello di evidenziare, mediante l’analisi della letteratura scientifica degli ultimi anni, quali sono le aree del workaholism da approfondire, perché scarsamente studiate nonostante la vasta quantità di ricerche presenti sull’argomento. Verranno quindi presentate le recenti evidenze relative alla definizione di workaholism, alle sue conseguenze e ai suoi antecedenti e ai trattamenti sviluppati.

Cos’è il workaholism?

Come per le altre dipendenze comportamentali, anche la letteratura sul workaholism è carente relativamente alle evidenze scientifiche, sebbene abbia ricevuto notevole attenzione da parte dei ricercatori a partire dagli anni ‘70, quando Oates (1971) ne dette una prima definizione. Egli definì il workaholic, in analogia con la dipendenza da alcool, come una persona che sente una compulsione a lavorare in modo prolungato, nonostante le conseguenze negative sulla sua salute e sulle sue relazioni interpersonali. A partire dagli anni ‘70 sono state proposte molte definizioni, di cui alcune solo teoriche e non validate sperimentalmente e senza che tra i ricercatori venisse adottata una concezione condivisa di questo costrutto. In questo modo è stata ottenuta una conoscenza dispersiva del fenomeno, invece di una conoscenza condivisa. Le definizioni proposte variano da quelle unifattoriali a quelle multifattoriali. Mosier (1983), facendo riferimento alla sola dimensione comportamentale, definisce il workaholic come colui che lavora almeno 50 ore alla settimana; Spence e Robbins (1992) propongono invece una definizione basata su tre elementi: il workaholic è colui che ha un forte coinvolgimento nel lavoro, sente una compulsione interna a lavorare e trae scarso piacere dal lavoro. Una seconda definizione multidimensionale, più recente, è quella di Schaufeli, Shimazu e Taris (2009), che hanno definito il workaholism come caratterizzato da due elementi: lavorare eccessivamente e lavorare compulsivamente.

Da un’analisi della letteratura recente si evidenzia non solo l’assenza di accordo in relazione alla definizione di questo costrutto, ma anche relativamente alla natura internalizzante o esternalizzante del workaholism. Griffiths e Karanika-Murray (2012) ad esempio hanno proposto di considerarlo una dipendenza caratterizzata dagli aspetti tipici delle altre forme di addiction quali l’alcolismo e la tossicodipendenza (i.e. salienza, tolleranza, modificazione dell’umore, ricaduta, astinenza, conflitto e problemi); Balducci, Cecchin, Fraccaroli e Schaufeli (2012) hanno rilevato nei workaholics l’aggressività sul lavoro, ovvero una caratteristica tipica della personalità di Tipo A. Altri autori, invece, hanno focalizzato l’attenzione su aspetti caratteristici della personalità ossessiva come il perfezionismo (Stoeber, Davis, & Townley, 2013; Tziner & Tanami, 2013).

Parallelamente a queste diverse concettualizzazioni, sono stati proposti anche numerosi strumenti. Tra questi, i più utilizzati, sono il Workaholism Battery (Spence & Robbins, 1992), il Work Addiction Risk Test (Robinson, 1989) e il Dutch Work Addiction Scale (Schaufeli et al., 2009). Dal momento che il costrutto è stato operazionalizzato in modi diversi, Andreassen, Hetland e Pallesen (2014) hanno evidenziato, mediante analisi psicometriche, che questi tre test non hanno validità convergente. In anni recenti, tuttavia, la proposta di nuovi strumenti non è diminuita. Con riferimento al workaholism come dipendenza, sono stati costruiti ad esempio il Work Craving Scale (Wojdylo, Baumann, Buczny, Owens, & Kuhl, 2013) e il Workaholism Analysis Questionnaire (Aziz, Uhric, Wuensch, & Swords, 2013). Questi strumenti pubblicati negli ultimi anni potrebbero far pensare a un trend verso la definizione del workaholism come una dipendenza. In realtà, recentemente, sono state proposte anche concettualizzazioni più complesse. È stato proposto ad esempio il modello teorico Heavy Work Investment (HWI; Snir & Harpaz, 2012), secondo cui un elevato investimento nel lavoro è definito da due elementi: tempo e impegno nel lavoro. Inoltre, Snir e Harpaz (2012) hanno proposto di considerare il workaholism come un sottotipo disposizionale dell’HWI, ovvero dovuto a fattori interni all’individuo, in particolare alla dipendenza da lavoro. Definiscono inoltre l’esistenza di altri tre sottotipi disposizionali, in cui predomina la passione per il proprio lavoro (work-devoted), l’evitamento dell’intimità e delle relazioni (intimacy-avoiders) o la ricerca nel lavoro di un’alternativa al tempo libero, vissuto come noioso (leisure-low-interested) e due sottotipi situazionali, il cui comportamento è dovuto a fattori esterni alla persona, come la necessità economica di lavorare (needy) o le richieste da parte del dirigente (employer-directed). In linea con questa visione del workaholic come un sottotipo di lavoratore fortemente impegnato nell’attività lavorativa, che implica il riconoscere che non tutti i lavoratori con elevato impegno e investimento nel proprio lavoro sono necessariamente workaholics, uno studio empirico ha dimostrato come analizzando la combinazione tra work engagement e workaholism emergessero tre profili: workaholic employees, engaged employees, engaged workaholics (van Beek, Taris, & Schaufeli, 2011). Sebbene questo studio non rappresenti una validazione della classificazione dei lavoratori proposta da Snir e Harpaz (2012) e prenda in considerazione solo gli aspetti interni alla persona, è in accordo con quest’ultimo nell’evidenziare che non tutte le persone che lavorano molte ore sono necessariamente dipendenti. Inoltre questo studio sottolinea l’importanza di distinguere un tipo positivo di workaholism da uno negativo, in quanto evidenzia la presenza di lavoratori che, seppur dipendenti, presentano anche aspetti di soddisfazione e di energia nel loro lavoro (engaged workaholic). Astakhova e Hogue (2014) hanno invece fatto riferimento al modello biopsicosociale, sostenendo che i fattori biologici, psicologici e sociali interagiscono definendo tre tipi di HWI in un continuum: workaholic HWI, HWI situazionale, pseudo HWI. Griffiths e Karanika-Murray (2012) sottolineano infine l’importanza di spiegare il workaholism (come tutte le altre dipendenze) facendo riferimento non solo alle caratteristiche disposizionali ma anche a quelle strutturali e situazionali relative al lavoro.

In conclusione, quello che emerge è che in letteratura le proposte di definizione per il workaholism, così come gli strumenti per la sua misura, sono aumentate e che ancora non esiste una concettualizzazione condivisa.

Conseguenze del workaholismsull’individuo e sull’organizzazione

Molti studi negli ultimi anni hanno analizzato l’impatto che il workaholism può avere sia sulla persona che sul suo ambiente familiare e lavorativo. La maggior parte dei ricercatori però, nonostante lo studio di van Beek et al. (2011) abbia evidenziato come il workaholism possa essere associato anche ad aspetti positivi, come il work engagement, hanno preferito una visione unicamente negativa del costrutto, senza analizzare quindi il diverso effetto sulla salute dell’individuo e sull’organizzazione dei diversi tipi di workaholism, ad esempio, associati o meno a work engagement. Van Beek et al. (2011) infatti hanno individuato la presenza di workaholics, ma anche di engaged workaholics, evidenziando inoltre come i primi siano caratterizzati da livelli più elevati di burnout rispetto agli engaged workaholics, i quali a loro volta hanno livelli più elevati di burnout rispetto agli impiegati engaged.

Per quanto riguarda le conseguenze sulla persona, molti studi hanno evidenziato un minor benessere e un maggior deterioramento della salute nei workaholics (Avanzi, van Dick, Fraccaroli, & Sarchielli, 2012; Shimazu, Schaufeli, Kamiyama, & Kawakami, 2015; Simbula & Guglielmi, 2013; Wojdylo, Baumann, Fischbach, & Engeser, 2014). Più nello specifico, sono stati evidenziati maggior burnout (Innanen, Tolvanen, & Salmela-Aro, 2014), stress psicologico più elevato (Shimazu, Demerouti, Bakker, Shimada, & Kawakami, 2011), problemi relativi al sonno (Andreassen, Hetland, Molde, & Pallesen, 2011; Caesens, Stinglhamber, & Luypaert, 2014; Kubota, Shimazu, Kawakami, & Takahashi, 2014), umore depresso (Matsudaira et al., 2013; Wojdylo et al., 2013), dolore debilitante alla schiena e assenze per malattia, soprattutto a causa di problemi relativi alla salute mentale (Matsudaira et al., 2013). Inoltre, prendendo in esame aspetti personali relativi al lavoro, sono stati riportati bassa soddisfazione lavorativa (Caesens et al., 2014; Simbula & Guglielmi, 2013; van Beek, Taris, Schaufeli, & Brenninkmeijer, 2014), minor percezione di equità (Simbula & Guglielmi, 2013) e minor percezione di sufficienti ricompense (Innanen et al., 2014), che quindi supportano un minor benessere sul luogo di lavoro. Alcuni studi hanno esaminato anche l’impatto del workaholism sulla famiglia. In particolare, applicando il modello spillover-crossover, è stata evidenziata una relazione positiva tra la dipendenza da lavoro e il conflitto work-to-family (Andreassen, Hetland, & Pallesen, 2013; Bakker, Shimazu, Demerouti, Shimada, & Kawakami, 2014; Shimazu et al., 2011). Inoltre, Shimazu et al. (2011) hanno riportato che i mariti di donne con dipendenza da lavoro esperiscono con maggior probabilità il conflitto family-to-work, a differenza delle mogli di uomini con workaholism. Quindi, le donne con questa dipendenza comportamentale hanno un impatto negativo sia sul proprio funzionamento lavorativo e familiare che su quello del marito.

Si può concludere, sulla base di questi studi, che la letteratura recente ha confermato l’effetto negativo del workaholism sia sulla persona stessa, che sui suoi familiari. Gli studi relativi agli effetti sull’organizzazione hanno evidenziato invece sia aspetti negativi (in maggioranza) che alcuni aspetti positivi. Gli studi recenti hanno individuato un livello minore nelle prestazioni lavorative (Falco et al., 2013; Gorgievski, Moriano, & Bakker, 2014; Shimazu et al., 2015; van Beek et al., 2014), maggiori assenze dovute a malattia (Falco et al., 2013), minori comportamenti di cittadinanza organizzativa (Choi, 2013), comportamenti aggressivi sul luogo di lavoro (Balducci et al., 2012) e una maggiore intenzione di turnover (van Beek et al., 2014). Alcuni studi però riportano effetti positivi del workaholism sull’organizzazione. Per quanto riguarda il turnover, Choi (2013) individua una relazione negativa con il workaholism, a differenza quindi di van Beek et al. (2014). Inoltre, Gorgievski et al. (2014) hanno riportato un effetto positivo di questa dipendenza sul comportamento innovativo, mentre Andreassen et al. (2014) sull’intelletto/immaginazione. Si potrebbe ipotizzare che la presenza sia di effetti positivi che negativi riportati da questi studi potrebbe essere dovuta a una definizione di workaholism che non considera (e quindi non distingue) i diversi tipi di lavoratori con alto investimento nel lavoro. A livello speculativo, potremmo proporre che gli studi che hanno evidenziato effetti positivi avevano un maggior numero di engaged workaholics tra i partecipanti, mentre le ricerche che supportano un’associazione negativa potrebbero essere caratterizzate da un maggior numero di workaholics. Si conferma quindi l’utilità di analizzare il diverso impatto dei tipi di workaholics sulle conseguenze personali e per l’organizzazione.

Antecedenti organizzativi del workaholism

Dal momento che gli effetti negativi sulla persona e sulla sua famiglia sono molti e supportati da numerose ricerche e che, sebbene alcuni studi abbiano evidenziato anche aspetti positivi per l’organizzazione, il workaholism si associa altresì a effetti negativi sull’organizzazione, a fini preventivi e clinici è utile capire quali sono gli aspetti inerenti l’organizzazione stessa che potrebbero favorire lo sviluppo o il mantenimento di questa dipendenza comportamentale. Negli ultimi anni gli studi sugli antecedenti sono stati numerosi ma l’attenzione è stata rivolta soprattutto ai fattori personali; l’unico studio ad aver esaminato un antecedente organizzativo, ovvero le elevate richieste lavorative, è quello di Rezvani, Bouju, Keriven-Dessomme, Moret e Grall-Bronnec (2014), che ha evidenziato una correlazione positiva tra workaholism e richieste lavorative. Anche nell’area dei fattori personali, quelli relativi ad aspetti lavorativi sono scarsi rispetto a quelli relativi all’individuo, come motivazione, aspetti cognitivi e tratti di personalità (e.g. Andreassen, Ursin, Eriksen, & Pallesen, 2012; Bovornusvakool, Vodanovich, Ariyabuddhiphongs, & Ngamake, 2012; Stoeber et al., 2013; Tziner & Tanami, 2013; van Beek et al., 2014; Van Wijhe, Peeters, & Schaufeli, 2011, 2014). Uno studio interessante è quello di Avanzi et al. (2012), che ha individuato una relazione curvilinea con l’identificazione organizzativa: con l’aumento del livello di identificazione il workaholism decresce ma con un’eccessiva identificazione questo aumenta. Per quanto riguarda invece la self-efficacy, mentre Del Líbano, Llorens, Salanova, e Schaufeli (2012) hanno rilevato un’associazione positiva tra questa variabile sia con il work engagement sia con il workaholism, Falvo, Visintin, Capozza, Falco e De Carlo (2013) hanno evidenziato l’assenza di una relazione significativa tra workaholism e self-efficacy. Infine, poiché lo studio di Caesens et al. (2014) ha evidenziato che il supporto sociale percepito dai colleghi di lavoro può ridurre la dipendenza da lavoro, un potenziale antecedente potrebbe essere la presenza di scarso supporto percepito.

Uno studio che presenta importanti implicazioni preventive è quello di Mazzetti, Schaufeli e Guglielmi (2014) che mostra come la coscienziosità e la self-efficacy siano caratteristiche personali associate al workaholism ma solo se il lavoratore percepisce un clima organizzativo che favorisce l’elevato impegno lavorativo; la motivazione alla realizzazione e il perfezionismo, invece, hanno sia un effetto dato dall’interazione con il clima organizzativo che un effetto diretto sul workaholism. Questo è il primo studio a proporre e verificare un’interazione tra caratteristiche personali e fattori ambientali e fornisce uno stimolo a considerare l’importanza non solo dei fattori organizzativi nel favorire lo sviluppo o il mantenimento del workaholism, ma anche a valutare come essi interagiscono con i fattori personali. In quest’ottica sono necessari non solo studi sugli antecedenti organizzativi ma anche sui fattori personali, già ampiamente studiati, che dovrebbero essere rivalutati mediante l’analisi dell’interazione con i fattori ambientali.

Interventi preventivi e clinici per il workaholism

Anche l’area degli interventi si presenta scarsamente studiata. Le proposte terapeutiche, ad oggi, sono tutte teoriche e non validate sperimentalmente. L’unica eccezione è rappresentata dallo studio di Shonin, van Gordon, e Griffiths (2014) che ha verificato l’efficacia della mindfulness in un caso di workaholism. Si tratta però di uno studio che necessita di repliche, possibilmente applicando il protocollo mindfulness non a una sola persona ma a un gruppo di partecipanti con workaholism. Per quando riguarda gli interventi preventivi, nessuno studio recente ha proposto dei programmi nemmeno a livello teorico. Alcuni contributi utili a fini preventivi provengono dallo studio di Mazzetti et al. (2014) che ha evidenziato l’opportunità di agire sul clima organizzativo al fine di prevenire lo sviluppo di workaholism, dal momento che i risultati del loro studio hanno dimostrato un’interazione tra fattori personali e organizzativi nel favorire questa dipendenza.

Conclusioni

Da questa rassegna è possibile concludere che negli ultimi anni sono stati pubblicati molti studi sul workaholism, ma che molti aspetti sono ancora poco studiati e una definizione condivisa di workaholism sia ancora assente. Quest’ultimo sembra il problema principale poiché, in assenza di una concettualizzazione condivisa di questo costrutto, non è possibile sviluppare una conoscenza cumulativa del fenomeno, con il risultato che nonostante la presenza di molte ricerche, non è ancora possibile stabilirne aspetti caratteristici e supportati scientificamente, cui potrebbe far seguito il riconoscimento del workaholism come disturbo e la sua classificazione all’interno del DSM.

Per quanto riguarda le aree poco studiate, dall’analisi degli studi recenti si evidenzia l’assenza di studi sugli antecedenti organizzativi, i quali potrebbero essere opportunamente modulati a fini preventivi e dovrebbero quindi essere approfonditi. Inoltre, in base a quanto emerso dallo studio di Mazzetti et al. (2014), sarebbe utile analizzare i fattori personali in interazione con quelli organizzativi, al fine di distinguere quali hanno un effetto sul workaholism mediante l’interazione con fattori ambientali e quali invece hanno anche un effetto diretto su di esso. Inoltre, per quanto riguarda gli effetti del workaholism sull’individuo e la sua famiglia, gli studi degli ultimi anni hanno confermato le numerose implicazioni negative, ma non hanno analizzato le possibili differenze nelle dimensioni analizzate tra i diversi tipi di lavoratori fortemente impegnati, che secondo lo studio di van Beek et al. (2011) presentano diversi livelli di burnout: più elevato nei workaholics rispetto agli engaged workaholics, i quali a loro volta presentano però livelli più elevati rispetto ai lavoratori engaged. Sarebbe quindi auspicabile che studi futuri sull’impatto della dipendenza da lavoro considerassero la possibilità dell’esistenza di diversi tipi di lavoratori. Questo potrebbe aiutare a capire anche il motivo per cui alcuni studi hanno evidenziato conseguenze positive per l’organizzazione (innovazione, creatività) mentre altri hanno riportato effetti negativi.

Infine, è evidente l’assenza di studi di validazione di interventi clinici (ad eccezione di uno studio su caso singolo volto a valutare l’efficacia della mindfulness) e di proposte di interventi preventivi per il workaholism, nonostante la notevole attenzione ricevuta da questa dipendenza comportamentale a partire dagli anni ’70 e i numerosi studi che ne dimostrano le conseguenze negative sia sull’individuo che sulla sua famiglia e, seppur al momento ambivalente, anche sull’organizzazione.

In conclusione, si ritiene necessario fare un passo indietro nello studio del workaholism. Dagli studi più recenti, infatti, sembrerebbe non essere presente la volontà da parte dei numerosi ricercatori interessati all’argomento di valutare sperimentalmente le nuove proposte di concettualizzazione del fenomeno che, sebbene più complesse, come ad esempio quelle ispirate (seppur in modi diversi da un autore all’altro) al modello Heavy Work Investment, potrebbero favorire una miglior comprensione sia degli antecedenti che delle conseguenze del workaholism. Pensiamo quindi che, prima di procedere a ulteriori studi sui suoi effetti e sui fattori predisponenti, sia necessaria la condivisione di un modello teorico di riferimento che ne consenta una definizione univoca e, contemporaneamente, fornisca utili implicazioni per lo sviluppo di interventi clinici e preventivi, possibilmente da implementare nell’ambiente lavorativo.

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