Ci viene insegnato, fin dalla più tenera età, a obbedire agli ordini: gli ordini dei nostri genitori, dei nostri insegnanti, dei nostri capi, delle istituzioni. Siamo ben ricompensati quando obbediamo e puniti in caso contrario. Ma ci viene insegnato anche a rispettare una certa etica, un certo senso della giustizia, un apprendimento che ci incoraggia segnatamente a comportarsi in modo fraterno verso il prossimo. Ora, l’obbedienza e il rispetto di questa etica sono a volte contraddittori: gli ordini che noi riceviamo possono opporsi alle regole morali che abbiamo interiorizzato. Quale atteggiamento adottare di fronte a una tale contraddizione? Cosa pensano in particolare i giovani, coloro che, alunni, studenti, saranno presto responsabili delle decisioni di un’impresa o di una nazione? Le poste in gioco individuali e sociali derivanti da questa contraddizione normativa possono solo incoraggiare l’autoriflessione, la riflessione sulle norme organizzative e, più in generale, sulle norme sociali. Dopo una presentazione dettagliata della letteratura sul tema della giustizia e dell'obbedienza organizzativa, questo studio, condotto su studenti della provincia di Salerno, che è anche terra di immigrazione, pone più precisamente la questione di obbedienza a ordini che esaltano la discriminazione nei confronti degli stranieri.
Introduzione teorica
I ricercatori e gli operatori che si occupano di risorse umane si interessano da lungo tempo alla giustizia organizzativa (Colquitt, Greenberg, & Zapata-Phelan, 2005; Cropanzano, Bowen & Gilliland, 2007). In effetti, il sentimento di giustizia/ingiustizia influenza numerose condotte professionali (Colquitt, Conlon, Wesson, Porter, & Ng, 2001; Cropanzano & Greenberg, 1997; El Akremi, Nasr, & Camerman, 2006). Questo aspetto gioca sulla soddisfazione lavorativa (Di Fabio & Bartolini, 2009; McFarlin & Sweeney, 1992), sull’intenzione di dimettersi (Aryee, Budhwar, & Chen, 2002; Greenberg, 1988, 1995), sull’impegno organizzativo (Di Fabio & Bartolini, 2009; Folger & Konovsky, 1989) sulle prestazioni lavorative (Chang & Dubinsky, 2005; Fields, Pang, & Chiu, 2000; Konovsky & Cropanzano, 1991; Miles & Klein, 1998; Shaw, Gupta, & Delery, 2002) sui comportamenti di cittadinanza organizzativa (Moorman & Byrne, 2005), sulla resistenza al cambiamento (Shapiro & Kirkmann, 1999), ecc.
La giustizia organizzativa è generalmente concepita come composta da tre elementi (Cropanzano, Byrne, Bobocel, & Rupp, 2001; Konovsky, 2000): la giustizia distributiva (che si riferisce alla distribuzione delle risorse: vedere Cropanzano & Greenberg, 1997; Folger 1987; Leventhal, 1976), la giustizia procedurale (che si occupa di processo decisionale per quanto riguarda le promozione e le remunerazioni: vedere Leventhal, 1980; Lind & Tyler, 1988; Thibaut & Walter, 1975), e la giustizia interazionale (Bies 2001; Bies & MOAG, 1986). Quest’ultima è generalmente considerata costituita da due assi: un’asse interpersonale (che si occupa del rispetto e cortesia nei confronti dei dipendenti: Folger e Cropanzano, 1998) e un asse di informazione (che si riferisce alla giustificazione delle pratiche e delle decisioni: Bobocel e Zdaniuk, 2005; Colquitt e Shaw, 2005). Tuttavia, ricordiamo che alcuni lavori (ad esempio Colquit 2001) argomentano l’esistenza di quattro fattori, considerando l’asse centrale interpersonale e informativo come due dimensioni a parte e non come due assi della giustizia interazionale.
Gales e Barzantny (2000) sottolineano che la ricerca sulla giustizia distributiva (GD) comporta due aspetti analitici. Il primo, dal punto di vista di chi riceve le risorse distribuite, per esaminare la sua percezione della giustizia e le conseguenze comportamentali (soprattutto in termini di prestazioni) di questa percezione (Cowherd & Levine, 1992; Hulin, 1991; Pfeffer & Langston 1993; Sweeney & McFarlin Inderieden, 1990). Il secondo si interessa della persona che decide l’allocazione e della sua scelta in termini di regola distributiva (Cropanzano & Greenberg, 1997; Deutsch, 1975; Kabanoff, 1991; Leventhal, 1976; Skitka & Telock, 1992). I teorici della giustizia distributiva (Deutsch, 1975, 1985; Leventhal, 1976; Sampson, 1986) distinguono, in effetti, tre modalità di distribuzione: l’eguaglianza, chiamata anche parità (tutti sono pagati allo stesso modo, a prescindere dal contributo) e due modalità inegualitarie: da una parte, l’equità (che riguarda le forme di sanzione del merito, compreso il contributo di ciascuno: in una situazione di equità, le ricompense sono proporzionali ai rispettivi contributi), e, dall’altra, i bisogni (ciascuno è reribuito in base a quanto a lui è necessario).
Il criterio del merito si fonda sui lavori di Adams (1963, 1965) che, integrando soprattutto le ricerche sulla teoria dello scambio sociale (Blau, 1964; Gouldner, 1960; Homans, 1961; Kelly & Thibaut, 1978) esamina, non tanto la giustizia bensì l’ingiustizia, e ne analizza gli antecedenti e le conseguenze, con l’obiettivo di sviluppare una teoria dell’inequità. Secondo questa teoria, l’individuo stabilirà un criterio del rapporto tra i suoi pagamenti e il suo contributo al lavoro e confronterà questo criterio con quello degli altri. Le retribuzioni relative al merito sono sostanzialmente associate alle situazioni nelle quali l’organizzazione promuove la produttività e le prestazioni (Colquitt, 2001), ed è stato in effetti constatato che l’uso della regola di equità porta a un’elevata efficienza (ad esempio, Fast & Berg, 1975; James, 1993; Martin & Harder, 1994). Le retribuzioni del merito possono altresì essere considerate come incentivi per produrre di più e meglio (Sheppard & Tuchinsky, 1996). Esse favoriscono la competizione interinividuale (Kabanoff, 1991) a scapito del lavoro di équipe e l’armonia del gruppo. Al contrario, la regola dell’eguaglianza è associata alla conservazione di questa armonia (Chen, Meindl, & Hui, 1998; Cropanzano & Ambrose, 2001; Leventhal, 1976), rafforzando nel contempo l’identificazione del gruppo (Sheppard & Tuchinsky, 1996). Essa presuppone relazioni di forte interdipendenza tra gli individui, mentre l’equità si osserva piuttosto nelle situazioni di bassa interdipendenza (Chen, Meindl, & Hui, 1998). Si osserva inoltre che sono le classi più popolari che danno maggiore importanza all’eguaglianza (Dube 2006). Quanto alla regola del bisogno, essa è sopratutto applicata quando si desidera promuovere il benessere di tutti (Steiner, Trahan, & Haptonstahl Fointiat, 2006), che si verifica in particolare nei contesti ristretti quali le organizzazioni familiari.
Si è, peraltro, constatato che la regola preferita dipende in particolare dalla cultura (Bond, Leung, & Schwartz, 1992; James, 1993; Leung, 1988; Leung & Bond, 1984; Leung & Park, 1986; Lind, 1994; Lind & Earley 1992; Mikula, Peri, & Tanzer, 1990; O’Connell & Bartlet, 1998). Dubet (2006) mostra che gli europei (eccezion fatta per i cechi) privilegiano i bisogni, più che il merito, e classificano nell’ultima posizione quest’ultimo. Per comprendere più precisamente gli elementi culturali che portano a queste differenze, alcuni ricercatori (come Leung & Park, 1986) hanno utilizzato il modello di Hofstede (1980, 1991) dell’individualismo-colletivismo, della distanza gerarchica (che corrisponde alla più o meno grande accetazione delle disuguaglianze sociali), del controllo dell’incertezza, della mascolinità-femminilità (che rinvia alla più o meno grande permeabilità dei ruoli tra uomini e donne) e del dinamismo confuciano. È poi stato posto in evidenza che le culture collettiviste favoriscono l’eguaglianza e i bisogni, mentre le culture individualistiche sono più centrate sull’equità (Bond, Leung, & Wan, 1982; Clayton & Opotow, 2003; Greenberg, 2001; Kim, Park, & Suzuki, 1990; Miles & Greenberg 1993; Morris & Leung, 2000; Murphy-Berman & Berman, 2002; Murphy-Berman, Berman, Singh, & Kumar Pachauri, 1984). In particolare, è stato constatato che i nordamericani utilizzano preferibilmente l’equità (James, 1993; Leung & Bond, 1984; Miles & Greenberg 1993), che i cinesi e i coreani scelgono di più l’eguaglianza (Kim, Park, & Suzuki, 1990; Leung & Bond, 1984), e gli indonesiani il bisogno (Murphy-Berman & Berman, 2002). Tuttavia, in una recente meta-analisi, Shao, Rupp, Skarlicki e Jones (2013) hanno osservato che l’esame dell’influenza delle differenze culturali resta tuttora molto limitata e si concentra essenzialmente sulle percezioni dei lavoratori dipendenti, ma troppo poco sulle condotte dei manager. Viene anche sottolineato che la preferenza culturale per una particolare regola di allocazione può tuttavia essere condizionata. Leung e Bond (1984) mostrano anche che gli americani preferiscono l’equità a prescindere dalla natura della situazione sociale, mentre i cinesi utilizzano l’equità in modo condizionale: la utilizzano quando si tratta di persone al di fuori del loro gruppo sociale, ma per l’allocazione all’interno del loro gruppo sociale, preferiscono l’eguaglianza. Martin e Harder (1994) constatano anche che la regola del bisogno è auspicata soprattutto quando gli attori sono culturalmente ed emotivamente vicini. In altre parole, sembra che la scelta della regola può dipendere da vari fattori, come la natura della situazione sociale, la scarsità di risorse da allocare (Skitka & Telock, 1992) o la natura di queste risorse (Martin & Harder, 1994).
Se la regola del bisogno può essere basata su un numero limitato di indici, per contro, l’utilizzo dell’equità è probabile che si riferisca a molti criteri. Quelli presi in considerazione da Adams sono infatti molto diversi: lo sforzo prodotto per ottenere un risultato e il risultato ottenuto (Miller, 1999, parla di Merit nel primo caso e di Desert per il risultato), l’istruzione, l’anzianità, l’età (che è anche spesso correlata con l’anzianità di ruolo), il genere, l'intelligenza, la capacità, lo status sociale, l’origine enica,... ma anche l’aspetto, l’attrattività, la salute, il possesso di determinati outils, le caratteristiche della moglie, le responsabilità assunte, i rischi che si corrono (compreso il rischio di licenziamento), ecc.
Tuttavia, nonostante questa abbondanza, a noi sembra che alcuni indicatori “contributivi” siano stati insufficientemente esaminati, sia perché sono stati classificati nelle forme retributive (Gangloff, 1994, mostra che le condizioni di lavoro potrebbero entrare nei rischi assunti e come tali essere considerati in termini di contributi), sia perché sono stati solo recentemente oggetto di una concettualizzazione soddisfacente. Questo è il caso del rispetto della norma della sottomissione, vale a dire segnatamente del rispetto degli ordini impartiti da un superiore gerarchico. Diversi studi hanno in effetti messo in evidenza una stima professionale dei comportamenti sottomessi dei dipendenti (per una rassegna Gangloff, 2011), vale a dire, una stima professionale di spiegazioni e comportamenti che, preservando l’ambiente sociale, soprattutto gerarchico da tutte le eventuali messe in discussione, ne assicurano la perpetuità.
Gli studi condotti in questo ambito mostrano che i dipendenti sottomessi hanno una maggiore probabilità di successo professionale rispetto ai loro omologhi non sottomessi (Bucchioni, 2001; Dagot, 2000, 2002) e che, nel corso delle loro selezioni, i reclutatori scelgono di preferenza i primi ai secondi (Bucchioni, 2001; Dagot, 2002; o ancora Legrain & Dagot 2005, nel quadro di una vasta campagna di reclutamento di operai di un’industria automobilistica che ha comportato l’esame di 1018 candidati). Altri studi hanno anche mostrato che la valorizzazione degli individui sottomessi può essere accompagnata da una “patologizzazione” dei non sottomessi, tanto da considerare questi ultimi come sofferenti di disordini mentali (Dagot & Castra, 2002 rispeto a 118 consulenti delle Mission Locales; o Dagot 2004, su una popolazione di consulenti “Agence Pôle Emploi” a confronto con i reclutatori). Inoltre, se si esegue una differenziazione all’interno della sottomissione e quando si esaminano (nelle manipolazioni sperimentali) le ragioni per cui gli individui si comportano in modo sottomesso o no, vediamo che gli individui adottano delle condotte sottomesse per rispeto della legalità (cioè che credono di dover obbedire ai superiori a causa del loro status più elevato) sono preferiti ai sottomessi che agiscono opportunisticamente, vale a dire, spinti da interessi personali (ad esempio, Duchon & Gangloff, 2008). Si segnala inoltre che questi risultati, ottenuti in Francia, sono stati integrati da lavori condotti in altri paesi, come la Svizzera (ad esempio Gilles Scheidegger & Toma, 2011) e l’Argentina. Ad esempio, è stato osservato in Argentina che i manager preferiscono lavorare con i subordinati sottomessi piuttosto che con i controdipendenti (Gangloff & Mayoral, 2008b), e che i subordinati sono consapevoli di questa preferenza (Gangloff & Mayoral, 2008a). Tuttavia, come è stato osservato, questa valorizzazione della sottomissione non è mai stata direttamente posta in relazione con i lavori sulla giustizia organizzativa.
Così abbiamo voluto qui integrare la sottomissione nella giustizia distributiva, considerando questa variabile come un contributo suscettibile di dar luogo a una retribuzione, allo stesso titolo della prestazione. Più precisamente, prendendo in considerazione i lavori di Monin, Sawyer e Marquez (2008), lavori che considerano un controdipendente morale, ci è sembrato interessante inserire qui questo tipo di non-sottomissione, e mettere questa non-sottomissione in concorrenza con la sottomissione in un ordine discriminatorio, vale a dire non morale. Sul piano delle ipotesi, ci aspettiamo che: 1) una regola dell’equità soppianti la regola egualitaria; 2) emerga una distribuzione del salario più consistente a un dipendente sottomesso rispetto a un dipendente controdipendente morale, in altri termini, che la variabile sottomissione/non-sottomissione soppianti la variabile morale/non-morale.
Su un altro piano, la teoria della credenza in un mondo giusto (d’ora in avanti CMG), elaborata da Lerner (1965, 1980), è definita come “la tendenza a credere che le persone ottengono ciò che meritano e meritano ciò che ottengono” (Lerner & Simmons, 1966, p. 204). Questa convinzione rientra nelle rappresentazioni collettive che permeano la grande maggioranza degli individui (Deschamps & Moliner, 2008; Lerner, 1980). È l’oggetto di una diffusione sociale dall'infanzia (Jose, 1990) e continua anche in età adulta, se, per esperienza, gli adulti imparano che la vita non è necessariamente giusta (Dalbert, 2001 2009; Lerner, 1980). Si rinvia a “un background culturale d’immagini e di saggezza popolare, più o meno fortemente mitizzati che vuole che Cenerentola e la virtù siano ricompensate” (Deconchy, 2011, p. 354). Secondo questo autore, la CMG funziona allora come un filtro cognitivo che l’individuo utilizza per raccogliere, analizzare e valutare le situazioni. La CMG adempie in effetti a molteplici funzioni. Ci serve a impegnarci nel futuro o in obietivi a lungo termine (Lerner & Miller, 1978; Wolfradt & Dalbert, 2003). Essa ci permette di soddisfare un bisogno personale per la stabilità e di controllo sul nostro ambiente (Skarlicki & Kulik, 2005), con conseguente migliore salute mentale, aumentando il benessere e l’autostima (Furnham 2003; Lipkus, Dalbert, & Siegler, 1996). Più sinteticamente, Dalbert (2009) riferisce che la CMG ha tre funzioni: 1) fiducia (l’individuo ha fiducia nel fatto di essere trattato in maniera giusta), 2) assimilazione (essa fornisce una struttura concettuale per l’individuo) e 3) motivazionale (essa stabilisce un impegno secondo il quale l’individuo è tenuto ad agire in modo giusto in tutte le circostanze). Per Skarlicki e Kulik (2005) e Hegtvedt e al. (2009), la teoria alla base di questa convinzione è più comunemente utilizzata per spiegare le motivazioni di testimoni di tentare di ristabilire la giustizia quando questa viene minacciata, questo tentativo di ristabilimento che può operare sia in modo effettivo (punendo l’autore dell'ingiustizia e ricompensando la vittima), sia in modo cognitivo, per una nuova valutazione della situazione (che a volte porta a considerare la vittima come responsabile, morale o comportamentale, dell’ingiustizia che subisce: Lerner & Miller, 1978). Per altro, Vermunt e Steensma (2008, p. 36) considerano la CMG come “una forte norma interiorizzata che motiva gli individui nelle loro valutazioni di ciò che fanno, ma anche ciò che gli altri stanno facendo”. Possiamo infatti conferire lo statuto di una norma sociale a questa credenza, che è stato confermato dai lavori più recenti (Gangloff, 2008; Gangloff & Duchon, 2010). Oltre al suo carattere acquisito (Jones 1990), questa convinzione è anche valorizzata, in particolare nei luoghi di lavoro, in cui si nota che i reclutatori preferiscono in modo significativo i candidati (uomini, donne, lavoratori o disoccupati) che mostrano una tale convinzione (Gangloff, 2008). È davvero “del bon ton mostrare, nell’ambiente organizzativo, che le persone ottengono ciò che meritano e meritano ciò che ricevono” (Gangloff & Duchon, 2010, p. 20).
Tuttavia, questa norma non è equamente interiorizzata nel corpo sociale (Lerner, 1980). Anche se sembra che l’età non sia un fattore determinante (Begue & Bastounis, 2003; Umberson, 1993), e anche se il genere conduce a risultati contraddittori (a volte con delle differenze uomini/donne - per esempio Dion & Dion, 1987; Kleinke & Meyer, 1990; Mayoral, Romero, & Gangloff, 2012 - ma non sempre: vedi Begue & Bastounis, 2003, o ancora O’Connor, Morrison, McLeod, & Anderson, 1996), si è constatato che molti fattori, come la personalità (autoritarismo, grado di controllo interno/esterno) o fattori sociologici (classe sociale, credo religioso, ecc.) condizionano il nostro grado di CMG (Rubin & Peplau, 1975). Se pure la maggior parte degli studi sulla CMG sono stati condotti su studenti americani o inglesi (Hunt, 2000), alcuni si sono focalizzati anche su partecipanti francesi. Ricordiamo per esempio Begue e Bastounis (2003) che hanno condotto cinque studi sulla CMG con 650 francesi, e Gangloff e Duchon (2010) che hanno studiato il livello di credenza in una giustizia organizzativa su 504 dipendenti e disoccupati francesi. Queste differenze di interiorizzazione di queste differenze della CMG conducono allora, molto logicamente, a delle differenze di reazioni alle ingiustizie. Si è quindi osservato che gli individui che hanno una forte CMG tendono a soffrire di più il disagio di fronte all'ingiustizia e sono più motivati a ridurla rispetto a quelli che hanno una scarsa convinzione (Hafer & Begue, 2005; Skarlicki & Kulik, 2005). Alcune scale traducono anche una concettualizzazione bidimensionale di CMG (Dalbert 2009; Lipkus et al., 1996): credenza per se e credenza per gli altri. Un insieme significativo di ricerche mostra quindi differenze di reazione a seconda della dimensione esaminata. Si è così constatato che gli individui considerano il mondo più giusto per se stessi che per gli altri (Dalbert, 1999; Begue & Bastounis, 2003; Lucas & al., 2011; Sutton et al., 2008). La CMG per se stesso rinvierà così a una risorsa personale (ad esempio, il coping), mentre la CMG per altri si riferirà all’applicazione di uno standard di giustizia che permeterà di interpreare meglio l’ambiente (Begue & Bastounis, 2003). È così lecito pensare che la CMG per sé e per gli altri influenzerà in modo differente le reazioni dei testimoni d’ingiustizie professionali.
Detto questo, a dispetto del consistente numero di studi sulla CMG, si deve rilevare, da un lato, che essi hanno più la tendenza a esplorare le percezioni di giustizia per se stessi che quelle per gli altri (Ball, Klebe, Trevino & Sims, 1994; Hafer & Olson, 1989; Hagedoorn, Bunk & Van de Vliert, 2002). Dall’altro, gli studi sulla CMG combinano raramente CMG e giustizia organizzativa. Una possibile spiegazione di quest’ultimo punto è certamente proposta da Hafer e Begue (2005): secondo questi autori, la credenza in un mondo giusto, semplicemente a causa della sua definizione (“le persone ottengono ciò che meritano e meritano ciò che ottengono”, Lerner & Simmons, 1966, p. 204) terrà già implicitamente in conto la giustizia organizativa e soprattutto i “risultati che ricevono [giustizia distributiva] "(p. 158). Ma questa spiegazione non può compensare la scarsità di studi che collegano i due domini.
La nostra ricerca si propone di rispondere a una domanda ancora poco considerata dalla letteratura: la condotta di un valutatore varierà a seconda che si renda o non si renda saliente il suo grado di credenza in un mondo giusto?
Più precisamente, prendendo in considerazione la valorizzazione degli individui sottomessi, formuliamo l’ipotesi di una maggiore frequenza di distribuzioni ineguali rispetto a quelle egualitarie (in particolare in direzione della polarità controdipendente), e di somme di denaro più consistenti attribuite alla polarità sottomessa che a quella controdipendente. E prendendo in considerazione i lavori sulla credenza in un mondo giusto, formuliamo come ipotesi una maggiore frequenza di distribuzioni inegualitarie rispetto a quelle egualitarie in situazione di salienza, e di somme di denaro distribuite in maniera consistente in situazione di salienza rispetto all’assenza di salienza, questa salienza permetterà di prendere coscienza dell’aspetto etico della controdipendenza e di legittimare in qualche modo quest’ultima.
Metodologia
Partecipanti
La nostra popolazione, contattata nel Sud Italia, è costituita da 340 studenti dell'Università di Salerno (209 donne e 131 uomini).
Strumenti e procedura
È stato distribuito individualmente ai partecipanti, un documento composto da due parti: in primo luogo, un questionario sulla credenza in un mondo giusto, e in secondo luogo un caso pratico nel corso del quale è stato chiesto ai partecipanti di dare dei consigli al gestore di un’agenzia di locazione immobiliare riguardo alla ripartizione di un premio di 3.600 euro tra i suoi 6 dipendenti.
Più precisamente, gli intervistati dovevano indicare l’importo che essi consigliavano di assegnare a uno dei sei dipendenti (Stéphane) sulla base delle informazioni particolari che caratterizzano Stéphane, queste informazioni costituiscono una variabile a due modalità: il comportamento sottomesso (vale a dire, obbediente) e di controdipendenza (disobbediente) di Stéphane in risposta a un ordine gerarchico di discriminazione (in questo caso, il manager ha chiesto ai suoi dipendenti di evitare di affittare appartamenti agli stranieri). L’operazionalizzazione delle 2 modalità di questa variabile, così come appariva nel caso presentato ai partecipanti compare nell Appendice 1.
Abbiamo utilizzato la scala di credenza in un mondo giusto organizzativo (CMGO) di Gangloff e Duchon (2010). Questa scala, di cui gli item rinviano sistematicamente a delle tematiche professionali, tiene conto di quattro implicazioni della definizione di un mondo giusto formulata da Lerner e Simmons nel 1966. Questa definizione (secondo la quale “le persone ottengono ciò che meritano e meritano che ottengono”, Lerner e Simmons nel 1966, p. 204) può essere, in effetti, diviso in due parti. La prima (“le persone ottengono ciò che meritano”, chiamata “sanzione dell’azione” da Gangloff e Duchon, 2010) significa che quando ci meritiamo una sanzione, sia essa positiva o negativa, noi la riceviamo; vale a dire che le azioni positive sono premiate e le azioni negative sono punite. Per quanto riguarda la seconda parte (“le persone meritano quello che ottengono, chiamato “la giustificazione della sanzione”), essa significa che le sanzioni ricevute, siano esse positive o negative, sono meritate. Così, considerando il tipo di sanzione in questione (ricompensa versus pena), quattro situazioni sono in scena: convinzione che le azioni positive sono premiate e le azioni negative punite (per la “sanzione dell’azione”); convinzione che le ricompense ricevute sono meritate e che le punizioni ricevute sono anch’esse meritate (per “giustificazione della sanzione”). Infine, come corollario, nel caso della non credenza in un mondo giusto, si profilano altre quattro alternative: credenza che le azioni positive non sono ricompensate e che le azioni negative non sono punite (per la “sanzione dell’azione”); credenza che le ricompense ricevute non sono meritate e che altrettanto non lo sono le punizioni ricevute (per la “giustificazione della pena”). Nel complesso, questa scala è composta da otto situazioni che si traducono nell’incrocio di tre variabili: credenza nella giustizia (giustizia versus ingiustizia) x tipo di sanzione (ricompensa versus punizione) x tipo di situazione (sanzione dell’azione versus giustificazione della sanzione). Queste otto situazioni sono sintetizzate nella Tabella 1.
Tabella 1 Le quattro implicazioni della credenza in un mondo giusto e le quattro implicazioni-corollario
Nel caso del mondo del lavoro, questa scala declina ciascuna di queste otto situazioni in quattro tematiche (una generale nel mondo del lavoro, una seconda focalizzata sull’ottenere un posto di lavoro, una terza sulle possibilità di promozione e una quarta sulle reribuzioni economiche); un ultimo tema (perdita del lavoro) viene aggiunto, ovviamente applicato solo alle quattro implicazioni essenzialmente punitive. Nel complesso, questa scala è composta da 36 items (Appendice 2).
Il formato della risposta, di tipo binario (“un po’ d’accordo” o “abbastanza d’accordo”), porta all’attribuzione di un punto per tutte le risposte positive con item che testimonia una credenza in un mondo giusto o per tutte le risposte negative con un item di rifiuto di questa convinzione, e assegnando zero punti nel caso opposto (risposta negativa a un item che presenta il mondo come giusto o risposta positiva ad un item che nega che il mondo è giusto). La gamma varia quindi da 0 (per un intervistato che rifiuta sistematicamente tutte le credenze in un mondo giusto) a 36 (per un soggeto che afferma sistematicamente che il mondo è giusto).
Le analisi dell’affidabilità eseguite da Gangloff e Duchon (2010) mostrano una consistenza complessiva molto accettabile (KR20 = .84, F(1, 170) = 36.50, p ≈ 0.000) e l’analisi delle sotto-dimensioni confermano questa consistenza: KR = .77 per la sotto-domensione “giusto”; .79 per il sub-dimensione “ingiusto”; .74 per la sotto-dimensione “sanzione di azione”; .73 per la sotto-dimensione “giustificazione della sanzione”; .77 per la sotto-dimensione “ricompensa”. La sotto-dimensione “punizione” è la sola dimensione di presentare un Kuder-Richardson inferiore a .70 (esattamente .68), ma nondimeno è significativa.
I nostri intervistati sono stati, peraltro, divisi in 3 gruppi: nel primo, 119 partecipanti (59 donne e 60 uomini) hanno risposto al questionario CMGO poi sono stati posti di fronte a un profilo di Stéphane controdipendente per decidere l’assegnazione del premio; nel secondo, 125 partecipanti (95 donne e 30 uomini) sono stati posti di fronte a un profilo Stéphane sottomesso per decidere in merito alla distribuzione del premio, poi hanno risposto al questionario CMGO; infine, nel terzo, 96 partecipanti (55 donne e 41 uomini) sono stati posti di fronte a un profilo di Stéphane controdipendente per decidere l’assegnazione del premio, per poi rispondere al questionario CMGO.
Analisi dei dati
Il confronto dei gruppi 2 e 3 permette di esaminare le eventuali differenze nella ripartizione del premio in funzione della variabile sottomissione/controdipendenza. Il confronto dei gruppi 1 e 3 permette di studiare il possibile effetto della messa in atto della salienza che assume la credenza in un mondo giusto sulla ripartizione di fronte a un lavoratore controdipendente. Abbiamo utilizzato ℵ², t di Student e ANOVA (analisi con SPSS).
Risultati
Effetti della variabile sottomissione/controdipendenza sul premio attribuito
Effetti della variabile sottomissione/controdipendenza sulla ripartizione inegualitaria/egualitaria
In generale (vale a dire, uomini e donne nell’insieme), considerando la polarità sottomessa, la proporzione d’ineguaglianza è maggiore della proporzione d’eguaglianza (rispettivamente 80% e 20%; χ²(1, N = 125) = 45; p < .001), e questo è anche il caso della polarità controdipendente (rispettivamente 90.62% e 9.38%; χ²(1, N = 96) = 66.3; p < .001). Questo porta al fatto che, sull’insieme delle 2 polarità, la proporzione di ineguaglianza è maggiore della percentuale di eguaglianza (rispettivamente 84.62% e 15.38%; χ²(1, N = 221) = 105.92; p < .001). Va inoltre osservato che la percentuale d’ineguaglianza è più elevata per la polarità controdipendente rispetto a quella sottomessa (rispettivamente 90.62% e 80%; χ²(1, N = 221) = 4.71; p < .05).
È stata inoltre effettuata un’analisi di genere. Negli uomini, considerando la polarità sottomessa, la proporzione d’ineguaglianza è maggiore di quella d’eguaglianza (rispettivamente 83.33% e 16.67%; χ²(1, N = 30) = 13.33; p < .001), che è anche il caso della polarità controdipendente (rispettivamente 92.68% e 7.32%; χ²(1, N = 41) = 29.88; p < .001). Questo porta al fatto che, sull’insieme della 2 polarità combinate, la proporzione d’ineguaglianza è maggiore della percentuale d’uguaglianza (rispettivamente 88.73% e 11.27%; χ²(1, N = 71) = 42.61; p < .001). La proporzione d’ineguaglianza è, per altro, quasi identica per la polarità controdipendente e per quella sottomessa (rispettivamente 92.68% e 83.33%; χ²(1, N = 71) = 1.50; p = .218; n.s.).
Nelle donne, per quanto riguarda la polarità sottomessa, la proporzione d’ineguaglianza assume maggiore consistenza rispetto alla proporzione di eguaglianza (rispettivamente 78.95% e 21.05%; χ²(1, N = 95) = 31.84; p < .001), ed è lo stesso per la polarità controdipendente (rispettivamente 89.09% e 10.91%; χ²(1, N = 55) = 33.62; p < .001). Questo porta al fatto che, sull’insieme delle 2 polarità, la proporzione d’ineguaglianza sia maggiore alla proporzione di eguaglianza (rispettivamente 82.67% e 17.33%; χ²(1, N = 150) = 64.03; p < .001). La percentuale di ineguaglianza è di nuovo identica per la polarità controdipendente e per quella sottomessa (rispettivamente 89.09% e 78.95%; χ²(1, N = 150) = 2.50; p = .114; n.s.) (Tabella 2).
Tabella 2 Distribuzione ineguaglianza/eguaglianza per la polarità sottomessa e per la polarità controdipendente
Effetti della variabile sottomissione/controdipendenza sugli importi inegualitari attribuiti
Le somme economiche attribuite sono maggiori nel caso di sottomissione che nel caso di controdipendenza, nel complesso (F(1, 185) = 5.39; p < .05; η2 = .03), negli uomini (F(1, 61) = 5.05; p < .05; η2 = .08), ma non nella popolazione femminile (F(1, 122) = 2.78; p = .098; n.s.) (Tabella 3).
Tabella 3 Ripartizione degli importi inegualitari attribuiti
Effetti della messa in atto della salienza che assume la credenza in un mondo giusto
Livello della CMGO
Inizialmente abbiamo misurato il livello della CMGO del gruppo che ha iniziato la prova con il questionario relativo e abbiamo osservato dei punteggi non significativamente diversi dalla media teorica, sia nell’insieme degli uomini e delle donne (t(118) =1.64; p = .104; n.s.), sia negli uomini (t(59) = .84 p = .402; n.s.) sia per le donne (t(58) = 1.49; p = .141; n.s.) (Tabella 4).
Tabella 4 Livello di credenza in un mondo giusto del gruppo 1 (range 0-36, Media teorica = 18)
Va aggiunto che questi punteggi corrispondono a quelli ottenuto sull’insieme dei 3 gruppi. Abbiamo rilevato che, in effetti, nel loro insieme, la nostra popolazione presenta un livello leggermente di CMGO poco differente rispetto alla media teorica (t(339)=2.03; p < .05) e, inoltre, un’analisi più dettagliata mostra che la sola differenza proviene dalla popolazione maschile (t(130) = 2.01; p < .05). Le donne si situano proprio al livello della media teorica (t(208) = .93; p = .35; n.s.). È ugualmente interessante segnalare che la differenza uomini/donne non è significativa (t(338) = 1.12; p = .263; n.s.) (Tabella 5).
Tabella 5 Livello di credenza in un mondo giusto dell’insieme dei 3 gruppi (range 0-36, Media teorica = 18)
Effetto della messa in atto della salienza che assume la credenza in un mondo giusto sulla ripartizione ineguaglianza/eguaglianza
Complessivamente, nel gruppo che ha iniziato con il questionario CMGO, la proporzione d’ineguaglianza è maggiore della proporzione di eguaglianza (rispettivamente 92.43% e 7.57%; χ²(1, N = 119) = 85.72; p < .001), che è anche il caso del gruppo che ha iniziato la prova con la distribuzione del premio (rispettivamente 90.62% e 9.38%; χ²(1, N = 96) = 66.3; p < .001). Questo porta al fatto che, nell’insieme dei 2 gruppi, la proporzione d’ineguaglianza è maggiore alla proporzione di eguaglianza (rispettivamente 91.63% e 8.37%; χ²(1, N = 215) = 149.03; p < .001). Inoltre, la percentuale d’ineguaglianza è identica nel gruppo che ha iniziato con la distribuzione del premio e nel gruppo che ha iniziato con il questionario CMGO (rispettivamente 90.62% e 92.43%; χ²(1, N = 215) = .23; p = .633; n.s.). Questi dati sono stati confermati quando abbiamo effettuato un’analisi di genere.
Negli uomini del gruppo che ha iniziato la prova con il questionario CMGO, la proporzione d’ineguaglianza è maggiore della proporzione di eguaglianza (rispettivamente 96.67% e 3.33%; χ²(1, N = 60) = 52.27; p < .001), che è anche il caso del gruppo che ha iniziato con la distribuzione del premio (rispettivamente 92.68% e 7.32%; χ²(1, N = 41) = 29.88; p < .001). Ciò comporta che, sull’insieme dei 2 gruppi, la proporzione d’ineguaglianza è maggiore della proporzione di eguaglianza (rispettivamente 95.05% e 4.95%; χ²(1, N = 101) = 81.99; p < .001). La proporzione d’ineguaglianza risulta identica nel gruppo che ha iniziato con la distribuzione del premio e nel gruppo che ha iniziato la prova con il questionario CMGO (rispettivamente 92.68% e 96.67%; χ²(1, N = 101) = .82; p = .365; n.s.).
Nelle donne del gruppo che ha iniziato con il questionario CMGO, la percentuale d’ineguaglianza è maggiore della percentuale d’eguaglianza (rispettivamente 88.14% e 11.86%; χ²(1, N = 59) = 34.32; p < .001), che è anche il caso del gruppo che ha iniziato con la distribuzione dei premi (rispettivamente 89.09% e 10.91%; χ² (1, N = 55) = 33.62; p < .001). Questo porta al fatto che per i 2 gruppi combinati, la proporzione d’ineguaglianza è maggiore della proporzione di eguaglianza (rispettivamente 88.60% e 11.40%; χ²(1, N = 114) = 67.93; p < .001). La proporzione d’ineguaglianza è identica nel gruppo che ha iniziato con la distribuzione del premio e nel gruppo che ha iniziato con il questionario CMGO (rispettivamente 89.09% e 88.14%; χ²(1, N = 114) = .026; p = .873; n.s.) (Tabella 6).
Tabella 6 Distribuzione ineguaglianza/eguaglianza per la popolazione che ha iniziato con il questionario CMGO e per la popolazione che ha iniziato con la distribuzione del premio
Effetto della messa in atto della salienza che assume la credenza in un mondo giusto sugli importi inegualitari attribuite
Le somme assegnate sono tendenzialmente maggiori nel gruppo che ha iniziato con il questionario CMGO che nel gruppo che ha iniziato con la distribuzione del premio (F(1,195) = 3.781; p = .053; h2 = .02). Tuttavia, questa tendenza non si ritrova quando si esegue un’analisi di genere. Così, negli uomini, le somme sono identiche nei 2 gruppi (F (1, 94) = 2.31; p = .132; n.s.), e ciò si verifica anche nel caso delle donne (F(1, 99) = 1.77; p = .186; n.s.) (Tabella 7).
Tabella 7 Ripartizione degli importi inegualitari attribuiti
Discussione
Nel presente studio, abbiamo voluto innanzitutto prendere in considerazione la regola preferenziale di giustizia distributiva sulla distribuzione dei salari (regola uguale o disuguale), e nel caso di regola inegualitaria, l’importanza degli importi attribuiti secondo la sottomissione/controdipendenza del destinatario.
I nostri risultati indicano che è la regola di equità che è seguita principalmente dal nostro campione. Questi risultati sono coerenti con le nostre ipotesi. Essi sono anche in linea con quelli ottenuti da Wagstaff, Huggins e Perfect (1993): questi autori hanno constatato che in effetti, in un contesto come questo, i rapporti di lavoro, la modalità preferita di ripartizione delle risorse è l’equità, la scelta egualitaria è stata riservata alle situazioni relazionali di natura più affettiva (ad esempio familiari). Si noti inoltre, sempre in linea con quello che avevamo ipotizzato, in una maniera sistematica su un piano descrittivo, ma anche in modo significativo nell’insieme degli uomini e delle donne, che le ripartizioni inegualitarie sono più frequenti in direzione del destinatario controdipendente rispetto al destinatario sottomesso. Sembra quindi che i nostri intervistati abbiano voluto permettesi una più ampia latitudine distributiva verso il destinatario controdipendente che non nei confronti di quello sottomesso.
Sembra, inoltre, che la distribuzione inegualitaria da parte dei nostri partecipanti è in realtà funzione della variabile che abbiamo operazionalizzato: sottomissione/controdipendenza. Più in particolare, come abbiamo ipotizzato, il premio è più elevato quando il dipendente obbedisce rispetto a quando disobbedisce, anche quando la disobbedienza si basa su fondamenti morali. Questo risultato è in linea con quelli normalmente ottenuti negli studi sulla sottomissione (si veda ad esempio Gangloff, 2011), lavori che non avevano peraltro esaminato il caso della controdipendenza morale. Certo, questi risultati contrastano con quelli di Monin, Sawyer e Marquez (2008): questi autori non osservano infatti il rifiuto di deviante morale quando i valutatori si sono in un primo tempo comportati in modo sottomesso e avevano paura di essere mal giudicati dai “devianti”; in caso contrario, essi valorizzano questi ultimi.
Il fatto che il loro studio ha analizzato studenti americani può forse spiegare la differenza osservata rispetto ai nostri risultati. Tuttavia, va notato che la preferenza significativa che noi constatiamo in direzione della sottomissione proviene solo dalla popolazione maschile: la somma, essa stessa maggiore, che le donne attribuiscono al destinatario sottomesso non può essere osservata solo a un livello descrittivo (ma questo limite sembra provenire principalmente dalla forte dispersione delle risposta delle donne: se diminuisse leggermente quest’ultima, la differenza diventerebbe inferenzialmente significativa).
I nostri risultati ci permettono, quindi, di verificare, come in altri lavori (Bucchioni, 2001; Dagot, 2000, 2002, 2004; Dagot & Castra, 2002; Duchon & Gangloff, 2008; Gangloff, 2011; Gangloff & Mayoral, 2008b; Gilles, Scheidegger, & Toma, 2011; Legrain & Dagot, 2005), che la sottomissione nei confronti del capo è ancora una volta valorizzata, e i nuovi dati ci dicono che questa valorizzazione è osservata anche se questa sottomissione risponde a un ordine discriminatorio. Osserviamo che, in realtà, il dipendente sottomesso è più apprezzato del controdipendente, anche nel caso in cui la non sottomissione del controdipendente si fonda su ragioni etiche di non discriminazione. Si è anche notato che gli uomini e le donne non sempre seguono le stesse regole per assegnare i premi in modo differenziato. Risulta quindi che le donne penalizzano in minor misura la disobbedienza rispetto ai loro omologhi maschi.
Il secondo obiettivo del nostro studio è stato quello di esaminare l’influenza che la salienza della credenza in un mondo giusto avrebbe avuto sulla distribuzione del premio. Abbiamo pensato che questa salienza avrebbe portato a una ripartizione più inegualitaria nel gruppo che ha iniziato con il questionario CMGO (questo non è verificato), e le somme maggiori assegnate nel caso della salienza rispetto al caso di assenza di salienza, e questo si è osservato in maniera sistematica solo a un livello descrittivo, e in modo inferenziale in modo unicamente tendenziale per quanto riguarda il totale degli uomini e delle donne. Quindi potrebbe essere opportuno modificare questa ipotesi conducendo un nuovo studio nel quale la variabile manipolata non sarà più la salienza del grado di credenza in un mondo giusto bensì il grado di credenza dei partecipanti in un mondo giusto.
Infine, segnaliamo che uno dei limiti di questo studio riguarda l’inserimento professionale della nostra popolazione. Ricordiamo che quest’ultima è composta da studenti che non hanno particolare esperienza della distribuzione di premi. Converrebbe quindi ripetere questo studio con una popolazione con una tale esperienza. Tuttavia, alcuni dei nostri risultati, soprattutto quando mettono in evidenza l’importanza della sottomissione quale che sia la moralità o la legalità degli ordini, ci sembra suscettibile di aprire nuove piste di ricerca ai teorici della giustizia distributiva. Allo stesso modo, le differenze tra uomini e donne ci sembra possano costituire un contributo teorico nel quadro degli studi di genere. Su un altro piano, ci auguriamo che i risultati potranno anche generare tra i manager alcune riflessioni su alcune delle loro pratiche per adattare al meglio le loro strategie di gestione.
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Appendice 1 Le 2 modalità della variabile acquiscenza/controdipendenza, come figurano nei casi presentati agli intervistati sotto forma di informazioni fornite dal responsabile dell’agenzia sui suoi dipendenti
Modalità acquiescente
Nel complesso, sono soddisfatto di loro: tutti sono seri e motivati nel loro lavoro. Soprattutto Stéphane, che ho constatato che in pratica rispetta sempre le mie decisioni. Ad esempio, da quando lavoro qui, ho notato che i proprietari rifiutano sempre più di affittare i loro appartamenti ai marocchini. Poiché sono i proprietari che ci fanno vivere, ho chiesto ai miei addeti al commerciale di tenerne conto. E Stéphane, da parte sua, lo tiene sempre presente. Per lui, si tratta di un principio: il capo non deve mai essere contestato.
Modalità controdipendente
Sono generalmente soddisfatto di loro: tutti sono seri e motivati nel loro lavoro. Tuttavia, ho trovato che Stéphane contesta quasi sempre alcune delle mie decisioni. Ad esempio, da quando lavoro qui, ho notato che i proprietari rifiutano sempre più di affittare i loro appartamenti ai marocchini. Poiché sono i proprietari che ci fanno vivere, ho chiesto ai miei addetti al commerciale di tenerne conto. Ora, Stéphane, da parte sua, non ne tiene mai praticamente conto. Egli ritiene che non deve obbedirmi se le mie decisioni sono contrarie ai suoi principi.