Vol. 16, n. 2, giugno 2023 — pp. 115-127

INTERVISTE/INTERVIEWS

a cura di (edited by) Annamaria Di Fabio

Intervista a Ida Grimaldi1

  1. Come Lei sa la questione di parità di genere è oggi al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, tanto da essere al quinto punto dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Le chiediamo innanzitutto un saluto di apertura (Convegno RE.A.DY, organizzato dall’Ufficio della Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Firenze, 17 novembre 2022).2

Vi ringrazio intanto e mi complimento per questa iniziativa, alla quale rivolgo volentieri, ma anche con emozione, un saluto anche perché la trovo lodevole, dato che il tema entra tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile, previsti dall’Agenda 2030, obiettivi che riconoscono proprio lo stretto legame che vi è fra il benessere umano e la presenza di una serie di sfide comuni che tutti i Paesi sono chiamati ad affrontare. Sono 17 questi obiettivi di sviluppo sostenibile, interconnessi tra loro, che devono essere raggiunti entro il 2030: essi vanno dalla lotta alla fame all’eliminazione delle diseguaglianze e così via. In riferimento al GOAL 5, l’obiettivo 5 è proprio raggiungere l’uguaglianza di genere e l’empowerment di tutte le donne e le ragazze. Dunque è senz’altro pregevole l’iniziativa della Città Metropolitana di Firenze rivolta nella specie proprio agli Istituti Scolastici, omaggiando le loro biblioteche di un volume che è ad ampio spettro per quanto riguarda le discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro. Questo in quanto la disparità di genere è un fenomeno che nelle nostre società non è mai stato sanato e che sovente affonda le proprie radici a partire dalle scelte scolastico-formative delle donne. È dunque necessario promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, le università e quindi la cultura della parità di genere. In tal senso è molto importante trasmettere soprattutto alle nuove generazioni il vero e proprio concetto che l’alta formazione e la competenza rappresentano, per le donne, le chiavi per avere più chances lavorative. È importante precisarlo, perché dai dati statistici emerge che le donne tendenzialmente preferiscono corsi che riguardino discipline letterarie, umanistiche, linguistiche, psicologiche a fronte delle famose «STEM», cioè quelle a carattere scientifico, ingegneria, matematica, che sono di solito scelte da ragazzi. Invece è proprio la partecipazione femminile al mondo delle scienze che dà più opportunità lavorative e occorre acquisire consapevolezza di tutto ciò. Lo ha ricordato ancora nel 2010 la famosa scienziata Margherita Hack rammentando, sul punto, l’importanza che ha avuto per lei avere avuto dei genitori che non le avevano trasmesso comportamenti legati a stereotipi di genere. E quindi ben venga questa iniziativa, che vuole diffondere in modo organico e sistematico la cultura della parità di genere.

  1. L’intento da Lei descritto nell’introduzione del suo libro è quello di offrire una panoramica delle normative degli obiettivi e degli strumenti a tutela della parità di genere nei luoghi di lavoro. Ma qual è il grado di consapevolezza su questi temi da parte dei datori di lavoro, per arrivare fino ai dipendenti?

Purtroppo, il grado di consapevolezza non è molto sempre alto e spesso addirittura non è presente: infatti l’intento del volume è proprio quello di permettere di acquisire consapevolezza sul tema, in particolare in riferimento all’esistenza di una normativa specifica atta a tutelare dalle discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro, ovvero quella del D.lgs. n. 198/2006 Codice delle pari opportunità uomo-donna, il quale vieta al datore di lavoro di discriminare a causa del genere.

Da un punto di vista processuale, il codice rappresenta il primo riconoscimento della necessità di una tutela giurisdizionale specifica in materia di discriminazioni di genere, tutela che ha una corsia preferenziale perché vi è una parziale inversione dell’onere della prova e disciplinata dall’art. 40 del codice: una volta che la lavoratrice che agisce in giudizio offre semplicemente elementi di fatto concordanti, desunti anche da dati di carattere statistico, spetta al datore di lavoro dimostrare l’insussistenza della discriminazione.

La vera novità della normativa è poi rappresentata dall’avere dato uno strumento sia stragiudiziale che processuale a una figura di garanzia: la Consigliera di Parità, che ha l’obiettivo di tutelare il più possibile il principio di non discriminazione assistendo le vittime (gratuitamente e quale pubblico ufficiale) sia nell’azione stragiudiziale sia nell’azione giudiziaria.

In tal senso, il tentativo di conciliazione che può precedere il giudizio appare molto efficace per superare la naturale ritrosia delle persone nel rivolgersi direttamente al giudice, sia perché appare molto più efficace quando la parte si rivolge all’istituzione pubblica per essere coadiuvata nella denuncia degli atti discriminatori.

Nell’ambito della discriminazione di genere rientra anche il concetto di molestie al quale si affianca quello di molestie sessuali, che vengono definite come quei comportamenti indesiderati anche a connotazione sessuale espressi in forma fisica, verbale e non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima di disagio o intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

In questi termini non c’è consapevolezza ed è importante trasmetterla: ad esempio, se all’interno di un luogo di lavoro una lavoratrice subisce una molestia da parte di un collega, non è che il datore di lavoro se ne possa «lavare le mani»: il datore di lavoro è chiamato comunque a risponderne sulla base di quella norma giuslavoristica di contenuto amplissimo e posta a tutela dell’integrità della persona, ovvero l’art. 2087 del codice civile che tutela le condizioni di lavoro. In base a tale norma il datore di lavoro è tenuto a adottare nell’esercizio dell’impresa le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. E, dunque, qualora una lavoratrice sia molestata da un collega può anche citare in giudizio direttamente il datore di lavoro, qualora costui, informato dalla lavoratrice delle molestie subite, non abbia fatto nulla per tutelarla e metterla in sicurezza. Va precisato, tuttavia, che la mancata consapevolezza è anche dovuta al fatto che gli abusi e le molestie vengono considerati «normali» o, più di frequente, le lavoratrici che subiscono molestie poi tacciono perché hanno paura di non essere credute, magari perché hanno un lavoro precario la cui durata e le cui condizioni dipendono dalla discrezionalità del datore di lavoro.

I dati Istat ci dicono che 9 donne su 100  nel corso della propria vita lavorativa sono state oggetto di molestie o di ricatti a sfondo sessuale sul luogo di lavoro ma che solo il 20% ne parla con qualcuno (di solito colleghi di ufficio) e soltanto lo 0.7% denuncia.

Quindi è indispensabile, per debellare il fenomeno delle molestie e delle discriminazioni, fare quello che vi siete proposti con la vostra bella iniziativa: fare informazione, sensibilizzare. È importante, inoltre, che vi sia una capacità di intervento da parte di chi è preposto alla tutela dei lavoratori, ma soprattutto è importante sostenere una battaglia culturale a tutti i livelli per promuovere il rispetto delle persone e delle differenze, a partire appunto dalla scuola.

  1. Nel ringraziarLa ancora per il suo intervento, una battuta: «è una questione dannatamente femminile»?

Sì. Il divario di genere rappresenta una delle ingiustizie sociali più diffuse a livello globale e questo non lo dico io ma ce lo dice il World Economic Forum che, con il suo Global Gender Report, ci indica ogni anno a che punto noi ci collochiamo come Paese proprio per quanto riguarda il divario di diseguaglianze di genere e il Global Gender Guest Index introdotto nel 2006, che fornisce un quadro dei divari di genere in tutto il mondo ed evidenzia anche la classifica dei Paesi. Ad esempio, il World Economic Forum del 2020 attestava che l’Italia nel 2019 si trovava collocata al 76° posto fra 153 Paesi: tra i 20 Stati dell’Europa occidentale, dopo il nostro Paese c’erano solo Grecia, Malta e Cipro. Ancora peggio per quanto riguarda la partecipazione economica delle donne nel mondo del lavoro: qui l’Italia era collocata al 125esimo posto su 173 Paesi.

È vero che nel 2022 l'Italia dal 77° è passata al 63mo posto, ma resta comunque tra le ultime in termini di divario sul lavoro, dove le donne hanno meno possibilità di occupazione, diversità di redditi e stipendi inferiori.

È stato rilevato che queste disuguaglianze sono in larga parte il riflesso della «specializzazione» di genere tra lavoro retribuito e non retribuito, in virtù del quale le donne più frequentemente accettano retribuzioni inferiori a fronte di vantaggi in termini di flessibilità e orari.

Molto preoccupanti sono anche i dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro sulle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, che segnalano un fortissimo divario di genere: le dimissioni volontarie coinvolgono le madri nel 77% dei casi. La motivazione più ricorrente è l’impossibilità di conciliare l’occupazione con il lavoro di cura, soprattutto in assenza di reti familiari di supporto.

La forte discriminazione, dunque, va ricercata all’interno dei ruoli familiari: di solito, le donne fanno più ore di lavoro non retribuito rispetto agli uomini e prendono più periodi di assenza dal lavoro per prendersi cura degli altri. E sono questi aspetti che incidono sulla possibilità di fare carriera e sollevano diverse questioni sulla distribuzione del carico di lavoro (retribuito e non) tra i sessi.

Il lavoro non retribuito di assistenza e di cura alla persona costituisce, dunque, uno dei principali ostacoli alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro. E quindi questo rappresenta un forte problema unito al fatto che, comunque, la retribuzione oraria delle donne è inferiore a quella degli uomini e, quindi, ci sono grandi discriminazioni anche a livello economico.

Da qui l’esigenza di interventi normativi più consoni a una reale promozione della parità di genere, in una prospettiva in cui ridurre il divario retributivo significa cambiare paradigma, indicatori e logiche delle organizzazioni del lavoro. In questa direzione è andata la Legge 5.11.2021 n. 162, dai più denominata Legge sulla parità salariale, che ha introdotto una serie di modifiche e integrazioni al codice delle pari opportunità di cui ho parlato prima, con diversi interventi volti a contrastare il gap retributivo di genere, come tecniche premiali per le aziende «sane», cioè per le aziende che favoriscono, appunto, buoni passi in materia di uguaglianza di genere; mi riferisco, ad esempio, alla «certificazione della parità di genere» che consente di accedere a sgravi fiscali e a molto altro. Questi e tanti altri sono i temi affrontati nel volume Pari opportunità e discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro.

Intervista a Lina Cardona3

  1. Offrendo supporto giuridico e consulenza legale nell’Ufficio della Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Firenze, vorrebbe delineare la normativa relativa al tema Principi e pari opportunità e non discriminazione sul lavoro?

Il libro di Ida Grimaldi ricostruisce con accuratezza l’evoluzione delle pari opportunità nell’ordinamento giuridico italiano. Vorrei anch’io ricostruire in sintesi la normativa che ne costituisce la cornice.

La Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 sancisce, in molti articoli, la parità tra donne e uomini. In particolare, l’art. 3, comma 1 della Costituzione stabilisce l’uguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge, senza distinzione di sesso.

L’art. 37 della Costituzione stabilisce che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di mansioni, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.

Successivamente alla Carta costituzionale, con la Legge n. 860 del 1950 viene introdotto il divieto di licenziamento della donna dall’inizio della gravidanza fino al compimento del primo anno di età del bambino.

Nel 1963, con legge n. 7, viene sancito il divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio. Tale disposizione verrà poi riaffermata, e compiutamente disciplinata, nell’art. 35 del Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna.

Negli anni Settanta si assiste poi a una produzione legislativa di grande rilievo contro le discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro. Viene approvato l’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori che stabilisce, in relazione ai rapporti di lavoro, la nullità degli atti o patti discriminatori, ivi compresi quelli basati sul sesso.

Nel 1977, con la legge n. 903, vengono gettate le basi per un’effettiva parità lavorativa tra uomini e donne. Per la prima volta il legislatore vieta qualsiasi discriminazione basata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, la formazione professionale, le qualifiche e le carriere professionali.

La legge n. 903 del 1977 stabilisce che la lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore.

Con la legge n. 125 del 1991 si introduce il concetto di pari opportunità, di azione positiva e di discriminazione indiretta. Viene istituito il Comitato Pari Opportunità a livello nazionale e vengono rafforzati ruolo e operatività della figura della Consigliera di Parità.

Viene infine emanato il Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna, ossia il Decreto Legislativo n. 198 del 2006. Tale decreto opera un recepimento e un riordino di tutte le precedenti disposizioni e rappresenta oggi la fonte giuridica nazionale vigente in tema di pari opportunità tra uomo e donna.

Il Codice, negli artt. 25 e ss., regola nello specifico la tutela contro le discriminazioni di genere nei rapporti di lavoro.

Nell’art. 25 il Codice definisce il concetto di discriminazione diretta e indiretta nel luogo di lavoro e nell’art. 26 stabilisce che costituiscono discriminazioni anche le «molestie» e le «molestie sessuali».

Nell’art. 27 viene vietata qualsiasi discriminazione sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, la formazione professionale, le qualifiche e le carriere professionali. Nell’art. 28 viene stabilito che la lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore.

Il Codice delle Pari Opportunità definisce anche compiti e funzioni delle Consigliere di Parità.

Le Consigliere di Parità, nominate con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, sono presenti su tutto il territorio italiano, essendo istituite a livello nazionale, a livello regionale, a livello delle Città Metropolitane e a livello degli enti di area vasta.

Le Consigliere di Parità sono figure di Garanzia che offrono una concreta assistenza ogniqualvolta una lavoratrice o un lavoratore subisca un comportamento discriminatorio in relazione al suo rapporto di lavoro. Infatti le Consigliere di Parità, come principale funzione, hanno il compito, nella massima privacy, di sostenere la lavoratrice o il lavoratore offrendo ascolto empatico e consulenza, incontrando le aziende, promuovendo soluzioni transattive, oppure ricorrendo in giudizio.

La figura della Consigliera di Parità ha quindi sia strumenti di tutela stragiudiziale, sia strumenti di tutela processuale.

Alcune delle situazioni discriminatorie che più di frequente si verificano attengono al rientro in servizio della lavoratrice madre dopo il congedo per maternità. La lavoratrice madre ha diritto, al termine del periodo di astensione per maternità (obbligatoria o facoltativa), di rientrare nella stessa unità produttiva ove era occupata all’inizio del periodo di gravidanza, di conservare il posto geografico precedentemente occupato. La lavoratrice madre ha inoltre il diritto di essere adibita alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti.

La situazione che può invece verificarsi è quella in cui la madre lavoratrice, al rientro al lavoro dopo l’assenza per maternità, trovi un ambiente del tutto diverso e atteggiamenti ostili da parte del datore di lavoro e dei superiori.

Di punto in bianco e senza alcun preavviso la sua scrivania non c’è più, o è occupata da qualcun altro o è stata spostata altrove. La lavoratrice comincia a essere messa da parte, viene isolata e marginalizzata dal contesto lavorativo, attraverso un demansionamento o un declassamento.

La lavoratrice colpita da tale discriminazione, qualora non riesca a trovare un accordo con l’azienda, ha, tra le varie possibilità quella di agire in giudizio, personalmente o tramite la Consigliera di Parità munita di delega, proponendo ricorso in via d’urgenza al Giudice del Lavoro, ai sensi dell’art. 38 del Codice delle Pari Opportunità, chiedendo la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.

Il Giudice del Lavoro, adito con tale strumento, qualora ritenga sussistente la discriminazione, ordina all’autore del comportamento denunciato la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. Il Giudice può al contempo condannare l’autore del comportamento illegittimo al risarcimento dei danni anche non patrimoniali, nei limiti della prova fornita.

Preme rilevare che nei procedimenti giudiziari in materia di discriminazione opera, ai sensi dell’art. 40 del Codice delle Pari Opportunità, un regime di distribuzione dell’onere della prova attenuato a favore della parte che denuncia la discriminazione, alla quale è richiesto di presentare elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso.

Ritenuto assolto detto onere spetta poi al datore di lavoro provare che la discriminazione non sussiste.

Si parla, a tal riguardo, di inversione dell’onere della prova, a favore della lavoratrice o del lavoratore denunciante.

Intervista a Raffaella De Biasi4

  1. In qualità di Referente Ufficio Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Firenze, ci vorrebbe parlare del lavoro quotidiano dell’Ufficio per rispondere alle principali sfide e complessità in relazione al tema Principi e pari opportunità e non discriminazione sul lavoro?

Mi preme molto fotografare e rendervi partecipi di ciò che succede proprio all’inizio del nostro servizio attraverso l’Ufficio, che non amo definire lavoro ma preferisco chiamare servizio, in quanto è uno di quei pochi casi dove vorresti non rispettare gli obiettivi del PEG (cioè il Piano Esecutivo di Gestione) perché, se così fosse, ciò si tradurrebbe in una significativa evoluzione della nostra civiltà sociale.

Il nostro Ufficio di Parità ha trascorso due anni, durante i quali, in virtù del Covid-19, i casi (etero o LGBTIQA+) si erano pressocché azzerati.

Il quadro che avevamo nel periodo pre-pandemia faceva riferimento a casi che riguardavano numericamente per circa il 24% le molestie di varia natura, e si collocavano in sedi lavorative diversificate:

  • quindi parliamo di una fascia dirigenziale, che vedeva coinvolti dirigenti con dirigenti;
  • oppure in ambiente di fabbriche di piccole dimensioni dove il rapporto lavorativo era tra la proprietà e il dipendente.

Il 17% richieste delle richieste di aiuto consistevano in informazioni di varia natura.

Dopodiché abbiamo seguito accessi all’ufficio per circa il 50% di molestie verbali e vessazioni piuttosto pesanti, nei quali la proprietà cercava di far desistere il neogenitore a occupare il proprio posto di lavoro.

I sistemi descritti erano e sono molteplici e diversi in relazione al luogo nel quale si presentavano.

Si menzionava: l’aumento sproporzionato di lavoro, il palesare una pseudo incapacità del lavoratore/trice nello svolgere il proprio lavoro, il far pesare permessi spesso concedibili obbligatoriamente per legge.

Insomma il neogenitore accusato finiva per accusare se stesso del fatto di non essere in grado di portare avanti le due attività contemporaneamente e cioè quella genitoriale e quella professionale, optando esausto per rassegnare le dimissioni.

L’iter in questi casi vuole che i lavoratori/trici si rivolgano all’Ufficio territoriale del lavoro competente al fine di rassegnare le proprie dimissioni e per poter ottenere la Naspi, Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego, che di fatto è un ammortizzatore destinato ai lavoratori/trici subordinati. All’interno di questa misura, con la legge Fornero, è stato possibile inserire tra i beneficiari i neogenitori che optano per le dimissioni volontarie entro l’anno di vita del minore.

La rete tra enti inoltre ha fatto passi da giganti e, laddove un ispettore dell’Ufficio territoriale del lavoro riceve la richiesta di dimissioni in periodo di maternità/paternità entro il primo anno di vita del bambino, consiglia al lavoratore/trice di rivolgersi alla Consigliera o Consigliere di Parità della propria provincia e contemporaneamente di provvede a segnalare il caso all’Ufficio della Consigliera.

Nel post pandemia, prendendo in considerazione l’anno in corso, dove l’indubbia pesante crisi economica ha messo in ginocchio tantissime aziende, locali, cinema, bar e ristoranti, i soggetti che si sono rivolti a noi hanno evidenziato disagi diversi rispetto al passato. Abbiamo circa l’80% di situazioni riguardanti la difficoltà oraria, cioè far sì che sia possibile conciliare l’attività lavorativa con le esigenze di cura dei propri figli, prima o dopo l’orario scolastico. Ne sono scaturiti casi di part time tolti o negati, turnazioni modificate e infine importanti difficoltà di comunicazione, spesso anche dovute un po’ a un’esasperazione a volte poco lucida.

Circa un 15% presenta casi di abusi verbali, sessuali e vessatori, in particolar modo in locali pubblici quali negozi, rivendite o bar. Nel restante 5% raggruppiamo richieste di varia natura quali informazioni, mobilità, leggi di invalidità e casi passati poi per competenza alla Consigliera Regionale o ai sindacati.

In questo ufficio il gesto di accoglienza e l’ascolto sono sicuramente gli strumenti essenziali per rendere fluido, confidenziale e costruttivo l’incontro. Spesso chi chiama è una persona convinta che nessuno le presti attenzione, che nessuno capisca la sua situazione, sente di non avere una via di scampo, si sente sola e prova un fortissimo senso di disagio. I racconti sono concitati, molte volte rotti da pianti a singhiozzo, e ancora più spesso si avvertono i gemiti o le vocine dei bimbi. Ecco in quel momento il semplice dire «Si prenda il suo tempo. Io… noi siamo qua per lei, la ascoltiamo» sembra dare al lavoratore/lavoratrice una prospettiva diversa, una visione più serena, quelle tante nuvole di pensieri sparsi diventano pian piano isole delineate da confini, perché in qualche modo il carico è stato accolto, condiviso.

È in quel preciso momento che anche il lavoratore/lavoratrice inizia un percorso più aperto, non chiuso in se stesso/a ma disponibile all’ascolto e alla riflessione. Si apre così il caso, cioè un fascicolo, che potrei definire un fascicolo di vita, uno spaccato delicato, che va maneggiato con cura e al quale non riusciamo mai ad abituarci, perché non stiamo trattando una delibera o un atto dirigenziale. Avendo accolto e compreso, la Consigliera generalmente ha un colloquio di approfondimento con il lavoratore/trice e successivamente procede, se è il caso, con un colloquio di natura equidistante anche con l’azienda, per addivenire a una concertazione e trovare una strada concordata, un equilibrio affinché datore e dipendente riescano a proseguire il cammino professionale insieme, perché il principale auspicio e successo della Consigliera e del suo staff è quello della conservazione del posto di lavoro e dell’instaurarsi di un nuovo equilibrio positivo.

La breve sintesi del nostro quotidiano evidenzia come attività, emozioni, sentimenti si mescolino, si fondano ogni volta per poi animare la professionalità dell’aiuto attraverso l’ascolto e l’intervento.

Intervista a Michele Brancale5

  1. Dal Suo punto di osservazione, in qualità di Capo Ufficio Stampa della Città Metropolitana di Firenze, quali sono le principali sfide e complessità che individua in relazione al tema Principi e pari opportunità e non discriminazione sul lavoro?

Nella Città Metropolitana di Firenze si è verificato, con il passaggio ad altri enti di parte delle funzioni della preesistente Provincia, un fatto interessante. Per la prima volta le donne sono diventate la maggioranza dei dipendenti. Si tratta, come è nei fondamenti stessi delle azioni di parità, di individuare le azioni che possano concretamente incidere su questa situazione. Anche per questo abbiamo deciso di misurarci su quello scenario nevralgico per la azioni di parità che è il lavoro, dedicando questo convegno ai Principi di pari opportunità e di non discriminazione sul lavoro per coglierne sfide e complessità. Il genere non è uno slogan, è una cosa molto seria e va colta, senza cedere alle «macchiettizzazioni».

Attualmente nei Comuni italiani in genere un assessore su 3 è donna; oggi solo il 24% dei parlamentari di tutto il mondo sono donne. In Italia si è scesi nelle ultime legislature dal 35% al 31%, ma c’è il primo premier donna. Non è un problema solo quantitativo, di giustapposizione o di contrapposizione. Le amministratrici hanno svolto un grande lavoro negli enti locali.

Se esistono gli asili nido, i centri antiviolenza, un welfare nonostante la crisi, lo si deve principalmente alle donne, come anche a una crescita di sensibilità degli uomini, ai quali va garantita la possibilità di stare con i figli senza penalizzazioni economiche, che ricadono su tutto il nucleo familiare. Questo lavoro va continuato guardando al di là dei confini e delle competenze dei singoli enti.

La Città Metropolitana di Firenze si è recentemente dotata, nello scorso settembre, del Piano triennale di azioni. I numeri sono importanti: sono indicatori che ci aiutano a fare il punto sulla condizione femminile nel nostro Paese, e c’è la realtà di cui prendere atto del Lgbtq+, acronimo che significa lesbica, gay, bisessuale e transgender, queer, questioning (indeciso), intersessuale, asessuale e altri aggiungono anche ally (simpatizzante).

Credo anche che si debbano interpretare meglio le situazioni, le differenze di trattamento che si vivono all’interno di uno stesso genere o dei generi, a partire dalla condizione anagrafica e di censo. Che vuol dire parità a 60 anni o a 25? Cosa vorrà dire in riferimento alla pensione? Bisogna allargare lo sguardo al vissuto delle nostre città, perché le azioni a favore della parità rispondano a domande che spesso rimangono mute. Questo è l’auspicio e lo spirito che ha animato il nostro lavoro.


1 Avvocato cassazionista, consulente legale della Consigliera di Parità della Provincia di Vicenza curatrice del volume Pari opportunità e discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro, pubblicato da Pacini Editore nel 2022, scelto come testo di riferimento per il Convegno RE.A.DY, organizzato dall’Ufficio della Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Firenze, 17 novembre 2022.

2 L’intervista a Ida Grimaldi è stata condotta da Loriana Curri dell’Ufficio Stampa della Città Metropolitana di Firenze.

3 Dottoressa — Svolge attività di supporto giuridico e consulenza legale nell’Ufficio della Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Firenze.

4 Dottoressa — Referente Ufficio Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Firenze.

5 Dottore — Capo Ufficio Stampa, Città Metropolitana di Firenze.

Indietro