© Edizioni Centro Studi Erickson, Trento, 2023 — Counseling

Vol. 16, n. 1, febbraio 2023

ARTICOLI SU INVITO

La valutazione del personale nei processi di selezione e assessment nella pubblica amministrazione

Luca Tamassia1

Sommario

L’articolo si focalizza sulla valutazione del personale nei processi di selezione e assessment nella pubblica amministrazione con una particolare attenzione all’integrazione tra aspetti legislativi e contributi della Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni. Viene introdotta la gestione delle competenze nella riforma del sistema pubblico come importante leva di crescita culturale nel nostro Paese. La selezione delle risorse umane viene descritta come uno stimolo strategico per l’ente pubblico. Sottolineando come i comportamenti selettivi delle amministrazioni pubbliche non siano ancora in linea con i principi normativi che disciplinano le selezioni, se ne segnalano aspetti di criticità. Si evidenzia la svolta dell’accesso ai ruoli dirigenziali della pubblica amministrazione nel più recente quadro normativo. Dopo aver presentato la valutazione selettiva e le sue fasi, si propone un esempio di procedura selettiva che potrebbe essere impiegata in un concorso pubblico. Il presente contributo offre una prospettiva di riflessione in relazione alla sfida della valutazione del personale nei processi di selezione e di assessment nella pubblica amministrazione.

Parole chiave

Valutazione del personale, Processi di selezione, Processi di assessment, Pubblica amministrazione.

INVITED ARTICLES

Personnel evaluation in selection and assessment processes in the public administration

Luca Tamassia2

Abstract

The article focuses on personnel evaluation in selection and assessment processes in public administration with particular attention to the integration between legislative aspects and contributions from work and organizational psychology. Skills management is introduced in the reform of the public system as an important lever of cultural growth in our country. The selection of human resources is described as a strategic stimulus for the public body. Highlighting how the selective behaviours of public administrations are not yet in line with the regulatory principles governing selections, we identify some critical aspects. We spotlight the turning point in access to managerial roles in public administration in the most recent regulatory framework. After having presented selective evaluation and its phases, an example of a selective procedure is recommended, which could be used in a public exam. This contribution offers a perspective for reflection in relation to the challenge of personnel evaluation in selection and assessment processes in public administration.

Keywords

Personnel evaluation, Selection processes, Assessment processes, Public administration.

Introduzione

L’azione riformatrice legislativa degli ultimi decenni ha promosso l’autonomia degli enti nell’impostare la propria organizzazione, enfatizzando, quindi, ogni sperimentazione rigorosa e possibile di forme innovative, quali: la funzionalità ed economicità della gestione, ponendo l’attenzione agli aspetti gestionali delle risorse umane e finanziarie e superando, pertanto, un’impostazione di cura e tutela formale della legalità; la professionalità e la responsabilità, in termini di acquisizione di capacità, conoscenze e comportamenti più consoni alle nuove esigenze dei cittadini e, di conseguenza, alle rinnovate finalità degli enti; la centralità della risorsa umane nel settore pubblico quale unico propulsore di sistema, da curare e evolvere per il miglioramento dei servizi. La qualità della prestazione individuale, infatti, costituisce la base per la qualità del servizio fornito, atteso che il soggetto erogatore è la persona umana, con le sue caratteristiche, le sue qualità e i suoi limiti. Nell’ottica della valorizzazione della risorsa umana pubblica tesa allo sviluppo organizzativo, infatti, appare oramai imprescindibile, non solo quale precetto normativo operante nel vigente ordinamento giuridico, ma, soprattutto e ancora prima, alla stregua di un’auspicata progressione culturale, spostare l’attenzione dal centro di gravità tradizionale, costituto dalla «persona», alle competenze di cui la persona stessa è portatrice, elevando e sviluppando le caratteristiche non solo conoscitive, ma, eminentemente, quelle attitudinali. Da un possibile percorso di analisi delle competenze, infatti, emerge una nozione di risorsa umana che non comprende solo i saperi, le conoscenze e le nozioni, aspetti certamente rilevanti, ma non esaustivi, quanto, piuttosto, gli atteggiamenti verso il lavoro, il senso della comunicazione e dell’appartenenza al gruppo, i valori collegati alle attività, la capacità di iniziativa, di responsabilità e di prestazione, le attitudini a interpretare adeguatamente la posizione lavorativa, la propensione al ruolo ricoperto o da ricoprire. In quest’ottica fortemente innovativa e incentrata sul «sistema competenze», un possibile modello di competenze strettamente collegato al processo di riprogettazione del profilo professionale esemplifica un percorso che sintetizza il transito culturale dall’approccio centralistico fulcrato sull’individuo (risorsa umana), al più avanzato sistema di valorizzazione delle competenze di cui l’individuo è portatore (competenze), in un ciclo evolutivo che prende le mosse dalla centralità della risorsa umana per approdare, quale momento di arrivo, al capitale delle competenze, utilizzando, quindi, un’icona in grado di rendere più tangibile il processo evolutivo, transitando, così, dalla risorsa umana al capitale di competenze (Tamassia & Angelini, 2022).

La gestione delle competenze nella riforma del sistema pubblico: un’importante leva di crescita culturale del nostro Paese

L’approvazione della Legge-delega n. 124 del 7 agosto 2015, di riforma dell’amministrazione pubblica e del lavoro alle dipendenze da questa, ha costituito un deciso passo avanti nel processo di bonifica del sistema pubblico e delle culture che lo hanno, da sempre, contraddistinto. Certamente l’impianto normativo non va esente da profili di sofferenza, soprattutto sul versante dell’indebolimento dei ruoli dirigenziali allorquando, nel contempo, agli stessi s’impone l’esclusività della responsabilità gestionale, pur tuttavia il disegno di riforma degli apparati pubblici coglie alcuni punti di criticità di non poco respiro, ponendosi sul binario non solo e non tanto della revisione tecnico-giuridica degli istituti, quanto, piuttosto, dell’impianto culturale che deve necessariamente accompagnare un mutamento genetico dell’apparato pubblico, all’insegna delle imprescindibili metamorfosi strutturali di cui questo abbisogna. L’elemento di maggiore spicco valoriale, in vero, in tale contesto di trasformazione, può rinvenirsi nel largo uso del regime delle «competenze» generalmente applicato alle risorse umane, di cui il legislatore ha disseminato il mutamento, regime che appare, infatti, piuttosto diffuso nell’assetto riformistico della legge. Tracce più o meno evidenti di questo si rinvengono nella nuova disciplina di principio che interessa la dirigenza pubblica (si veda, a tale proposito, l’articolo 11, comma 1, lettera (g), della norma), ma ciò che più colpisce è l’assunzione del principio di «rilevazione delle competenze dei lavoratori pubblici» nell’ambito dei fondamentali principi e criteri direttivi di delega recati dall’articolo 17, comma 1, lettera (i)), della Legge n. 124/2015, quale criterio orientativo di basilare rilevanza nella realizzazione del processo d’innovazione delle culture pubbliche. Il principio non è certamente nuovo, non di meno i tentativi di introdurlo nel macchinario pubblico italiano risultano episodici e isolati, forse per scetticismo o, più probabilmente, perché la strutturazione di un sistema che opera per competenze sarebbe in grado di rendere assai meno manipolabile tutta la filiera valutativa delle risorse umane, dall’accesso ai percorsi di carriera, con effetti gravidi di conseguenze sul piano dei benefici che questo sortirebbe. Alla buon’ora, dunque. In altri sistemi, da quello francese a quelli più latamente di tradizione mitteleuropea, pur con diversi approcci, il sistema appare da decenni strutturato e funziona a regime, mentre nel nostro Paese i colpevoli ritardi conseguenti, soprattutto, alla degenerativa utilità del mantenimento di sistemi gestionali più permeabili alle compulsazioni, hanno prodotto una repulsione pregiudiziale all’introduzione di meccanismi di crescita che operano, soprattutto, sul versante dell’incremento qualitativo dei servizi offerti dall’amministrazione pubblica. Il principio di riforma, quindi, tende a indurre e a mettere a disposizione delle direzioni, intese quali livelli di responsabilità gestionali, un «modello di competenze» relativo alle risorse umane, alla stregua di sviluppare uno strumento operativo rispetto al quale misurare il livello di competenza raggiunto dal titolare di una posizione di lavoro, cui commisurare anche componenti della retribuzione e/o pianificare percorsi di sviluppo mediante procedure di crescita interna e/o strutturati percorsi di formazione. Riconoscere le competenze necessarie per occupare una posizione di lavoro e confrontarle con le competenze di cui attualmente dispongono i membri dell’organizzazione consente, infatti, la pianificazione di un percorso di sviluppo delle risorse umane dell’ente, che può portare essenzialmente alla valorizzazione delle competenze esistenti o potenzialmente sviluppabili attraverso i meccanismi di valorizzazione professionale (si pensi ai regimi di premialità strutturati definiti «progressione economica orizzontale»), oppure all’utilizzo «mirato» e «armonizzato» dello strumento della formazione, proprio allo scopo di integrare lo sviluppo delle persone con le strategie e i mutamenti organizzativi e culturali che scuotono la pubblica amministrazione.

Infatti, una volta individuati i processi che fanno capo a ogni macrostruttura, le posizioni di lavoro dagli stessi implicate, una volta tratteggiato il ruolo organizzativo ascrivibile a ognuna delle posizioni di lavoro monitorate e le competenze necessarie per l’efficace interpretazione dello stesso, diviene possibile individuare in maniera «mirata» anche le caratteristiche delle figure professionali di cui è necessario avvalersi. Immaginando, quindi, l’evoluzione dei processi da gestire e dell’organizzazione deputata a gestirli, diviene possibile pianificare e valutare le diverse alternative modalità di acquisizione di tali professionalità. Nel caso, infatti, in cui si individuino internamente le competenze o le potenzialità necessarie per occupare la singola posizione, l’amministrazione potrà pianificare un percorso di carriera o di sviluppo professionale che permetta, agli operatori, di poter ricoprire la posizione previa realizzazione di corsi di formazione specifici, valorizzazioni interne, variazioni di profilo, evoluzioni di carriera, ecc. Nel caso, invece, che internamente non si rinvengano le competenze richieste dalla posizione analizzata o non vi siano potenzialità tali da poter prevedere un percorso di riprofessionalizzazione o di carriera e/o percorsi di mobilità, sarà necessario orientarsi nella ricerca esterna di un soggetto che abbia determinate caratteristiche per occupare la posizione di lavoro da ricoprire. L’individuazione delle competenze necessarie per occupare una posizione di lavoro costituisce, dunque, il presupposto indispensabile per il successivo percorso di rilevazione delle competenze di cui attualmente dispongono i membri dell’organizzazione, in funzione della creazione di un sistema dinamico strutturato in una specifica banca dati che consenta la pianificazione di efficaci percorsi di sviluppo delle risorse umane dell’Ente, secondo quanto rappresentato. Ci si può domandare il motivo per il quale il sistema di riforma investa così decisamente sul sistema delle «competenze», al punto da assurgere il modello a principio riformatore del lavoro pubblico. La risposta è sotto gli occhi di tutti, anche e soprattutto degli utenti di questo sistema: buona parte delle persone che lavorano oggi nelle amministrazioni pubbliche, infatti, specialmente nelle dimensioni più contenute, sono state assunte attraverso una selezione «per titoli ed esami» o «per prove» esclusivamente a contenuto cognitivo di natura tecnico-professionale. Ciò che questo meccanismo di selezione è in grado di misurare è il «sapere» che le persone possiedono su un determinato campo e alcune abilità applicative individuali di tale sapere (abilità tecniche). Negli ultimi anni sono profondamente cambiati gli obiettivi perseguiti dalle strutture pubbliche. Basti pensare alle aspettative «qualitative» verso il servizio erogato espresse dall’utenza. Siamo arrivati a una situazione nella quale la precisione tecnica della prestazione viene data per scontata, mentre l’aspetto critico è legato alla relazione attraverso la quale la stessa viene fornita. Parlando di abilità professionali, oggi, di fatto, si va a parare su tutto ciò che concerne le capacità di soddisfare l’utenza attraverso l’erogazione di un servizio. Per poterle identificare con buona approssimazione occorre muovere dai servizi/prodotti attesi, per cui, una volta identificate le capacità necessarie attraverso questa procedura, sarà agevole cercare le persone che le posseggono. Per abilità qui si intende quell’insieme di elementi che concorrono a strutturare l’azione dell’operatore in maniera efficace rispetto a uno o più obiettivi prestabiliti. Fare un inventario generale e assoluto delle abilità di un individuo appare oggettivamente impossibile, mentre è certamente possibile, in ogni situazione organizzativa concreta, identificare le abilità necessarie all’operatore che intenda agire a livello di eccellenza, renderle misurabili e verificare chi le possiede e chi non le agisce. Al fine di definire le abilità fondamentali necessarie a chi opera in un’organizzazione di servizi, oggi, l’assetto richiesto può seguire il seguente menù, che può aiutare a mettere in luce alcune dimensioni professionali chiave e le difficoltà connesse a una loro conquista, in particolare:

  1. comportamenti di gruppo
  2. comportamenti individuali
  3. atteggiamenti
  4. conoscenze.

Lo svolgimento di un ruolo professionale in un qualunque ente, quindi, implica l’uso di capacità a tutti e quattro i livelli, mentre, di fatto, oggi il territorio presidiato abitualmente è quello delle sole conoscenze tecnico-specialistiche. Poco si fa a livello di sviluppo di atteggiamenti funzionali, ancora meno a livello di comportamenti individuali. I comportamenti di gruppo, poi, sono spesso fuori campo. Normalmente i comportamenti (individuali e di gruppo) non sono percepiti come problema. Rispetto al funzionamento di un gruppo, poi, molti pensano, ingenuamente, che bastino comportamenti individuali corretti per farlo funzionare. Invece, per lavorare in gruppo o per guidare un gruppo di lavoro servono abilità comportamentali specifiche che non sono acquisibili, se non in parte, per via intuitiva o sperimentale. Ogni ruolo si colloca all’interno di un contesto organizzativo in mutamento costante ed è impegnato a raggiungere obiettivi la cui dimensione qualitativa cambia in continuazione. La qualità della prestazione, pertanto, essendo legata alla soddisfazione delle aspettative dell’utente, non può essere definita a priori se non come processo volto a soddisfare il cliente, chiunque egli sia. La sua definizione precisa può avvenire solo quando si materializza «quel cliente particolare». La trasformazione pubblica, quindi, imperniata verso un avvicinamento culturale e metodologico alle competenze individuali, preme sull’acceleratore della qualità dei servizi, innestando un motore che costituirà, in prospettiva, un vero propulsore del cambiamento, in un approccio concretamente qualitativo dei profili erogativi. L’auspicio, dunque, non può essere che quello per il quale il mutamento non debba arenarsi sulle solite resistenze dei detrattori, coloro che, della critica sterile e gratuita, hanno da tempo fatto lo strumento per combattere ogni cambiamento all’insegna del mantenimento di una situazione che se, da un lato, non soddisfa l’utenza, dall’altro lato non gratifica neppure il personale che, quotidianamente, con grandi sacrifici, con umiltà e con la cultura del servizio (e non con quella del potere), assicura il funzionamento dei servizi pubblici in questo Paese.

La selezione delle risorse umane quale leva strategica per l’ente pubblico

Con l’avvento della recente direttiva sul piano dei fabbisogni di personale, approvata con decreto ministeriale dell’8 maggio 2018, l’atto di indirizzo ha colto nel segno nella nuova impostazione di un istituto, il profilo professionale, la cui portata appare assai sottovalutata nel vigente ordinamento, determinando, in tal modo, una virata a 180° rispetto alla cultura imperante nel sistema di gestione del rapporto di lavoro pubblico, sin dalla sua fase genetica. Tale novità, non particolarmente avvertita dagli operatori tutti, costituisce viceversa, a parere di chi scrive, la vera e propria innovazione culturale che si innesta, alla buon’ora, nel ciclo di gestione della relazione lavorativa, ancorandola non più ai tradizionali formalismi, come il cd. «mansionario», cultura oramai consegnata alla storia del lavoro pubblico, ma sviluppandone maggiormente la vocazione attitudinale, secondo il teorema, del tutto fondato, per il quale la qualità della prestazione individuale costituisce la base per la qualità del servizio fornito. Esaminando i contenuti dell’atto di indirizzo, infatti, lo stesso prescrive espressamente, al punto 5, rubricato: «I profili professionali», che tutte le amministrazioni pubbliche debbano procede a una necessaria revisione dei propri profili professionali, provvedendo a rideterminarne il contenuto in atto nel proprio contesto organizzativo e statuendo, in particolare, che le amministrazioni debbano «[…] individuare i profili professionali in coerenza con le funzioni (missioni) che sono chiamate a svolgere, della struttura organizzativa, dei processi e, non da ultimo, delle relazioni interne ed esterne e del codice etico e comportamentale. I profili professionali dovranno tenere conto del grado di responsabilità connesso a ciascuna posizione e, quindi, del posizionamento all’interno dell’organizzazione, delle relazioni richieste, delle attività da svolgere, degli strumenti da utilizzare (job description). Occorre, poi, definire le competenze richieste per ciascun profilo professionale in relazione alle conoscenze, alle capacità e alle caratteristiche comportamentali. La corretta individuazione dei profili professionali consente, poi, nella fase del reclutamento, di avere migliori strumenti per selezionare le risorse umane adeguate e per meglio finalizzare la scelta dei candidati».

L’ulteriore atto d’indirizzo adottato dal Dipartimento della Funzione Pubblica in materia di procedure concorsuali, poi, di cui alla direttiva n. 3 del 24 aprile 2018 in materia di «Linee guida sulle procedure concorsuali», integrando le finalità della rilevazione delle competenze nell’ambito dell’attività revisionale di profili professionali, ha esplicitamente prescritto che «[…] il concorso serve a valutare non solo la preparazione, ma anche le capacità e le competenze. Le domande, dunque, non dovrebbero essere prevalentemente volte a premiare lo studio mnemonico, ma dovrebbero includere sia quesiti basati sulla preparazione (generale e nelle materie indicate dal bando), sia quesiti basati sulla soluzione di problemi, in base ai diversi tipi di ragionamento (logico, deduttivo, numerico)», con ciò stesso esplicitando la ratio dell’obbligo di ricognizione delle competenze quale contenuto fondamentale della costruzione dei profili professionali in un ambito pubblico organizzato, ovvero creare i presupposti per impostare sistemi di valutazione selettiva nel contesto delle procedure concorsuali pubbliche non limitati alle mere conoscenze teoriche, spessore di cognizioni del tutto inadeguato a rappresentare l’idoneità ad assumere un ruolo nel contesto dell’amministrazione pubblica, bensì estesi ad accertare le componenti delle capacità soggettive e dei comportamenti personali, indagando, con appropriati strumenti di rilevazione, gli aspetti di propensione individuale che, soli, possono fornire il quadro di adeguatezza dell’individuo a rivestire una posizione funzionale nel contesto organizzativo pubblico, secondo la logica che chi sa non sempre è in grado di agire un ruolo. D’altra parte i richiamati atti di indirizzo (decreto ministeriale e direttiva del DFP) altro non rappresentano che la compiuta attuazione di un principio fondamentale da sempre operante nel nostro sistema ordinamentale che regge le procedure concorsuali, ancorché mai colpevolmente applicato, derivante dalla chiara previsione contenuta nell’articolo 35, comma 3, lettera (b)), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, il quale statuisce, per tutte le amministrazioni pubbliche, che «3. Le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai seguenti principi: (…) b) adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire». Addirittura il principio legislativo antepone l’accertamento del piano attitudinale rispetto a quello professionale, nella saggia consapevolezza che la carenza delle propensioni al ruolo non sia diversamente rimediabile, a differenza dell’asset relativo alle conoscenze professionali, del tutto ricostruibile «in laboratorio» e il cui difetto è certamente colmabile con appropriati interventi formativi, di tutoraggio, di apprendimento «sul campo» e di autoapprendimento.

La rilevazione delle competenze inerenti al ruolo, quale strumento di diagnosi del nuovo profilo professionale, schiude, quindi, la nuova dimensione dell’approccio comportamentale e delle capacità, grandezze misurabili e adeguate alla posizione che s’intende ricoprire, valorizzando non solo la partizione delle conoscenze astratte, ma svelando le inclinazioni e i talenti di cui tanto abbisogna il sistema pubblico, come quello privato. Si apre, dunque, la strada alla verifica di nuovi parametri che, nell’ambito delle procedure concorsuali d’ingresso nel mondo pubblico, consentiranno progressivamente di recintare la cultura del sapere per abbracciare, più convintamente, quella delle attitudini soggettive, la vera differenza per la qualità delle erogazioni di servizi. Le nuove procedure concorsuali, pertanto, dovranno essere indette sulla base di un’attenta rilevazione delle competenze agite da ciascun ruolo, immedesimato nel profilo professionale, strumento di valutazione per l’inserimento e l’impiego delle più moderne tecniche di selezione basate sull’accertamento dei requisiti attitudinali, come voluto dallo stesso principio ordinamentale, avendo la capacità di scegliere tra i diversi strumenti di valutazione che le attuali metodiche d’intervento sono capaci di offrire, distinguendo tra gli strumenti di big five, problem solving, BEI, assessment, in basket, ecc. (Mariani, 2011). La sfida è appassionante e impegnativa insieme, ma l’incapacità di strutturare tali sistemi nell’ambito delle procedure concorsuali oggi potrebbe veramente scontare la loro illegittimità per non conformità con il modello normativo imposto dal legislatore. Un altro tassello sulla via della modernizzazione del sistema pubblico.

La nuova impostazione «educativa» dell’approccio selettivo, nell’ottica della verifica attitudinale, porta con sé alcuni esempi dei fattori concreti che potrebbero concorrere a formare il nuovo assetto culturale della selezione nella pubblica amministrazione: le conoscenze, intese come insieme di «saperi» teorici e pratici acquisiti, memorizzati e mobilitabili (il sapere); la personalità e le attitudini, intese come caratteristiche fisiche e psichiche atte a sviluppare capacità (la propensione); le capacità, intese come possibilità di svolgere adeguatamente un compito o ricoprire un ruolo professionale o acquisire competenze (il saper fare); le competenze, intese come insieme dinamico di «saperi» mobilizzati in una concreta attività; il potenziale, inteso come insieme di attitudini e di capacità idonee a strutturare le competenze necessarie per affrontare situazioni e ambienti nuovi (il saper essere).

La psicologia del lavoro e delle organizzazioni, in un contesto di forte modernizzazione e di conseguente rilancio dei sistemi produttivi, sia privati, ma ancor più pubblici, può dare un contributo determinante e fondamentale, sia in termini qualitativi che di sviluppo e diffusione culturale (Augugliaro & Majer, 1993; Bartolomeo & Borgogni, 2018; Levati & Mariani, 2004; Mariani, 2011; Tamassia & Angelini, 2022). L’errore più comune, negli ambienti di produzione di beni e servizi, è quello di sottovalutare l’apporto d’inimmaginabile utilità che la psicologia offre, applicando, al mondo del lavoro organizzato, tecniche, esperienze, metodologie e culture senza le quali risulta pressoché impossibile scongiurare errori e prospettive distorte, con conseguenti fenomeni di diseconomia produttiva e distonie organizzative difficilmente fronteggiabili, oltre che particolarmente onerose.

Il suggerimento principale che si ritiene di poter offrire, il quale, peraltro, emerge anche dalle precedenti considerazioni, è sintetizzato in un’immagine: il costo di un adeguato investimento sulla risorsa umana non varrà mai la spesa sostenuta per fronteggiare l’incapacità e l’inettitudine a un ruolo. Questo significa che occorre imboccare, coraggiosamente, definitivamente e in modo deciso, il percorso di valorizzazione della risorsa umana sin dal momento d’ingresso all’interno del sistema produttivo, operando quell’investimento, in termini di adeguatezza del processo selettivo e valutativo, che valga a scongiurare il rischio, sempre elevato, d’incorrere nell’errore selettivo e di opzione.

Il sistema di sviluppo professionale e di acquisizione delle professionalità nelle amministrazioni pubbliche, con particolare riguardo agli enti locali, dovrebbe, oggi, rispondere a un diverso approccio culturale, proprio delle organizzazioni imprenditoriali (ancorché le differenze istituzionali sussistano e permangano), approccio che può emblematicamente risolversi in un’affermazione di transito, quasi una parola d’ordine che deve necessariamente presiedere le selezioni e rappresentarne la logica più profonda. Tale affermazione si compendia nell’esigenza di condurre a termine un difficoltoso guado: il passaggio dalla cultura dell’adempimento alla cultura della strategia, un transito che deve compiersi proprio nel primo investimento che l’impresa opera: l’acquisizione della risorsa umana. Alcuni dei principi di riferimento che hanno caratterizzato l’azione riformatrice legislativa degli ultimi decenni sono così descrivibili: innanzi tutto l’autonomia degli enti nell’impostare la propria organizzazione, enfatizzando, quindi, ogni sperimentazione rigorosa e possibile di forme innovative; la funzionalità ed economicità della gestione, ponendo l’attenzione sugli aspetti gestionali delle risorse umane e finanziarie e superando, pertanto, un’impostazione di cura e tutela formale della legalità; la professionalità e la responsabilità in termini di acquisizione di capacità, conoscenze e comportamenti più consoni alle nuove esigenze dei cittadini e, di conseguenza, alle rinnovate finalità degli enti.

Nel contesto della disciplina dell’accesso all’impiego il quadro normativo si caratterizza per i seguenti elementi:

  1. il concetto di selezione pubblica ha preso il posto del concetto di concorso pubblico, intendendo per selezione un procedimento la cui finalità principale è quella di selezionare la professionalità maggiormente idonea in relazione al profilo ricercato;
  2. si è affidato all’ordinamento degli enti la norma specifica che deve regolare modalità e procedure per l’effettuazione delle selezioni.

Non ci si può esimere, a questo punto, dall’effettuare un’amara, ancorché realistica, constatazione: troppo poche, in effetti, risultano le amministrazioni pubbliche che, a oggi, hanno introdotto, disciplinato e utilizzato strumenti e tecniche di selezione intese alla valutazione delle attitudini al ruolo e della propensione alle competenze richieste, essendo ricorse, per lo più, ai tradizionali ed, oramai, non più sufficienti strumenti selettivi a impronta tecnico-professionale, meccanismi che, ancora oggi, fanno, purtroppo, da padrone sulla scena delle selezioni pubbliche.

Gli enti possono, in base alla vigente legislazione, porre in essere un ampio ventaglio di sperimentazioni legate alle varie forme e diverse modalità di selezione, sia in termini di procedure selettive esterne, sia in relazione alle procedure selettive interne per progressione di carriera, sia, ancora, in ordine alle procedure selettive interne per selezione comparativa.

La selezione consiste, quindi, innanzitutto nell’individuare le qualità e i requisiti necessari per svolgere determinati compiti, nell’identificare e misurare le qualità attuali e potenziali, le caratteristiche della personalità, gli interessi, le aspirazioni dei vari individui presi in esame, ed, infine, nello scegliere gli individui che possiedono qualità e caratteristiche a un livello sufficiente e adeguato per assumere le competenze e svolgere i compiti assegnati con soddisfazione propria e dell’organizzazione in cui operano.

Si tratta, pertanto, di promuovere ogni possibile sperimentazione di forme e di metodologie selettive nella pubblica amministrazione orientate a perseguire alcuni importanti risultati quali: la definizione di un processo di selezione teso alla valorizzazione della risorsa umana dell’ente, l’introduzione di un approccio che vede la valutazione come processo di supporto e di servizio e non finalizzato a logiche ispettive e di controllo, la individuazione di fabbisogni del personale in base alle nuove esigenze organizzative e funzionali, legando quindi la politica del personale alla strategia dell’ente nel suo complesso.

Si tratta, in sostanza, di attuare un’attività tesa a scegliere il soggetto che, tra gli altri, risulta maggiormente idoneo a ricoprire un determinato ruolo in virtù delle conoscenze, delle competenze e delle motivazioni che possiede. Tecnicamente significa confrontare le conoscenze, le competenze, le attitudini e le motivazioni dei soggetti da selezionare con i requisiti necessari per esercitare il ruolo relativo alla posizione che si intende ricoprire (Tamassia & Angelini, 2022).

I comportamenti selettivi delle amministrazioni pubbliche: non sono ancora in linea con i principi normativi che disciplinano le selezioni

Pubblica amministrazione, si cambia. E la trasformazione parte dalle persone, dalla risorsa umana, dai (futuri) dipendenti pubblici. Inizia, in altri termini, dalle procedure di accesso all’impiego e di «reclutamento» dei lavoratori.

In tale contesto, il punto di partenza è la constatazione che il sistema di selezione del personale negli enti pubblici deve prevedere nuove modalità operative, tali da favorire il passaggio dalla cultura dell’adempimento (il selezionare per osservare norme, processi, doveri) a quella della strategia (lo scegliere la persona giusta da collocare nel posto giusto). Sono le più recenti leggi — in particolare, l’art. 35, comma 3, lettera (b), del Decreto Legislativo n. 165/2001 — che lo impongono ed è la logica stessa dei moderni meccanismi lavorativi che lo richiede. Una ricerca di personale fondata su basi nuove, oltre che uniformarsi al dettato normativo, rappresenta il primo tassello di un tale passaggio culturale nel sistema pubblico.

Nell’ambito della disciplina dell’accesso all’impiego, il legislatore ha consegnato alla pubblica amministrazione due elementi basilari: da un lato, la sostituzione del concetto di «concorso» (insieme preordinato di fasi procedimentali) con quello di selezione (comportamento di scelta dei collaboratori), in particolare la selezione della professionalità più idonea in relazione al profilo ricercato; dall’altro, l’ampia autonomia dell’ente nel regolare le modalità per effettuare le selezioni.

Da tale impostazione normativa discendono talune considerazioni che meritano il dovuto rilievo.

Innanzi tutto, gli attuali meccanismi selettivi a impronta tecnico-professionale (cioè fondati esclusivamente sul «sapere» professionale) sono quanto mai obsoleti, superati, insufficienti, inadeguati al nuovo investimento sulla risorsa che l’amministrazione deve operare e la normativa più recente ha preso atto di tale deficit rilanciando con prospettive operative concrete. Quali? Quelle puntualmente dettate dal citato articolo del decreto legislativo n. 165/2001, vale a dire la necessità, per tutti indistintamente gli enti pubblici, di adottare, nel contesto di disciplina e di organizzazione delle selezioni, meccanismi selettivi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali, professionali e anche motivazionali richiesti in funzione della posizione da ricoprire. Questa è la rilevante novità normativa che la pubblica amministrazione deve recepire nei propri ordinamenti e, in modo sempre crescente, nell’ordinaria cultura di gestione delle risorse umane e sulla quale l’amministrazione pubblica generalmente mostra, purtroppo, a tutt’oggi, gravi ritardi. La strada, comunque, è stata chiaramente e irretrattabilmente tracciata dal legislatore delegato. L’azione conseguente è una non più rinviabile revisione dell’insieme delle metodologie sinora utilizzate per la ricerca del personale, necessaria, diremmo «obbligata», sia per ottemperare alla legge, sia per aumentare realmente l’efficienza della macchina amministrativa e la soddisfazione del candidato, futuro dipendente pubblico, nel solco culturale per il quale assumere personale non significa adempiere meramente a un obbligo, ma ha il senso di rappresentare il primo reale e, forse, più significativo investimento strategico sulla risorsa «persona-professionalità».

La nuova impostazione «educativa» dell’approccio selettivo, nell’ottica della verifica attitudinale, porta con sé alcuni valori, costituiti dai fattori concreti che concorrono a formare il nuovo assetto culturale della selezione nella pubblica amministrazione: le conoscenze, intese come insieme di «saperi» teorici e pratici acquisiti, memorizzati e mobilitabili (il sapere); la personalità e le attitudini, intese come caratteristiche fisiche e psichiche atte a sviluppare capacità (la propensione); le capacità, intese come possibilità di svolgere adeguatamente un compito o ricoprire un ruolo professionale o acquisire competenze (il saper fare); il potenziale, inteso come insieme di attitudini e di capacità idonee a strutturare le competenze necessarie per affrontare situazioni e ambienti nuovi (il saper essere).

Terminologie, culture, metodologie di analisi e di lavoro, concetti inediti, questi, negli enti pubblici. Tutti strumenti, però, che, se applicati e sviluppati, garantiranno, ai «clienti» della pubblica amministrazione, servizi e performances sempre più di qualità e, ai lavoratori, uno standard professionale più elevato e soddisfacente.

D’altra parte non conformarsi ai principi dettati, in materia di selezioni, dal sistema di riforma dell’impiego presso la pubblica amministrazione, espone le stesse amministrazioni a gravi e reali rischi d’illegittimità del proprio operato, laddove gli enti proseguano, nell’attività di selezione, a impiegare strumenti di valutazione del solo «sapere» professionale e non, anche, delle attitudini dei candidati, con evidente violazione dei principi selettivi dal legislatore imposti. Si pensi, ad esempio, al primo candidato non utilmente collocato nella graduatoria di merito di un concorso pubblico che ricorra contro l’esito della selezione sostenendo la non conformità della stessa ai vigenti principi legislativi in materia di selezioni pubbliche…che motivazioni si potrebbero mai addurre per aver clamorosamente e colpevolmente omesso di espletare le doverose valutazioni attitudinali?

L’accesso ai ruoli dirigenziali della pubblica amministrazione nel più recente quadro normativo: la vera svolta

La vera svolta nella materia dell’introduzione di sistemi valutativi per l’accesso ai ruoli della pubblica amministrazione si è avuta, tuttavia, molto recentemente e, in particolare, a opera del DL n. 80/2021, che ha rivisto sia i meccanismi di reclutamento del personale che quelli che attengono all’accesso ai ruoli dirigenziali presso tutte indistintamente le amministrazioni pubbliche. Possiamo dire, ora, che, finalmente dopo oltre vent’anni (!) dall’introduzione del principio sopra visto, correlato alla necessità di strutturare sistemi di valutazione delle attitudini nei processi d’ingresso ai ruoli della pubblica amministrazione di cui al citato articolo 35 del Dlgs n. 165/2021, il quadro normativo generale si è completato, rassegnando specifiche e chiare disposizioni che obbligano, gli enti pubblici, a modificare i propri comportamenti selettivi, mediante l’obbligo di introdurre e utilizzare la valutazione delle competenze come base di selezione comparativa nell’ambito pubblico.

L’intervento più interessante, dal punto di vista della novità, attiene all’accesso ai ruoli dirigenziali pubblici che, vista la loro posizione apicale nel contesto organizzativo degli enti, riveste carattere prioritario in termini di trattazione.

L’accesso alla qualifica dirigenziale dopo l’avvento del decreto «rafforzamento» approvato, in via d’urgenza, il 9 giugno 2021 (DL n. 80/2021) e convertito in legge il 6 agosto successivo (Legge n. 113/2021), infatti, ha subito numerose novità che se, da un lato, adeguano le procedure di reclutamento alle misure contenute nel piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), in particolare per quanto attiene alla valutazione delle competenze, dall’altro lato hanno introdotto azioni di valorizzazione delle professionalità interne agli enti che, per quanto attiene alle modalità di accesso al ruolo dirigenziale, sono mancate nel tempo, in quanto mai disciplinate espressamente da norme legislative. Anche tale previsione, come il ritorno a regime delle progressioni verticali quale meccanismo valoriale delle professionalità interne, risiede nei correttivi apportati, dall’art. 3 del DL n. 80/2021, alle norme di principio recate dall’articolo 28 del Dlgs n. 165/2001, da tradursi, all’interno dell’ordinamento regolamentare delle amministrazioni pubbliche. La prima grande novità legislativa trova cittadinanza nella previsione della necessaria introduzione, nell’ambito del ciclo gestionale del percorso selettivo, della valutazione delle competenze, in tale sede indicate quali: capacità, attitudini e motivazioni individuali, da rilevarsi e valutarsi comparativamente mediante l’ingresso di prove, sia scritte che orali, finalizzate alla loro valutazione e definite secondo metodologie e format universalmente riconosciuti.

Il passaggio, come ben può comprendersi, non è certamente di poco conto, attesa la rilevanza, oltre che la novità, della valorizzazione delle competenze che anche il piano nazionale di rilancio ha assunto alla stregua di una delle quattro misure di ripresa per l’efficienza dell’amministrazione pubblica. Ciò sta a significare, pertanto, che l’ordinamento interno delle amministrazioni pubbliche dovrà armonizzare la propria disciplina che regola l’accesso alle posizioni dirigenziali alle disposizioni di principio che ora prescrivono, oltre alla tradizionale verifica delle conoscenze tecnico-professionali, anche la valutazione comparativa delle competenze, intese, queste ultime, come capacità, comportamenti e profili motivazionali di accesso al ruolo. L’innovazione legislativa asseconda un processo culturale che viene da lontano, ma che, nel nostro Paese, a differenza di altri partner europei, non ha avuto particolare fortuna e che, pertanto, incontrerà non poche difficoltà nella sua pratica applicazione, a partire dall’esatto confinamento della nozione di «competenze», sino ad arrivare ai particolari strumenti di rilevazione e valutazione delle stesse, in grado di applicare metodologie e standard i cui esiti siano generalmente riconosciuti.

L’altro elemento di grande novità, sotto altro profilo, riguarda l’espressa previsione normativa dell’operatività di riserve a favore del personale interno, già in servizio presso l’ente, che sia dotato di particolari requisiti, previsione che non annovera precedenti di rilievo nel contesto dei provvedimenti normativi inerenti alla più generale riforma del lavoro pubblico realizzata nell’ultimo quarto di secolo. Sotto tale ultimo aspetto, quindi, inerente al sistema di valutazione destinato ai dipendenti riservatari, la disposizione legislativa reitera la previsione di impiego di procedure comparative già varata, in precedenza, per la gestione dei procedimenti di progressione di carriera, locuzione che, in effetti, lascia spazio all’introduzione di percorsi di carriera agevolati rispetto alla tradizionale procedura concorsuale, quanto meno in relazione ai temuti percorsi di guerra che costituiscono la successione di prove di esame che caratterizzano questo particolare percorso concorsuale, normalmente, per intuibili motivazioni, più complesso e strutturato degli altri. La valutazione comparativa prevista dalla disposizione di legge non depone, necessariamente, per l’applicazione del tipico paradigma concorsuale, bensì per la realizzazione di un percorso semplificato avente, alla base, due sistemi di valutazione, in particolare proiettati su binari diversificati di apprezzamento, orientati a una verifica incrociata di abilità e competenze, ovvero:

  1. valutazione di specifici profili di arricchimento professionale tratti da elementi di integrazione culturale ed esperienziale;
  2. valutazione delle competenze possedute, con specifico riferimento alle attitudini e alle propensioni necessarie per l’accesso al ruolo.
    • I due asset di capitalizzazione valutativa, pertanto, costituiscono, oggi, l’unitario momento di selezione del personale interno beneficiario dei percorsi di riserva e vengono tradotti, dalla norma in esame, per quanto attiene alla valutazione delle competenze, secondo le seguenti componenti, che rappresentano altrettanti profili di specifica valutazione che presiedono l’ambito d’indagine:
    1. valutazione delle capacità
    2. valutazione delle attitudini
    3. valutazione delle motivazioni individuali.

Resta inteso, ovviamente, che il momento valutativo delle competenze, in quanto ancorato alla rilevazione delle capacità e dei comportamenti agiti dal ruolo dirigenziale, dovrà essere gestito da personale specializzato nell’impostazione e nel governo dei metodi di valutazione attitudinale che, conformemente all’esplicita previsione legislativa, dovrà integrare la composizione della commissione selettiva e assicurare l’impiego di tecniche metodologiche e di standard valutativi di generale impiego e di riconosciuta attendibilità.

La valutazione selettiva e le sue fasi processuali

Quando si parla di valutazione in Pubblica Amministrazione bisogna tenere presenti alcune regole, alcuni principi e alcune norme che devono essere rispettate. Laddove si tratti di valutazione attitudinale e si effettuino i colloqui quale strumento di valutazione delle attitudini stesse, uno dei problemi emergenti è costituito dal fatto che il colloquio sia retto o meno dal principio di pubblicità, e quale sia, in caso di presenza di dati sensibili, l’equilibrio tra il rispetto della privacy e il diritto di ciascuno ad assistere alle prove pubbliche di selezione e in particolare al colloquio selettivo.

Il legislatore sostiene sostanzialmente che, quando si individuano gli strumenti di selezione che si vogliono adottare, occorre preventivamente verificarne, dapprima, gli aspetti attitudinali e successivamente quelli professionali, non prima gli aspetti professionali e poi quelli attitudinali, il legislatore, cioè, antepone, in ordine di rilevanza, gli aspetti attitudinali a quelli professionali.

Viene introdotto il principio di valutazione attitudinale, ma non è da considerare attitudine in generale o fine a se stessa, ma attitudine in funzione del ruolo da agire, finalizzata alla posizione da ricoprire; la misurazione delle attitudini deve essere, cioè, funzionale al posto specifico che l’amministrazione intenda occupare. Si è di fronte a un problema rilevante per le procedure concorsuali, perché, in realtà, in pochi casi ci si attiene a questo principio, proprio in quanto si basano le selezioni soprattutto su una valutazione professionale, trascurando, pressoché completamente, la valutazione attitudinale e questo rappresenta, senza dubbio, un grave errore.

Il sistema di selezione dovrebbe, pertanto, presentare tre tipologie di valutazioni:

  1. la valutazione professionale, che viene indicata nella norma del Dlgs n. 165/2001: valutazione dei requisiti attitudinali e professionali;
  2. la valutazione attitudinale, sempre indicata dalla norma del Dlgs n. 165/2001;
  3. la valutazione motivazionale.

Oggi il sistema selettivo è, in realtà, squilibrato rispetto a queste tre tipologie di valutazione, ci si accorgerà nelle pagine seguenti, che quello che avviene nelle procedure selettive è, in effetti, distante da ciò che vorremmo e che oggi i principi normativi affermano. Il problema fondamentale è come iniziare a introdurre la valutazione attitudinale e la valutazione motivazionale nei sistemi selettivi, soprattutto in vista del fatto che l’ambiente in cui si opera è ancora molto scettico in proposito e, quindi, acerbo per l’acquisizione di culture, tecniche, metodiche e convinzioni. Bisogna, a tal riguardo, vivere il momento selettivo come avviene nell’impresa privata. La quale deve scegliere la persona giusta per il posto giusto e questo significa che si deve trattare di una scelta strategica, anzi della scelta «top», la più importante in tutto il sistema di gestione del personale, perché se si sbaglia questa scelta in un futuro prossimo tutta l’amministrazione ne pagherà, fatalmente, le conseguenze. Parlare di cultura della strategia significa essere attenti e puntuali fin dalle prime fasi di ingresso dei nostri collaboratori e, in particolare, dalla fase di inserimento nel momento genetico del rapporto di lavoro, ciò significa, quindi, viverla come un momento topico, come vero momento strategico di gestione delle risorse umane, come primo vero investimento nella risorsa umana. Non si realizza il concorso perché si deve selezionare in virtù dell’osservanza di prescrizioni normative, ma perché si intende selezionare il migliore, adottando un sistema di valutazione che sia in grado di individuare chi sia veramente il migliore, soprattutto dal punto di vista attitudinale. Quindi occorre ripensare completamente il sistema di selezione, sia dal punto di vista dei soggetti che lo gestiscono, sia dal punto di vista delle metodologie da utilizzare, sia, ancora, dal punto di vista degli esiti del percorso, che non deve essere incidentale, ma ragionato e strutturato.

Una procedura selettiva di un concorso pubblico

Si tratta di un campo minato? Talvolta accade di trovarsi di fronte a una serie di «vorrei ma non posso» proponendo alle pubbliche amministrazioni metodologie selettive da tempo ormai sperimentate e utilizzate sempre più ampiamente nell’ambito delle aziende private. Eppure esiste, palpabile, una sensibilità sempre più diffusa da parte dei dirigenti pubblici sulla necessità di rivedere alcuni meccanismi che cominciano a «mostrare la corda». Il classico concorso per titoli ed esami, con le materie da studiare e le sole prove tecniche convince sempre meno, tanto i candidati, quanto le amministrazioni, quanto, ancor più, i membri delle Commissioni esaminatrici; questi ultimi, infatti, si trovano spesso con le «mani legate» nel non poter esporre diverse perplessità in ordine ad alcuni candidati che, da un punto di vista tecnico-professionale, forniscono prestazioni irreprensibili, ma che sembrano del tutto inadeguati per ricoprire la posizione alla quale concorrono. La soluzione esiste e lo scopo di queste righe è proprio quello di illustrarla, sgombrando il campo sia da «magiche aspettative», sia da prese di posizione aprioristiche contro tecniche di selezione che, alla prova dei fatti, si rivelano altrettanto standardizzate e incontestabili di quelle che si continuano a impiegare nelle nostre pubbliche amministrazioni. Si cercherà di delineare, qui di seguito, i tratti di una procedura selettiva che si potrebbe impiegare in un concorso pubblico, provando a tracciarne le varie fasi e i diversi passaggi che è possibile porre in essere. È opportuno sottolineare che non si tratta semplicemente di un’ipotesi didattica, ma di un’esemplificazione che deriva da esperienze concrete già vissute, sul campo e con soddisfazione, in diverse pubbliche amministrazioni pubbliche.

La prima prova (preselezione)

Può accadere che, di fronte alla necessità di gestire numeri particolarmente ampi di candidati, si renda necessaria una prova preselettiva, che consenta un primo screening dei soggetti e, quindi, una riduzione del numero dei partecipanti alle prove selettive. Come procedere, quindi? In questa fase occorre poter disporre di strumenti che permettano un esame rapido e obiettivo di un elevato numero di soggetti anche perché i costi di analisi più approfondite da sostenere per tutti i partecipanti sarebbero difficilmente sostenibili. I test attitudinali («carta e matita») a risposta chiusa nascono proprio per rispondere a tale esigenza; si tratta di una serie di domande tese a misurare varie attitudini (verbale, numerica, spaziale, ecc.) e il candidato deve individuare, fra le diverse alternative presentate, quella corretta. Uno strumento del genere rispetta le esigenze di standardizzazione, oggettività ed economicità; ovviamente nelle fasi successive del concorso saranno svolte indagini più approfondite e articolate sui candidati risultati idonei. Si può anche decidere di affiancare, alle domande psicoattitudinali, domande tecniche, che, utilizzando sempre la modalità delle alternative di risposta, permettano una misura iniziale del possesso di certe conoscenze di base, di carattere tecnico-professionale, ritenute rilevanti per il ruolo a concorso. Il tipo di domande da impiegare e l’indice di difficoltà di queste, andrà stabilito di volta in volta in base ai requisiti richiesti dalla posizione messa a concorso e al livello dei partecipanti. Verrà, quindi, creato un test ad hoc, costruito e tarato appositamente sulla popolazione che, partecipando alla selezione, dovrà svolgere la prova. La correzione degli elaborati avverrà in maniera anonima e automatizzata e fornirà una classifica dei partecipanti.

Per quel che riguarda l’attribuzione dei punteggi si consiglia la conversione in scale di misura standardizzate (ad esempio punti T) dove, mediante apposita formula matematica, ogni prestazione viene confrontata con quella media di tutti i partecipanti. Questo consente di stabilire, ovviamente prima della prova, un criterio in base al quale ritenere la prova superata e, allo stesso tempo, salvaguarda dai rischi derivanti dallo stabilire una soglia basata sul numero di risposte esatte, che rischia di risultare o troppo penalizzante o troppo agevolativa, inficiando, così, lo strumento, che, in tal modo, verrebbe a fornire una scrematura troppo rigida o, viceversa, quasi inesistente. Con questa modalità di attribuzione dei punteggi, infatti, la Commissione potrà stimare, in linea di massima, il numero di candidati da esaminare nelle successive fasi concorsuali.

Le fasi successive

Una volta effettuata la prima prova si procederà con le fasi successive dove entrano in gioco altri strumenti utilizzabili nell’ambito della selezione del personale, come l’assessment (Augugliaro & Majer, 1993; Levati & Mariani, 2004; Mariani, 2011). La procedura può prevedere l’esame di 16-20 candidati al giorno, a seconda della quantità di lavori di gruppo che si decide di somministrare e della durata di eventuali colloqui individuali somministrati a corredo. Per attuare la modalità selettiva che proponiamo si rendono necessari una serie di passaggi.

a. Definizione delle dimensioni oggetto di indagine

La prima operazione consiste nella definizione, da parte della Commissione, di un profilo ideale relativamente al ruolo e, quindi, nella determinazione e individuazione di quelle che dovranno essere le variabili da valutare, sia come numerosità, che come contenuti. Queste possono essere di varia natura e far capo a diverse macro-aree; ad esempio l’area cognitiva (nelle sue variabili di analisi, sintesi, ecc.), l’area relazionale (nelle variabili comunicazione, ascolto, leadership, ecc.) o, ancora, l’area realizzativa (intesa come decisione, organizzazione, ecc.).

Solo una volta definite le dimensioni da valutare si provvederà alla scelta degli strumenti più adeguati per la loro rilevazione. Questi possono essere di diversa natura, i più diffusi sono, in ogni caso, i lavori di gruppo e le interviste individuali.

b. Lavori di gruppo (assessment)

Si tratta di prove in cui i candidati lavorano in gruppo, cercando di pervenire a una soluzione che sia condivisa da tutti i partecipanti. Le situazioni-stimolo proposte ricalcano quelle che si possono incontrare nell’ambito lavorativo e sono volutamente ambigue, ovvero non c’è una soluzione chiara e definita, in modo tale che i soggetti possano prendere posizioni diverse, sulle quali, poi, si debbano confrontare e intorno alle quali si debbano trovare nella necessità di discutere e negoziare. La durata di tali prove è di circa un’ora e durante il lavoro di gruppo che viene a svilupparsi la Commissione al completo osserva, mediante l’utilizzo di apposite schede per la rilevazione, la discussione nei suoi contenuti, nella sua forma e nelle sue espressioni, per poi riunirsi e valutare ogni partecipante assegnandogli un punteggio su ciascuna delle dimensioni oggetto di indagine. Il momento del confronto è particolarmente utile per mitigare gli elementi di soggettività connessi a ogni giudizio dei membri della Commissione, che comunque si baserà sempre su comportamenti agiti dai partecipanti durante il lavoro e, quindi, sarà fondato e giustificabile.

c. Colloquio individuale

Momento fondamentale e imprescindibile di ogni selezione è quello relativo alla somministrazione del colloquio individuale: in questa fase verranno sondate le competenze tecniche del candidato secondo la modalità classica, ossia ponendo domande sugli argomenti presentati nel bando di concorso. La novità consiste nella presenza, in Commissione, di un esperto qualificato per la selezione e valutazione del personale, che svolgerà un colloquio valutativo sondando anche l’area delle motivazioni e delle attitudini manifestate del candidato. Le domande concerneranno il curriculum scolastico/professionale e gli interessi extra-lavorativi, si eviterà, comunque, di toccare gli aspetti più privati e personali della persona. Al termine del colloquio verranno fornite due valutazioni distinte: la prima sarà relativa alle conoscenze tecnico-professionali, mentre la seconda sarà relativa alle dimensioni attitudinali e individuate come rilevanti per la posizione e già osservate durante i lavori di gruppo.

d. Altri possibili strumenti

A fianco delle prove elencate e a integrazione di queste, si presenta, poi un’ampia possibilità di scelta alle Commissioni. Per esempio, si potrebbe utilizzare altri test attitudinali, analoghi a quelli impiegati in preselezione, ma anche questionari di personalità o altre prove individuali quali in basket, business game, role play, ecc. Le possibilità sono, quindi, numerose e l’utilizzo dell’una o l’altra va sempre raffrontato al tipo di incarico da conferire, al numero dei partecipanti e alla rilevanza della posizione da ricoprire, in un’accurata analisi del rapporto costi-benefici.

Combinazione dei punteggi

Una volta effettuate le diverse prove, infine, occorrerà procedere con una combinazione dei punteggi conseguiti, tramite opportune ponderazioni. Ciò sta a significare che non tutte le prove potranno avere lo stesso peso nell’ambito del sistema valutativo. I diversi punteggi conseguiti daranno, così, luogo a un’unica valutazione finale, in base al quale verrà formulata la graduatoria del concorso e individuato il/i vincitore/i.

Quanto sopra esposto rappresenta una possibile procedura concorsuale, ancorché si tratti di un’ipotesi che può essere, comunque, soggetta a riadattamenti e integrazioni in funzione delle specifiche esigenze e necessità selettive. Quello che emerge è che, in ogni caso, siamo di fronte a modalità selettive che hanno una propria validità e un proprio fondamento scientifico. Queste consentono di valutare variabili che vengono concordemente ritenute rilevanti nel rendimento lavorativo, in modo lineare e trasparente, conservando l’intersoggettività del giudizio e, quindi, il ruolo fondamentale della Commissione di esame, che usufruirà del supporto di personale qualificato ed esperto, ma che potrà contribuire fattivamente alle diverse valutazioni. Riprendendo la metafora proposta all’inizio della trattazione, si può, pertanto, affermare che non ci avventuriamo in un campo minato, ma che si tratta di una nuova strada foriera di validi sviluppi, che alcune pubbliche amministrazioni stanno già percorrendo con estrema soddisfazione.

Bibliografia

Augugliaro, P., & Majer, V. (1993). Assessment center e sviluppo manageriale. Milano: FrancoAngeli.

Bartolomeo, V., & Borgogni, L. (2018). Valutazione e talent management. Milano: FrancoAngeli.

Mariani, M. G. (2011). Valutare le prestazioni. Come gestire e migliorare la performance lavorativa. Bologna: il Mulino.

Levati, W., & Mariani, M. G. (2004). Assessment center. Dalla teoria alla pratica professionale. Roma: Carocci.

Tamassia, L., & Angelini, B. (2022). Pubblico impego, dalla risorsa umana al capitale di competenze. Milano: Il Sole 24 Ore.


1 Esperto in gestione del Personale e delle Organizzazioni Pubbliche, Consulente e membro di Organismi di Valutazione dei ruoli dirigenziali nella P.A., Direttore Scientifico della Rivista specializzata Smart 24 Lavoro Pubblico per il Sole 24 Ore.

2 Expert in Public Administration and Personnel Management, Consultant and member of Assessment Bodies of managerial roles in public administration, Scientific Editor of the journal Smart 24 Lavoro Pubblico for il Sole 24 Ore.

Vol. 16, Issue 1, February 2023

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