Vol. 13, n. 1, febbraio 2020

Studi e ricerche

Disability Management nei contesti HR: una prospettiva professionale

Federico Alessio1,Marco Piccioli1, Giorgia Bondanini1, Georgia Libera Finstad1,Stefania Tempesta1, Mariarosaria Izzo1 e Gabriele Giorgi2

Sommario

Lo scopo della seguente review è di fare luce sia sulla conoscenza scientifica ed evidence-based del management della disabilità che sull’inclusione nel contesto globale e lavorativo. La disabilità è qui intesa secondo la classificazione ICF della World Health Organization (WHO) che la identifica come un modello bio-psico-sociale. La trattazione inizia con un compendio storico e normativo per poi proseguire con un passaggio inerente al ruolo dell’inclusione della disabilità fisica e mentale volto al reinserimento lavorativo del disabile, sia da un punto di vista culturale che specificatamente organizzativo e gestionale. Infine sono trattate alcune delle best practices organizzative dedite alla risoluzione legata ai problemi del disability management. L’Inclusione è, inoltre, analizzata sotto vari aspetti: organizzativo, culturale, individuale e sociale.

Parole chiave

Disability Management, Disagio Psichico, Diversity Management, Inclusion Management, Leadership Management, best practices.

Studies and researches

Disability Management in HR contexts: an occupational perspective

Federico Alessio3, Marco Piccioli1, Giorgia Bondanini1, Georgia Libera Finstad1, Stefania Tempesta1, Mariarosaria Izzo1 and Gabriele Giorgi4

Abstract

The purpose of the following review is to shed light on scientific knowledge in the field of disability management and inclusion on a global and work level. Disability is understood here according to the ICF classification of the World Health Organization (WHO) which identifies it following the bio-psycho-social model. The discussion begins with a historical and regulatory compendium and continues by analyzing the role of the inclusion of physical and mental disability, for the purpose of reintegrating the disabled person into work, both from a cultural, organizational and managerial point of view. Finally, some of the best practices concerning the resolution of disability management problems were discussed. Furthermore, Inclusion is analyzed from various perspectives: Organizational, Cultural, Individual and Social.

Keywords

Disability Management, Psychological Discomfort, Diversity Management, Inclusion Management, Leadership Management, best practices.

Lo scopo della presenta review è quello di rintracciare e reperire le best practices inerenti all’inserimento e la gestione della disabilità negli ambienti di lavoro e nelle organizzazioni.

La World Health Organization (WHO; in Italia OMS: Organizzazione Mondiale della Sanità) congiuntamente con la World Bank (WB) ha redatto, nel 2011, il primo report a livello mondiale sul tema della disabilità, intesa come un fenomeno dinamico e multidimensionale. La parola si riferisce genericamente a menomazioni, limitazioni delle attività e restrizioni alla partecipazione della persona, con riferimento agli aspetti negativi derivanti dall’interazione tra un individuo (le sue condizioni di salute) e i fattori ambientali e contestuali (WHO, 2011). Seguendo questa concettualizzazione diviene fondamentale analizzare il fenomeno in un’ottica bio-psico-sociale, considerando la disabilità come il risultato di una relazione dinamica tra le condizioni dell’individuo e le eventuali barriere fisiche e sociali che ne impediscono l’inclusione. Basare l’analisi sul concetto di interazione, allontanandosi da una visione focalizzata sugli attributi personali, sottolinea il valore e l’impatto che gli interventi organizzativi possono ottenere se basati su solide evidenze scientifiche (Lindsay, Cagliostro, Albarico, Mortaji, & Karon, 2018; White et al., 2016).

Secondo le stime dell’OMS, oltre un miliardo di persone (circa il 15% della popolazione mondiale) sono affette da una qualche forma di disabilità (WHO, 2019). Tuttavia, la prevalenza della disabilità è destinata ad aumentare, soprattutto se si prende in considerazione il fenomeno dell’aging workforce, costituito da un insieme di fattori quali l’aumento dell’aspettativa di vita, le innovazioni in ambito sanitario e l’attuale invecchiamento della generazione dei baby boomer (Truxillo & Fraccaroli, 2013).

La Convenzione Onu sui Diritti delle Persone con Disabilità (UNPRPD) riconosce formalmente il diritto delle persone con disabilità di avere eguali opportunità lavorative, attraverso l’utilizzo di politiche e misure appropriate. L’importanza dell’inclusione sociale e lavorativa costituisce un fil rouge anche all’interno dei Sustainable Development Goals (SDGs), obiettivi ribaditi dalla Strategia Europea sulla disabilità 2010-2020 (CE 2010, 4) (Todini, 2010).

Per quanto riguarda la situazione italiana, la Legge 482/1968 e successivamente la Legge 68/1999, hanno fornito delle direttive volte a favorire l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità. Tuttavia, i dati descrivono un quadro poco incoraggiante: solo il 31,3% delle persone con limitazioni gravi tra i 15 e i 64 anni ha un impiego, contro il 57,8% delle persone senza limitazioni (ISTAT, 2019). In effetti, in molte realtà lavorative, l’inserimento delle persone con disabilità viene ancora ostracizzato, una volta assolti gli adempimenti legali e sociali considerati spesso costrittivi. Nonostante le normative nazionali (Legge 12 marzo 1999, n. 68 «Norme per il diritto al lavoro dei disabili») affermino che le persone con disabilità dovrebbero, senza pregiudizio alcuno, essere valutate adeguatamente nelle loro capacità lavorative, le aziende italiane hanno spesso preferito il pagamento delle sanzioni piuttosto che il rispetto delle quote di assunzione richieste (Bombelli & Lazazzara, 2014; Cecchini & Grossi, 2019).

Obiettivi

L’obiettivo della seguente review è quello di promuovere il concetto di inclusione della disabilità attraverso l’inserimento in ambito lavorativo dei soggetti disabili.

Attualmente il tema dell’inclusione è sempre più presente nell’ambito della ricerca e dell’applicazione scientifica (Colella & Bruyère, 2011). È impossibile oggi non vedere come cresca il numero di persone affette da qualsiasi tipo di disabilità. Di conseguenza, la presente review mette in luce come l’inclusione della disabilità non sia soltanto un bisogno o un dovere morale ma un vero e proprio investimento professionale per il futuro.

Criteri di inclusione ed esclusione

Nella seguente review sono stati inclusi studi empirici ed evidence-based di particolare rilevanza professionale, valutati da gruppi di giudici practitioners. Si sono tenute in maggiore considerazione le ricerche e le review pubblicate nell’ultimo decennio, tuttavia all’interno del presente contributo, per il loro carattere storico e per la profonda attinenza alla trattazione e ai suoi scopi, sono presenti citazioni temporalmente precedenti. Le ricerche sono state tuttavia selezionate tramite motori di ricerca propri della letteratura accademica quali Google Scholar, Scopus e PubMed.

L’analisi svolta ha messo in luce alcuni punti cardine così sintetizzati: le problematiche e i vantaggi dell’inclusione aziendale della disabilità, le differenti forme di disabilità, disagio psichico e contesto lavorativo, i problemi della disabilità nell’inserimento aziendale, la gestione della disabilità, l’inclusion management e la leadership, le best practices.

Le problematiche e i vantaggi dell’inclusione aziendale della disabilità

All’aumentare della diversità demografica, il crescente costo sociale di una diversità non produttiva diventerà progressivamente non sostenibile sotto molteplici aspetti (culturali, economici, lavorativi). A livello empirico, molte prove supportano l’idea che la diversità sia associata, insieme ad altri innumerevoli outcome organizzativi, al raggiungimento di risultati e all’efficienza (Kilduff, Angelmar, & Mehra, 2000; Li, Chu, Lam, & Liao, 2011).

Contestualmente, la ricerca evidenzia quali possano essere le preoccupazioni dei datori di lavoro riguardo l’inserimento e la gestione delle risorse con disabilità.

Per esempio, la ricerca mostra come le aziende riscontrino difficoltà nell’individuare persone con disabilità che siano qualificate (Bonaccio, Connelly, Gellatly, Jetha, & Ginis, 2019). Questo potrebbe dipendere in parte dal fatto che il processo di reclutamento in sé costituisce una barriera per il lavoratore, il quale, a causa di problemi di accessibilità (siti internet, processi di recruitment) potrebbe non concorrere a formare il pool di possibili candidati. In linea con questo, la teoria dei segnali (Connelly, Certo, Ireland, & Reutzel, 2011) afferma che la probabilità di un processo di recruitment di avere successo aumenterà se la posizione di lavoro viene pubblicizzata in maniera tale da segnalare un ambiente favorevole per la diversità.

Seguendo quello che è il ciclo occupazionale, una ulteriore preoccupazione dei manager riguarda il processo di socializzazione dell’individuo, il suo adattamento all’interno della realtà aziendale e il possibile impatto sul team (Bonaccio, Connelly, Gellatly, Jetha, & Ginis, 2019). Anche in questo caso, le prove empiriche evidenziano come i lavoratori con disabilità abbiano un forte commitment affettivo nei confronti della loro organizzazione e un impatto positivo sul morale generale dell’azienda e sulle relazioni tra dipendenti (Solovieva, Dowler, & Walls, 2011).

Le differenti forme di disabilità

Quando si parla di disabilità, questa spesso viene intesa come disabilità fisica. Tuttavia non sempre si presenta accompagnata da una sedia a rotelle. Al fine della nostra trattazione è necessario chiarire la nostra idea di disabilità.

La seguente review tiene conto della sua più ampia accezione e segue la classificazione dell’International Classification of Functioning (ICF) subentrata all’International Classification of Impairments Disabilities and Handicaps (ICIDH, 1980) il 21 Maggio 2001.

Nella classificazione della WHO non vengono presi in considerazioni i soli fattori biologici, medici e fisiologici, ma anche i fattori psicologici e sociali. Dunque il concetto di disabilità qui trattato è multidimensionale e tiene conto della totalità bio-psico-sociale della persona.

Le disabilità invisibili comprendono una vasta gamma di condizioni fisiche e psicologiche che spesso non hanno manifestazioni visibili o hanno caratteristiche che non sono chiaramente collegate a una disabilità. Tra le più comuni vengono incluse quelle sensoriali (ipovisione, perdita dell’udito), disturbi autoimmuni (HIV/AIDS), malattie croniche o dolore (artrite reumatoide, fibromialgia), difficoltà cognitive o di apprendimento (ADHD), disturbi del sonno e disturbi psicologici (disturbo post traumatico da stress o PTSD, depressione) (Santuzzi, Waltz, Finkelstein, & Rupp, 2014).

Disagio psichico e contesto lavorativo

Il disagio psichico costituisce una forma di sofferenza che, più di ogni altra disabilità, rischia sempre più di relegare la persona in una bolla di invisibilità, impedendone la crescita e lo sviluppo; lo stigma e la vergogna spesso accompagnano e alimentano i disturbi che interessano la sfera psichica, ne accentuano l’intensità e impediscono alla persona di inserirsi nel contesto lavorativo che dovrebbe invece farsi garante dell’espressione delle capacità, delle attitudini personali e delle esigenze di valorizzazione delle risorse della persona stessa.

L’acquisizione e la riacquisizione di un lavoro rappresenta per una persona affetta da un disturbo mentale uno degli obiettivi riabilitativi primari. Il lavoro costituisce infatti uno dei principali fattori di appartenenza sociale: alla persona garantisce indipendenza grazie al guadagno, ma è anche un’importante occasione per dare un contributo alla vita sociale, rafforzando l’autostima e il senso di identità personale, ottenendo legittimazione e riconoscimento da parte degli altri (Carpiniello, Pinna, Tusconi, Zaccheddu, & Fatteri, 2012).

L’area esperienziale del lavoro assume un rilievo particolare in riferimento a diversi parametri.

  1. Fattore tempo: il lavoro consente la riacquisizione del senso del tempo, spesso alterato nelle persone affette da disturbi mentali; l’impegno lavorativo scandisce le giornate in momenti diversi, ciò contribuisce a ridare senso al tempo stesso, superando il vuoto e l’inerzia.
  2. Fattore spazio: per le persone affette da disturbi mentali l’esperienza dello spazio è spesso confinata alle mura domestiche. Lavorare significa riappropriarsi della capacità di muoversi nello spazio attraverso le azioni necessarie per recarsi sul luogo di lavoro uscire di casa, utilizzare mezzi di trasporto, ecc. Ciò significa uscire dalla passività.
  3. Fattore apprendimento: la persona con disturbi mentali viene stimolata a nuovi apprendimenti, riconducibili alle abilità per eseguire un dato compito o imparare le regole di condotta.
  4. Fattore socializzazione: lavorare significa allargare la rete dei rapporti sociali, spesso impoverita dal disturbo mentale favorendo il senso affiliativo e di appartenenza a un gruppo.
  5. Fattore autostima: il lavoro permette la crescita dell’autostima (Carpiniello, Pinna, Tusconi, Zaccheddu, & Fatteri, 2012).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ribadisce la necessità, per quanti soffrano di un disturbo psichico, di avere accesso all’attività lavorativa, definendo la riabilitazione psicosociale (Kemali, Maj, Catapano, Giordano, & Saccà, 1996) come un processo che deve facilitare gli individui che abbiano un danno o una disabilità dovuti a un disturbo mentale, a sviluppare tutte le opportunità per raggiungere il proprio livello ottimale di funzionamento indipendente nella comunità. Sempre secondo l’OMS, la riabilitazione psicosociale implica sia un miglioramento delle competenze individuali sia l’introduzione di modificazioni ambientali, in modo da creare le condizioni per una migliore qualità di vita possibile.

Affinché soddisfi questi presupposti la riabilitazione psicosociale deve dunque basarsi su alcuni principi fondamentali.

  • Deve essere focalizzata non solo sull’individuo, ma anche sul suo contesto di vita, poiché la sua finalità non è soltanto «adattare» il paziente al suo ambiente, ma anche modificare quest’ultimo, per renderlo quanto più possibile vicino alle capacità e risorse di cui dispone la persona ammalata.
  • Deve fondarsi sull’individuazione e sulla valorizzazione delle attitudini e delle capacità attualmente disponibili della persona ammalata.
  • Deve implicare un atteggiamento degli operatori ottimistico e positivo, aperto al futuro e alla possibilità di un miglioramento da parte della persona ammalata, tramite il lavoro, ma anche la libera espressione di sé stesso in termini di aspettative, interessi, bisogni.
  • Deve essere centrata sull’individuo e i suoi bisogni e non può prescindere dal coinvolgimento dell’interessato nella formulazione dei programmi.
  • Deve essere concepita in termini di programmi flessibili, modulati in base ai risultati raggiunti e ai mezzi e alle opportunità effettivamente disponibili (Carpiniello, Pinna, Tusconi, Zaccheddu, & Fatteri, 2012).

L’ambiente è chiamato in causa come il principale responsabile della disabilità della persona: proprio in base alle richieste che l’ambiente farà alla persona, i tratti della sua disabilità emergeranno, andando a costituire una limitazione. Una persona con disabilità è realmente non abile, dunque, ogni qualvolta l’ambiente non la mette in condizione di compiere un’azione o un’attività.

Occorre spostare il focus sulla persona, che va posta al centro; attorno gravita l’ambiente in cui questa è inserita, che può e deve farsi fautore di un cambiamento, in virtù del quale le capacità e le competenze della persona divengano fruibili e spendibili nel contesto lavorativo (Carpiniello, Pinna, Tusconi, Zaccheddu, & Fatteri, 2012).

L’intervento di coloro che hanno il compito di affiancare la persona con disagio psichico nell’inserimento lavorativo dovrebbe concretizzarsi in un impegno di sintonizzazione sulle caratteristiche della persona, allo scopo di comprenderne le peculiari sofferenze e fragilità, e riconoscerne le risorse interiori, affinché queste ultime possano emergere e divenire fonte di progresso e libera espressione della persona che si appresta a essere produttiva.

Entra in gioco l’importanza di una leadership positiva, determinante in un progetto di realizzazione, di costruzione, e di risanamento; il fondamento della leadership risiede nella capacità di usare l’intelligenza emotiva per generare aggregazione, condivisione, soprattutto adesione a una guida che sia fonte di senso, cioè di significati e mete da perseguire (Goleman, Boyatzis, & McKee, 2002).

Uno studio su 62 direttori generali e sui rispettivi gruppi dirigenziali di aziende americane leader nel settore dei servizi (Barsade, Ward, Turner, & Sonnenfeld, 2000) ha evidenziato le dimensioni dell’intelligenza emotiva, con le relative competenze. Nell’ultima dimensione, la «Gestione dei rapporti interpersonali», si concretizza il senso della leadership emotiva: nel relazionarsi agli altri il leader osserva e conosce le debolezze e i punti di forza di coloro di cui si occupa, mantenendo un obiettivo di sviluppo delle potenzialità altrui; egli insegna e trasmette competenze e valori attraverso feedback costruttivi, mantenendo sempre un solido interesse verso coloro che lo ascoltano e fanno riferimento ai suoi insegnamenti (Dreyfus & Mangino, 2001). Il leader viene inoltre definito agente di cambiamento, egli cioè sa riconoscere la necessità di mettere in discussione il sistema in vigore e di promuovere un nuovo ordine, opponendosi con vigore e perseveranza alle forze che vi si oppongono (Dreyfus & Mangino, 2001). La mission dell’azienda prevede allora, grazie soprattutto ai principi di un’intelligenza rivolta al contesto emozionale, di operare sull’utente con disabilità attraverso la realizzazione di un progetto globale individualizzato mirato alle esigenze fisiche e psicologiche della persona con disabilità, realizzando un obiettivo di inclusione sociale: sviluppare una visione sociale della disabilità e portare le stesse persone in situazione di disagio ad «agire in modo produttivo» (Dreyfus & Mangino, 2001).

I problemi della disabilità nell’inserimento aziendale

All’aumentare della diversità demografica, il crescente costo sociale di una diversità non produttiva è e diventerà maggiormente ingestibile sotto molteplici punti di vista (culturali, economici, lavorativi, ecc.), tuttavia la necessità di inserire le disabilità in azienda non è da vedersi solo in questa ottica di necessità e obbligo ma va declinata secondo accezioni più positive e costruttive. Le aziende e le organizzazioni potrebbero giovare del declinarsi dell’inclusione della disabilità come un’opportunità sociale ed economica. Ci sono molte prove empiriche a supporto dell’idea che la diversità permetta il raggiungimento dei risultati e dell’efficienza (Kilduff et al., 2000; Li et al., 2011). L’aumento della creatività, del problem solving, dell’adattabilità, della comprensione e la maggiore assistenza e attenzione alle necessità dei clienti (customer satisfaction) sono alcuni elementi di miglioramento delle performance in caso di gruppo eterogeneo (Kilduff et al., 2000; Reynolds & Lewis, 2017).

Tuttavia, a inficiare tale aumento dell’efficacia c’è spesso un pregiudizio culturale (Colella, DeNisi, & Varma, 1998), che porta a considerare la persona affetta da disabilità non come diversamente abile ma come inabile. In uno studio del 1988 Johnson, Greenwood e Schriner, attraverso un campione di 100 datori di lavoro, hanno sottolineato come spesso non siano le performance tecniche e lavorative a creare preoccupazione ma quelle emotive e sociali. Nonostante l’oggettiva anzianità delle due ricerche lasci presupporre che da allora si siano fatti ampi passi avanti, anche ricerche più recenti hanno dimostrato che i pregiudizi siano ancora fortemente attuali (Phillips, Deiches, Morrison, Chan, & Bezyak, 2016).

Spesso anche l’organizzazione aziendale gioca un ruolo fondamentale nell’inclusione della disabilità nel luogo di lavoro. Non è solo uno strumento per ridurre la misura in cui le caratteristiche e i sintomi individuali interferiscono con le politiche e le pratiche sul posto di lavoro (il cosiddetto «Clone Organizzativo», vedi Giorgi & Majer, 2012), ma anche una funzione di risposta organizzativa ai lavoratori espressa attraverso gli atteggiamenti e i comportamenti della direzione, dei supervisori, e collaboratori (Akabas, 1994).

Se l’inclusione è un processo sociale, anche l’assistenza a sostegno delle persone occupate deve essere di natura sociale: deve tenere conto dei modi in cui la capacità di un individuo di soddisfare le aspettative lavorative influisce e viene influenzata da altri. Un supporto efficace agli individui, quindi, deve migliorare l’adattamento tra lavoratore e luogo di lavoro soddisfacendo le esigenze sia dei soggetti con condizioni di salute mentale, sia di tutti gli altri con cui questi interagiscono nel corso del loro lavoro (Ward & Baker 2005).

La gestione della disabilità

Come sottolineato da Colella e Bruyère (2011, p. 491), «una grande quantità di ricerche ha esaminato l’ingresso delle persone con disabilità sul posto di lavoro, ma un numero relativamente minore di ricerche si sono concentrate su ciò che accade loro una volta che entrano». Questo è ancora più vero quando si analizzano le esperienze in materia di diversità e inclusione organizzativa, area potenzialmente meno esaminata nel campo della disabilità e dell’occupazione (Colella & Bruyère, 2011).

Diversi accorgimenti sono disponibili per i manager che cercano di affrontare le problematiche della disabilità nel posto di lavoro. Ad esempio, la promozione dello studio e della formazione nelle aziende aumenta la conoscenza del «diverso». La formazione sulla diversità è un intervento volto a migliorare le relazioni inter-gruppo e a ridurre i pregiudizi (Phillips, Deiches, Morrison, Chan, & Bezyak, 2016).

Un ulteriore accorgimento riguarda la collaborazione tra i dipartimenti di salute mentale, Azienda Sanitaria Locale (ASL) e centri di riabilitazione, con i reparti Risorse Umane (HR) delle aziende; in questo modo sarà possibile rendere ancor più semplice l’analisi del fabbisogno dei singoli individui che dovrebbero inserirsi come dipendenti in quella determinata organizzazione. Di conseguenza l’inserimento e l’inclusione di soggetti con disabilità non sarebbe diverso da un semplice inserimento di una persona normodotata (Gates & Akabas, 2011).

Un’ultima analisi, trattata da Akabas (1994), riguarda l’utilizzo di strumenti di lavoro: tutti i dipendenti, disabili o non, necessitano di dispositivi che possano agevolare il loro incarico come l’uso del pc. Alcuni di questi strumenti possono essere i medesimi per tutti i componenti aziendali, si tratta semplicemente di collaborare per trovare la soluzione più adatta alle esigenze di ogni individuo (Akabas, 1994).

L’Inclusion management e la leadership

Nel 2016, Boehm e colleghi hanno analizzato il potenziale impatto di quattro distinti approcci di leadership sulla gestione della disabilità: LMX, TFL, HFL e leadership del top management (Boehm, Baumgärtner, & Kreissner, 2016).

  1. Leader-member-exchange theory (LMX). La teoria LMX propone che i supervisori sviluppino diversi livelli di relazioni di scambio che vanno da relazioni di alta qualità e di fiducia reciproca a relazioni di bassa qualità orientate su scambi formali. L’approccio per la gestione ottimale della disabilità è caratterizzato da una leadership in cui i supervisori stabiliscono relazioni basate su responsabilizzazione e supporto cercando allo stesso tempo di prevenire l’emergere di forti gruppi interni ed esterni.
  2. Leadership trasformazionale (TFL). I leader trasformazionali si impegnano nel fornire modelli di comportamento e mostrano un orientamento individualizzato attraverso attività di coaching e di sviluppo. I leader sono principalmente interessati al funzionamento dei team, riducendo il livello di differenziazione e concentrando la loro energia su comportamenti di leadership orientato al collettivo.
  3. Leadership centrata sulla salute (HFL). Questo approccio dominio-specifico sottolinea il ruolo del leader nel focalizzare l’attenzione sulla salute dei dipendenti e stabilire norme culturali in merito ai comportamenti previsti e desiderabili. Questo diviene particolarmente rilevante nel campo della gestione della disabilità per garantire che gli individui mantengano le proprie capacità lavorative e il loro impegno produttivo all’interno di diversi team (es. orario di lavoro accettabile, richieste equilibrate, interventi precoci in caso di malattia).
  4. Top management leadership. Gli atteggiamenti e i comportamenti del seguente manager influenzano le norme di tutta l’azienda e influenzano il modo in cui vengono trattate le minoranze. La ricerca ha riscontrato che il sostegno del top management è tra i più importanti fattori di successo per le iniziative sulla diversità, aumentando la probabilità di attuare pratiche di supporto alle risorse umane (Boehm, Baumgärtner, & Kreissner, 2016).

Boehm, Baumgärtner e Kreissner (2016) propongono un modello di moderazione costituito da tre gruppi di potenziali fattori — comportamento di leadership, clima inclusivo e pratiche HR inclusive — che dovrebbero contribuire a stimolare gli effetti positivi dell’inclusione della disabilità, prevenendo conseguenze negative. In effetti l’analisi di Boehm e colleghi ha mostrato come una leadership disattenta alla gestione attiva e umana della disabilità possa comportare effetti dannosi quali turnover e una maggiore incidenza di conflitti tra colleghi (Boehm, Baumgärtner, & Kreissner, 2016).

Le best practices

Jayne e Dipboye (2004) hanno fornito una prima panoramica delle tipologie di pratiche HR legate alla diversità e alla disabilità nei contesti lavorativi e organizzativi.

Un primo approccio pratico mira a facilitare l’inclusione e porre in cambiamento la composizione della forza lavoro. Di norma comprende attività relative al reclutamento, al retention e allo sviluppo di modelli organizzativi trasparenti sulla gestione attiva delle disabilità e delle diversità presenti sul luogo di lavoro.

Questo primo approccio «esterno» prevede lo sviluppo di metodologie di inserimento di nuovo personale tramite processi di recruiting in grado di non discriminare la diversità (ad esempio con l’utilizzo di valutatori disabili nel processo di recruiting e tramite annunci di lavoro mirati).

Un secondo approccio prevede sforzi formativi e relativi alla cultura aziendale, istruendo i leader e le figure chiave dell’organizzazione, sensibilizzando il personale interno in senso lato.

Questo secondo approccio «interno» prevede attività formative il cui scopo è responsabilizzare il personale aziendale e educarlo alla diversità (ad esempio tramite processi di mentoring, coaching, counseling, assessment center, formazione in aula e pratiche di team building).

Una pratica relativa la gestione delle diversità è il Workplace Disability Management (WDM), un programma di gestione che utilizza quei servizi, stakeholder, politiche e procedure che possono offrire al datore di lavoro e al dipendente la massima flessibilità per realizzare il modello più adatto ad accogliere il dipendente stesso e massimizzare la sua funzionalità (Gensby & Husted, 2013).

Dall’analisi della letteratura emergono alcune delle principali pratiche e politiche adottate nei programmi WDM:

  • Offerta di accomodamenti adeguati.
  • Valutazione del posto di lavoro con Job Analysis.
  • Programma di lavoro o mansioni modificate e/o personalizzate.
  • Coordinatori/manager della disabilità situati in azienda.
  • Sistema informativo interno di segnalazione di disabilità.
  • Contatti e interventi precoci.
  • Partecipazione attiva dei dipendenti.
  • Formazione del personale.
  • Sistemi di informazione per migliorare la responsabilità, il monitoraggio e la valutazione in corso.
  • Servizi di riabilitazione multidisciplinare: professionale (ricollocamento, condivisione del lavoro, formazione professionale), psicologico (terapia cognitiva, interventi sulla motivazione) o fisico (attività graduata, ergonomia).

Le decisioni sugli accomodamenti adeguati sono spesso il risultato di una corrispondenza tra una valutazione della capacità funzionale, la certificazione medica, una Job Analysis o una valutazione del luogo di lavoro (Skisak, Bhojani, & Tsai, 2006).

Un altro costrutto che ha ricevuto crescente attenzione all’interno della letteratura scientifica è stato introdotto da Rousseau nel 2001 e riguarda gli accordi idiosincratici (I-deals). Si riferisce ad «accordi reciprocamente vantaggiosi e personalizzati di natura non standard negoziati tra singoli dipendenti e i loro datori di lavoro» (Rosen, Whaling, Carrier, Cheever, & Rokkum, 2013, p. 709).

Tali accordi differiscono da quelli di lavoro flessibili in quanto comportano un trattamento differenziato ed effetti positivi sia per il dipendente che per il datore di lavoro (Rousseau, 2001; Rousseau, Ho, & Greenberg, 2006).

Quest’ultimi possono includere varie forme di flessibilità. Secondo Rosen, Whaling, Carrier, Cheever e Rokkum (2013), dipendenti e manager tendono a negoziare accordi relativi a quattro dimensioni: 1) flessibilità di pianificazione, 2) flessibilità di localizzazione, 3) incentivi finanziari, 4) responsabilità delle attività e del lavoro.

Queste dimensioni si riferiscono a quando (flessibilità del programma, orari di lavoro flessibili, part-time), dove (flessibilità della posizione, e.g. ufficio/casa), perché (incentivi finanziari, bonus speciali) e cosa (compiti e responsabilità lavorative, più responsabilità, progetti) i dipendenti fanno per il lavoro.

Da un punto di vista teorico, si suppone che gli I-deals mostrino i propri effetti tramite meccanismi di scambio sociale e reciprocità (Blau, 1964; Gouldner, 1960).

Si presume inoltre che l’accordo voluto e richiesto dal supervisore/leader venga percepito positivamente dall’impiegato (similmente al più famoso effetto Hawthorne, scoperto dai sociologi Fritz & Mayo, 1949) e induca nel lavoratore una maggiore motivazione, un maggiore impegno e un turnover ridotto, in altre parole un engagement e un commitment più profondi (Eisenberg, Pidada, & Liew, 2001; Hornung et al., 2008). Sebbene questa reciprocità sia prevista, non è pre-specificata o applicata come in una relazione di scambio economico (Cropanzano & Mitchell, 2005).

Gli uffici delle risorse umane dovrebbero impegnarsi per adottare pratiche inclusive che forniscano a tutti i gruppi di dipendenti all’interno di un’organizzazione le risorse e le opportunità pertinenti per contribuire al successo dell’organizzazione. La formazione dei manager su come negoziare e applicare gli I-deals può contribuire a un approccio HR di successo.

La ricerca esistente sugli accordi idiosincratici sostiene l’importanza di queste soluzioni personalizzate sul posto di lavoro (Bal & Jansen, 2015). Le persone con disabilità possono avere esigenze specifiche a causa delle restrizioni sanitarie e di altri fattori (Boehm & Dwertmann, 2015). Gli I-deals possono quindi fornire uno strumento efficace ai supervisori per raggiungere un fit tra le esigenze e le capacità dei dipendenti con disabilità e le esigenze del lavoro.

Conclusioni e Prospettive Future

L’inclusione unita al management della diversità e della disabilità rappresenterà sempre più un contesto di novità, ricerca e applicazione. Il numero di persone affette da disabilità è in continua crescita, i rapporti dell’OMS (2011) e dell’Unione Europea (2011) lasciano intendere che la gestione di questi numeri diverrà sempre più materia di estremo interesse (Baldwin & Johnson, 2006). I costi di una disabilità non produttiva non solo risultano un limite per la società ma per la persona stessa, di conseguenza promuovere l’inclusione alla disabilità non è soltanto un bisogno o un dovere morale ma un vero e proprio investimento (Phillips, Deiches, Morrison, Chan, & Bezyak, 2016). Le aziende dovrebbero sostenere, con maggior sicurezza, i dipendenti, ma anche i potenziali clienti, diversamente abili, siano essi affetti da disabilità psicologiche o fisiche (Colella & Bruyère, 2011). Per permettere questo cambio di prospettiva ci sono due strade. In primo luogo, il continuo investimento da parte delle organizzazioni politiche nazionali e non, creando normative in grado di incentivare l’inclusione e stanziando fondi sotto forma di bandi o premi (ad esempio The Access City Award, fondato nel 2010). In secondo luogo, il costante aumento dell’attenzione scientifica sulla materia del diversity & disability management e sulle politiche dell’inclusione può portare a nuove metodologie, pratiche e processi da aggiungere a quelli sopra citati, sottolineando maggiormente il potenziale dell’inclusione della disabilità nella società e nel contesto lavorativo. Entrambe le prospettive aiuteranno a diminuire il pregiudizio delle aziende. Inoltre, la formazione alla leadership adeguata e preparata permetterà alle aziende di usufruire a pieno delle competenze e delle potenzialità dei suoi dipendenti, qualsiasi sia il loro stato e la loro situazione (Boehm, Baumgärtner, & Kreissner, 2016).

Infine, come evidenziato in questa review, le disabilità invisibili comprendono una vasta gamma di condizioni fisiche e psicologiche che spesso non hanno manifestazioni visibili o hanno caratteristiche che non sono chiaramente collegate a una disabilità. Proprio per questo motivo sarà importante focalizzarsi su questa tipologia di disabilità dove appare strategico il ruolo dello psicologo del lavoro (Santuzzi, Waltz, Finkelstein, & Rupp, 2014).

Bibliografia

Akabas, S. H. (1994). Workplace responsiveness: Key employer characteristics in support of job maintenance for people with mental illness. Psychosocial Rehabilitation Journal, 17(3), 91-101.

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1 Business@health laboratory, Università Europea di Roma.

2 Dipartimento delle Scienze Umane, Università Europea di Roma.

3 Business@health laboratory, Università Europea di Roma.

4 Dipartimento delle Scienze Umane, Università Europea di Roma.

 

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