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Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni e Counseling
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a cura di Pier Giovanni Bresciani

Presidente SIPLO (Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione) Università degli Studi di Urbino



Apprendere nelle organizzazioni. Le ragioni dell’alternanza e il contributo della psicologia del lavoro

L’alternanza scuola-lavoro, nelle sue diverse forme (stage, tirocinio, work experience, apprendistato, ecc.), è da qualche tempo tornata con particolare insistenza a costituire un tema strategico nel confronto socio-istituzionale.

Tale confronto è tra l’altro sollecitato da nuove norme (es. i provvedimenti sull’alternanza negli istituti della scuola secondaria superiore), o da recenti sperimentazioni (es. l’apprendistato nelle sue tre configurazioni; o l’alternanza nella formazione professionale superiore in lacune esperienze regionali) che prefigurano nuovi dispositivi, nuovi ruoli, nuove competenze.

Sono in questione, da un lato, tutto il tema dell’apprendimento nei contesti di lavoro e, dall’altro, quello delle modalità più efficaci per favorirlo, supportarlo, "inverarlo" nelle concrete condizioni e nelle diverse forme in cui l’alternanza può manifestarsi.

Riprendendo un mio contributo di qualche tempo fa (che mi pare mantenga per intero la sua pertinenza e attualità, anche nello scenario attuale), vorrei argomentare in modo sintetico quelle che da tempo ho proposto alla riflessione come "tre buone ragioni" per le quali un rapporto tra apprendimento e contesto di lavoro diverso da quello tradizionalmente previsto all’interno dei curriculum della istruzione e della formazione "normale" nel nostro Paese costituisce, oggi e in prospettiva, una risposta particolarmente appropriata dal punto di vista dell’individuo (e anche dal punto di vista dell’impresa e del sistema formativo) alle straordinarie sfide che lo scenario emergente pone a tutti in prospettiva.

 Tali sfide, nel tempo, sono state denominate di volta in volta nel dibattito con locuzioni differenti:

  • la sfida della competenza, e in tale ambito quella specifica dello sviluppo delle competenze trasversali;

  • la sfida dell’apprendimento (lifelong e lifewide; formal, non formal e informal);

  • la sfida del riconoscimento delle esperienze, della validazione degli apprendimenti e della certificazione delle competenze;

  • la sfida dell’occupabilità, dell’imprenditorialità, dell’adattabilità, dello sviluppo personale e professionale, dell'inclusione sociale.

Come si può osservare, si tratta di sfide che in qualche caso evocano parole-chiave dei recenti periodi di programmazione dei Fondi Strutturali UE, e che permangono tuttora valide e cogenti. Quali sono, allora, alla luce di ciò, le "buone ragioni’"dell’alternanza?

La prima ragione, particolarmente evocata nel dibattito corrente, è la più intuitiva, e quindi in un certo senso a mio avviso anche la meno consistente, ed ha a che fare con l’assunto secondo il quale il luogo di lavoro costituirebbe la realtà concreta alla quale le persone dovrebbero imparare a adattarsi ("un conto è la formazione; un conto è il mondo del lavoro").

In questo senso, si sostiene che il contesto di lavoro consentirebbe di socializzare gli individui (in particolare i giovani) rispetto a caratteristiche, regole, culture-valori propri dell’organizzazione dell’impresa: nei contesti di lavoro si andrebbe quindi a scuola di realtà, vi si imparerebbe la realtà.

Questa argomentazione è in effetti immediata e suggestiva, anche se sembra non tenere in adeguata considerazione due elementi di rilievo, che inducono a non assumerla acriticamente, e soprattutto unidirezionalmente.

Il primo elemento è che anche il contesto della formazione, fino a prova contraria, costituisce un tipo di realtà; e il secondo elemento è che l’adattamento tra individuo e contesto organizzativo non è mai "a senso unico", ma è sempre reciproco.

La seconda ragione dell’alternanza, anche questa spesso richiamata nel dibattito corrente, è un poco più consistente e significativa della prima, in particolare per i soggetti che vi si trovano coinvolti: si sostiene infatti che il luogo di lavoro costituirebbe per l’individuo (in parte anche come conseguenza di quanto argomentato con la prima ragione) nello stesso tempo da un lato il contesto, e dall’altro la risorsa-strumento per mettersi alla prova, per valutarsi-testarsi (rispetto al compito; rispetto agli altri colleghi; rispetto ai clienti; rispetto alla propria immagine di sé; ecc.); e per questa via quindi il contesto e la risorsa-strumento per confrontarsi con il lavoro, scoprendo magari grazie a questa esperienza aspetti di sé che non aveva ancora considerato o chiarito: in termini di attitudini, ma anche di interessi, di motivazioni, di capacità-competenze…

In altre parole, in questa seconda prospettiva il luogo di lavoro costituirebbe un ambiente-strumento per le persone per auto-orientarsi: aiutandole così, nel caso dei giovani, a tracciare le prime coordinate di quella che si configurerà come la propria personalissima traiettoria lavorativa.

La terza ragione dell’alternanza, nonostante risulti meno presente nel dibattito, è nondimeno a mio avviso la più consistente e decisiva, e in un certo senso è anch’essa il risultato congiunto di quanto argomentato in merito alle prime due ragioni, e deriva da esse: l’assunto che la ispira è che il luogo di lavoro è una sorta di ipertesto, in cui sono compresenti e si intrecciano, in un gioco di rimandi continui, tante e diverse dimensioni (potremmo anche definirle "finestre di comprensibilità") attraverso le quali l’individuo può cercare di decifrare, comprendere e attribuire un senso alla propria esperienza (i processi lavorativi; la struttura organizzativa; i prodotti o i servizi; i ruoli, le persone; le relazioni; le tecnologie; gli spazi; i clienti; i linguaggi-codici; ecc.).

Inoltre, e soprattutto, in tale prospettiva il luogo di lavoro costituisce il contesto in cui si manifestano i problemi del "fare", dell’agire, e in cui quindi si testano le soluzioni, si applicano i metodi; e soprattutto, costituisce il luogo in cui i concetti, le attività, i metodi di lavoro e i problemi acquisiscono finalmente "senso" per le persone (sensemaking).

Si comincia così a capire davvero ciò che si è studiato in ambito formativo; e ciò che si è imparato si può eventualmente trasferire (anche se non sempre e non automaticamente, come sappiamo: poiché occorrono alcune condizioni essenziali perché ciò sia possibile).

La terza ragione quindi ci ricorda che ci sono cose che si attivano (imparano; apprendono) solo nel rapporto con una situazione operativa reale, con un contesto specifico, con un compito-problema definito; e cose che, pur apprese altrove, solo in quella situazione, in quel contesto e di fronte a quel problema si riesce a valorizzare e a capitalizzare.

Se quelle fin qui indicate sono dunque "tre buone ragioni" per l’utilizzo del contesto di lavoro come risorsa per l’apprendimento (e quindi anche dell’alternanza scuola-lavoro) dal punto di vista dell’individuo, altre e non meno cruciali ve ne sono se ci si pone dal punto di vista dell’impresa e del sistema formativo.

Per l’impresa, l’alternanza scuola-lavoro può rappresentare l’occasione per pensarsi come risorsa formativa (e quindi come luogo di apprendimento: luogo di sviluppo di competenze tacite da trasformare in competenze esplicite e formalizzate, beninteso senza alcuna burocratica proceduralizzazione; luogo di esercizio di quell’indispensabile "approccio meta-cognitivo" che non va confinato alla sola formazione manageriale, perché costituisce in realtà una straordinaria risorsa per qualsiasi soggetto organizzativo, anzi una componente essenziale della competenza; e un dispositivo particolarmente potente di apprendimento organizzativo).

Sempre per l’impresa, l’alternanza scuola-lavoro può costituire anche un'opportunità per orientarsi alle risorse umane: non tanto nel senso, così intuitivo da risultare quasi banale, di preselezionare o opzionare i propri collaboratori (dimensione che pure è presente, che ha una sua legittimità e che concorre a spiegare il "successo" di forme quali lo stage, il tirocinio e il lavoro in somministrazione); quanto piuttosto nel senso, un poco più complesso, che attraverso l’esperienza lavorativa e nel corso di essa le persone imparano a "prendere le misure" all’impresa e l’impresa impara a "prendere le misure" alle persone: a conoscere le diverse caratteristiche delle persone anziché soltanto i loro titoli di studio o le loro qualifiche; e a relazionarsi con soggetti "in carne e ossa" (e "testa"; e "cuore") anziché con ruoli o figure professionali.

Fino a scoprire, come avviene nelle migliori esperienze di inserimento lavorativo, che può anche valere la pena di intraprendere una progettazione ‘su misura’ del posto di lavoro per una determinata persona, che magari in un primo momento sarebbe stata considerata di scarso o nullo interesse per l’azienda, e che invece durante l’esperienza e tramite essa (e tramite la relazione che essa consente di istituire) si rivela un risorsa con potenzialità che l’azienda non aveva pre-visto.

Nella prospettiva del sistema formativo, le ragioni dell’alternanza sono invece riconducibili essenzialmente alla considerazione che, qualora si riesca a elaborarlo in modo adeguato (analizzando il fabbisogno, progettando, accompagnando, supportando, valutando), il confronto con il luogo di lavoro concreto costituisce per gli istituti scolastici e per le agenzie di formazione una straordinaria risorsa ai fini della (ri-)programmazione dei curriculi e per il miglioramento dei risultati: ciò sia in una logica di efficienza (maggiore apprendimento a parità di tempo dedicato), sia in una logica di efficacia (migliore apprendimento: più ampio, consistente, persistente).

In tale prospettiva, il contesto di lavoro rappresenta un vero e proprio organizzatore didattico, e un essenziale ancoraggio di senso per le persone in esso inserite; e costituisce un contesto particolarmente significativo, in relazione al quale rileggere criticamente discipline, materie, etc.: ma ciò purché, naturalmente, vi sia nei soggetti del sistema formativo la necessaria disponibilità all’ascolto e alla problematizzazione (e anche l’apertura a mettersi in discussione, quando ciò emerga come opportuno), calandosi nel confronto con l’esperienza pratica senza pregiudizi, in positivo o in negativo che siano.

Naturalmente, come in precedenza richiamato, il valore formativo dell’esperienza lavorativa non costituisce un risultato automatico dello spostamento in azienda del baricentro dell’itinerario finalizzato all’apprendimento, o in una versione più soft della integrazione di esperienza pratica in percorsi essenzialmente teorici: le cose sono un po’ più complicate, e perciò anche più interessanti.

Perché vi sia apprendimento significativo in esito a percorsi di alternanza studio-lavoro occorre infatti che siano disponibili alcune essenziali condizioni.

Sulla natura e le caratteristiche di queste condizioni, la SIPLO ha inteso promuovere la riflessione e il confronto pubblico tra diversi stakeholder, anche allo scopo di definire se e quale contributo distintivo e specifico la psicologia del lavoro e dell’organizzazione possa offrire per lo sviluppo qualitativo delle pratiche sul campo.

Nella convinzione che il Paese abbia in questi lunghi anni (se pure in modo peculiare, episodico e non strutturato: secondo quella modalità "imperfetta" che sembra caratterizzare la nostra cultura più profonda) costruito esperienze, sviluppato competenze e maturato orientamenti che possono costituire, in prospettiva, una risorsa preziosa per fare fronte alle sfide emergenti[1].

 

[1] Un primo importante momento di tale riflessione-confronto è programmato per il 13 dicembre 2017 a Roma, nell’ambito di un seminario che SIPLO ha promosso congiuntamente all’Ordine regionale degli psicologi del Lazio, con la collaborazione dell’Università La Sapienza in applicazione di un protocollo di intesa recentemente siglato tra SIPLO e Ordine del Lazio.




Note

1 A

© 2017 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
ISSN 2421-2202. Counseling.
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