Articoli su invito / Invited articles
Il counseling psicologico-clinico nella prospettiva dell’attaccamento
An attachment perspective on psychological (clinical) counseling
Karola Sorgi
Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio, Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara
Cristina Ciuluvica (Neagu)
Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio, Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara
Daniela Marchetti
Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio, Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara
Maria Di Nardo
Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio, Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara
Mario Fulcheri
Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio, Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara
Sommario
Il presente contributo intende proporre una declinazione applicativa del modello dell’attaccamento nell’ambito del counseling psicologico-clinico. Partendo da una riflessione su come la teoria dell’attaccamento possa essere utilizzata come base comune per strategie e interventi psicologico-clinici, si ritiene che tale elaborazione possa costituire un modello di riferimento che permette di rispondere alle esigenze sia cliniche, sia di ricerca. Viene analizzata la possibilità di adattare elementi chiave del modello dei cinque compiti terapeutici proposto da Bowlby, alle specifiche peculiarità del processo di counseling. Sulla base di tale framework teorico gli obiettivi del processo di counseling sono individuabili nell’esplorazione e nell’acquisizione della consapevolezza dei pattern adattativi/disadattavi e della loro origine, aiutando il cliente ad intraprendere i primi passi verso il cambiamento.
Parole chiave
counseling psicodinamico; attaccamento adulto; alleanza; auto-consapevolezza; pattern adattivi/disadattivi.
Abstract
This paper aims to propose an applicative declination of the attachment model as a part of psychological (clinical) counseling. Starting with a reflection on how attachment theory can be used as a common basis for clinical psychological strategies and actions, it is deemed that such processing could be a reference model allowing both clinical and research demands to be met. The possibility of adapting key elements from the model of the five therapeutic tasks proposed by Bowlby to the specific peculiarities of the counseling process is analysed. Assuming such a theoretical framework, the goals of the counseling process can be identified as the exploration and acquisition of awareness regarding adaptive/maladaptive patterns and their origin, helping the client to take their first steps toward change.
Keywords
psychodynamic counseling; adult attachment; alliance; self-awareness; adaptive/maladaptive patterns.
Il counseling psicologico
Sul counseling psicologico sono attualmente in via di sviluppo specifiche realtà volte ad approfondire la riflessione in Italia e stimolare un orientamento condiviso sulle sue applicazioni (Sarchielli, 2016). Tale intento trova specifica applicazione sia nel Network Universitario per il Counselling (Network Uni.Co), sia nella formazione di un peculiare gruppo di lavoro volto alla costituzione di una Consensus conference, condividendo l’assunto che il counseling, piuttosto che una professione, rappresenti una funzione con prevalente connotazione psicologica, determinante soprattutto in ambito clinico.
Pertanto, il counseling psicologico non può che essere incluso nell’area della Psicologia Clinica Applicata, connotandosi come una specifica relazione d’aiuto (Fulcheri & Savini, 2011), unitamente alla psicoterapia (Fulcheri, 2005a). È possibile affermare che il counseling, a differenza della psicoterapia, è un intervento psicologico atto a operare sulla salute più che sulla patologia (Di Fabio, 2003; Quattrini, Maiella, & Fulcheri, 2012). Esso si realizza in tempi piuttosto brevi, caratterizzandosi come una relazione che pone l’attenzione sulle dimensioni psicologiche (Fulcheri, 2005b), emotive, cognitive e relazionali, con l’obiettivo di favorire un cambiamento attraverso un contratto condiviso tra counselor e cliente (Recrosio, 1999). Ancora può essere definito come “una professione peculiare che si serve di competenze specifiche, come un intervento basato sulla comunicazione e sulla partecipazione emotiva, in un clima relazionale cooperativo. Si rivolge a persone sane, che hanno difficoltà a fronteggiare la crisi; con modalità non direttive, nel quale la persona è aiutata a trovare da sé le risorse per fare fronte a situazioni di disagio” (Fulcheri, 2005a). Il counseling si focalizza quindi sull'“aiutare la persona ad aiutarsi", allenando le risorse personali interne/esterne e rinforzando l’autoefficacia (Bandura, 1996). Secondo Mucchielli (1997) il processo di counseling enfatizza l'importanza dell'autopercezione, autodeterminazione e autocontrollo, nel quale il risultato finale è misurabile mediante il livello di soddisfazione e benessere della persona. Patrizi (2013) sottolinea che l’intervento di counseling è rivolto più al “come” le persone si sentano meglio nel loro contesto e non solo su “cosa” o “quale contesto” scelgano. Si focalizza inoltre sui risultati e sugli sforzi riscontrabili nell’ambito del lavoro, dello studio e della sfera personale, sugli elementi che influiscono nella soddisfazione dominio-specifica, su “come” i propri obiettivi sono percepiti e come vengono fronteggiate le situazioni critiche.
Tuttavia negli ultimi decenni, sia nella psicoterapia sia nel counseling, si è imposta una strategia di integrazione che, sebbene riconosca un senso profondo specificatamente individuale e relazionale, rischia di trasformarsi in un modo per favorire eclettismo e approssimazione. In questi termini il counseling presenta le medesime problematiche sul piano teorico ed empirico che hanno interessato e fanno riflettere ancora la psicoterapia. I paradigmi di base che ispirano i numerosi approcci alla psicoterapia sono infatti sostanzialmente tre: quello psicoanalitico, quello cognitivo-comportamentale e quello sistemico-relazionale. A questi tre si affianca un’altra cornice teorica che, traendo le sue origini dal pensiero filosofico esistenzialista e fenomenologico, ha fondato una serie di realtà applicative che si identificano sotto il nome di terapie umanistiche-esperienziali (terapia centrata sul cliente, gestaltica, ecc.) (Binetti & Bruni, 2003).
In tale prospettiva si afferma che ogni intervento di aiuto, professionalmente individuato, affinché possa dirsi tale ed evitare una connotazione estemporanea e casuale, ha bisogno di fondarsi all’interno di una cornice teorica di riferimento, che ne giustifichi l’esistenza, fungendo da base per rispondere alle esigenze di studio e di ricerca, in termini di validità e di efficacia. Poter proporre una teoria sufficientemente strutturata e rigorosa, ma allo stesso tempo dotata di ampi margini di insaturazione, permette di contemperare letture differenti degli stessi fenomeni, senza incorrere nell’invalidazione del paradigma stesso o nella svalutazione di altri (Binetti & Bruni, 2003).
Pertanto si intende suggerire una declinazione applicativa del modello dell’attaccamento nel counseling psicologico, che permetta di mantenere stabile il concetto di centralità della persona; dell’importanza del sostegno empatico; la promozione di atteggiamenti esplorativi o della ricerca di autonomia, così come l’importanza della regolazione emotiva, e ancora della relazione stessa, che in questo caso non costituiscono gli espedienti tecnici del counseling, ma punti focali dell’intervento, che acquistano senso e significato, alla luce della teoria di riferimento.
La teoria dell’attaccamento
La teoria dell’attaccamento, pur essendo nata nella prima metà del XX secolo, rappresenta, come sottolineato da Binetti e Bruni (2003), una teoria con margini ancora percorribili, aree non occupate da eccessive cristallizzazioni concettuali, ancora suscettibili di esplorazione e trasformazione, capace di orientare l’intervento psicologico-clinico.
Alle origini la teoria dell’attaccamento è stata sviluppata dallo psicoanalista inglese John Bowlby (1975), il quale osserva l’intenso disagio e i comportamenti esacerbati (pianto, aggrapparsi, ricerca frenetica) per evitare la separazione dai genitori o per ristabilire la prossimità con il genitore mancante. Bowlby (1975) ipotizza che tali comportamenti, da lui definiti di “attaccamento”, fossero comuni agli esseri umani così come ad altri mammiferi e che quest’ultimi rappresentano delle risposte adattive che assicurano la sopravvivenza di una specie. Inoltre la sua considerazione fu che quei bambini che nel percorso evolutivo erano stati in grado di mantenere la vicinanza a un caregiver, attraverso comportamenti di attaccamento, presentavano una probabilità maggiore di crescere in modo sano e raggiungere l’età adulta attuando comportamenti adattivi.
Le ricerche nell’ambito dell’attaccamento adulto (Hazan & Shaver, 1987) mostrano che i legami emotivi che si sviluppano tra i partner all’interno di una relazione romantica hanno radici nei legami instauratisi durante l’infanzia tra bambino e caregiver. Il sistema di attaccamento in età adulta modula numerosi processi intra e interpersonali, sia sul piano emotivo, sia sul piano cognitivo e comportamentale (Mikulincer & Shaver, 2013). Dunque esso è definibile come un “sistema motivazionale primario” (Liotti & Monticelli, 2008), che ha la funzione di proteggere l’individuo dalla minaccia dell’incolumità fisica e psichica, garantendo la vicinanza e la protezione dei caregivers.
La teoria dell’attaccamento si presta a essere utilizzata come base comune per strategie e interventi articolati e diversificati, garantendo la possibilità di condividere un modello teorico da parte di professionisti che aderiscono a differenti approcci teorici (Barone, 2011). La natura poliglotta della teoria dell’attaccamento permette nuove forme di incontro e integrazione in quanto presenta radici concettuali multiple: nasce all’interno della cornice psicoanalitica, riconoscendo l’importanza fondamentale delle relazioni primarie per la vita psichica dell’individuo; condivide con la teoria delle relazioni oggettuali una serie di concetti di base, quali la centralità del paradigma relazionale, il concetto di responsività sensibile della madre e il suo ruolo nella formazione delle rappresentazioni. Nondimeno, nel linguaggio e nei modelli che utilizza, si avvicina all’approccio cognitivista, attraverso la teorizzazione dei “Modelli Operativi Interni” (MOI) (Mikulincer & Shaver, 2013).
Binetti e Bruni (2003) descrivono la teoria dell’attaccamento come un “modello insaturo” supportato dalla teorizzazione della mente come un sistema aperto e plastico che conferisce alle relazioni un ruolo cruciale, offrendo la possibilità di molteplici vertici di osservazione e applicabilità nell’ambito psicologico-clinico.
Tuttavia, a differenza di quanto auspicato, nella storia della teoria dell’attaccamento si è osservata l’iniziale mancanza di interesse nello scambio di saperi tra ricercatori e clinici, che nel tempo ha generato una scissione, senza permetterne lo scambio costruttivo e il dialogo interdisciplinare (Holmes, 1994a). La teoria dell’attaccamento infatti inizialmente trovò più resistenze nel mondo clinico, allora permeato dal pensiero psicoanalitico, sviluppandosi con più facilità in ambito accademico, nel quale si presentava come occasione foriera di nuove opportunità di ricerca. Secondo Bowlby (Tondo, 2011), la chiave del possibile superamento di questa scissione, risiedeva nel riconoscimento del potere euristico della teoria, laddove valorizzata nelle sue componenti evolutive, spendibili anche nell’ambito clinico.
Un primo passo verso la riflessione applicativa della teoria dell’attaccamento nel counseling psicologico trova fondamento, per l’appunto, nell’opera di John Bowlby, che nel 1989 propone, in A Secure Base, un modello di cambiamento terapeutico. Il padre della teoria dell’attaccamento ritiene che il processo terapeutico debba muoversi verso l’identificazione e la comprensione, da parte del paziente, delle proprie esperienze di attaccamento spesso dimenticate o fraintese, al fine di attuare una revisione dei MOI di tipo “insicuro”, verso quelli di tipo “sicuro”, sperimentando nuove modalità di raggiungimento sia di un’intimità relazionale piacevole, sia di un'autonomia flessibile. Bowlby (1989) afferma il ruolo centrale giocato dai MOI di tipo insicuro nella genesi delle difficoltà emotive e relazionali, e che gli esiti terapeutici positivi dipendano dalla misura in cui le rappresentazioni mentali patogene vengono identificate, chiarite/chiarificate, messe in discussione, riviste e trasformate, in modelli più adattivi. Nello stesso volume egli evidenzia la funzione cruciale del terapeuta quale “base sicura nel processo di esplorazione” e prospetta un’analogia tra la funzione genitoriale e quella del terapeuta. Il genitore, fornendo una base sicura crea un fondamento emotivo su cui il bambino può sviluppare una conoscenza circa sé stesso e il mondo, acquisendo importanti competenze, mentre il terapeuta, assicurando una base sicura al cliente, gli consente di prendere coraggio per un'esplorazione di se stesso. Nel corso della relazione di aiuto il cliente ha la possibilità di andare a fondo nei ricordi in parte bloccati/serrati/sigillati, desideri e sentimenti distorti, al fine di sviluppare una maggiore comprensione di sé, rivedere modelli operativi di sé e degli altri e riprendere il processo di crescita personale.
Verso un’integrazione adattata del modello dei cinque compiti terapeutici di Bowlby al processo di counseling
Pur tenendo in considerazione che esiste una netta distinzione tra l’intervento di counseling e la psicoterapia, si ritiene opportuno operare una riflessione circa i “cinque compiti terapeutici” proposti da Bowlby (1989), in quanto contribuiscono alla modificazione dei modelli operativi insicuri e al raggiungimento di esiti terapeutici positivi. Ritenendoli largamente utili e applicabili, anche nel counseling, tali punti saranno trattati secondo la specificità dell’intervento scelto, operando delle modifiche ad hoc.
Il primo compito proposto è quello di fornire ai clienti un “rifugio sicuro” e una “base sicura” da cui è possibile partire per esplorare emozioni e ricordi dolorosi, difese peculiari ma distruttive, credenze e comportamenti disadattivi. Questa condizione, indispensabile per l'intero processo, è basata sul concetto di equilibro tra “attaccamento” ed “esplorazione” proposto da Bowlby (1975) e dalla Ainsworth (1995). Nella dinamica di attaccamento-esplorazione, la disponibilità a fornire una base sicura da parte di un counselor sensibile e reattivo consente ai clienti di dedicare attenzione ed energia all'esplorazione, di correre il rischio di essere coinvolti in una riflessione su esperienze dolorose, e di accettare le modificazioni dei modelli operativi che mano a mano nascono all’interno del percorso. Senza tale base sicura, infatti, potrebbe presentarsi il rischio che i clienti si confrontino con la paura di esplorare e di rivelare pensieri e sentimenti disorganizzanti, ponendosi in un atteggiamento di chiusura difensiva, di non autenticità, diffidenza e/o ambivalenza. Inoltre, qualora il counselor non fosse in grado di fornire sicurezza, impedirebbe l’instaurazione di una relazione e di un’alleanza tale da permettere al cliente di sperimentare relazioni qualitativamente differenti da quelle primarie, che potrebbero essere caratterizzate da disapprovazione, disinteresse, imprevedibilità e abbandono.
Il secondo compito è quello di esplorare e comprendere “come il cliente si relaziona all’altro nel qui e ora”. A tal fine il counselor deve incoraggiare e assistere il cliente nel comprendere le conseguenze disadattive dei suoi principali pattern relazionali, sia che si tratti di pattern evitanti, ansiosi o disorganizzati. Particolare attenzione è data alle modalità con le quali il cliente costruisce cognitivamente le relazioni interpersonali, ai pregiudizi cognitivi che deformano le interpretazioni del cliente, ai ricordi delle esperienze interpersonali e alle azioni del partner nella relazione. Come Cobb e Davila (2009) hanno notato, considerando che queste distorsioni cognitive sono per la maggior parte inconsce, i clienti hanno bisogno di interventi sensibili da parte del counselor per divenire consapevoli delle distorsioni precedentemente non riconosciute e delle strategie relazionali disfunzionali. Inoltre, i clienti hanno bisogno di un counselor che gli fornisca gli strumenti adeguati per poter accedere a un esame di realtà congruo: sovente, infatti, il cliente ha già sperimentato nel passato interpretazioni autodistruttive dei propri obiettivi, che hanno indotto esiti emotivi opposti a quelli desiderati (Mikulincer & Shaver, 2013).
Il terzo compito è esaminare la particolare “relazione del cliente con il counselor”, che può costituire una ripetizione delle modalità relazionali disadattive del cliente. Questa relazione inevitabilmente è investita dal transfert e dalla proiezione dei modelli operativi consolidati del cliente, sul counselor e nella relazione di aiuto. Tale compito è simile a quello riscontrabile nel modello psicoanalitico che prevede di “lavorare attraverso il transfert del cliente” (Holmes, 1994a). Esso è basato sulla considerazione di Bowlby (1975) secondo la quale i MOI vengono automaticamente proiettati sul partner della nuova relazione, incluso il counselor. Bowlby (1989) ha suggerito che l'analisi del cliente, circa le proprie attitudini e sentimenti nei confronti del counselor e riguardo ai propri pattern di relazione con lui, offre l'opportunità di capire come i modelli operativi si attuano in una particolare relazione e le modalità in cui generalmente alterano il corso e l'esperienza di tale relazione. In una certa misura, questo richiede al counselor di evitare di cadere nei ruoli complementari richiesti dai “drammi” abituali del cliente. Le nuove consapevolezze del cliente circa il riconoscimento e le ripetizioni dei pattern, insieme alle rivalutazioni degli obiettivi personali, alle valutazioni cognitive e alle reazioni emotive, aprono la porta a nuove esperienze che permettono la sperimentazione di modelli di relazione più sicuri con il counselor.
Il quarto compito “terapeutico” proposto da Bowlby (1989) rappresenta una riflessione su “come i modelli operativi di sé e degli altri siano radicati nelle esperienze infantili con le figure di attaccamento primarie”. La realizzazione di questo compito difficile e talvolta doloroso dipende dalla sensibilità empatica e dalla reattività del counselor che aiuta e incoraggia il cliente ad accettare ricordi di esperienze frustranti e umilianti con figure di attaccamento talvolta contraddittorie, respingenti, trascuranti o abusanti. I clienti spesso hanno bisogno di capire come queste esperienze hanno plasmato le loro credenze e i loro comportamenti disadattivi prima di poterli rivedere e modificare in un modo migliore. Rispetto a questo compito è doveroso puntualizzare che nella relazione di counseling, l’approfondimento delle esperienze infantili e dei vissuti, non rappresenta il focus dell’intervento, tuttavia risulta necessaria una breve immersione nel passato, al fine di individuare l’origine delle problematiche relazionali e soprattutto la loro connessione con il disagio psicologico del cliente nel qui ed ora.
Questa esplorazione delle radici dello sviluppo dei modelli operativi insicuri conduce al quinto compito terapeutico: “aiutare i clienti a riconoscere che, sebbene i loro modelli operativi un tempo fossero adattivi, o almeno potessero sembrare tali, nelle interazioni con le proprie figure di attaccamento, nel presente non sono più funzionali” (Bowlby, 1989). Il counselor aiuta il cliente a comprendere come gli attuali pensieri, sentimenti e comportamenti disadattivi sovente si riferiscano ai modelli operativi che hanno alla base esperienze di attaccamento negative. Successivamente il cliente viene aiutato a valutare in che modo queste credenze possano essere riviste e modificate per adattarsi meglio a quelle attuali. Attraverso questo processo, i clienti possono migliorare le loro capacità circa l'esame di realtà, sperimentare e creare modelli operativi più realistici di sé e degli altri, nel contesto dei rapporti attuali, superando la crisi.
I risvolti applicativi della teoria dell’attaccamento e della ricerca, nel counseling psicologico-clinico
Implementare un intervento di counseling psicologico-clinico in età adulta secondo la prospettiva dell’attaccamento, come evidenziato attraverso la trattazione dei cinque punti terapeutici di Bowlby (1989), richiede una particolare attenzione del counselor sia verso l’“asse relazionale” nel qui e ora, sia verso l’individuazione del funzionamento del sistema di attaccamento del cliente.
Nell’adulto il sistema di attaccamento modula numerosi processi individuali e relazionali, quali la regolazione delle emozioni, le cognizioni e i comportamenti (Cassidy, 1994; Creasey, 2002; Mikulincer, Birnbaum, Woddis, & Nachmias, 2000; Mikulincer, Gillath, & Shaver, 2002; Mikulincer & Sheffi, 2000; Tagney, Baumeister, & Boone, 2004). Anche la fiducia nella possibilità di ricevere aiuto e sostegno nel percorso psicologico può variare in funzione di quelli che sono stati le vicissitudini relazionali, lo stile di attaccamento personale e le esperienze precedenti di accudimento e conforto nell’arco di vita (Mikulincer et al., 2002; Parish & Eagle, 2003). Dalle ricerche in ambito clinico, infatti, è stato riscontrato che gli individui che richiedono un percorso di counseling o una psicoterapia sovente presentano un disagio associabile a carenze o alterazioni dei pattern di attaccamento (Holmes, 1994a). Nello specifico tali problematiche possono essere rappresentate dall’incapacità del soggetto di raggiungere l’intimità e la prossimità con se stessi e con l’altro (pattern evitante), o da una profonda insicurezza e ansia di separazione e abbandono (pattern ambivalente), che possono incidere sulla richiesta di aiuto (Mikulincer & Shaver, 2013). I valori impliciti del counseling in questa prospettiva includono il riconoscimento del bisogno del cliente di essere in grado di comunicare liberamente con sé e con l’altro, di esprimere la rabbia apertamente e in modo appropriato, e di raggiungere un equilibrio tra intimità e autonomia, una condizione che può essere definita “autonomia emotiva” (Holmes & Lindley, 1989). Affinché un intervento di counseling possa supportare il cliente nel raggiungimento dell’autonomia emotiva ed essere efficace si ritiene, in accordo con la scuola rogersiana, che la relazione di aiuto debba essere basata sull’empatia, onestà e non direttività.
Secondo Holmes (1994a), gli elementi essenziali del counseling psicodinamico possono essere riassunti nei seguenti punti focali:
- una base terapeutica sicura;
- una narrativa coerente;
- la sintonizzazione del counselor;
- l’elaborazione degli affetti, in particolar modo della rabbia e dei sentimenti connessi alla perdita;
- l’esplorazione del sé all’interno di una relazione di counseling sicura.
Il counseling è finalizzato alla “costruzione e al mantenimento di una base sicura” per il cliente, alla quale egli possa tornare qualora vive una condizione di disagio psicologico (Holmes, 1994a).
Per procedere nella strutturazione di un modello di intervento psicologico basato sulla teoria dell’attaccamento, è lecito porsi alcuni quesiti, “com'è possibile costruire una relazione di attaccamento sicura tra counselor e cliente? Quali modalità relazionali e quali possono essere i presupposti fondanti? Al fine di rispondere ai seguenti interrogativi, è utile citare due concetti centrali nel counseling come nella psicologia del Sé: la sintonizzazione e l’empatia. Entrambi i concetti presuppongono la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di identificarsi con esso, di rinunciare alla centralità del sé per riconoscere che l’altro presenta un universo psichico differente che comporta una propria e distinta percezione delle cose.
L’Infant Research offre degli spunti di riflessione utili riguardo alla natura dell’empatia. Le interazioni genitore-bambino con attaccamento sicuro, infatti, mostrano le caratteristiche prototipiche di una relazione empatica: responsività (responsiveness), sintonizzazione (attunement), alternanza (taking turns), sincronia (synchrony) e simmetria (symmetry) (Brazelton & Cramer, 1991; Stern 1987). Così come nella diade genitore-bambino, anche in una buona relazione di counseling è possibile riscontrare la presenza di una serie di atteggiamenti e comportamenti che indicano la presenza di responsività e sintonizzazione. Attraverso l’ascolto attivo e gli sforzi del counselor che modula lo stato di eccitazione del cliente quando è attivato e/o per stimolarlo quando è apatico o ritirato, è possibile riscontrare tale analogia (Holmes, 1994a, 1994b). Durante l’infanzia, infatti, la sensibilità dei genitori verso i bisogni fisici ed emotivi del bambino, contribuisce a mantenere la comunicazione (Stern, 1987) nelle situazioni di disagio fisiologico e interpersonale. Nel bambino, sintonizzazione, modulazione degli affettivi e sensibilità da parte delle figure primarie permettono la formazione dell’identità personale e un senso di continuità tra passato, presente e futuro. Allo stesso modo, il counselor ricopre una “funzione genitoriale”, prestando attenzione ai dettagli della storia del cliente, che attraverso interventi specifici, assicura ad esso un senso di continuità e integrazione di sé. Il counselor rappresenta il “guardiano della storia”; in riferimento sia alla vita del cliente, sia alla relazione di aiuto, egli è capace di ricordare dettagli significativi della vita di chi prende in carico ed allo stesso tempo è consapevole degli eventi salienti del processo di cambiamento.
In questo frangente la narrativa acquisisce un ruolo rilevante: il modo attraverso il quale l’individuo parla di sé, sovente riflette i pattern di attaccamento pre-verbali, fornendo al counselor informazioni preziose riguardo alla rappresentazione che il soggetto ha interiorizzato di se stesso e dell’altro significativo. Sin dai primi colloqui di consulenza è importante prestare attenzione alla narrativa del cliente, che può risultare scarsa o elaborata, confusa o eccessivamente schematica, priva o intrisa di vissuti emotivi, disorganizzata o ben integrata nei suoi vari aspetti. Attraverso la comunicazione verbale e non verbale vengono infatti veicolati affetti, credenze e assunti, atteggiamenti, ricordi e fantasie. Dall’analisi della “narrativa” è possibile cogliere il disagio psicologico del cliente. I soli contenuti, infatti, sovente non sono sufficienti alla piena comprensione del disagio/malessere, mentre una particolare attenzione al grado di coerenza riscontrabile tra i contenuti presentati e le modalità di comunicazione verbale e non verbale permette al counselor di conoscere l’altro, di avere una maggiore cognizione della crisi e dei bisogni consci e inconsci del cliente. Questa prospettiva consente di considerare il percorso di counseling come un “recupero della narrativa perduta della storia del cliente” (Holmes, 1994a).
Attraverso l’esplorazione di affetti, pensieri e comportamenti, unitamente agli interventi del counselor, nel cliente emergono degli aspetti di sé precedentemente sconosciuti. In particolar modo nuovi elementi possono riguardare risorse e potenzialità personali, che saranno integrati e “raccontati” insieme a esperienze affettive e comportamentali attuali, esperite fuori e dentro la relazione di counseling. Se all’inizio del percorso dalla narrativa è possibile cogliere il malessere e le carenze associate a pattern di attaccamento disfunzionali, che rivelano la qualità delle rappresentazioni di sé (positiva/negativa) e dell’altro (positiva/negativa) (Bartholomew & Horowitz, 1991), durante il processo e a conclusione di esso, sarà possibile testare il cambiamento anche attraverso una modificazione della forma della narrazione. Essa infatti risulterà più fluida, chiara e coerente, rispecchiando la capacità del soggetto di attivare le sue risorse, attuando comportamenti più adattivi.
L’esplorazione e la consapevolezza dei MOI (funzionali e non) da parte del cliente rappresenta dunque una delle finalità del processo di counseling. Come suggerito da Bowlby, già nel 1988, aiutare il cliente a prendere coscienza dei propri schemi di relazione impliciti, riguardanti la risposta del caregiver di fronte ai propri bisogni, costituisce il primo passo verso il cambiamento. Successivamente l’esplorazione di sé in un clima relazionale sicuro permetterà al cliente di esprimere liberamente i propri bisogni e vissuti interni. Anche in questo frangente la ricerca in ambito clinico ha evidenziato che frequentemente i clienti presentano delle difficoltà di riconoscimento ed espressione dei propri bisogni psicologici di base (Wei, Heppner, & Mallinckrodt, 2003; Wei, Shaffer, Young, & Zakalik, 2005). Bisogni primari che talvolta, durante l’infanzia, non hanno trovato una naturale espressione e un pieno soddisfacimento.
Dunque nel percorso di counseling non è sufficiente individuare i pattern emotivi e relazionali disfunzionali per aiutare il cliente a superare il disagio, ma è fondamentale individuare quali sono i bisogni psicologici che non sono stati comunicati in modo adeguato e che non hanno avuto pieno soddisfacimento. Wei et al. (2003, 2005) suggeriscono che i bisogni psicologici di base, hanno a che fare con la necessità del soggetto di ottenere: “autonomia”, “competenza” e “relazionalità”. Gli studi dimostrano come un attaccamento sicuro in età adulta, sia associato alla soddisfazione dei bisogni di base e come ciò comporti sentimenti di benessere e soddisfazione. Al contrario si è evinto che soggetti insicuri (ansiosi e/o evitanti), sovente non sono consapevoli fino in fondo dei bisogni che guidano inconsapevolmente i loro comportamenti, spesso disfunzionali e frustranti. Gli adulti che presentano un attaccamento evitante infatti, nella maggior parte dei casi riferiscono una storia caratterizzata dalla mancata disponibilità e/o prossimità delle figure di accudimento, alla quale sovente sono associate strategie secondarie caratterizzate da “disattivazione” del sistema di attaccamento, che può tradursi in un atteggiamento svalutante nei confronti dei propri bisogni di “relazionalità” in età adulta (Mikulincer & Shaver, 2013). La ricerca evidenzia invece che un attaccamento di tipo ansioso-ambivalente, durante l’infanzia, è associato a relazioni primarie caratterizzate dalla presenza di caregivers poco costanti e/o ansiosi, incapaci di modulare gli affetti e soddisfare le richieste di prossimità e rassicurazione. In età adulta tale stile di attaccamento può comportare atteggiamenti di insicurezza e dipendenza verso l’altro, caratterizzati dalla paura dell’abbandono e da una continua ricerca di approvazione e supporto (Wei, Vogel, Ku, & Zakalik, 2005). In questo caso i bisogni di “autonomia” e di “competenza” possono essere sottostimati o soppressi. In entrambi i casi è possibile osservare come i bisogni di attaccamento dell’individuo non abbiano trovato un'adeguata espressione e si siano trasformati in pattern difensivi e disadattivi, che provocano sofferenza nel soggetto e disagi nelle relazioni interpersonali (Blalock, Franzese, Machell, & Strauman, 2015). Il processo di counseling diviene allora uno spazio nel quale è possibile individuare ed esprimere, in un clima di accoglienza e sicurezza, i propri bisogni inespressi, con particolare attenzione ai vissuti emotivi ad essi associati. All’interno dello spazio di counseling il cliente realizza la capacità di pensare e prendere consapevolezza dei propri stati emotivi che possono essere elaborati e modulati.
L’esplorazione del mondo emotivo del cliente e, in particolar modo, il lavoro di riconoscimento e manifestazione della “rabbia” e della “tristezza” (perdita) costituiscono il fulcro del processo di cambiamento, che passa attraverso la dimensione affettiva dell’incontro. Nella strange situation, il bambino “sicuro” è capace di esprimere la rabbia e la protesta di fronte alla separazione e al distacco temporaneo dalla figura primaria, che vengono naturalmente accolti dal genitore. L’accoglimento e il contenimento degli stati affettivi da parte del caregiver, infatti, permettono al bambino di imparare a modulare le proprie emozioni; in questo modo, il bambino, dopo un iniziale momento di disregolazione, è capace di ripristinare uno stato di attivazione ottimale, tornando a giocare e a esplorare l’ambiente circostante (Ainsworth, Blehar, Waters, & Wall, 1978). Allo stesso modo nella relazione di counseling il cliente deve sperimentare la possibilità di esprimere in modo appropriato la rabbia, metabolizzandola all’interno della relazione. Quest’ultima non rappresenta una minaccia, ma piuttosto una modalità di rafforzamento del legame affettivo (Holmes, 1994a).
Un altro vissuto che si presta a essere elaborato è la perdita o lutto. Si tratta di un concetto basilare sia nel processo di attaccamento, sia nella relazione di counseling. Di frequente disagi e disfunzioni sono associati alla mancata elaborazione delle “perdite” che l’individuo si trova a fronteggiare nell’arco della propria esistenza. Non solo le perdite reali, ma anche quelle “simboliche”, necessitano di un adeguato spazio di espressione ed elaborazione. In tale prospettiva, il cliente ha la possibilità, all’interno del setting, di esprimere i sentimenti di lutto precedentemente repressi, così come di sperimentare un nuovo modo di vivere le piccole perdite e le separazioni. Ciò diviene possibile attraverso le brevi interruzioni del percorso, dovute alla malattia o a eventi accidentali di una delle due parti, le pause per le festività, così come grazie alla conclusione dell’iter stesso.
Conclusione
A partire da una riflessione sul modello dei cinque compiti terapeutici proposto da Bowlby (1989), è stata proposta una integrazione tra ricerca e applicazione, che permette di identificare la teoria dell’attaccamento come base di partenza per l’esplorazione, all’interno del processo di counseling, delle componenti relazionali e affettive che influenzano i pattern adattivi/disadattivi del cliente.
In questo frangente il counseling psicodinamico occupa una posizione intermedia tra il counseling psicoanalitico e quello rogersiano, in quanto tiene in considerazione gli aspetti e le questioni che possono sorgere dalla relazione counselor-cliente (Holmes, 1994a). Il focus dell’intervento diviene dunque “l’asse relazionale” nell’hic et nunc, quale strumento principe per la comprensione del disagio psicologico del cliente e dei propri MOI. In questo processo il counselor funge da autentica “base sicura” e “porto sicuro” (Ainsworth et al., 1978), permettendo l’esplorazione delle risorse e delle potenzialità del cliente, fornendo supporto e rassicurazione (Mikulincer & Shaver, 2013).
Il processo di counseling si declina pertanto in una dimensione spazio-temporale che consente al cliente di sperimentare e narrare un nuovo modo di stare con sé e con l’altro.
Il cambiamento e i progressi del cliente saranno allora riscontrabili nella possibilità di comunicare liberamente; di esprimere i propri vissuti in modo aperto e adeguato; di raggiungere un equilibrio emotivo, cognitivo e comportamentale tra intimità e autonomia (Holmes, 1994a; Holmes & Lindley, 1989).
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