Vol. 1, n. 1, luglio 2024

La meccanizzazione del corpo sportivo

L’impatto delle metodologie di allenamento moderne

Rafael Mendoza1

Sommario

Nel suo libro Deumanizzazione: come si legittima la violenza, la psicologa sociale Chiara Volpato sostiene che la meccanizzazione del corpo umano sia ancora una forma diffusa di deumanizzazione nelle società contemporanee. Attingendo dall’idea di Marx sul lavoro alienato, Volpato argomenta che questo fenomeno trova le sue origini nell’ascesa del capitalismo industriale, in particolare nel taylorismo, una gestione scientifica che mira ad aumentare l’efficienza e la produttività quantificando ogni azione del lavoratore in fabbrica e ufficio. Sotto i rigorosi processi lavorativi stabiliti dal taylorismo, i movimenti umani diventano meccanici, riducendo l’essere umano a ingranaggi privi di agenzia. Volpato sostiene inoltre che la meccanizzazione degli individui sia sottile, avviene inconsciamente ma erode l’autonomia umana, la libertà, la creatività e il senso di realizzazione. In questo saggio, si argomenta che questa meccanizzazione è presente nell’atmosfera sportiva contemporanea. Ciò avviene perché il modo in cui lo sport viene insegnato e allenato riflette il lavoro alienato, dove ogni singola azione del partecipante è quantificata e misurata con l’obiettivo di aumentare l’efficienza nel campo di gioco. Sebbene lo sport non incarni una base lavorativa, contrariamente alle convinzioni dei teorici neomarxisti dello sport, si ritiene che le loro contribuzioni siano ancora rilevanti per rivalutare lo scenario sportivo attuale. Questi autori evidenziano l’atmosfera deumanizzante nello sport moderno, in particolare riguardo ai metodi di allenamento e agli approcci allo sport che tendono a meccanizzare il corpo.

Parole chiave

Corpo sportivo, meccanizzazione, deumanizzazione, lavoro, gameplay.

Mechanization of the sportive body

The impact of modern training methodologies

Rafael Mendoza2

Abstract

In her book Dehumanization: How violence is legitimized, social psychologist Chiara Volpato considers that the mechanization of the human body is still a pervasive form of dehumanization in contemporary societies. Drawing on Marx’s idea of alienated labor, Volpato contends that this phenomenon finds its origins in the rise of industrial capitalism, particularly under Taylorism, a scientific management approach aimed at increasing efficiency and productivity by quantifying every action of the worker in the factory and office. Under the rigorous work processes established by Taylorism, human movements become mechanical, thus reducing humans to mere cogs in a machine, devoid of agency. Volpato further contends that the mechanization of individuals is subtle, occurring unconsciously but eroding human autonomy, freedom, creativity, and a sense of fulfillment. In this essay, it is argued that this mechanization is present in the contemporary sports atmosphere. This happens because how sports are taught and trained reflects alienated labor, where every single action of the participant is quantified and measured to increase efficiency in the field of play. Although sports do not embody a labor base, contrary to the beliefs of the neo-Marxist sports theorists, it is maintained that their contributions are still relevant to reevaluating the current sports scenario. These authors highlight the enduring dehumanizing atmosphere in modern sports, particularly regarding training methods and approaches to sports that tend to mechanize the body.

Keywords

Sportive body, mechanization, dehumanization, labor, gameplay.

Introduzione

Nel crescente campo degli studi sulla deumanizzazione, gli studiosi hanno identificato la meccanizzazione del corpo umano come una delle principali forme di disumanizzazione nelle società contemporanee (Kronfeldner, 2021). In senso ampio, la meccanizzazione come disumanizzazione significa che gli esseri umani vengano «percepiti come», «definiti come» e «trattati come» macchine, ossia ridotti a non umani (Frick, 2021). Chiara Volpato (2014) ha argomentato che la meccanizzazione del corpo umano è una forma sottile di disumanizzazione che avviene inconsciamente nella vita quotidiana, soprattutto nel campo del lavoro. Sostiene che la meccanizzazione ha avuto origine con la crescita del capitalismo industriale ed è stata potenziata con il taylorismo — una forma scientifica di gestione che quantifica e misura ogni singola azione del lavoratore mirando ad aumentare l’efficienza e la produttività in fabbrica e ufficio. Collegando il taylorismo al concetto marxiano di lavoro alienato, Volpato, mette in evidenza come le modalità capitalistiche di produzione possano portare all’alienazione dei lavoratori, con conseguente perdita di autonomia, libertà, creatività e auto-realizzazione.

Considerando le osservazioni di Volpato, l’articolo sostiene che la deumanizzazione, rappresentata dalla meccanizzazione del corpo, è presente nell’ambiente sportivo contemporaneo. Ciò avviene perché i metodi di allenamento nello sport rispecchiano il lavoro nelle società capitalistiche industriali, dove ogni singola azione del partecipante viene quantificata e misurata con l’obiettivo di massimizzare l’efficienza sul campo di gioco. Sebbene lo sport non possa essere direttamente paragonato al lavoro, contrariamente alle convinzioni dei nuovi teorici marxisti dello sport, l’articolo cerca di dimostrare che le loro idee sono ancora rilevanti per rivalutare il panorama sportivo attuale e riconoscere che, secondo le loro prospettive, il corpo sportivo tende ad essere meccanizzato.

Pertanto, l’articolo si propone due obiettivi. In primo luogo, viene sostenuto che lo sport non può essere considerato lavoro a causa del suo elemento intrinseco di gioco. Tuttavia, recuperando gli studi dei nuovi teorici marxisti dello sport, si argomenta che i metodi di allenamento nello sport moderno riflettono caratteristiche del lavoro alienato. In secondo luogo, si sostiene che, in base a questa relazione, l’allenamento sportivo moderno contribuisce alla meccanizzazione del corpo degli atleti.

Lo sport come lavoro

Spesso si è detto che lo sport possiede un potere paradossale. Da un lato, molti hanno argomentato che giocando a sport, si manifesta l’agenzia umana. Questo significa la capacità individuale di agire in modo indipendente, prendere decisioni e comportarsi in modo autonomo (Anderson, 2001). Dall’altro lato, però, molti sostengono che giocare a sport agisce più come una forza repressiva che funge da «campo di addestramento» per attività produttive industriali. Questa ultima prospettiva è stata elaborata dai teorici neomarxisti dello sport (anche conosciuti come critici della Nuova Sinistra) i quali, guidati dagli studi di Brohm (1978), Rigauer (1981) e Beamish (1981; 1985), sostenevano che lo sport dovrebbe essere considerato una forma di lavoro, in particolare come lavoro alienato.

A differenza dei marxisti (o critici di sinistra) che consideravano lo sport un’attività frivola e mostravano antipatia nel suo studio, la Nuova Sinistra si impegnò nello studio dello sport, vedendolo come una forza repressiva, uno strumento di alienazione sociale e una pratica che ha servito gli interessi della borghesia. Ispirati dall’affermazione di Marx che il lavoro è la «vita della specie», i teorici neomarxisti hanno posto il concetto di lavoro al centro delle loro indagini. La loro giustificazione per affrontare lo sport da una prospettiva centrata sul lavoro è che lo sport non si svolge solo nelle società capitalistiche dove la logica del lavoro (efficienza e produttività) è presente in tutti gli aspetti della vita umana, ma anche perché lo sport moderno è emerso insieme alle società capitalistiche industriali. Perciò, per loro, lo sport non deve essere studiato da un punto di vista astratto, ma piuttosto basato su analisi del lavoro.

Per esempio, i teorici sostenevano che lo sport possiede lo stesso apparato produttivo delle società capitaliste: il principio dell’ottenimento, la competizione, la quantificazione e lo standard normativo del comportamento individuale. Essi notavano anche che il modo in cui lo sport viene insegnato, allenato e praticato nelle nostre società riflette i modi dominanti di produzione nel capitalismo, ovvero le caratteristiche del lavoro alienato: l’insegnamento e la valorizzazione dell’azione orientata al conseguimento, l’inoculazione del rispetto per l’autorità e dell’obbedienza cieca, il miglioramento delle tecniche, la glorificazione della disciplina, l’esaltazione del sacrificio e la credenza nel progresso illimitato e lineare (Brohm, 1978; Rigauer, 1981).

Da questa prospettiva, lo sport possiede una evidente base materiale di tipo lavorativo-capitalista. Rigauer (1981), infatti, sosteneva che la base lavorativa dello sport significa che lo sport è un luogo per promuovere processi simili al lavoro tra gli individui, dove essi acquisiranno tecniche e comportamenti utili per le società capitaliste. Per la Nuova Sinistra, i partecipanti agli sport sono vittime di una «falsa coscienza» plasmata sia dall’apparato produttivo incorporato nella struttura dello sport che dalle caratteristiche del lavoro alienato prevalenti negli approcci contemporanei allo sport (Guttmann, 1978). Per loro, questi due elementi hanno portato i partecipanti a razionalizzare, incorporare e interiorizzare comportamenti lavorativi produttivi. In un certo senso, vedevano lo sport come uno strumento per garantire una forza di lavoro produttiva.

Pertanto, per questi autori, il fatto che lo sport manifesti i modi di produzione capitalistici ha funzionato come una forza repressiva contro il proletariato a favore della borghesia. Questa è la ragione per cui Brohm (1978) sosteneva che lo sport «inculca un attaccamento all’ordine stabilito». Oppure McMurtry (1977), che nello stesso modo osservava che gli sport «non solo riflettono l’ordine sociale in cui si svolgono, ma, più importantemente, causano il mantenimento intatto di quest’ordine evangelizzando in forma popolare la sua struttura essenziale di azione». In definitiva, per la Nuova Sinistra, lo sport e lavoro che serve per avere una migliore forza lavorativa, e quindi, un meccanismo di controllo e dominio, perpetuando i valori e gli interessi del capitalismo e della classe dominante.

Tuttavia, il fatto che lo sport sembri avere una base materiale di tipo lavorativo-capitalista non significa che lo sport sia una forma di lavoro. Morgan (1994), ad esempio, ha sostenuto che lo sport non può essere considerato lavoro perché rappresenta un tipo diverso di attività umana. Innanzitutto, Morgan si basa su Karl Marx, il quale definisce il lavoro come un «attività produttiva speciale» il cui obiettivo è garantire la sopravvivenza umana. Vale a dire, il lavoro produce cose per soddisfare i bisogni umani e quindi gli oggetti prodotti dalle forze lavorative sono utili perché il loro scopo è soddisfare bisogni umani dimostrabili. In altre parole, il lavoro appartiene al campo della necessità. Al contrario, praticare sport non produce nulla che soddisfi bisogni umani. In un certo senso, si tratta di un’attività non necessaria che non possono essere considerate lavoro perché i loro obiettivi escono dal campo della necessità. Come afferma Marx nel Capitale: «Se la cosa è inutile, così è il lavoro contenuto in essa; il lavoro non conta come lavoro e quindi non crea valore».

Inoltre, Morgan ci invita a esaminare la logica interna sia dello sport che del lavoro per comprendere le loro differenze. Basandosi sull’idea di giocare a un gioco di Suits (1978), Morgan sostiene che lo sport appartiene alla sfera del giocare poiché giocare a giochi e praticare sport significa, per definizione, «l’impegno volontario per superare ostacoli non necessari». Morgan sottolinea che la logica dello sport esce dalla logica del lavoro poiché quest’ultimo si basa sull’utilizzo dei mezzi più efficienti per soddisfare le necessità umane. Nel lavoro, vengono rimossi tutti gli ostacoli possibili che impediscono di completare certi obiettivi per massimizzare l’efficienza e la produttività. Al contrario, lo sport introduce ostacoli non necessari nella ricerca di obiettivi inutili. In altre parole, quando i partecipanti entrano nelle attività sportive, si sottopongono a problemi inutilmente impegnativi che richiedono di fare qualcosa più difficile del necessario; ciò evidenzia che il lavoro e lo sport hanno diverse logiche.

Per esempio, azioni come calciare un pallone in rete usando solo le gambe, come consentito dalle regole, limitano l’uso di mezzi più efficienti a favore di mezzi meno efficienti per completare un obiettivo. In contrasto, la logica razionale capitalista del lavoro privilegerebbe l’efficienza, favorendo metodi come l’uso delle mani per compiere il compito. Oppure, come ha affermato Suits (1973), nelle attività lavorative, l’introduzione di ostacoli non necessari al compimento di un fine è considerata irrazionale, mentre nello sport è considerata la cosa essenziale da fare. In breve, lo sport non può essere considerato lavoro perché la sua logica pone ostacoli nella ricerca di obiettivi inutili che non soddisfano i bisogni umani. Questa caratteristica rende evidente che lo sport non appartiene al campo della necessità, infatti, lo colloca nel regno della libertà poiché questa, come affermava Marx: «inizia solo dove il lavoro determinato dalla necessità e dalle considerazioni mondane cessa». Per questo motivo, Halák (2016) sostiene che, mentre si pratica sport si possono «superare i limiti determinati del nostro essere; possiamo liberarci dalla presa del nostro destino che ci domina come realtà intramondane», poiché gli esseri umani sono intrappolati nel campo della necessità e del lavoro.

In effetti, Anderson (2001) ha sostenuto che il fatto che lo sport rimanga al di fuori del campo del lavoro, offre agli esseri umani un campo di possibilità. A differenza del lavoro, dove i processi sono monotoni, abituali, ripetitivi, noiosi e tediosi, giocare a sport permette di sperimentare meraviglia, incertezza e creatività. Durante il gioco, gli individui sperimentano un senso di meraviglia non solo riguardo all’esito della partita, ma anche per la complessità delle proprie abilità. Inoltre, l’incertezza permea ogni aspetto del gioco, dalle azioni imprevedibili degli avversari alla dinamica sempre mutevole del gioco stesso. I giocatori devono costantemente confrontarsi con l’incertezza riguardo all’esito di mosse specifiche, giochi o partite, mentre navigano attraverso situazioni fluide ed evolutive. Inoltre, giocare a promuove la creatività, incoraggiando strategie innovative, pensiero improvvisativo e l’esplorazione di nuove tecniche per segnare un gol, fare un punto o superare gli avversari.

Il fatto che lo sport sia un campo di possibilità, dove gli esseri umani percepiscono la possibilità vagando in un’atmosfera incerta e la possibilità di essere creativi per raggiungere un obiettivo inutile, rivela effettivamente l’agenzia umana. Questo significa la capacità degli individui di agire indipendentemente e prendere decisioni libere, che comprende la capacità umana di esercitare la propria volontà, prendere decisioni e agire autonomamente. Per questo motivo, lo sport viene difeso da Anderson in quanto è lì che l’agenzia umana può manifestarsi. Contrariamente al mondo del lavoro, dove si vive oppressi dai modi capitalistici di produzione, nello sport l’agenzia umana si manifesta. In breve, nel campo delle possibilità, emerge la manifestazione dell’essere e dell’umanità.

In definitiva, il punto qui è che lo sport non può essere considerato lavoro perché la sua logica esce dal campo della necessità. Inoltre, giocare a sport offre uno spazio per le possibilità, ricco di meraviglia, incertezza e creatività, a differenza dei processi lavorativi che sono caratterizzati da movimenti monotoni, abituali, noiosi e tediosi. Infatti, il fatto che lo sport sia un’attività non produttiva e la sua logica interna, consiste nel porre ostacoli che impediscono l’efficienza, significa che la pratica è ancora «protetta» dall’elemento del giocare intrinseco negli sport, o — come molti hanno detto — gli sport appartengono ancora al «cerchio magico del gioco».

Tuttavia, anche se lo sport non può essere considerato lavoro, le osservazioni dei neomarxisti rimangono rilevanti. Essi hanno identificato che lo sport moderno è affrontato con una mentalità simile a quella lavorativa. Ciò implica che, proprio come le pratiche lavorative in ufficio o in fabbrica, gli approcci moderni allo sport spingono e dirigono i partecipanti verso la massima efficienza sul campo di gioco. Di conseguenza, i metodi di allenamento nello sport, così come i processi lavorativi nelle società industriali-corporative, devono essere guidati dalla specializzazione, da una visione scientifica del mondo, e dalla quantificazione e misurazione di ogni possibile azione individuale, mirando a migliorare l’efficienza.

Di seguito, si sosterrà che gli approcci allo sport simili al lavoro, che cercano la massima efficienza dai partecipanti e, di conseguenza, i metodi di allenamento guidati dalla specializzazione, dalla visione scientifica del mondo e dalla quantificazione, tendono a disumanizzare gli atleti meccanizzando i loro corpi sportivi.

Meccanizzazione nell’Allenamento Sportivo

Senza esagerare, si può affermare che gli approcci moderni allo sport sono solitamente guidati dalla specializzazione, da una visione scientifica e dalla quantificazione. Attualmente, ad esempio, gli atleti professionisti (e anche amatoriali) seguono regimi di allenamento specializzati basati su metodi scientifici, con ogni movimento e azione del loro corpo misurato meticolosamente, quantificato e finemente adattato per ottimizzare ogni aspetto delle loro abilità fisiche e mentali sul campo di gioco. Gli allenatori e gli scienziati dello sport analizzano le prestazioni atletiche in vari componenti come forza, velocità, agilità, resistenza, coordinazione e concentrazione mentale. Essi conoscono esattamente il numero di passi e falcate che un atleta deve compiere per correre i 100 metri piani, l’angolazione precisa con cui la racchetta di un giocatore di tennis dovrebbe colpire la palla per ottenere il massimo effetto rotatorio, o il tempismo e la forza esatti necessari per un giocatore di basket per eseguire un tiro perfetto. Questo livello di precisione, quantificazione e misurazione ha rivoluzionato il modo in cui gli sport sono affrontati e ha portato a progressi senza precedenti nelle performance atletiche.

Le università e gli istituti sportivi hanno potenziato questo approccio, sviluppando tecnologie sofisticate. Queste tecnologie all’avanguardia permettono di monitorare in tempo reale una vasta gamma di parametri fisiologici degli atleti, tra cui frequenza cardiaca, VO2 Max, composizione del sudore, frequenza respiratoria e temperatura corporea, il tutto per ottimizzare ogni aspetto delle prestazioni atletiche. In sostanza, lo sport moderno è diventato un tipo di laboratorio, dove ogni movimento, azione, strategia, decisione e caratteristiche fisiche e mentale vengono analizzati, ottimizzati e perfezionati per ottenere il massimo livello di efficienza.

In effetti, i ricercatori hanno sostenuto che il mondo dello sport è immerso in un’atmosfera di efficienza, dove il perseguimento di record e miglioramenti numerici domina il campo. Twietmeyer (2015), ad esempio, ha affermato che le scienze dello sport e i kinesiologi operano di solito secondo il paradigma dell’efficienza, dove la pratica è stata iper-razionalizzata nella ricerca di dimostrare progressi attraverso dati quantificabili. Egli ha sostenuto che il paradigma dell’efficienza, o come lo ha chiamato, la kinesiologia scientifica, rappresenta la principale scuola di pensiero che domina il mondo dello sport e delle scienze motorie. Secondo lui, la kinesiologia scientifica non solo domina l’atmosfera sportiva, ma anche la formazione dei futuri kinesiologi avviene sotto questo paradigma, diventando per tanto il modo prevalente di affrontare lo sport. Seguendo lo stesso ragionamento, Reid (2017) ha sostenuto che lo sport moderno vive sotto l’ethos della efficienza, in base a un concetto di «progresso» che considera il miglioramento numerico come l’unico indicatore di successo, che può e deve essere misurato scientificamente.

Entrambi gli accademici hanno criticato gli approcci efficienti alla pratica dello sport. Twietmeyer, da un lato, ha osservato che questa visione cattura la parte quantificabile dell’esperienza sportiva ma non il carattere qualitativo dell’esperienza; per lui, c’è una soppressione del significato. Questo avviene perché ridurre l’esperienza sportiva in numeri significa eliminare la qualità dell’esperienza. In maniera analoga, Reid ha argomentato che lo sport moderno, caratterizzato da un ethos dell’efficienza, «restringe gli obiettivi e i valori dello sport fino a deumanizzare la pratica». Per lei, questo limita anche la comprensione dello sport, poiché questa è condizionata dai numeri mostrati dai dispositivi tecnologici. Reid sostiene inoltre che l’ethos dell’efficienza riduce gli atleti a parti quantificabili e, di conseguenza, si corre il rischio di lasciare la loro umanità indietro.

In sintesi, Twietmeyer e Reid hanno indicato che lo sport moderno è inserito in un paradigma di efficienza che tende a ridurre il significato della pratica e può portare a conseguenze negative per i partecipanti. Sebbene non sia stata specificata l’origine dell’ethos o del paradigma dell’efficienza, questo articolo sostiene che ciò deriva precisamente dal fatto che gli approcci moderni allo sport emergono da una mentalità lavorativa. In modo generale, se argomenterà che la mentalità lavorativa trasferita allo sport offusca il significato della pratica, ma soprattutto deumanizza gli atleti meccanizzandoli.

Questo perché nelle società capitaliste, il lavoro industriale e corporativo implica processi guidati da una visione scientifica, specializzazione e quantificazione. I lavoratori sono confinati a compiti stretti, ripetitivi e meccanici, a attività routine e monotone, movimenti coordinati al massimo e alla rigorosa aderenza a protocolli rigidi. Nel lavoro, gli individui razionalizzano ogni movimento nei compiti lavorativi, il tutto per conseguire la massima efficienza e produttività — verso una «perfezione meccanica efficiente». Secondo Rigauer (1981), razionalizzazione voi dire che i processi lavorativi non si svolgono in base a sentimenti, talento, tradizione ed esperienza, ma invece, quando ogni componente del processo viene pianificata e orientata al raggiungimento di un obiettivo. Infatti, Vinnai (1970) sosteneva che nelle industrie capitaliste, la predominanza di una mentalità altamente razionalizzata, matematizzata e tecnologicamente guidata nei processi lavorativi domina le società e gli individui. In tali condizioni, egli afferma che gli uomini «diventano una materia che non porta le proprie leggi di movimento al suo interno ma è dettata dall’economia» —sono strumenti per la massima produzione. Ecco il motivo per cui i neomarxisti sostengono che le regole della società nel capitalismo sono sfruttatrici, ingiuste, immorali e, nel complesso, una perversione dello spirito umano. Per loro, la personalità umana, sotto i moderni processi lavorativi, è diventata un mero numero.

In effetti, nel mondo dello sport, tuttavia, l’attività non solo assume tutte le caratteristiche dei modi dominanti di produzione, ma anche il partecipante «è fabbricato a immagine del lavoratore e la pista a immagine della fabbrica» (Laguillaumie, 1972). Il fatto che il mondo dello sport sia assorbito nel regno dei numeri e dei record, dove è richiesta la specializzazione e di conseguenza guidata da una visione scientifica, tutto per ottenere massima efficienza, proprio come nel lavoro alienato, il campo di allenamento diventa un luogo dove gli esseri umani «diventano una sorta di macchina, i suoi movimenti, controllati da apparecchi, diventano meccanici» (Vinnai, 1970). Dato che la mentalità lavorativa è stata trasferita nel mondo dello sport, non vi è alcuna differenza apparente tra i giocatori e i lavoratori d’ufficio/fabbrica poiché tutti svolgono le loro attività seguendo pratiche che sono subordinate all’apparato di produzione e li costringono a riprodurre modi di comportamento tipici delle industrie capitaliste.

Adottando una mentalità lavorativa nel mondo dello sport, proprio come in fabbrica e in ufficio, il campo di allenamento è diventato un’arena in cui gli atleti si trovano costretti a compiti stretti, ripetitivi e meccanici, impegnandosi in attività di routine che richiedono massima coordinazione e aderenza a protocolli rigorosi. In questo contesto, ogni movimento e azione compiuti dall’atleta è attentamente razionalizzato per massimizzare l’efficienza nel campo di allenamento e di conseguenza durante la competizione.

Anche se la competizione sportiva è «protetta» dall’elemento del giocare, il campo di allenamento, al contrario, si è trasformato da un’arena dove dovrebbe esprimersi il regno della libertà in una che riflette il regno della necessità. In questo ambiente, nell’allenamento sportivo, non esistono possibilità per far manifestare l’agenzia umana, perché vi dominano esclusivamente modi di produzione capitalistiche. Questo è il motivo per cui i neomarxisti sostengono che negli sport, i partecipanti trovano lo stesso spirito, criteri, azioni e obiettivi che trovano in ufficio o in fabbrica (Ellul, 2021).

La meccanizzazione dello sport e i movimenti meccanizzati degli atleti trasformano i metodi di allenamento sportivo in arene di monotonia, dove i movimenti e le azioni degli atleti diventano abituali, ripetitive e tediose. Gli atleti si comportano come macchine mirando a ottenere il numero desiderato attraverso movimenti razionalizzati e perfetti. In breve, proprio come l’ufficio e la fabbrica, il campo di allenamento richiede agli individui una «perfezione meccanica efficiente». In questo contesto, gli atleti inevitabilmente diventano meccanici. Per questo motivo, Brohm (1976) affermava famosamente che lo sport, proprio come il luogo di lavoro, si è trasformato in una prigione del tempo misurato perché l’arena, dove dovrebbe regnare lo spirito del gioco, è stata trasformata in uffici e fabbriche, dove gli individui razionalizzano le modalità di produzione che inevitabilmente li conducono all’alienazione dei loro corpi, vedendosi come strumenti e macchine. Infatti, non è un caso che Guttmann (1978) abbia affermato che il desiderio di miglioramento numerico nello sport è «l’inizio del male», poiché i partecipanti sono «trasformati in un ingranaggio nella macchina dello sport».

Forse qualcuno potrebbe sostenere che il fatto che lo sport moderno presenti l’apparato produttivo e le modalità dominanti di produzione delle società capitaliste, dove l’arena sportiva riflette la meccanizzazione delle fabbriche e degli uffici, non è intrinsecamente problematico. Potrebbero sostenere che lo sport è protetto dalla sua logica interna e quindi la meccanizzazione dello sport può essere accettabile. Tuttavia, come si è evidenziato, nella macchina dello sport i movimenti umani sono meccanizzati. Questa è una prospettiva che molti concordano essere presente nello sport moderno e contro la quale si argomenta perché ha portato solo punizioni fisiche e mentali agli atleti.

In questo senso, Kretchmar (1994) afferma che nell’ambito della macchina dello sport, gli allenatori a tutti i livelli trattano gli atleti più come macchine ed esperimenti scientifici piuttosto che come esseri umani. Secondo lui, poiché il campo di allenamento è diventato un luogo dove le macchine praticano sport, gli atleti possono essere «modellati, manipolati e perfezionati attraverso chimica e fisica — utilizzando pillole, allenamenti ottimali e tecniche meccanicistiche ideali». Più recentemente, Aggerholm (2023) sottolinea ancora che in questo contesto i partecipanti sono soggetti a punizioni fisiche e vengono ridotti a oggetti scientifici piuttosto che soggetti con agenzia, sentimenti ed empatia. In effetti, vi sono ampie evidenze che indicano che le forme primarie di violenza e abuso nello sport, come l’allenamento intensivo eccessivo, il riposo insufficiente, le punizioni corporali, il burnout mentale, l’incoraggiamento di atteggiamenti di «gioca duro» o «gioca ferito» e la pressione eccessiva (David, 2005), somigliano strettamente agli abusi osservati nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. In sintesi, si può suggerire che le punizioni fisiche e mentali subite dagli atleti derivano dalla loro meccanizzazione, che a sua volta ha origine dagli approcci lavorativi nello sport.

Se le osservazioni precedenti hanno valore, è ragionevole riconsiderare le opere dei teorici neomarxisti per ottenere importanti prospettive nella rivalutazione del panorama sportivo attuale. Non è irragionevole suggerire che i metodi di allenamento nello sport assomiglino ai modi di produzione capitalistici. Tuttavia, è importante sottolineare che l’approccio lavorativo nello sport non è emerso isolatamente, ma piuttosto, come afferma Andrews (2002), «la struttura e l’influenza dello sport in una qualsiasi congiuntura sono il prodotto di linee di articolazione intersecanti e multidirezionali tra le forze e le pratiche che compongono i contesti sociali». Questa mentalità, quindi, affonda le radici nella costruzione socio-storica dello sport moderno, emergendo parallelamente alle società industriali capitalistiche.

Tuttavia, considerando che lo sport è un’attività che esce dal campo della produttività e dell’efficienza e che l’approccio lavorativo nello sport è un prodotto delle società capitalistiche industriali, ciò significa che è contingente e soggetto a cambiamento. Queste considerazioni ci forniscono quindi la base per affermare che gli approcci lavorativi nello sport e, di conseguenza, la meccanizzazione degli atleti non sono inevitabili. Pertanto, si deve promuovere la kinesiologia ludica nelle università e nei dipartimenti di scienze dello sport (Twietmeyer, 2015). Si tratta di una corrente di pensiero che, anziché concentrarsi sull’efficienza e sui dati quantificabili, si focalizza sull’esperienza dell’individuo che partecipa all’attività, cercando di favorire gli elementi intrinseci dello sport. Se lo sport e, soprattutto, i metodi di allenamento nello sport devono diventare un luogo di possibilità, dove l’agenzia umana può manifestarsi, gli studenti di scienze dello sport devono iniziare a studiare la costruzione sociale dello sport all’interno delle società capitalistiche e trovare nuovi modi per insegnarlo e praticarlo in forme più liberatori.

Conclusione

In questo articolo, sono stati recuperati i contributi dei teorici neomarxisti dello sport. Questo è stato fatto perché si ritiene che i loro studi possano aiutare a rivalutare il panorama sportivo attuale. È stato argomentato che lo sport, contrariamente a quanto credevano questi autori, non può essere considerato lavoro perché è protetto dall’elemento del gioco. Tuttavia, una mentalità lavorativa è stata trasferita allo sport e domina effettivamente l’allenamento atletico, e si potrebbe dire anche che domina l’ambiente sportivo contemporaneo. Questo avviene perché gli approcci moderni allo sport cercano la massima efficienza dagli atleti in campo, e di conseguenza, i metodi di allenamento sono fondati e guidati dalla specializzazione, da una visione scientifica del mondo, e dalla quantificazione, caratteristiche dei modi di produzione capitalistici. Invece di essere un’arena piena di possibilità, dove l’agenzia umana può manifestarsi, il terreno di allenamento sportivo è stato trasformato in una forza oppressiva. In questo contesto, il terreno di allenamento atletico riflette l’ufficio e la fabbrica e, proprio come i lavoratori, i corpi degli atleti sono meccanizzati. In altre parole, sono deumanizzati.

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1 Università degli Studi di Roma «Foro Italico».

2 Università degli Studi di Roma «Foro Italico».

Vol. 1, Issue 1, July 2024

 

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