© Edizioni Centro Studi Erickson, Trento, 2024 — Corpo, Società, Educazione

Vol. 1, n. 0, marzo 2024

Della drammaterapia in ambiente educativo. Un’apertura1

Cécile Nadhira Abdessemed2, Alessandro Porrovecchio3

Sommario

Il presente articolo, basato in parte sulle prime evidenze emerse da alcune ricerche in corso, intende introdurre il potenziale dell’espressione di Sé come forma di drammaterapia e di attività fisica adattata (AFA), in ambiente educativo con persone socialmente emarginate, che quindi presentano potenzialmente problemi di salute mentale e sociale.

Dopo una parte in cui descriviamo e definiamo le pratiche in questione, in particolare il Teatro dell’Oppresso di Augusto Boal come forma di espressione di Sé, nella seconda illustriamo quindi il potenziale di queste pratiche rispetto alle principali possibili fragilità delle persone emarginate. Un accento particolare viene posto sull’importanza della dimensione rituale con un pubblico di adolescenti.

Mentre i benefici della drammaterapia e delle attività fisiche adattate in senso lato sono stati ben esplorati in letteratura, il contributo dell’espressione di Sé/Teatro dell’Oppresso, che combinano diversi elementi della drammaterapia e delle AFA, è stato poco esplorato.

Parole chiave

Drammaterapia, teatro dell’oppresso, marginalità, inclusione sociale, attività fisica adattata.

On Drama Therapy in an educational setting. An opening4

Cécile Nadhira Abdessemed5, Alessandro Porrovecchio6

Abstract

This article, based partly on initial evidence from some ongoing research, aims to introduce the potential of Self-expression as a form of dramatherapy and adapted physical activity (APA), in educational settings with socially marginalized people, who therefore, potentially present mental and social health problems.

After a part in which we describe and define the practices in question, particularly Augusto Boal’s Theatre of the Oppressed as a form of self-expression, in the second part we then illustrate the potential of these practices concerning the main possible fragilities of marginalised people. Special emphasis is placed on the importance of the ritual dimension with an adolescent audience.

While the benefits of dramatherapy and adapted physical activities in a broad sense have been well explored in the literature, the contribution of self-expression/Theatre of the Oppressed, which combine different elements of dramatherapy and APA, has been little explored.

Keywords

Dramatherapy, Theatre of the Oppressed, Marginalization, Social inclusion, Adapted Physical Activity.

Introduzione

Ô douleur ! ô douleur ! Le Temps mange la vie, / Et l’obscur Ennemi qui nous ronge le cœur / Du sang que nous perdons croît et se fortifie!7

Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, 1857

Con queste parole tratte dalla poesia Il Nemico, nel 1857 Baudelaire raccontava l’angoscia del tempo nella modernità. Il mondo del poeta francese era chiaramente diverso dal nostro, ma la «sua» modernità poneva le basi dell’accelerazione che caratterizza oggi la società contemporanea8: quella occidentale viene spesso definita come «società della performance» (Ehrenberg, 2014), dai ritmi veloci, angosciante e potenzialmente patogena, tanto da portare il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han a definirla «burnout society». Un tipo di società che porterebbe alcuni individui non-normativi ad essere marginalizzati: ad esempio, coloro i quali non corrispondono ai criteri di bellezza condivisi nell’immaginario collettivo, o coloro i quali presentano un profilo non adatto al sistema scolastico (Illich, 1970; Bartlett e Schugurensky, 2020).

In questo contesto riteniamo che la drammaterapia, in quanto pratica che permette al contempo la (ri)costruzione identitaria e l’espressione fisica e verbale del Sé, possa rappresentare uno strumento interessante ai fini dell’inclusione o della re-inclusione nel tessuto sociale (Kinder e Harland, 2004; Karkou e Glasman, 2004; Muller-Pinget e Golay, 2012). Nello specifico, riteniamo che la drammaterapia basata sull’approccio proposto dal drammaturgo brasiliano Augusto Boal permetta di intervenire in maniera adattata in ambiente sociale e educativo presso dei gruppi e degli individui marginali o marginalizzati (Chatelain e Boal, 2010).

Il concetto di marginalità

Uno dei concetti cardine del nostro articolo è l’idea di marginalità sociale. Antonio Gramsci dedica il venticinquesimo Quaderno dal carcere alle persone «ai margini della storia», riferendosi con questa espressione a gruppi sociali «subalterni», fragili, vulnerabili, isolati (Gramsci 1934; Maltese, 2017). Attualmente, il concetto di marginalità si lega all’idea che l’organizzazione della società si fondi al contempo sulle disuguaglianze nell’accesso ad alcuni beni (sociali e non) o sulla gerarchizzazione delle posizioni sociali, e sull’esistenza di diversi gradi di integrazione sociale. Secondo questo approccio, un soggetto socialmente marginale (sia esso un gruppo o un individuo) è lontano dal centro del sistema sociale a cui appartiene (cioè occupa una posizione periferica) e si trova vicino ai confini che separano questo sistema dall’ambiente esterno (o da altri sistemi). Questa condizione ha quindi un impatto sulla sua salute fisica, mentale e sociale (Marmot, 2003).

Un punto critico nella riflessione sulla marginalità sociale è la relazione tra questo fenomeno e la struttura delle disuguaglianze sociali: la marginalità affonda le sue radici nelle disuguaglianze di una data società, siano esse economiche, sociali, simboliche o culturali, non solo perché i soggetti marginali provengono in gran parte dai gruppi sociali più svantaggiati o dominati, ma anche perché la fisionomia stessa della marginalità sociale riflette gli squilibri e le differenziazioni sociali in modo multidimensionale.

Da un punto di vista teorico, in questo contesto, definiamo la marginalità come una questione di sradicamento sociale, culturale e simbolico, e di status incerto, causato dal passaggio da un’appartenenza a un’altra, all’emergere di nuove forme di esclusione sociale (su base etnica, territoriale, culturale, ecc.), o dall’esperienza moderna della differenziazione sociale e delle «appartenenze multiple». Si tratta di una posizione piuttosto «soggettiva», che trova maggiore attenzione negli studi sulle implicazioni culturali o psicologiche dei processi di differenziazione sociale, a partire dalla famosa analisi di Robert Ezra Park sull’«uomo marginale» (Park, 1928). Questo approccio si basa su un’idea interazionista e inclusiva della società (Blumer, 1969; Coulon, 1992), e prevede quindi la predisposizione di strategie di intervento centrate sull’individuo e sulle interazioni che questo attua tra Self e Alter.

In sintesi, sebbene non vi sia un vero e proprio accordo sulla sua definizione (Cullen e Pretes, 2000), il concetto di marginalità sociale si riferisce alla separazione sociale, psicologica o simbolica tra alcuni individui o gruppi sociali e il resto della società, i loro gruppi sociali di riferimento, le istituzioni sociali e/o l’attività sociale. Si tratta quindi di una questione di legami sociali (Paugam, 2008).

Come abbiamo accennato, gli individui o i gruppi emarginati sono maggiormente a rischio di fragilità fisica, psicologica e sociale (Baah et al., 2019). Dal punto di vista della «salute sociale», i problemi sono principalmente legati alla debolezza dei legami sociali, all’isolamento, alla precarietà del lavoro o al rischio di abbandono scolastico. Da un punto di vista psicologico e sociale, molti studi hanno evidenziato i rischi per la salute della marginalità professionale (si veda, ad esempio, Macmillan e Shanahan, 2021) o della condizione di migrante, caratterizzata — tra le altre cose — da bassa autostima, aumento del rischio di situazioni problematiche di stress, depressione o ansia (si veda, ad esempio, Foo et al., 2018). Infine, in termini di condizione fisica, al di là delle varie problematiche legate, ad esempio, alle condizioni di lavoro, la marginalità, soprattutto se legata a forme di disempowerment, è spesso legata a stili di vita sedentari (si veda, ad esempio, Lynch et al., 2021).

La questione della marginalità, nelle sue diverse forme, può essere affrontata attraverso varie strategie di integrazione o inclusione sociale: dalle arti (Kinder e Harland, 2004), alla cucina (Mac Namara, 2015). Tra queste strategie, alcune utilizzano lo sport o pratiche corporee come le attività fisiche adattate (AFA) (Racodon e Porrovecchio, 2019), o la drammaterapia (Chatelain e Boal, 2010).

Poste queste premesse, ai fini del presente lavoro consideriamo emarginata, marginale o marginalizzata qualsiasi persona (o gruppo) potenzialmente soggetta a forme di stigmatizzazione (Goffman, 1963): persone con disabilità (fisiche, psicologiche e sociali), anziani, migranti o persone stigmatizzate e/o «in sofferenza» (Le Breton, 2007) a causa di queste loro caratteristiche. Focalizzeremo quindi l’attenzione sull’importanza di istituire programmi di drammaterapia basati sull’espressione di Sé e l’espressione corporea, ispirati al Teatro dell’Oppresso (TO) di Augusto Boal, per un gruppo di giovani ai margini della società in ambiente educativo.

AFA, psicodramma e sociodramma

Possiamo considerare la forma di drammaterapia proposta in questo articolo come una forma di AFA. L’idea dell’AFA a cui ci riferiamo è nata in Québec ed è stata proposta da Clermont Simard, il fondatore della Federazione Internazionale dell’Attività Fisica Adattata (IFAPA), negli anni Settanta. Secondo l’IFAPA,

APA è definita come un corpo interdisciplinare di conoscenze pratiche e teoriche rivolte verso disabilità, limitazioni dell’attività e restrizioni della partecipazione nell’attività fisica. Si tratta di una professione di erogazione di servizi e di un campo di studio accademico che sostiene un’attitudine di accettazione delle differenze individuali, promuove l’accesso a stili di vita attivi e allo sport, e favorisce la fornitura di servizi innovativi e cooperativi, sostenendo l’autonomia e l’empowerment. APA comprende, ma non si limita a, educazione fisica, sport, ricreazione, danza, arti creative, nutrizione, medicina e riabilitazione.9

Se le AFA delle origini si volgevano verso la riabilitazione del corpo attraverso le attività fisiche, successivamente il loro spazio di intervento si è allargato per abbracciare tutte le forme che la salute può assumere, basandosi su un modello bio-psico-sociale (Engel, 1977; Bronfenbrenner, 1979). Quindi la salute (fisica, mentale e/o sociale) sarà al centro del programma delle AFA per aiutare al meglio ogni persona in situazione di disabilità, qualunque essa sia, a trovare un posto nella società, secondo i suoi desideri.

Molti educatori specializzati, sportivi e non, si sono resi conto dei benefici che l’attività fisica può offrire a una comunità di adolescenti, in luoghi dove la stigmatizzazione e la miseria sociale (Bourdieu, 1993) sono un’amara realtà quotidiana. Nel nostro caso, l’AFA assume la forma della drammaterapia di ispirazione «boalliana», presso giovani «in sofferenza» (Le Breton, 2007) e marginali.

La drammaterapia è considerata da alcuni autori come una sorta di derivazione dello psicodramma e del sociodramma di Jacob Levi Moreno (1987), da cui in parte si differenzia (Klein, 2015).

Jacob Levi Moreno, negli anni Venti — dopo aver lavorato con gruppi socialmente emarginati — ebbe l’intuizione di introdurre alcune pratiche legate alla rappresentazione teatrale nel mondo della psicoterapia, invitando i partecipanti a mettere in scena i propri dolori: nacque così il suo Teatro della Spontaneità (1987), dove il palcoscenico, attraverso l’efficacia catartica dell’improvvisazione drammatica, assume anche un ruolo terapeutico. I partecipanti diventano così protagonisti di un «dramma spontaneo», dando vita a un’arte del momento che si differenzia dall’arte della conservazione che aveva dominato il mondo della rappresentazione teatrale fino ad allora. Attraverso lo psicodramma (e poi il sociodramma) Moreno rese partecipe anche il pubblico: esso non svolge più il tradizionale ruolo di spettatore passivo, ma veniva invitato dal terapeuta — che appariva sul palcoscenico nel momento cruciale della rappresentazione — a cercare l’alternativa per risolvere un conflitto messo in scena, trasposizione di uno dei conflitti collettivi in cui il pubblico stesso poteva esser coinvolto. Gli spettatori si trasformano quindi in attori del loro stesso «dramma sociale».

La tecnica terapeutico-drammaturgica di Moreno, lo «psicodramma», prese in seguito una nuova direzione: si passò dal lavoro sull’individuo a quello sul sistema sociale, mettendo al centro della scena gruppi che condividono una certa condizione, definendolo «sociodramma». Il sociodramma di Moreno diviene quindi uno strumento per la costruzione sociale e culturale di una «nuova società» o «identità sociale», il cui obiettivo è di rappresentare sulla scena delle contraddizioni che possono essere fonte di tensioni e conflitti collettivi, per ottenere — attraverso la catarsi sociale — la loro risoluzione. Come vedremo nelle definizioni che seguono, il debito della drammaterapia nei confronti di Moreno è evidente.

La drammaterapia e il Teatro dell’Oppresso

È difficile trovare definizioni chiare di «drammaterapia», probabilmente perché il termine «terapia», che è uno dei due elementi della parola, è piuttosto controverso e polisemico. Per offrire una definizione pertinente del termine «drammaterapia», abbiamo scelto di rivolgerci a una delle più antiche associazioni professionali, la NADTA (North American Drama Therapy Association):

La terapia attraverso il teatro è l’uso intenzionale di processi teatrali e/o drammatici per raggiungere obiettivi terapeutici. Si tratta di una pratica incorporata che è attiva ed esperienziale. Questo approccio può fornire il contesto per permettere ai partecipanti di raccontare le proprie storie, definire obiettivi e risolvere problemi, esprimere emozioni o raggiungere la catarsi. Attraverso il dramma, la profondità e l’ampiezza dell’esperienza interiore possono essere esplorate attivamente e le abilità nelle relazioni interpersonali possono essere potenziate [...] La terapia attraverso il teatro utilizza il gioco, l’incarnazione, la proiezione, il ruolo, la storia, la metafora, l’empatia, il distanziamento, la testimonianza, la performance e l’improvvisazione per aiutare le persone a compiere cambiamenti significativi.10

La drammaterapia che proponiamo si configura come una forma di espressione corporea e di Sé fortemente ispirata dal TO sviluppato dal drammaturgo brasiliano Augusto Boal (1993). Il termine «oppresso» è chiaramente un omaggio alla «pedagogia degli oppressi» di Paulo Freire (1974), secondo il quale l’educazione deve permettere alle classi dominate (gli «oppressi») di acquisire un sapere emancipatorio per cambiare le proprie condizioni di vita. Per tutta la vita il pedagogista brasiliano si è impegnato nella costruzione di una «educazione popolare liberatrice» che riunisce «educatori-apprendenti» e «discenti-educatori» che dialogano insieme per sviluppare nuove conoscenze critiche e aumentare la consapevolezza reciproca. L’obiettivo di questa «pedagogia dell’oppresso» è al contempo di combattere le disuguaglianze e trasformare la società.

Partendo da questi presupposti, il TO è una «poetica», un linguaggio teatrale che riunisce un insieme di tecniche drammatiche e di esercizi che permettono agli «oppressi» (persone ai margini della società, nel nostro caso) di «allenarsi» — all’interno dello spazio simbolico teatrale — a lottare contro l’oppressione e a costruire linee di trasformazione nella società. In questo senso, il teatro è una «prova di rivoluzione» (Boal, 1993; 1996). Così, Boal ha concepito delle tecniche che siano messe in pratica non da artisti, professionisti del teatro, ma dagli stessi oppressi, da coloro che fino ad allora erano stati spettatori, incoraggiati a entrare sul palcoscenico della storia, a diventare attori delle proprie lotte, postulando l’emancipazione come un processo, un «divenire attivo» (Charbonnier, 2013, p. 85). Un teatro popolare «fatto dal popolo e per il popolo» (Boal, 1996), basato sui metodi di Stanislawski (1989) e sull’improvvisazione, il cui obiettivo è trasmettere le competenze teatrali e i relativi mezzi di «produzione», al fine, da un lato, di aumentare la consapevolezza dell’oppressione e, dall’altro, di utilizzare le strategie messe in atto sul palcoscenico nel quadro reale delle lotte emancipatorie. In questo modo, il TO — sulla scorta degli insegnamenti di Paulo Freire — partecipa a un doppio processo emancipatorio: individuale, attraverso lo sviluppo di una coscienza politica critica che permetta l’analisi strutturale del sistema di produzione e sfruttamento, e collettivo, attraverso la dinamica di mobilitazione che avvia, poiché «non c’è emancipazione dell’individuo senza quella della società» (Adorno, 2005).

La salute, l’educazione, la dimensione rituale

La strategia di intervento che illustriamo si basa quindi su alcune pratiche che hanno un impatto sulla salute — intesa in senso bio-psico-sociale (Engel, 1977; Bronfenbrenner, 1979) — sia degli individui che dei gruppi, soprattutto per quanto riguarda le persone ai margini della società. Al fine di illustrarne quindi i benefici è importante decostruirla: come abbiamo visto, consideriamo la drammaterapia come una forma di AFA che integra elementi di espressione corporea e espressione di Sé. Possiamo quindi concentrarci sull’importanza delle AFA, della drammaterapia e del TO e sul loro impatto sulla salute (soprattutto sociale e mentale), partendo dal presupposto che in ambiente educativo la salute mentale e sociale sia importante e la sua mancanza sia anche un fattore di rischio di school disengagement (Porrovecchio et al., 2020). Focalizzeremo, infine, l’attenzione sull’importanza della dimensione rituale di queste pratiche.

AFA, drammaterapia e salute

Le AFA sono utilizzate e hanno dimostrato la loro utilità per i seguenti fini.

  • L’inclusione sociale, la reintegrazione nel contesto sociale della persona fragile, lo school re-engagement; questi aspetti, nel contesto francese in cui lavoriamo, sono stati dimostrati — tra gli altri — dal gruppo di ricerca-intervento dell’Università di Strasburgo (Gasparini, 2008; Gasparini e Vieille-Marchiset, 2015, etc.), che ne ha anche evidenziato la dimensione potenzialmente paradossale o problematica (Gasparini e Knobé, 2008): l’AFA e l’educazione attraverso lo sport non sono una panacea contro qualsiasi tipo di problema sociale, ma possono anche generare effetti perversi o controproducenti.
  • La costruzione o ricostruzione di legami sociali (Paugam, 2008), un fattore importante che influenza la salute globale degli individui o delle comunità, e migliora il clima scolastico (Xue et al., 2020).
  • La lotta contro le varie forme di fragilità psicologica e mentale, piuttosto comuni come conseguenza delle condizioni di vulnerabilità e precarietà sociale (Arveiller & Mercuel, 2012); le AFA possono quindi agire come una sorta di rimedio o strumento di prevenzione.

Più specificamente, la pratica dell’espressione di Sé e dell’espressione corporea come forma di drammaterapia per le popolazioni socialmente emarginate si è dimostrata utile:

  • in termini di rafforzamento dell’autostima (Lapinsky, 2002), soprattutto per i giovani, le persone socialmente fragili e i rifugiati (Rousseau et al., 2005);
  • per la gestione delle emozioni attraverso il movimento, con benefici per la salute mentale (Shafir et al., 2016), soprattutto per i giovani che hanno subito violenze o in situazione di fragilità sociale (Mackay, 1987);
  • per l’espressione e/o la ricostruzione identitaria (Jennings, 1983).

Riassumendo, l’uso dell’AFA/drammaterapia offre la possibilità di lavorare sull’individuo e sul gruppo, predisponendo quindi delle strategie di intervento di tipo individual o community health.

L’importanza della dimensione rituale

Un aspetto interessante e a nostro avviso fondamentale che sta emergendo è l’importanza della dimensione rituale (Van Gennep, 1909; Turner, 1982). Si tratta di una dimensione riscontrata più volte nelle nostre precedenti ricerche-intervento nell’ambiente delle arti marziali (Porrovecchio, 2013; 2017), e osservata anche da altri autori in ambito drammaterapeutico (Schrader, 2012).

Nelle nostre etnografie precedenti abbiamo potuto riscontrare una sorta di «bisogno di ritualità», che caratterizzava gli adolescenti più fragili o emarginati. Arnold van Gennep (1909) è stato tra i primi a mostrare come la vita sociale necessiti di rituali per affrontare alcune fasi cruciali dell’esistenza, sia individuale che collettiva, quale ad esempio il passaggio alla fase adulta (Le Breton, 2007).

È interessante notare che il concetto di rituale è valido tanto per i popoli che Van Gennep definiva semi-civili quanto per l’Occidente civilizzato: i riti della nascita e della morte, della pubertà sociale, delle alleanze, ecc. sono presenti ovunque nel mondo. In Riti di passaggio (1909), possiamo trovare una varietà di esempi che evidenziano i tempi dell’iniziazione e della costruzione dell’identità, nonché i ritmi corporei. Il rituale crea anche una separazione simbolica tra lo spazio esterno (la vita quotidiana) e lo spazio della pratica e dell’espressione di Sé, determinando così una cesura che permette di costruire e delimitare uno spazio relativamente protetto per l’espressione e la ricostruzione individuale e sociale. Possiamo già identificare degli elementi di convergenza tra l’idea van gennepiana di rituale e gli obiettivi dei nostri interventi tramite l’espressione di Sé.

Prendendo come riferimento il rito di passaggio analizzato da Van Gennep, esso è il risultato di tre diversi micro-rituali (pre-liminale, liminale e post-liminale) che permettono il passaggio da una fase all’altra della vita. I rituali pre-liminali aprono la «cerimonia» mettendo in scena la morte simbolica dell’individuo e aprendo le porte quindi a un nuovo ritmo corporeo, alla costruzione di un Sé «Altro» attraverso la pratica corporea: abbiamo operato questa separazione tra tempi e spazi «rituali» e tempi e spazi «esterni» anche nei nostri interventi di espressione di Sé.

Van Gennep sottolinea che la liminalità è una condizione in cui, paradossalmente, gli individui sono «più liberi» rispetto alla vita quotidiana, e allo stesso tempo incorporano «nuove» norme socio-culturali: nel nostro contesto, durante la fase liminale i praticanti (co)costruiscono, esprimono e incorporano l’«Altro» Sé attraverso la drammaterapia. Infine, i riti post-liminali mettono in scena la rinascita simbolica degli individui con un nuovo status e nuove prerogative: attraverso un’uscita simbolica dal rituale il praticante torna alla vita quotidiana con un’identità diversa, un Sé diverso, arricchito dalla pratica e dall’incorporazione di un nuovo universo simbolico, da una migliore o nuova conoscenza di Sé.

Il «bisogno di rito»

Per spiegare l’importanza di quest’ultimo punto, è importante considerare alcuni elementi socio-antropologici. La progressiva scomparsa dei riti di passaggio nella società contemporanea, che tende a isolare gli individui (Han, 2020), spiega in parte il bisogno di rituale emerso dalle nostre precedenti ricerche, che è alla base dell’importanza della dimensione rituale qui proposta. Nelle società contemporanee, le strutture di socializzazione stanno affrontando una crisi. Come conseguenza, gli individui cercano sempre più di trovare effervescenza, socievolezza, di scaricare le tensioni, ma soprattutto di trovare o costruire spazi per la costruzione dell’identità e l’espressione di Sé, a volte in ciò frustrati. Questa situazione porta David Le Breton a identificare quelli che lui chiama, in particolare per i giovani, «riti personali di passaggio» (Le Breton, 2005; 2007). Si tratta di insiemi di micro-rituali (Goffman, 1959, 1967; Birrell, 1981; Miller, 1982) che hanno sostituito i riti collettivi e istituzionalizzati e che permettono la costruzione dell’identità attraverso l’espressione del Sé.

L’uomo, in quanto animale sociale, ha un bisogno costante di rituali (Douglas, 1966). Questi rituali devono essere efficaci e devono essere eseguiti correttamente. I rituali sono atti simbolici che modificano l’esperienza individuale e collettiva, esistono solo se hanno un significato, ed è proprio attraverso la pratica dell’espressione del Sé che questo significato può essere (co)costruito. L’apertura dello spazio e del tempo della pratica (l’inizio rituale nella pratica dell’espressione di Sé/drammaterapia) introduce regole e valori, quindi un universo simbolico che separa e unisce allo stesso tempo la pratica in relazione ad altre situazioni della vita quotidiana, per permettere all’individuo di costruire un nuovo Sé.

Questi temi richiamano gli scritti di Victor Turner sul rituale comunitario, il simbolismo e la liminalità (Turner, 1969; 1975; 1982), che forniscono alcune possibili strategie per riflettere sulle trasformazioni socio-culturali della società contemporanea attraverso la pratica di attività fisiche adattate e la drammaterapia. La pratica dell’espressione di Sé è costituita da tecniche corporee rituali (Mauss, 1936). Queste tecniche hanno lo scopo di far passare i praticanti da una fase del Sé a un’altra: ogni rituale fissa un certo numero di regole, norme e spazi simbolici di espressione del Sé con lo scopo di trasformare i praticanti, di educarli in senso freiriano e di farli entrare nel mondo della pratica, attraverso l’incarnazione/incorporazione della sua filosofia, dei suoi ritmi corporei, della sua weltanschauung. In ciò integrando anche la dimensione sociale proposta dal TO di Boal, in particolare il fatto di diventare attori delle proprie lotte, così da richiamare la dimensione dell’emancipazione in quanto processo.

Conclusioni… e aperture

Sia l’aspetto rituale che l’essenza profonda dell’espressione di Sé si basano sull’accettazione di essi in quanto forme di terapia o come strumento «terapeutico»: è una delle condizioni essenziali della pratica. Si inserisce nella tradizione della drammaterapia e comprende aspetti fisici e filosofici. I praticanti sono uniti in un legame sociale attraverso l’incarnazione dei principi dell’arte rituale e teatrale. A livello simbolico, questa pratica è una sorta di incontro tra la realtà dell’individuo o del gruppo e i mondi immaginari della pratica. Questi rituali fissano i ritmi, le tecniche corporee e le loro rappresentazioni, la dimensione identitaria e la sua (co)costruzione, la definizione di un Sé in evoluzione — quella dell’adolescente — e la dimensione sociale — di emancipazione — propria alla pedagogia e al teatro dell’oppresso. Insieme definiscono il nuovo Sé, l’immagine del Sé e l’immagine dell’Altro.

L’obiettivo di questo articolo era quello di accendere l’interesse per la pratica dell’espressione di Sé con persone socialmente emarginate, che quindi potenzialmente presentano problemi di salute mentale e sociale, in ambiente educativo. Abbiamo descritto il potenziale di questi tipi di interventi rispetto alle principali possibili fragilità. Mentre i benefici della drammaterapia, delle AFA e del TO sono stati ben esplorati in letteratura, il contributo specifico dell’espressione di Sé è stato poco esplorato.

Nel nostro caso questi elementi devono ancora essere confermati empiricamente: attualmente stiamo conducendo una ricerca-intervento attraverso queste pratiche tra adolescenti emarginati e i risultati sono particolarmente incoraggianti. Possiamo già notare un impatto interessante sul loro Sé corporeo, sulla loro postura, sulla loro fiducia in Sé; anche la loro elocuzione è più fluida. Un impatto positivo si è avuto anche in ambito scolastico, in termini di clima di classe positivo, e si nota una tendenza minore allo school disengagement. Parafrasando Freire e Boal, potremmo affermare che i partecipanti stanno incorporando una nuova coscienza critica di Sé e del mondo, che gli permette di capirsi e di capire la società e la propria condizione oggettiva, che gli permette di diventare attori del cambiamento sociale (Freire, 1974; Boal, 1993; Chatelain e Boal, 2010). Non dovrebbe forse essere questo l’obiettivo del sistema educativo?

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1 Questo lavoro è finanziato dall’Institut National Supérieur du Professorat et de l’Education (INSPE) dell’Accademia di Lille. Le ricerche in corso si stanno svolgendo presso l’Etablissement Régional d’Enseignement Adapté (EREA) di Calais.

2 Univ. Littoral Côte d’Opale, Univ. Lille, Univ. Artois – ULR 7369 – URePSSS – Unité de Recherche Pluridisciplinaire Sport Santé Société, 59140, Dunkerque, Francia, nadhira.abd@gmail.com

3 Univ. Littoral Côte d’Opale, Univ. Lille, Univ. Artois – ULR 7369 – URePSSS – Unité de Recherche Pluridisciplinaire Sport Santé Société, 59140, Dunkerque, Francia, alessandro.porrovecchio@univ-littoral.fr

4 Questo lavoro è finanziato dall’Institut National Supérieur du Professorat et de l’Education (INSPE) dell’Accademia di Lille. Le ricerche in corso si stanno svolgendo presso l’Etablissement Régional d’Enseignement Adapté (EREA) di Calais.

5 Univ. Littoral Côte d’Opale, Univ. Lille, Univ. Artois – ULR 7369 – URePSSS – Unité de Recherche Pluridisciplinaire Sport Santé Société, 59140, Dunkerque, Francia, nadhira.abd@gmail.com

6 Univ. Littoral Côte d’Opale, Univ. Lille, Univ. Artois – ULR 7369 – URePSSS – Unité de Recherche Pluridisciplinaire Sport Santé Société, 59140, Dunkerque, alessandro.porrovecchio@univ-littoral.fr

7 «O dolore! Dolore! il tempo divora la vita, / e l’oscuro Nemico che ci corrode il cuore / col sangue che perdiamo cresce e si fortifica».

8 Per usare ancora le parole di Baudelaire, nel 1863: «La modernité, c’est le transitoire, le fugitif, le contingent, la moitié de l’art, dont l’autre moitié est l’éternel et l’immuable» («La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile») (Baudelaire, 1994, p. 76-77).

9 https://ifapa.net/definition/ (consultato il 5/1/2023).

Vol. 1, Issue 0, March 2024

   

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