Vol. 1, n. 2, ottobre 2024

La sovra-esposizione mediatica del corpo adolescenziale

Tra bisogno di ammirazione e sfide estreme

Christian Distefano1

Sommario

La tecnica, con il suo apparato tecnologico, rappresenta l’essenza dell’uomo, ausilio per colmare quella lacuna istintuale che caratterizza l’individuo e lo contrappone all’animale. È a partire dalla modernità, però, che assistiamo a quell’eterogenesi dei fini caratterizzata da una presenza sempre maggiore di strumenti tecnologici, volti a un crescente dominio della natura, il quale nasconde, però, la metamorfosi dell’uomo in un eremita di massa, condizionato e assoggettato a quegli stessi strumenti da lui ideati. È nell’adolescenza che tale abuso emerge con maggior forza, non solo per il tempo trascorso dai più giovani sui vari devices, ma anche per la finalità con la quale spesso vengono utilizzati: assistiamo, così, a quella sovra-esposizione del corpo adolescenziale, pubblicato sui vari social, e a quello sconfinamento nel dark-web che, se da una parte coinvolge gli adolescenti ingabbiandoli in sfide estreme e gruppi disfunzionali, dall’altra diviene la manifestazione più tangibile di un bisogno estremo di ammirazione.

Parole chiave

Pubblicizzazione del corpo, pedagogia dell’adolescenza, rifugio digitale, Identità Digitale Confezionata, bisogno di ammirazione.

Media overexposure of the adolescent body

Between the need for admiration and extreme challenges

Christian Distefano2

Abstract

Technology, with its technological apparatus, represents the essence of man, an aid to fill that instinctual gap that characterises man and sets him against the animal. It is from modernity, however, that we witness that heterogenesis of ends characterised by an ever-increasing presence of technological tools, aimed at an ever-increasing domination of nature, which conceals, however, the metamorphosis of man into a mass hermit, conditioned and subjugated to those very tools he devised. It is in adolescence that this abuse emerges with greater force, not only because of the time spent by the youngest on the various devices, but also because of the purpose with which they are often used: thus opens up that overexposure of one’s body on social and the encroachment into the dark web which, if on the one hand involves adolescents by caging them in extreme challenges and dysfunctional groups, on the other becomes the most tangible manifestation of an extreme need for admiration.

Keywords

Body advertising, Adolescence Pedagogy, Digital refuge, Digital identity packaged, Need for admiration

Premessa

Se dovessimo descrivere con una parola la Modernità, il termine forse più consono e adeguato risulterebbe essere progetto (Lyotard, 1987), non solo perché il fondamento del moderno e proprio il progetto di realizzazione dell’universalità ed emancipazione dell’essere umano, ma anche poiché, dietro tale ambizione, si cela la crisi dello stesso moderno e l’entrata in quell’epoca complessa e, per certi versi, disorientante che prende il nome di Post- moderno. Riuscire ad abitare questa complessità significa essere consapevoli della liquidita e fluidità di tale panorama sociale: comprendere quella modernità liquida delineata da Zygmunt Bauman, all’interno della quale, da una parte, vi e «la convinzione sempre più forte che l’unica costante sia il cambiamento e l’unica certezza sia l’incertezza» (Bauman, 2011, p. VII), mentre dall’altra, come sostiene Franco Cambi, si afferma un nuovo paradigma che allevia la perdita dei valori tradizionali sopradescritti e che offre altrettanto Senso e Ordine del passato, un nuovo principio in grado di guidare sempre più spesso l’essere umano, influenzando le sue scelte, ma nel quale «all’uomo e al riconoscimento dei suoi bisogni più profondi, più propri, più irrinunciabili e concesso sempre meno spazio» (Cambi, 2006, p. 21): il paradigma tecnico-scientifico.

Nata come soluzione, come strumento per rimediare alle mancanze umane, la tecnica e divenuta l’essenza stessa dell’uomo perché, tramite essa, l’uomo e riuscito ad adattarsi all’ambiente ed evolversi in esso (Galimberti, 2018, p. 37).

In una condizione di crisi che, come ci ricorda Simone Digennaro, sembra caratterizzare in toto l’attualità, travolgendola in ogni suo aspetto, dal lavoro all’educazione, dalla cultura all’economia (Digennaro, 2021), sono anche i più giovani a risentire le sfumature più nascoste di tale condizione sociale, all’interno della quale prende forma un malessere individuale e sociale. Crisi emotive, ricerca del sé, della propria identità: sono solo alcuni dei tratti caratteristici dell’adolescenza post-moderna. Qui, ancora una volta, la tecnologia diviene centrale, come strumento di rappresentazione e racconto di sé, in cui «si formano identità multiple, racconti di se stessi fatti con molteplici registri narrativi e attraverso la mediazione di strumenti sempre più efficaci e penetranti. Si forma una visione del sé iper-estesa, una iper-identità in cui molti sé confluiscono in un agglomerato identitario che l’individuo e ansioso di poter rappresentare all’esterno» (Digennaro, 2021, pp. 62-63).

Il presente contributo, dopo una prima riflessione attorno alla tecnica come essenza e dominio dell’uomo, intende approfondire e riflettere sul ruolo e l’utilizzo dei devices digitali intesi come strumenti per soddisfare quell’estremo bisogno di ammirazione adolescenziale, insito in ciascun essere umano.

La tecnica come essenza e dominio dell’/sull’ uomo

Non possiamo più dire che, nella nostra situazione storica,

esiste tra l’altro anche la tecnica, bensì dobbiamo dire:

la storia ora si svolge nella condizione del mondo chiamata «tecnica»;

o meglio, la tecnica è ormai diventata il soggetto della storia.

Anders, 2018, p. 3

Da sempre l’uomo ha fatto propria quella dimensione tecnica che l’ha condotto a sopravvivere ed evolversi, attraverso una strumentazione naturale o artificiale, tramite la quale è riuscito ad adattarsi all’ambiente. Tale dimensione appare necessaria e fondante l’essere umano giacché, quest’ultimo, risulta essere carente di quell’aspetto che, in primis, caratterizza, invece, gli animali: l’istinto (Galimberti, 2012).

Mancando tale caratteristica, a differenza degli esseri animali, appunto, l’uomo «dispone solo di generiche e imprecise pulsioni e non di questi istinti che, articolando un determinato modo di essere al mondo, garantiscono a ogni specie animale la propria sopravvivenza» (Galimberti, 2018, p. 89).

Il rapporto tra uomo e tecnica, dunque, risulta essere inscindibile e necessario, proprio perché tale carenza umana viene compensata da quegli strumenti che garantiscono all’essere umano la sopravvivenza, l’adattamento e la trasformazione dell’ambiente in cui vive.

Come sottolinea anche Franco Cambi, infatti, «la tecnica […] “possiede” l’umanità, la orienta e la conduce. Ab imis fundamentis. Come attività-chiave della specie, come orizzonte del suo quotidiano, come principio-valore che la governa. E la storia riletta nelle sue “lunghissime durate” ci mostra, incontestabilmente, che dall’homo erectus al sapiens sapiens, fino all’uomo storico è la tecnica a scandire il processo evolutivo, compiuta ormai l’evoluzione biologica» (Cambi, 2002, p. 13).

Dal momento che l’uomo ha sempre necessitato e utilizzato la strumentazione tecnica per sopravvivere e compensare la lacuna istintuale, possiamo allora considerare essa come «condizione imprescindibile dell’esistenza umana, come ciò senza la quale l’uomo non avrebbe potuto inaugurare la propria storia» (Galimberti, 2012, p. 209): l’essere umano, quindi, nasce tecnico e nella tecnica trova la sua stessa essenza, intesa come possibilità e capacità di agire nel e sul mondo circostante.

È tramite tale essenza, dunque, che l’uomo conosce e modifica l’ambiente, che riesce a manipolarlo al fine di adattarvisi, in una molteplicità di azioni che sono attuate grazie al ruolo centrale che svolge il «cervello esterno dell’uomo» (Kant, 1969, p. 38), ovvero la mano: è attraverso quest’ultima, infatti, che gli individui hanno potuto farsi strada nell’ambiente in base alle proprie necessità ed è tramite quella stessa mano che prende forma il gesto, il quale rende possibile quella relazione tra corpo e mondo «da cui prende avvio l’operare tecnico che consente all’uomo, di per sé inadatto al mondo, di costruirsi un mondo possibile» (Galimberti, 2018, p. 99). Dal gesto, dunque, ha origine quell’evoluzione dell’uomo nell’ambiente e nel gesto si ritrova quel fondamento tecnico di cui l’essere umano non può fare a meno.

Proprio nell’atto stesso di costruzione di quel mondo possibile che l’uomo ricerca costantemente possiamo ritrovare quella che è l’essenza stessa della tecnica, la sua natura: se dovessimo definire, infatti, quest’ultima, le sue caratteristiche, la sua struttura, non potremmo non tenere in considerazione ciò che Martin Heidegger ha sostenuto a tale riguardo:

secondo un’antica dottrina, l’essenza di qualcosa è il che cosa una certa cosa è. Poniamo il problema della tecnica quando domandiamo che cosa essa sia. Tutti conoscono le due risposte che si danno alla nostra domanda. La prima dice: la tecnica è un mezzo in vista di fini. L’altra dice: la tecnica è un’attività dell’uomo. Queste due definizioni della tecnica sono connesse. Proporsi degli scopi e apprestare e usare i mezzi in vista di essi, infatti è un’attività dell’uomo. All’essenza della tecnica appartiene l’apprestare e usare mezzi, apparecchi e macchine, e vi appartengono anche questi apparati e strumenti stessi, come pure i bisogni e i fini a cui essi servono. La totalità di questi dispositivi è la tecnica. Essa stessa è un dispositivo o, in latino, un instrumentum (Heidegger, 2019, p. 5).

Dietro tali definizioni si cela quell’unione della visione strumentale e antropologica della stessa tecnica, che la delinea come mezzo tramite cui l’uomo raggiunge determinati fini in vista di specifici bisogni.

Se rimanessimo, però, sempre in linea con il pensiero heideggeriano, al livello del fare e del manipolare la natura, non coglieremmo ancora il fulcro della téchne stessa, perché essa, proprio nel momento in cui viene adoperata come strumento, allo stesso tempo compie sull’ambiente circostante quel processo di disvelamento che pone l’individuo in una condizione di attesa e ascolto della natura, per svelare il suo Essere, le sue potenzialità, attuando un approccio di accoglienza ed escludendo il dominio: proprio tale disvelamento, dunque, rappresenta la vera essenza della tecnica, la quale conduce alla verità.

Considerata secondo tale accezione, dunque, la tecnica pone in essere quel procedimento che, in un certo senso, valorizza l’Essere, ovvero la natura, la rispetta e la ascolta: un processo, questo, che il filosofo tedesco definisce pro-ducente, giacché non domina l’ambiente ma esalta ed estrinseca le sue potenzialità.

Cosa accade, però, se a questa stessa tecnica che rappresenta, come detto fin qui, quel mezzo tramite cui svelare la verità dell’Essere, si antepone e sostituisce, invece, quella funzionalità pro-vocante, centrale durante la Modernità, in cui, attraverso la comparsa di quell’approccio scientifico rigido derivante dalle scienze esatte, si assume come paradigma dominante l’assioma secondo cui il mondo non deve essere contemplato ma manipolato?

È tramite il metodo scientifico galileiano, infatti, che il soggetto accentua quella modalità di manipolare, trasformare, dominare la natura secondo le proprie finalità, attraverso, però, non più quell’ottica di tecnica pro-ducente sopracitata, bensì ponendo al centro la finalità produttiva. Alla tecnica si lega, così, inevitabilmente, quel dominio, da cui deriva la visione dell’«ambiente percepito come risorsa illimitata, anzitutto da sfruttare» (Gennari, 2002, p. 37).

Il dominio sulla natura giunge nella Modernità al suo apice, giacché «razionalizza l’impiego della tecnica su vasta scala, immettendo quest’ultima nel circuito della scienza e innescando una spirale tecnologica che impone la tecnica nei gangli della produttività industriale» (Gennari, 2002, p. 42).

Se la tecnica si fa sempre più pro-vocante e dominante la natura, questo si realizza poiché, la Modernità fa strada a quel valore, a quella méta, a quel modus operandi che, in tale contesto storico-sociale, diviene direttiva e guida dell’agire umano: l’idea di progresso.

È con Bacone, infatti, che si viene a teorizzare quel regno dell’uomo, in cui l’essere umano «ha cominciato a considerarsi creatore del proprio mondo e del proprio futuro» (Galimberti, 2018, p. 299): è l’ambiente che viene spodestato da quell’azione umana che domina, sperimenta e oggettiva la natura stessa, attraverso un uso costante e continuo di strumenti tecnologici.

In questo panorama «la natura si trasforma in un unico, gigantesco serbatoio, diventa la fonte dell’energia di cui hanno bisogno la tecnica e l’industria moderne» (Heidegger, 2006, p. 34): tutto ciò causato proprio da quell’idea di progresso tipico della Modernità, in cui la téchne «domina ormai tutta la terra» (Heidegger, 2006, p. 34).

Non solo, però, tale dominio si espande verso il contesto ambientale, bensì si insinua anche nella stessa esistenza dell’uomo: nell’età della tecnica, infatti, l’essere umano stesso «viene assediato dal potere delle apparecchiature tecniche e delle macchine automatiche. La potenza della tecnica che dappertutto, ora dopo ora, in una forma qualsiasi di impiego incalza, trascina, avvince l’uomo di oggi» (Heidegger, 2006, p. 35).

Che la nostra epoca possa essere definita come età della tecnica lo afferma anche Emanuele Severino, il quale sostiene, anzi, che tale attribuzione sia condivisa e diffusa da diverso tempo. Questo avviene sia perché la tecnica risulta essere, oggi più che mai, il mezzo in grado di far sopravvivere e agevolare l’uomo sulla Terra, attraverso la trasformazione dell’ambiente in un mondo umano, sia perché, allo stesso tempo, le «grandi forze della tradizione occidentale» (tra cui il cristianesimo, l’illuminismo, il capitalismo, la democrazia, ecc.) utilizzano (o forse si illudono di utilizzare) la téchne per realizzare i propri scopi e attuano un potenziamento continuo di quest’ultima, affinché questi stessi scopi vengano raggiunti (Severino, 2009).

Nel momento stesso, però, in cui l’uomo potenzia all’infinito quegli strumenti tecnici che sono gli unici necessari per raggiungere determinati scopi e soddisfare determinati bisogni, ecco che l’uomo pone come obiettivo delle proprie azioni non più i propri bisogni, bensì l’accrescimento e l’affinamento di quella stessa tecnologia senza cui, oggi, molte sue necessità non potrebbero essere soddisfatte.

Se la tecnica, in tale modo, diviene il principale motivo di azione dell’individuo, allora quest’ultima, da dominare solamente il contesto naturale, sviluppa il proprio dominio anche sullo stesso essere umano che ha permesso il suo sviluppo e, allo stesso tempo, da mezzo/strumento in vista di fini, diviene necessariamente il fine ultimo per l’uomo.

Ciò che viene meno, in tale scenario, è proprio quell’orizzonte antropocentrico di azione dell’essere umano, spodestato, dalla Modernità in poi, dagli strumenti e dalla logica insita nella tecnica: «non più il potere dell’uomo sulla natura, ma il potere della tecnica sull’uomo e sulla natura. Qui l’orizzonte antropocentrico è già dissolto, perché il potere non è più dell’uomo, ma della tecnica che detta al presunto detentore del potere (l’uomo) la sua utilizzazione, rendendo quest’ultimo esecutore passivo delle possibilità tecniche, le quali si esercitano sulla natura che passivamente le subisce» (Galimberti, 2018, p. 484).

È un panorama di allerta quello che, come già anticipato anche dai francofortesi, ci accompagna oggi all’interno della post-modernità: situazione delicata poiché l’influenza tecnologica pervade l’uomo in ogni sua fase della vita (dall’infanzia alla giovinezza, dall’adultità alla terza età).

È soprattutto nell’adolescenza, però, che tale delicatezza emerge con maggiore forza, poiché in tale fase, a causa delle molte ore di utilizzo quotidiano, il digitale rischia di diventare l’unico (o comunque sia il più frequentato) contesto di vita per i più giovani, dove fare esperienze, provare brividi emotivi e costruire la propria identità e autostima.

Ricerca di sé e rifugio nelle tecnologie: lo sviluppo dell’identità digitale «confezionata» adolescenziale

Basta guardarsi attorno in un qualunque

luogo pubblico di una qualsiasi città del mondo:

troveremo gli adolescenti con la testa china e

impegnati a fissare il piccolo schermo di uno smartphone.

Codeluppi, 2018, p. 7

Per il fatto di essere un animale sociale, ciò che caratterizza maggiormente l’uomo è quella necessità di socialità, quel bisogno di comunicare e di instaurare relazioni, attraverso cui allontanare l’angoscia della solitudine e dell’esclusione dal gruppo. Dietro la creazione di legami, infatti, si stabilisce, allo stesso tempo, la forza di azione dell’essere umano, tramite la quale ricercare certezze e distanziarsi dal vuoto relazionale che spaventa l’individuo (Andreoli, 2007).

Tale ricerca di relazioni viene ad ampliarsi e ad essere preponderante soprattutto durante l’adolescenza, ovvero quella fase della vita caratterizzata, in primis, da drastici cambiamenti fisici, psichici e relazionali (Bille, Tagliaferro e Volante, 2015).

«Adolescente (dal latino adolesco, “crescere”) è colui che è “in via di crescita”. È l’uomo in cammino dall’infanzia, età della curiosità, della scoperta, dell’esperienza imitativa e del gioco, età della fragilità e della dipendenza, della fantasia e del pensiero magico, all’età adulta, epoca del pieno sviluppo fisico e psichico, della maturità, dell’indipendenza, della progettualità, della concretezza e della responsabilità» (Parsi, 2014, p. 7). Mossa da tali trasformazioni e bisogni, la condizione adolescenziale stimola il ragazzo a ricercare perennemente una propria identità, la quale viene a delinearsi attraverso la sperimentazione, l’opposizione e, in alcuni casi, anche tramite il brivido delle azioni rischiose.

Senza dubbio, la rivoluzione digitale che ha investito la società Postmoderna ha coinvolto anche tale processo di ricerca e sperimentazione del sé, in particolare laddove la tecnologia diviene sempre più una strumentazione messa a disposizione dei giovani e con la quale, questi ultimi, passano molte ore della giornata.

Dalle statistiche promosse nel 2023 da Save the Children, infatti, in Italia non solo utilizza internet quotidianamente attraverso lo smartphone il 78,3% dei bambini tra gli 11 e 13 anni, ma viene a incrementarsi anche il tempo di utilizzo di quest’ultimo, che si attesta oltre le cinque ore giornaliere. Percentuale ben diversa per i 14-17enni, in cui il 93% risulta essere online. In relazione all’uso che gli adolescenti fanno di tale strumento, le stesse ricerche mostrano come, seppur esistano dei limiti di iscrizione legati all’età dei ragazzi, già il 40,7% degli 11-13enni italiani utilizza i social media, con un incremento fino al 79% nella fascia 14-17 anni (Save the Children, 2023).

La strumentazione digitale diviene, quindi, un supporto fondamentale nella vita dei più giovani che la utilizzano in ogni momento della giornata: «appena svegli, prima di andare a dormire, in bagno, al lavoro, a scuola, in autobus grazie agli smartphone è sempre possibile entrare e uscire dai vari social network, condividere, osservare, emozionarsi o arrabbiarsi, cercare il contatto di una persona o andare a vedere che cosa stanno facendo i vari “amici”» (Rossi Galante, 2019, pp. 61-62).

Così, per il fatto stesso che il cellulare sia onnipresente nella maggior parte delle varie attività compiute quotidianamente dai ragazzi, tanto da divenire il nuovo coltellino svizzero, così come sottolineato da Manfred Spitzer (Spitzer, 2015), gli adolescenti di oggi vengono definiti in diverse accezioni, ognuna della quale fa riferimento ad un utilizzo differente e pervasivo della dimensione tecnologica: secondo Howard Gardner, infatti, dovremmo parlare di generazione app, sottolineando con ciò la dipendenza più o meno attiva dei giovani da quei software che fungono da strumenti di aiuto per il singolo e che permettono di raggiungere velocemente diversi obiettivi (Gardner e Davis, 2014). Maura Manca, invece, preferisce classificarli come generazione hashtag, ponendo l’attenzione sul fatto che tali ragazzi comunichino tramite i social e le chat, oppure tramite la condivisione di fotografie e messaggi vocali, vivendo all’interno di un mondo interconnesso e iperconnesso (Manca, 2016).

Tra le varie definizioni possibili, però, quella che forse pone l’accento maggiore non solo sull’abuso ma anche sulle possibili conseguenze che tale immersione nel mondo digitale pone in essere è quella evidenziata da Maria Rita Parsi, che definisce i giovani di oggi come la generazione h, ovvero «Generazione Z a rischio Hikikomori» (Parsi, 2017, p. 13). Con tale accezione si intendono

i «nativi digitali» a rischio dipendenza da internet […] esposti al pericolo di «non nascere» al piacere, alla fatica, al dolore, alle esperienze, agli impegni e alle responsabilità della quotidianità. «Non nascere» perché risucchiati, reinfettati, omologati, plagiati, arruolati dal mondo virtuale (Parsi, 2017, p. 13).

Ma cosa spinge i giovani ragazzi a divenire alienati dalla realtà virtuale? Cosa offre il web che la realtà, in alcuni casi, non dona loro?

Per provare a rispondere a tali domande occorre partire da un presupposto, evidenziato da Vittorino Andreoli all’interno di La vita digitale: «In questa età il telefonino rappresenta […] un terminale di relazione che serve a diminuire l’insicurezza dell’adolescente e la sua paura. […] è un tramite che fa essere nel gruppo anche se si è lontano» (Andreoli, 2007, p. 199). Sulla base di tale considerazione, allora, la tecnologia digitale viene ad assumere, soprattutto in tale fase della vita, quella funzione di rifugio, di protezione necessaria all’adolescente per sentirsi parte del gruppo dei pari, nonostante i mutamenti interni al proprio essere e le differenti preoccupazioni e sperimentazioni che si presentano nella condizione giovanile.

Considerare la tecnologia come rifugio significa pensare il web come il luogo in cui ricercare la propria identità, sperimentare i cambiamenti che stanno avvenendo nell’adolescente e intraprendere percorsi paralleli alla realtà, perché protetti da quello schermo virtuale che fa agire ma senza mai fare esperienze concrete e in prima persona. Se consideriamo, poi, le difficoltà della società nichilista, evidenziate da Umberto Galimberti all’interno de L’ospite inquietante, in cui il filosofo pone in evidenzia la visione di un futuro visto dai giovani come minaccia, di istituzioni educative che non coinvolgono e ascoltano i ragazzi, e ancora quell’analfabetismo emotivo e quella noia che spinge gli adolescenti verso sfide estreme per ricercare quel brivido che nella quotidianità non riescono a trovare (Galimberti, 2007), ecco allora che il rifugio digitale non solo permette agli adolescenti di difendersi da quella metamorfosi fisica e psichica inevitabile, ma offre loro anche una realtà desiderabile, ideale, utopica, promossa dagli stessi media con cui si relazionano quotidianamente.

Una realtà virtuale, dunque, che diviene terreno di scoperta e di conoscenza di sé e di altre persone e che funge da mezzo per ottenere quelle sicurezze che, sia la condizione adolescenziale sia il contesto sociale, non offrono ai ragazzi. Così «l’infinito spazio telematico, generato dalla moderna tecnologia, onnipotente e onnisciente, può offrire soluzioni ai mali del vivere e rappresentare la terra promessa in cui rifugiarsi per liberarsi della propria insoddisfacente e limitata condizione e per sperimentare percorsi paralleli» (Parsi, 2014, p. 35).

All’interno di tale rifugio, dunque, il mondo virtuale si sovrappone a quello reale e, in esso, gli adolescenti si formano quell’identità digitale spesso utopica, aspirata e anch’essa desiderata, promossa da quei social network che permettono loro di mettersi in comunicazione e rapportarsi con i coetanei, attraverso anche una sovra-esposizione del proprio corpo. Tale tipologia di identità non reale si caratterizza per il fatto di essere, come sostiene Howard Gardner, confezionata la quale, attraverso una selezione di informazioni e dettagli (corporei e caratteriali) personali scelti e condivisi appositamente dall’adolescente, comunica di sé un Io desiderabile, che evidenzia solo una determinata parte della vita dei più giovani, che tendenzialmente si pensa possa ricevere l’ammirazione degli altri ragazzi (Gardner e Davis, 2014).

Come ci ricorda Massimo Ammaniti, «quando gli adolescenti creano un profilo on line, sono allo stesso tempo individui e parte di un collettivo. La loro rappresentazione di sé è costruita attraverso ciò che esplicitamente trasmettono e condividono con i loro amici, che si lega al modo in cui le altre persone rispondono» (Ammaniti, 2018, p. 173).

Se il cellulare e gli altri media a disposizione degli adolescenti vengono impiegati da questi ultimi per condividere on-line foto e altri contenuti personali che vanno ad ampliare la propria identità digitale a scapito di quella reale, ecco allora che quegli stessi strumenti tecnologici divengono una protesi della loro identità che, se da una parte funge da mezzo per ricercare approvazione e ammirazione, dall’altra evidenzia anche un possibile disagio che si cela dietro tale ricerca e che, in alcuni casi, non viene ascoltato dagli adulti. Come sostiene Maura Manca, infatti,

il Web è diventato anche lo spazio per gridare al mondo il proprio malessere, per rendere pubblica la sofferenza interna, i soprusi e le violenze subite, che in altri contesti, soprattutto adolescenti e giovani, non sono riusciti a tirare fuori o non stati semplicemente ascoltati. La generazione dell’#adolescenza parla attraverso quello che molti genitori ancora chiamano cancelletto. […] Dopo questo piccolo segno #, il cui significato è sconosciuto agli adulti, tante volte si cela un grido di aiuto, si offuscano grandi problemi, basati su disagi e sofferenza (Manca, 2016, p. 24).

Attraverso i commenti, i «like» che l’adolescente riesce ad ottenere sui vari social network e i diversi riscontri positivi che può rilevare su tali piattaforme, tale protesi digitale utilizzata per ampliare la propria autostima, si trasforma in un «totem esistenziale» (Parsi, 2017, p. 44) che influenza il singolo nella ricerca e sperimentazione di sé.

Le due esistenze che si vengono a creare, quella virtuale e quella reale, vengono così a influenzarsi l’un l’altra, al punto tale che il «doppio digitale» (Franchi, 2019, p. 40), ovvero l’identità diffusa sul web, continuerà a ricevere approvazione o meno anche quando il singolo non è connesso alla rete: dal momento che tali considerazioni virtuali influenzano l’Io, l’autostima e l’azione degli adolescenti, ecco allora che «lo sguardo dell’altro e sull’altro è mediato dal computer, le relazioni stesse si instaurano spostando le dita sullo screen dello smartphone, arrivando a osservare la realtà da lontano dietro la tutela dello schermo, che agisce emblematicamente da protezione o da amplificatore della propria individualità» (Volpi, 2014, p. 15).

La maschera che si viene, così, a indossare nel mondo virtuale, cercando di migliorare noi stessi rispetto al contesto reale, risponde allora a quell’esigenza primaria descritta da Gustavo Pietropolli Charmet e identificata come una costante e perenne ricerca e necessità di ammirazione dagli altri (Pietropolli Charmet, 2018).

La condizione adolescenziale spinge, così, i più giovani a ricercare tale approvazione (divenuta un desiderio costante), la quale cela, però, spesso, una fragilità/insicurezza che il ragazzo cerca di colmare attraverso quel consenso e quell’approvazione percepita soprattutto nel mondo virtuale. Il riconoscimento degli altri, così, non solo aumenta l’autostima dell’adolescente ma, allo stesso tempo lo spinge a ricercare costantemente quello sguardo altrui che, nell’epoca digitale, si esprime attraverso il gradimento sui social network e sulla quantità di messaggi che ogni giorno il ragazzo riceve:

l’identità ha bisogno di riconoscimento sociale, e ciò vale anche online. Lo sguardo di ritorno degli altri frequentatori del web, che traspare dal numero di visualizzazioni o di like, dai commenti lasciati o negati, svolge quell’importante funzione di rispecchiamento di cui gli adolescenti hanno bisogno per validare le diverse parti di sé e integrarle in un’identità coerente, verificando al contempo la gradibilità sociale. Le reazioni dei coetanei sono quelle tenute in maggiore considerazione, ed essendo il web utilizzato principalmente dagli adolescenti, si configura come luogo ideale per ricevere conferme dai pari (Lancini e Salvi, 2018, p. 53).

Tale ricerca di approvazione altrui diviene, dunque, il fulcro centrale per l’accettazione di sé e il modellamento della propria identità: nel momento in cui, però, la ricerca di ammirazione degli altri attraverso il web viene esasperata, ecco che possiamo trovare adolescenti che estremizzano le proprie azioni fino al punto tale da compiere sfide estreme o pubblicizzare la propria intimità pur di ricevere quella considerazione desiderata: assistiamo, in tal modo, a una radicalizzazione di condotte on-line in cui il corpo funge da veicolo di accettazione (Lancini e Salvi, 2018).

Radicalizzazione on-line: quando il web diventa un pericolo

In un contesto sociale in cui il mondo virtuale rischia di spodestare le esperienze reali e le forme di comunicazione tradizionali, il corpo ricopre sempre un ruolo centrale anche all’interno dei contesti digitali, laddove funge da mezzo per ampliare anche quella dimensione narcisistica dell’uomo che lo spinge a ricercare l’approvazione altrui: in tale cornice il corpo adolescenziale diviene un potente strumento tramite cui ricercare ammirazione.

I selfie, gli scatti perfetti, i filtri utilizzati nella maggior parte delle foto condivise online divengono, per i giovani di oggi, strumento di visibilità, approvazione e riscontro sociale: siamo, ormai, in un’epoca in cui è usuale esporre il proprio corpo sul web, sia perché ognuno ormai è diventato promotore di se stesso nei social network (sotto l’interesse delle aziende pubblicitarie, attraverso i cosiddetti baby-influencer), sia per ricercare quella micro-fama che il consenso sul web offre per periodi più o meno duraturi (Arduino e Lipperini, 2013).

Basta scorrere le pagine dei social più popolari per assistere a quella pubblicizzazione del privato che porta giovani e adulti a mostrare gli aspetti più intimi della propria vita. Tutto questo perché, in un «società consumista, dove le merci per essere prese in considerazione devono essere pubblicizzate, si propaga un costume che contagia anche il comportamento degli uomini, i quali hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra. […] Gli uomini […] sostituiscono l’individualità mancata con la pubblicità dell’immagine» (Galimberti, 2015, p. 86).

Si pone, così, al centro il paradigma essere = apparire dato che, se l’individuo non si mostra, allora rischia di non essere considerato: laddove, però, non si possiedano abilità, competenze, ecc. da mostrare, l’unica strada da percorrere è quella della pubblicizzazione del proprio corpo, con le proprie caratteristiche estetiche e sfumature interiori.

La spudoratezza diviene, così, una delle caratteristiche della post-modernità, la quale trova terreno fertile sui social in cui l’immagine è veicolo di comunicazione.

Molti giovani considerano il proprio profilo online come l’ormai desueto diario autobiografico: pensieri, foto private, esperienze (anche intime) vengono ormai pubblicate quotidianamente su internet, per ricercare ammirazione e consenso. Attraverso questa omologazione dell’intimo (Galimberti, 2015), i giovani diventano, così, merci, oltrepassando anche quel sentimento di pudore che detta la giusta distanza relazionale.

Il bisogno di approvazione, però, non si manifesta esclusivamente attraverso l’omologazione dell’intimo: vi è un altro fenomeno, per certi versi più pericoloso, che coinvolge i giovani alla ricerca di ammirazione tramite sfide estreme.

Il web, infatti, non rappresenta solamente quella possibilità di comunicazione, di interazione e sperimentazione positiva del proprio sé, ma cela anche un lato oscuro, che conduce a fenomeni di radicalizzazione online, ovvero a trappole estreme che circolano nella realtà virtuale. Con il termine deep Web o dark Web si identificano, infatti, «tutti quei fenomeni del Web, come per esempio le sfide estreme, selfie pericolosi, gruppi a favore dell’anoressia o del suicidio, che sono in realtà contenuti presenti nella rete che ciascuno di noi usa tutti i giorni» (Calandra e Giorgio, 2019, p. 151) e che, se visitati soprattutto da quegli adolescenti alla ricerca della propria identità, possono divenire un vero e proprio pericolo per l’incolumità dei più giovani.

In relazione proprio alle diverse tentazioni estreme presenti nella definizione appena citata, possiamo tratteggiare alcune caratteristiche e rischi a cui i ragazzi sono esposti quotidianamente, partendo proprio da quelle sfide estreme che circolano sul web e che vedono come protagonisti un numero sempre maggiore di ragazzi in cerca di like sul proprio profilo.

Meglio conosciute dai più giovani come challenges, tali prove di durata differente a cui gli adolescenti si sottopongono

si chiamano social game o social mode o social drinking perché ogni impresa viene filmata e poi inserita su specifiche pagine create sui social network o su siti per postare video, facendo da «incipit» per un successivo e spaventoso effetto contagio. Nell’arco di poche ore le mode impazzano nel web e i giovani di tutto il mondo rispondono alle nomination per non pagare pegno e nel tentativo di inventare la risposta più originale.3

Tra le challenges più diffuse e recenti troviamo, ad esempio, l’ingestione di capsule per lavastoviglie oppure «si aspetta sui binari il treno che arriva in corsa per scattare la foto all’ultimo secondo; tanti ragazzi lo fanno anche con i treni delle metropolitane o a volte nelle autostrade o strade a scorrimento veloce, nelle quali attendono l’arrivo delle macchine per spostarsi all’ultimo secondo. Queste mode causano talvolta qualche ferito o morto e purtroppo non vengono monitorate come dovrebbero» (Manca, 2016, p. 32): ogni sfida viene ripresa con una videocamera e condivisa subito on-line per dimostrare il proprio valore agli altri e, soprattutto, anche per ricercare quelle sensazioni forti, le cosiddette sensation seeking, che contrastano stati di noia adolescenziale e sfidano i limiti e le regole socialmente imposti, cercando in tutti i modi di farsi notare dagli altri.

Così, i ragazzi cadono vittime di mode social che pongono al centro, ad esempio, l’alcool, come nel caso delle Nek Nomination, beer selfie o drelfie: tutte sfide che prevedono l’assunzione di grandi quantitativi di alcool, facendosi fotografare sia mentre si beve sia mentre si è ubriachi in situazioni allarmanti, senza considerare le possibili conseguenze che l’assunzione di un alto livello di alcolici può provocare all’organismo (anche perché spesso a tali sfide alcoliche sono associate anche sostanze stupefacenti) (Manca, 2016).

A fianco dei drinking game, poi, sono presenti on-line anche altre sfide che riguardano direttamente il corpo e, in particolare la pubblicizzazione della propria magrezza: dietro coloro che accettano e svolgono tali challenges sono evidenti seri disturbi alimentari che coinvolgono, in particolar modo, le adolescenti. Come ben delinea Maura Manca, alcune di queste sfide sono:

  1. A4 Waist Challenge, in cui le ragazze devono farsi una foto con un foglio A4 in verticale davanti il proprio punto vita, per mostrare come quest’ultimo sia inferiore alla dimensione del foglio stesso;
  2. Belly Button Challange, che consiste nel far passare un proprio braccio dietro la schiena per cercare di toccarsi l’ombelico;
  3. Collarbone Challenge o Sfida della clavicola, attraverso cui si mostra la sporgenza della propria clavicola;
  4. iPhone6Knee Challenge, in cui si utilizza l’iPhone 6 (grande 13 cm) per misurare la magrezza o meno delle proprie ginocchia, in relazione al fatto che si riesca o meno a coprire tale parte del corpo con lo smartphone;
  5. Thigh Gap o Arc de Triomphe, in cui si fotografa lo spazio che si viene a creare tra le cosce tenendo le gambe unite;
  6. Banknote Wrist Challenge, durante il quale si chiede di legarsi attorno al polso una banconota, per vedere se riesce a fare un giro completo: in caso affermativo la prova successiva consiste nell’utilizzare banconote di lunghezza inferiore (Manca, 2016).

Non sono, però, solamente tali sfide estreme a promuovere atteggiamenti pericolosi, soprattutto in riferimento ai disturbi alimentari: esistono, infatti, sul web anche gruppi che promuovono il dolore fisico e psichico, al punto tale da trasformarlo in un valore da supportare e sviluppare. All’interno di questi «gruppi nelle tenebre», come li ha definiti Maria Rita Parsi, troviamo situazioni molto drammatiche, che mostrano tutto il disagio che può colpire gli adolescenti durante questa difficile fase della vita, accentuato e promosso troppo spesso anche all’interno dello stesso mondo virtuale. Tra i diversi «gruppi nelle tenebre» on-line troviamo, in particolare, quelli a favore dell’anoressia, della bulimia e quelli che incitano tendenze autolesionistiche.

All’interno di tali gruppi gli adolescenti spesso trovano quel senso di appartenenza che non ritrovano nella realtà, perché riescono a condividere esperienze e pensieri riferiti a tali problematiche che, però, in essi vengono pubblicizzate come gesta da valorizzare (Calandra e Giorgio, 2019).

In riferimento ai gruppi relativi ai disturbi alimentari in rete ne troviamo due tipologie: da una parte i gruppi pro-Ana e dall’altra quelli pro-Mia, a seconda che ci si riferisca all’anoressia o alla bulimia (Lancini, Salvi, 2018).

Tali siti sono veri e propri raduni in cui soprattutto le giovani adolescenti si ritrovano e all’interno del quale il loro problema non viene visto come negativo ma, al contrario, vengono suggerite ulteriori modalità per perdere peso e ricordarsi del proprio aspetto fisico. È il caso, ad esempio, dell’utilizzo da parte dei partecipanti a tali gruppi di braccialetti definiti Ana bracelet che nascondono, dietro la funzione di appartenenza al gruppo, anche quella di promemoria per lo svolgimento di comportamenti anoressici; allo stesso tempo vengono promulgate su tali siti fotografie e video tramite cui viene esaltato l’ideale della magrezza estrema.

Ciò che rende ancora più preoccupante e pericolosa la frequentazione di tali gruppi estremi riguarda il fatto che, all’interno di tali siti, vengano condivise esperienze tramite chat o forum, che fungono da strumenti per promuovere suggerimenti e consigli e, allo stesso tempo, dimostrare alle altre il proprio livello di magrezza, tentando di essere la migliore rispetto a tutte le altre partecipanti.

Cercando di proteggere a tutti i costi la diffusione del gruppo, senza porlo a rischio di eventuali chiusure da parte di soggetti esterni, la partecipazione a tali siti prevede una prova di ammissione, dettata da severi e rigidi criteri, che le partecipanti devono necessariamente possedere per non essere escluse.

Una volta entrata all’interno di tali gruppi, la magrezza estrema viene considerata non come patologia ma come stile di vita e, allo stesso tempo, l’anoressia e la bulimia vengono presentate come persone reali a cui essere totalmente devoti. Tra i vari appelli presenti nei siti e dispensati dagli ideatori di tali gruppi estremi, infatti, troviamo il seguente: «Principesse Ana, sono un maestro di Ana, votato a far vincere sempre e comunque la regina Ana. Cerco compagne segrete in Ana, da plasmare e rendere perfette nel corpo» (Calandra e Giorgio, 2019, p. 156).

Oltre a gruppi estremi legati ai disturbi alimentari, però, il web è composto anche da siti nei quali vengono promossi atteggiamenti autolesionistici, o meglio definite esperienze di self-harmer. All’interno di tali gruppi i ragazzi che vi partecipano condividono consigli, motivazioni e sensazioni delle proprie esperienze. Spesso questi ragazzi sono consapevoli del proprio dolore e disagio interiore, motivo principale delle loro azioni lesive verso il proprio corpo ma, allo stesso tempo, considerano tale forma di dolore e manifestazione verso la propria persona, una forma di aggregazione sociale che, se non si riesce a concretizzare nella realtà, utilizza la rete come rifugio in cui realizzarsi e tramite cui non sentirsi soli. Basta leggere alcuni # presenti e diffusi da tali ragazzi sulle piattaforme on-line per capire la gravità della situazione e la ricerca di attenzione che tali ragazzi cercano di comunicare attraverso tali atti autolesionistici (#cut, #cutting, #selfharm, #autolesionismo, a cui seguono contenuti sul provocarsi intenzionalmente del male) (Manca, 2016).

Seppur dietro a tali azioni si celano spesso disagi, non attribuibili al web, risulta quanto più necessario sottolineare la responsabilità di quest’ultimo nella promozione, la diffusione e l’effetto contagio che tali sfide estreme e gruppi creano, poiché fanno sperimentare all’adolescente esperienze al limite, spesso con finali drammatici, facendo credere loro di avere quella popolarità e quel successo che i giovani ricercano e di cui hanno bisogno.

In tale scenario risulta quanto più necessario ripensare l’educazione, come esigenza post-moderna, per promuovere, soprattutto tra i più giovani, processi volti alla promozione di responsabilità e consapevolezza nell’uso degli ormai insostituibili strumenti tecnologici.

Riflessioni conclusive

Ripensare l’educazione, oggi, significa tenere in considerazione quei fenomeni sociali che caratterizzano la società Post-Moderna nella sua complessità, al fine di sviluppare scelte pedagogiche coerenti con le necessita attuali.

Se da una parte non possiamo non abitare quel Disincanto che diviene centrale nella società attuale, allo stesso, pero, l’impianto pedagogico ha il dovere di diffondere pratiche educative in grado di porre al centro il soggetto, nonostante i pericoli provenienti dallo sviluppo sempre maggiore della strumentazione tecnologica che, in alcuni casi, rischia di spodestare l’uomo da quella centralità sociale che ha ricoperto fino ad oggi.

La tecnica, con la strumentazione tecnologica che da essa si diffonde, non solo rappresenta, infatti, un mezzo tramite cui accrescere lo sviluppo sociale, ampliando quelle prospettive di benessere individuale che derivano dalla propagazione di strumenti che sostengono il singolo nella sua quotidianità ma, al contempo, può divenire anche una forma di dominio per l’uomo, il quale può essere influenzato nel suo modo di agire e pensare.

In tale ottica, allora, di fronte sia all’insorgenza di quel post-human che rischia di annullare l’identità stessa del singolo, per essere sostituita con la macchina da lui creata, sia agli effetti psicologici negativi che la strumentazione tecnologica può sviluppare soprattutto nei confronti dei più giovani, occorre ripensare la tecnica sia da un punto di vista teorico che pratico.

Come sottolinea Franco Cambi,

nella teoria tale quesito pone il problema di come pensare la tecnica e di come fare per continuare a pensarla, tenendo fermo un modello di pensiero che possa stare (e stia) dentro e oltre la tecnica, dove quell’oltre significa collocarsi su una frontiera dalla quale la tecnica possa essere giudicata. […] Nella pratica si tratta, invece, di dar corpo a strategie (cognitive, sociali anche, formative soprattutto) e a portatori di strategie che sappiano interrogarsi sulla tecnica, su dove essa ci porta, su come essa ci trasforma e dare risposte «fattive» da poter far agire nella società stessa (Cambi, 2002, p. 9).

Qui la pedagogia assume un ruolo cardine, non solo perché pone al centro del suo statuto epistemico l’essere umano, mutevole, complesso e unico, da considerare sempre in relazione al contesto sociale in cui vive e all’esperienze che compie quotidianamente, ma anche perché, verso quest’ultimo, ha il dovere di sviluppare teorie-prassi educative e formative che promuovano strumenti per abitare la contemporaneità, stando dentro e oltre la tecnica.

Quale formazione, allora, promuovere per l’individuo che abita la Post-Modernità e quali anticorpi sviluppare?

Pensare e ri-pensare costantemente pratiche educative volte allo sviluppo di consapevolezza e responsabilità, soprattutto giovanile, di fronte al proprio utilizzo della tecnologia, significa tenere sempre presente la formazione umana dell’uomo, la quale diviene, oggi più che mai, necessita ed emergenza, proprio perché rischia di essere spodestata da quei saperi tecnici e parcellizzati che distolgono l’attenzione dal soggetto, dalle sue capacita e dalle sue potenzialità. E in particolare la Bildung diviene necessità e paradigma formativo centrale, giacché tenta di dare-forma a quel soggetto la cui identità rischia di essere messa sempre più in discussione dall’apparato tecnologico e dalla complessità della società attuale.

La formazione, dunque, dovrebbe porre quest’ultimo nella condizione di considerare le opportunità ed i rischi a cui conduce la tecnica, al fine di renderlo un soggetto libero, in grado di dominare egli stesso la tecnica senza divenirne schiavo (Gennari, 2002).

Se i mass media sono diventati «dei veri e propri educatori, informali, anche occulti, ma educatori di primo piano» (Cambi, 2003, pp. 367-368), data la loro centralità e sempre maggiore diffusione, allora la pedagogia non può rimanere inerte di fronte a tale emergenza, ma ha il dovere di agire per tutelare l’essere umano e il suo sviluppo. Ripensare l’educazione oggi, allora, significa porre nuovamente al centro di ogni agenzia educativa quel paradigma che muove, in primis, il processo educativo e che si concretizza nella pratica della cura: aver cura dei più giovani significa, oggi più che mai, offrire loro tutele e strumenti per non cadere nella trappola e nel dominio del mondo digitale, ma rapportarsi con essi in maniera critica e riflessiva. Una sfida educativa, questa, aperta e in fieri, ma sicuramente necessaria ed estremamente attuale.

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1 Università degli Studi di Firenze.

2 Università degli Studi di Firenze.

Vol. 1, Issue 2, October 2024

 

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