Vol. 1, n. 1, luglio 2024
Dallo stato alfabetico all’incorporazione
La funzione educativa della letteratura
Enrico Orsenigo1
Sommario
È recente il consolidamento della traiettoria di ricerca che ha fornito le prime basi teoriche per spiegare il coinvolgimento del corpo, attraverso la simulazione incarnata, durante le esperienze artistiche (Gallese e Guerra, 2015; Cometa, 2017; Brooks, 2023). Si tratta, anche per la letteratura, di un salto notevole rispetto al tempo in cui veniva identificata come mero passatempo.
Attraverso questo contributo ci si chiede: fino a che punto le esperienze descritte dalla letteratura, fruite dal lettore attraverso il continuo centellinare pagine, possono essere considerate esperienze vive? Secondo alcuni autori, primi fra tutti Italo Calvino e Gilbert Simondon, si tratta di «un sistema di moltiplicazione dei possibili» capace di esorcizzare la tragicità dell’unicità (Calvino, 1980).
Prendendo in considerazione il processo che conduce dallo stato alfabetico allo stato immaginale, alla sua nascita, l’immagine è un fascio di tendenze motorie, anticipazione a lungo termine dell’esperienza dell’oggetto; durante l’interazione tra l’organismo e l’ambiente, l’immagine si configura come sistema di ricezione dei segnali e altresì offre al soggetto la possibilità di continuare a esercitare le proprie attività sensomotorie in maniera progressiva, indipendentemente dallo stato di moto o di quiete del corpo (Simondon, 1965/2023).
Il testo alfabetico, tradotto in immagine, viene incorporato, diventa altro, transfuga nel fisiologico.
Parole chiave
Letteratura; simulazione incarnata; incorporazione; peso; immaginazione.
From alphabetic state to embodiment
The educational function of literature
Enrico Orsenigo2
Abstract
The recent consolidation of the research trajectory that has laid the initial theoretical foundations to explain the involvement of the body, through embodied simulation, during artistic experiences is a notable development (Gallese e Guerra, 2015; Cometa, 2017; Brooks, 2023). This represents, also for literature, a significant leap from the time it was regarded merely as a pastime. Through this contribution, the question arises: to what extent can the experiences described in literature, consumed by the reader through the continual sipping of pages, be considered as lived experiences? According to some authors, foremost among them Italo Calvino and Gilbert Simondon, it constitutes «a system of multiplication of the possible», capable of exorcising the tragedy of uniqueness (Calvino, 1980).
In considering the process that leads from the alphabetic state to the imaginal state, at its inception, the image is a bundle of motor tendencies, a long-term anticipation of the object’s experience; during the interaction between the organism and the environment, the image is configured as a system of signal reception and also offers the subject the opportunity to continue exercising their sensorimotor activities progressively, irrespective of the body’s state of motion or rest (Simondon, 1965/2023).
The alphabetic text, translated into image, becomes incorporated, transforms into something else, defects into the physiological realm.
Keywords
Literature; embodiment simulation; embodiment; gravity; imagination.
Introduzione
Ci si chiede: fino a che punto l’esperienza dell’esistenza delineata dalla letteratura, fruita dal lettore attraverso il continuo centellinare pagine, può essere considerata una esperienza viva e presente?
Secondo alcuni autori, primi fra tutti Italo Calvino e Gilbert Simondon, si tratta di «un sistema di moltiplicazione dei possibili» capace di «esorcizzare la tragicità dell’unicità» (Calvino, 1980, p. 44) e, prendendo in considerazione il processo che conduce dallo stato alfabetico allo stato immaginale, «alla sua nascita, l’immagine è un fascio di tendenze motorie, anticipazione a lungo termine dell’esperienza dell’oggetto; nel corso dell’interazione tra l’organismo e l’ambiente, essa diviene sistema di ricezione dei segnali incidenti e permette all’attività sensomotoria di esercitarsi in modo progressivo» (Simondon, 2008, p. 9). Il testo alfabetico, tradotto in immagine, viene incorporato, diventa altro, transfuga nel fisiologico.
La letteratura, in quanto simulazione di esperienze, è la custode della connessione organica fra le nostre facoltà. Questa è la posizione di alcuni autori contemporanei, come Mario Barenghi. Più specificatamente, in quanto depositaria dell’unità organica delle differenti facoltà umane, la letteratura può rappresentare una sorta di funzione di regolazione delle scienze umane: «può rappresentare, cioè, qualcosa di simile a un diapason. Non tanto nel senso della frequenza di 440 Hz del La (il La3) prodotto dall’omonimo strumento acustico (la sbarretta di acciaio con due lunghi rebbi paralleli, sulla cui vibrazione si regolano le accordature), quanto nell’accezione di estensione dei suoni» (Barenghi, 2018, p. 5); e ancora: «la letteratura è […] insostituibile in quanto presidio della possibilità di integrare nello scibile la singolarità vissuta» (Barenghi, 2018, p. 5).
È recente la traiettoria di ricerca che fornisce le basi teoriche neuropsicologiche per spiegare il coinvolgimento del corpo durante esperienze che non si danno nella tridimensionalità della realtà fattuale, come ad esempio le esperienze artistiche. Si tratta, in questo senso, di un salto notevole rispetto al modo in cui durante i decenni precedenti venivano lette le dinamiche che coinvolgevano il lettore. La letteratura, oggi, non viene più considerata come territorio indispensabile per l’umano proprio grazie alla sua in-utilità (passatempo), di più: le storie, a partire da quelle che ci venivano raccontate da bambini, provengono da altri che a lora volta le hanno apprese da altri. Spesso, insieme alle storie, si ascoltano commenti relativi alle stesse: anch’essi diventano un bagaglio che si lega alle medesime storie, il cui destino è l’incorporazione. Raccontare storie è una forma di Pedagogia Naturale (Csibra e Gergely, 2009).
Michael Austin, afferma che ci sono elevate probabilità che
una volta che si è evoluta la capacità di produrre forme semplici di narrazione, le storie sono diventate strumenti utili per trasferire conoscenza, costruire comunità, attrarre i partner e tutto il resto. Strumenti — sia materiali che cognitivi — che sono eminentemente utili e hanno un enorme valore per la sopravvivenza senza essere adattamenti specifici (2010, p. 15).
Letteratura, ma ancor prima narrazione, dunque, come risultato di un complesso puzzle evolutivo, che non può essere ricondotto a uno specifico momento di origine, piuttosto, come prodotti di una fitta rete di fattori adattivi, esattativi, riciclo di elementi per altri fini e un filtro culturale che ne ha determinato le differenze d’espressività. In questo senso, Tzevatan Todorov non ha dubbi nell’affermare che è necessario trasmettere alle generazioni future l’importanza di questa tendenza narrativa, individuale e collettiva, che ha segnato la vita della nostra specie sin dall’alba del tempo (2007, p. 32); una tendenza in cui tutti partecipano, influenzandone i materiali e le interpretazioni, in definitiva gli habitus.
In questo senso, si può cominciare ad approfondire il tema della funzione educativa della letteratura, di questa come esperienza viva e trasfigurativa, muovendo dalla prima delle Lezioni americane (1988) di Italo Calvino.
Sono ormai diversi gli autori che in questi quarant’anni hanno cominciato a intendere le Lezioni americane come un vero e proprio sistema di conoscenza (Belpoliti, 1996; 2023; Albarea 2006; Rossi e Orsenigo, 2022). Infatti, in termini educativi, esse hanno la capacità di trasmettere un certo modo di guardare il mondo, e più specificatamente agli eventi ordinari del quotidiano. Si tratta di una sorta di meccanismo ottico, per dirla con Marcel Proust, dove l’autore mette a disposizione una certa postura intellettuale e la offre agli individui e alle scienze, dure o meno dure, che sono in grado di raccoglierla e di farla interagire con i modelli e i precetti già acquisiti.
Le Lezioni di Calvino, sebbene primariamente concentrate sulla letteratura e i principi narrativi, possono essere collegate a una nuova e diversa percezione del corpo attraverso i concetti e le idee che esplorano, riguardanti leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, e molteplicità. Questi principi, anche se applicati alla scrittura, possono influenzare il modo in cui percepiamo e pensiamo al corpo in termini culturali, estetici e filosofici.
Educare al pensiero di entità sottilissime
La prima lezione, leggerezza, parla di entità sottilissime e della necessità di coltivare una sorta di leggerezza della pensosità. Non solo, perché seguendo la traccia sviluppata da Simondon in merito all’immagine come fascio di tendenze motorie, si può altresì immaginare il percorso inverso: la letteratura, che allo stato iniziale si trova alfabetica, grazie allo spazio mentale può essere tradotta in immagine e in seguito venire incorporata divenendo atteggiamento, stile, postura: tension without intention (Albarea, 2017).
Tornando alla leggerezza, così Calvino:
Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro…
Nell’universo infinito della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo… ma se la letteratura non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta… (Calvino, 1988, pp. 11-12).
Calvino studia le scienze anche (e forse soprattutto) per ottenere delle immagini-guida, per incrementare quantitativamente e qualitativamente i campi semantici e semiotici del suo pensare per entità sottilissime — come posso immaginare le parole «processo», «esistenza», «vuoto», «stato»? E quali implicazioni ha tutto questo nel corpo, nel suo orientarsi e adattarsi allo spazio? Si tratta di questo tipo di allenamento o, meglio, di movimento.
Una leggerezza della pensosità, dunque, in opposizione alla leggerezza della frivolezza. Un primo paradosso, perché qui la leggerezza della frivolezza viene accostata alla pesantezza, esattamente al contrario di quanto si dà nel senso comune. Per Calvino, infatti, il progetto è quello di giungere al nuovo millennio dotati di una mente capace di pensare, immaginare, rendere sempre più nitide le entità sottilissime come afflati e stati. Tornando ancora un attimo al senso comune, che vede e accosta alla pesantezza il filosofo e in generale colui che dedica molto tempo al ragionare, Calvino inversamente risponde:
Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite (1988, pp. 15-16).
Attraverso i secoli si incontrano due grandi stili di utilizzo del linguaggio nella letteratura: il primo che fa del linguaggio un elemento senza peso, come se concedesse all’essere umano la capacità (il dono) di permanere sopra le cose, sondarle continuamente dall’alto o, meglio ancora, come invita l’autore a fare, immaginare questo primo utilizzo come un campo d’impulsi magnetici. Il secondo stile, invece, intende comunicare attraverso il linguaggio il peso e la concretezza delle cose. Queste due vie vengono esplorate nella prima lezione americana, prendendo come riferimenti i due autori che hanno segnato l’innesco di entrambi gli stili: Guido Cavalcanti e Dante Alighieri.
I due autori, non raramente, hanno scritto sopra gli stessi motivi e concetti; tuttavia, adoperavano il linguaggio per manifestare le cose del mondo, le impressioni, i soggetti, evocando sensazioni diverse, come se si ponessero a livelli differenti. Nel caso di Dante il mondo è organizzato in un sistema, in un ordine, fornendo solidità corporea anche a entità sottilissime, mentre Cavalcanti «dissolve la concretezza dell’esperienza tangibile in versi dal ritmo scandito, sillabato, come se il pensiero si staccasse dall’oscurità in rapide scariche elettriche» (Calvino, 1988, p. 19).
Una doppia possibilità di identificazione e di risonanza, una offerta di metafore e immagini precise per imparare a descrivere e a descriversi sempre meglio. In effetti, l’educazione ha come fine la coscienza e il dominio di sé, e in questo senso la letteratura svolge un ruolo davvero centrale nel portare a realtà la catena di azioni per lo sviluppo integrale del soggetto-persona.
Mi sono servito di Cavalcanti per esemplificare la leggerezza in almeno tre accezioni diverse: 1) Un alleggerimento del linguaggio per cui i significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso, fino ad assumere la stessa rarefatta consistenza. 2) La narrazione d’un ragionamento o d’un processo psicologico in cui agiscono elementi sottili e impercettibili, o qualunque descrizione che comporti un alto grado d’astrazione. 3) Una immagine figurale di leggerezza che assuma un valore emblematico, come, nella novella di Boccaccio, Cavalcanti che volteggia con le sue smilze gambe sopra la pietra tombale (Calvino, 1988, pp. 19-21).
Tale alleggerimento del linguaggio non è come spesso è stato inteso una riduzione del campo semantico e semiotico dei concetti per riuscire ad essere più efficaci nella comunicazione, più rapidi e incisivi. Non è questa la direzione di Calvino. Quando egli parla di alleggerimento ha in mente la fatica necessaria per riuscire a educare la mente nella direzione di un pensiero capace di pensare entità che nel quotidiano sono spesso ritenute come impensabili, o troppo difficili da comunicare. Una sorta di estensione del proprio set riflessivo, la quale consente al soggetto di avere più registri (iconico, simbolico, etc.) per l’immaginazione delle entità sottilissime discusse più sopra. Gli esercizi in questa direzione consistono nel prendere confidenza con riflessioni e immagini di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, di ciò che può essere e non è e di ciò che potrà essere. Esercizi rivolti al futuro, altresì rivolti alla costruzione fittizia, immaginale, di condizioni che non si danno ma che si potrebbero dare e anche di condizioni che non si potranno mai dare (mondi possibili e mondi impossibili). In questo senso, di forte ispirazione e utilità al nostro discorso sono le riflessioni, qui di seguito, di Cyrano de Bergerac:
Vi meravigliate come questa materia mescolata alla rinfusa, in balia del caso, può aver costituito un uomo, visto che c’erano tante cose necessarie alla costruzione del suo essere, ma non sapete che cento milioni di volte questa materia, mentre era sul punto di produrre un uomo, si è fermata a formare ora una pietra, ora del piombo, ora del corallo, ora un fiore, ora una cometa, per le troppe o troppo poche figure che occorrevano o non occorrevano per progettare un uomo. Come non fa meraviglia che tra un’infinita quantità di materia che cambia e si muove incessantemente, sia capitato di fare i pochi animali, vegetali, minerali che vediamo, così come non fa meraviglia che su cento colpi di dadi esca una pariglia. È pertanto impossibile che da questo lieve movimento non si faccia qualcosa, e questa cosa sarà sempre fonte di stupore per uno sventato che non pensa quanto poco è mancato perché non fosse fatta (2002, pp. 71-72).
Per Calvino chiamare in causa de Bergerac è fondamentale perché egli, con le sue riflessioni, ha anticipato Isaac Newton nel sentire il problema della gravitazione universale. Certo, i due affrontano la questione a partire da posizioni estremamente differenti, ma de Bergerac sente forte il desiderio di librarsi, e stimola la propria fantasia nella direzione di progetti operativi (fantastici) per salire sulla luna: un esempio tra tutti la decisione di ungersi di midollo di bue perché nella tradizione contadina la luna calante avrebbe succhiato il midollo degli animali.
In chiusura della prima lezione Calvino osserva: «resta ancora un filo, quello che avevo cominciato a svolgere all’inizio: la letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere» (1988, p. 30). Pensare alla leggerezza nei termini di una simile reattività è possibile soprattutto se si osserva il tipo di dispositivo antropologico portato in campo dalla tradizione fiabesca, il «nesso tra levitazione desiderata e privazione sofferta» sembra, agli occhi di Calvino, una costante antropologica e non solo del mondo europeo. Gli esempi maggiormente esemplificativi si ritrovano nella levitazione interiore dello sciamano per sfuggire agli influssi maligni e ai cataclismi naturali e per riuscire a intercettare entità di altre dimensioni capaci di fornire direzione, traiettorie di senso; fino al Novecento, streghe in volo di notte su manici delle scope, apparizioni femminili alle finestre (o all’interno delle camere, fonte di disturbo notturno) che si dissolvevano in un men che meno, come risposta alla condizione della donna che viveva ai margini di molte società una vita eccessivamente costretta; e ancora tappeti volanti senza restrizioni di circolazione, come reazione ancora una volta a costrizioni, confini rigidamente segnati, tentativi di evasione e superamento di tabù relativi all’affettività. In questo senso, la letteratura perpetua l’altrimenti, una leggerezza della pensosità che costituisce l’intorno di un mondo possibile. In sintesi, «penso che la razionalità più profonda implicita in ogni operazione letteraria vada cercata nelle necessità antropologiche a cui essa corrisponde» (Calvino, 1988, p. 31).
E ancora, in merito allo scenario tecnologico attuale, quale funzione della letteratura, secondo Calvino, nell’epoca odierna segnata da media velocissimi costituiti da estesissimi raggi comunicativi, dai contenuti che seppur enormemente diversificati, tuttavia protesi a una certa uniformità e omogeneità? Per i tempi congestionati del futuro (ma già per il tempo attuale, si potrebbe aggiungere), tra le righe delle lezioni emerge con forza la funzione della letteratura: comunicazione di ciò che è diverso in quanto è diverso, esaltazione della differenza e del dubbio, attività e non passività del lettore tra le trame dei racconti, tensione corporea come presenza che si identifica nelle peripezie dei personaggi. A questo proposito, si ricordano le reazioni tragiche, individuate sotto il termine di Sindrome del Giovane Werther, e che hanno coinvolto migliaia di giovani appassionati del classico di Johann Wolfgang von Goethe (1774/1983); ma anche l’impatto del Tonio Kröger (1903/2000) di Thomas Mann, il cui personaggio con rigore e passione coinvolge il lettore attraverso finissime descrizioni di sentimenti quali la gentilezza, l’angoscia, la timidezza, il senso di colpa, l’inadeguatezza; infine, la capacità di un’opera come La Nausea (1938/2014) di Jean-Paul Sartre nel definire le più sottili sensazioni del soggetto che si ritrova a vivere sintomi come derealizzazione e depersonalizzazione.
Tutto questo, nell’epoca attuale, epoca di media velocissimi, rifatticizza il quotidiano, attraverso la ricchezza dei modus vivendi e operandi il cui corpo umano, mediante i sensi, schiude. In questo senso, ci si può chiedere: in che modo il corpo, inteso comune unità bio-psico-sociale e spirituale, infonde significati alla letteratura e viceversa? Come converte informazioni, stati, adattamenti, equilibrazioni in un motore narrativo? Secondo Calvino, ad essere implicati sono due tipi di conoscenza.
Due diversi tipi di conoscenza
La prima, una conoscenza che si muove nello spazio mentale della razionalità scorporata, che opera per congiunzione di punti, forme astratte, vettori di forze; la seconda, una conoscenza che si muove in uno spazio gremito d’oggetti, che cerca di creare un equivalente verbale di quello spazio, ed utilizza la pagina scritta come zona di interazione tra dicibile e non dicibile. Si potrebbe aggiungere che la prima equivale a una zona che ha il suo innesco nell’invisibile, che ha come motore l’immaginazione e che per l’appunto non trova appiglio iniziale nella realtà fattuale; mentre la seconda muove dall’esatto opposto, e cioè dal visibile e dalla realtà fattuale che viene tradotta in uno stile espressivo (la scrittura, la pittura, ecc.).
Due pulsioni verso l’esattezza che evidentemente non possono raggiungere una soddisfazione totale, perché da un lato il linguaggio non riesce per intero a raccogliere la sfida di traduzione in scrittura delle forme astratte e dei vettori di forze che si ritrovano in uno stato iniziale di disordine nella zona mentale; nel secondo caso, sempre il linguaggio, è ridotto e mancante in merito alla possibilità di saturare descrittivamente il sistema di oggetti che costituisce la realtà fattuale che resiste al corpo. Tuttavia, per Calvino, si tratta di una questione di sopravvivenza, che continuerà ad essere perseguita per una necessità biologica, ossia la direzione, le traiettorie di senso, la formulazione di un progetto possibile e di un futuro credibile. Si tratta di una operazione che viene insegnata ai bambini sin dalla tenera età e che vede in Francis Ponge uno tra gli autori principali che ha contribuito a un genere unico nella letteratura contemporanea; il quaderno di esercizi, riempito da descrizioni di singoli oggetti o esseri viventi («descrivi una giraffa») è a tutti gli effetti una esercitazione «a disporre le parole sull’estensione degli aspetti del mondo» (Calvino, 1988, p. 75). Una battaglia ingaggiata con il linguaggio fino alla trasformazione in linguaggio aderente, approssimativamente, alle cose; tale trasformazione ritorna al soggetto carica di tutto l’investimento umano depositato virtualmente nella cosa o esser vivente descritto. In questo senso Calvino definisce Francis Ponge il creatore di un nuovo De rerum natura, e crede che «possiamo riconoscere in lui il Lucrezio del nostro tempo, che ricostruisce la fisicità del mondo attraverso l’impalpabile pulviscolo delle parole» (1988, p. 75).
La letteratura, e più generalmente la scrittura, in quanto potenziale spazio di simulazione di esperienze, non racconta solo avvenimenti realmente accaduti. Questo è un punto centrale per comprendere la potenzialità della dinamica di transfugazione dello stato alfabetico in stato immaginale:
Bisogna capire che cos’è il romanzo. Uno storico racconta avvenimenti realmente accaduti. Il delitto di Raskol’nikov, invece, non ha mai avuto luogo. Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace. I romanzieri disegnano la carta dell’esistenza scoprendo questa o quella possibilità umana. Ma, ancora una volta, esistere vuol dire: «essere-nel-mondo». È necessario dunque intendere tanto il personaggio quanto il suo mondo come possibilità. In Kafka, tutto questo è evidente: il mondo kafkiano non assomiglia a alccuna realtà nota, esso è una possibilità estrema e non realizzata del mondo umano. Vero è che questa possibilità traspare dietro al nostro mondo reale e sembra prefigurare il nostro avvenire. Ecco perché si parla della dimensione profetica di Kafka. Ma anche se non avessero niente di profetico, i suoi romanzi non perderebbero il loro valore, perché colgono una possibilità dell’esistenza (possibilità dell’uomo e del suo mondo) e ci fanno così vedere che cosa siamo, di che cosa siamo capaci (Kundera, 1988, pp. 68-69).
Che cosa è una vita, che cosa è la vita, che cosa è un corpo, che cosa è il corpo: la letteratura affronta le domande di senso funzionando come un prisma ottico. Essa amplifica le visuali a partire da uno stimolo, da un dato: è mediante questo meccanismo che il lupo oltre ad essere la specie del genere Canis, è anche il cattivo di Cappuccetto Rosso. Questo, significa, necessariamente, sollevare il livello di ambiguità nella percezione dei fenomeni del mondo, ossia avvicinarsi al mondo per come può essere inteso con gli strumenti indicati da Miguel De Cervantes più che dai precetti sviluppati a partire da Descartes. Intendere, come fa Descartes, l’io pensante come il fondamento di tutto, essere dunque soli di fronte all’universo, è un atteggiamento che Hegel, giudicò eroico. Intendere, come fa Cervantes, il mondo come ambiguità, dover affrontare, invece che una sola verità assoluta, una quantità di verità relative che si contraddicono (verità incarnate in una serie di io immaginari chiamati personaggi), possedere dunque come sola certezza la saggezza dell’incertezza, richiede una forza altrettanto grande.
Certo, il mondo basato su una sola Verità e il mondo ambiguo e relativo del romanzo sono fatti di due materie diversissime l’una dall’altra. La Verità totalitaria esclude la relatività, il dubbio, l’interrogativo, tuttavia il mondo ambiguo del romanzo può infondere una molteplicità di stati, processi, iniziative, propulsioni per nuovi adattamenti del corpo al mondo in cui è gettato, verso nuove progettazioni. Così Peter Brooks nella Prefazione al suo Sedotti dalle storie:
Le nostre vite sono incessantemente intrecciate alle narrazioni, alle storie che raccontiamo o che ci vengono raccontate, a quelle che sogniamo o immaginiamo o vorremmo poter narrare; e tutte vengono rielaborate nella storia della nostra vita, che noi raccontiamo a noi stessi in un lungo monologo -episodico, spesso inconsapevole, ma virtualmente ininterrotto. Noi viviamo immersi nelle narrazioni, ripensando e soppesando il senso delle nostre azioni passate, anticipando i risultati di quelle progettate per il futuro, e collocandoci nel punto d’intersezione di varie vicende non ancora completate (2023, p. 9).
E, rilevazione ancora più chiara, capace di stendere un raccordo tra storie e corpi, tra tessuto narrativo di un popolo e singolarità di ogni persona: «innumerevoli sono i racconti del mondo […] non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti» continua Roland Barthes nell’introduzione a L’analisi del racconto, «internazionale, trans-storico, transculturale, il racconto è là come la vita» (1969, p. 101). Un saggio che venne accolto come gesto inaugurale di nuovi ponti tra letteratura e scienze umane, tra narratologia e sviluppo integrale della persona.
Il corpo vegetale del personaggio
La relazione tra personaggio fittizio che vive una serie di peripezie all’interno di una storia letteraria e la memoria del lettore, soggetto in carne e ossa, è una relazione più stretta di quanto non si è soliti immaginarla. In un testo chiamato La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia (2006), Umberto Eco utilizzava questo termine per indicare il fatto che l’insieme delle biblioteche del mondo costituisce la memoria collettiva degli esseri umani, e tale memoria si trova ancora oggi perlopiù in uno stato alfabetico trattenuto in un supporto di tipo vegetale: ieri il papiro e gli stracci di lino, oggi la carta. Certo, questa memoria oggi viene progressivamente convertita in memoria artificiale, a basa di silicio, quella che quotidianamente viene identificata come memoria esterna — hardisk, usb, cloud. Tornando alla relazione di personaggi fittizi quali Don Chisciotte, Madame Bovary, Sherlock Holmes, essi sono destinati a transfugare da uno stato vegetale (la carta) a uno stato organico (la memoria in carne e ossa, del lettore).
A questo punto può essere utile chiedersi: perché investiamo così tanto tempo e così tanta energia emotiva nelle relazioni con esseri immaginari? Perché le aspirazioni, i tumulti interiori e i desideri erotici di Emma Bovary sono così importanti per noi?
Una risposta, evidentemente parziale, può essere ricercata ne La Recherche di Marcel Proust. C’è un momento in cui il giovane Marcel sta leggendo un romanzo in giardino, nel gazebo, e il suo stato di immersione nel romanzo viene descritto come la creazione di una sorta di schermo luminoso e diafano tra lui, in quanto lettore, e il mondo esterno, che viene cancellato e sussunto nel mondo di fantasia che diventa più vero di quello reale. L’invenzione del personaggio fittizio, dice Proust, ci permette di sperimentare la vita con altri occhi. Questo ci porterà, centinaia di pagine dopo, a un volo di fantasia: «L’unico vero viaggio, il solo bagno di Giovinezza, non consisterebbe nell’andare verso nuovi paesaggi, ma nell’avere altri occhi, nel vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, nel vedere i cento universi che ciascuno di essi vede, che ciascuno di essi è; e questo è possibile con un Elstir, con un Vinteuil, con i quali — e con il loro pari — noi voliamo veramente di stella in stella» (Proust, 1978, p. 357).
Nel corso del romanzo di Proust, la creazione del pittore immaginario Elstir e del compositore immaginario Vinteuil rappresentano esattamente la presenza di altri occhi sul mondo, una simulazione di ciò che significherebbe trovarsi nel corpo di un altro essere. Un richiamo alla forza trasfigurativa della leggerezza della pensosità, ma anche alla seconda lezione sulla rapidità nella quale Calvino elogia la rapidità mentale, la disinvoltura, la capacità di identificarsi nell’altro e di ritornare ulteriormente individuato.
È vero, avvisa Proust, i personaggi fittizi non sono paragonabili alle persone in carne e ossa; tuttavia, è indispensabile notare che
tutti i sentimenti che la gioia o la sventura di un personaggio reale ci fanno provare non si producono in noi che per il tramite di un’immagine di tale gioia o di tale sventura; il colpo di genio del primo romanziere fu proprio quello di comprendere che nel meccanismo delle nostre emozioni l’immagine è l’unico elemento essenziale, e che la semplificazione consistente nella pura e semplice soppressione dei personaggi reali avrebbe dunque costituito un perfezionamento decisivo […]. Che importa allora se le azioni, le emozioni di questi individui d’un genere nuovo ci appaiono come vere, dal momento che le abbiamo fatte nostre, dal momento che è in noi che esse si producono e che è da loro che dipendono, mentre voltiamo febbrilmente le pagine del libro, la rapidità del nostro respiro e l’intensità del nostro sguardo? (Proust, 1978, pp. 282 283).
Il rapporto del lettore con i personaggi di fantasia non si limita ad essere una questione di identificazione, quanto piuttosto quella che Proust chiama metempsicosi: la reincarnazione nel corpo, che ci è estraneo, di un altro. Si tratta di una metempsicosi voluta, qualcosa che si va a cercare attraverso una motivazione intrinseca che invita verso una storia. Proust si spingerà più oltre, rileva Peter Brooks (2023), fino a intendere i personaggi come fedeli compagni che trasmettono una conoscenza della vita e di noi stessi che le persone reali non riescono a fornire. Perché? Perché nella vita quotidiana, ciò che Proust chiama abitudine, immerge in una pigra cecità: «solo il romanzo non quanto strumento ottico ci restituisce la visione» (Brooks, 2023, p. 76).
Note conclusive: letteratura come strumento di orientamento
L’affermazione che la letteratura, e più generalmente le narrazioni, giochi un ruolo nel nostro adattamento alla realtà sembra abbastanza vera. Come scrive il darwinista Joseph Carroll: «La letteratura e le altri arti sono strumenti di orientamento, come le bussole, i sestanti e i sonar, e sono vitali per lo sviluppo personale, per l’integrazione delle identità individuali all’interno di un ordine culturale e per l’adattamento immaginativo dell’individuo all’intero mondo più ampio in cui vive» (2019, p. 31).
Le costruzioni narrative trasmettono le lezioni apprese dal passato, i modi di pensare talora indispensabili per imparare a leggere i fenomeni del presente, sviluppando proiezioni per il futuro prossimo. Questo gioco anticipatorio può rendere i soggetti più attenti ai dintorni, sia ai pericoli sia alle possibilità. In questo senso, la letteratura, è a tutti gli effetti anche uno strumento cognitivo per l’orientamento esistenziale. In questo senso, le arti, in primis la letteratura, possono essere identificate come «tavoli di lavoro» nei quali fare pratica di sé, dei propri ruoli sociali, dei differenti modi interpersonali della specie umana. Considerato il reticolo della complessità che caratterizza le società occidentali attuali, le storie consentono da un lato di mettere ordine proponendo delle traiettorie di senso (forza centripeta della narrazione) e dall’altro lato offrono delle occasioni per coltivare il pensiero divergente, ritrovando nuovi slanci verso l’inedito (forza centrifuga della narrazione).
La capacità degli esseri umani di progettare e impegnarsi nella relazione con creature fittizie si presenta sin dalla più tenera età. Non si tratta di una appendice alle conoscenze di base; come sosteneva Jerome S. Bruner (1993), i bambini non imparano come gli scienziati, piuttosto imparano attraverso lo scambio di storie, vere e non vere. Questo è un atteggiamento che rimane valido anche nelle fasi successive della vita: già Hilary Putnam affermava che nove decimi delle informazioni scientifiche e narrative che un soggetto possiede le ha ricevute da terzi, attraverso una sorta di meccanismo/patto implicito di distribuzione socio-culturale (1987).
Infine, ciò che caratterizza il discorso narrativo, secondo la prospettiva bruneriana, è che esso rappresenta una modulazione particolare della realtà, da lui definita «coniugazione al congiuntivo»; qui il termine congiuntivo indica che «abbiamo a che fare con delle possibilità umane, anziché con stabili certezze» (1993, p. 34). In questo senso egli può affermare che un atto linguistico narrativo, sia esso concluso o in corso, produce un mondo al congiuntivo, un mondo, cioè, che si distingue da quello indicativo, situato, e che grazie al corpo e ai sensi viene recepito. Un mondo ulteriore, che, se a un primo momento può essere sentito come estraneo e distante, diverso da quello indicativo, tuttavia è destinato a incontrarsi (e talvolta a scontrarsi) con quest’ultimo, offrendo al soggetto la possibilità dell’inedito: una propulsione all’avvenire.
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Vol. 1, Issue 1, July 2024