Test Book

Riflessioni e teorie / Thoughts, theories, analysis

Il Mediterraneo come spazio di frizione: le pratiche di accoglienza dal «lavoro d’aiuto» al «lavoro sociale»
The Mediterranean as a space of friction: reception practices from «helping work» to «social work»

Emiliana Mangone

Professoressa associate di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università degli Studi di Salerno


Autore per la corrispondenza

Emiliana Mangone
Indirizzo e-mail: emangone@unisa.it
Università degli Studi di Salerno, Via Giovanni Paolo II, 132, 84084, Fisciano (SA)



Sommario

Le società mediterranee, da qualche decennio, conoscono profonde trasformazioni dovute ai nuovi conflitti socio-politici e ai processi di mobilità legati alle migrazioni delle popolazioni. Le migrazioni sono un ambito di intervento operativo per il quale è necessario possedere un quadro di riferimento chiaro che consenta di calibrare le politiche e le azioni in maniera adeguata, cercando altresì di interpretare le tendenze future. In questo scenario, l’inserimento degli immigrati è frutto di processi a due vie, in cui contano in modo significativo le rappresentazioni sociali dei migranti (di prima e dopo l’arrivo) e le risorse immateriali (conoscitive e relazionali) esperite da questi. Ciò spinge a pensare che le perturbazioni della vita quotidiana a seguito di una mobilità forzata (migrazione) permettono di aprire una riflessione anche sul ruolo degli operatori e gli effetti che i loro interventi fanno registrare sulle popolazioni che ricevono aiuto, come pure sugli stessi operatori che si prodigano in un «lavoro sociale».

Parole chiave

Migrazioni, lavoro sociale, accoglienza.


Abstract

Mediterranean societies have for some decades been witnessing profound changes due to new socio-political conflicts and mobility processes related to migration of populations. Migration is an area of operational commitment and this means that a clear framework of reference is needed that will enable policies and interventions to be calibrated in an appropriate way, and will also attempt to interpret future trends. In this scenario, the integration of immigrants is the result of two-way processes: the migrants’ social representations of the host population and society (before and after arrival), as well as of the immaterial resources available, are paramount for their integration. This leads us to think that the disturbances of daily life as a result of forced mobility (migration) allow us to reflect on the role of operators and the effects their interventions have on the populations who receive help and also on the very same operators who are devoting themselves to «social work».

Keywords

Migration, social work, reception.


Il Mediterraneo come spazio di frizione

Il Mediterraneo non è solo geografia. I suoi confini non sono definiti né nello spazio né nel tempo. Non sappiamo come fare a determinarli e in che modo: sono irriducibili alla sovranità o alla storia, non sono né statali né nazionali. Somigliano al cerchio di gesso che continua a essere descritto e cancellato, che le onde e i venti, le imprese e le ispirazioni allargano o restringono. Lungo le coste di questo mare passava la via della seta, s’incrociavano le vie del sale e delle spezie, degli olii e dei profumi, dell’ambra e degli ornamenti, degli attrezzi e delle armi, della sapienza e della conoscenza, dell’arte e della scienza. Gli empori ellenici erano a un tempo mercati e ambasciate. Lungo le strade romane si diffondevano il potere e la civiltà. Dal territorio asiatico sono giunti i profeti e le religioni. Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa (Matvejević, 2013, p. 18).

L’idea espressa da Matvejević sembra essere stata dimenticata. Il mare Mediterraneo chiamato Mare nostrum dai Romani ha visto il fiorire di culture, arti, religioni, filosofie, e nonostante ciò «oggi non è più una “fucina” di dialogo, è divenuto un campo di battaglia, una battaglia che non si combatte con le armi ma con le “ideologie” e dove gli avversari si identificano in un Noi e un Loro» (Mangone, 2015a, p. 45). Questo mare non è un dato di fatto, ma un fluire continuo (Ruel, 1991). Esso è diventato «luogo di frizione», dove ciò si traduce in «luogo di chiusura» e non in «luogo di apertura» al dialogo – dialogo che potrebbe dare una risposta anche alla crisi dell’identità europea e alle spinte autonomiste europee (il processo di Brexit dall’Europa del Regno Unito e il referendum autonomista della regione della Catalogna in Spagna). Da luogo di «dialogo e libertà» è divenuto luogo di «chiusura e morte»: sì, perché oggi si contano in decine di migliaia i morti annegati o dispersi nel Mediterraneo che è stato così trasformato in un «cimitero a cielo aperto». Cassano si riferiva al Mare nostrum come al mare degli esseri umani (Cassano e Zolo, 2007) perché luogo di incontro dello e con lo straniero: oggi il Mediterraneo è un confine che delimita il bene dal male. Nell’immaginario dei migranti è sia «libertà» (il bene), sia «trappola mortale» (il male).

Il Mediterraneo, nonostante questa trasformazione sociale in negativo, potrebbe però ancora assumere una rilevanza fondamentale per la promozione del pluralismo e delle diversità culturali: questo mare potrebbe trasformarsi nel tavolo della pace fra l’Occidente e il mondo islamico e non essere solo il «confine» del versante Sud del continente europeo. L’Europa dovrà necessariamente rivedere il proprio rapporto con il Mediterraneo e lo dovrà fare insieme agli altri soggetti politici e culturali che si affacciano sulle sue rive, a cominciare dai popoli arabi (Hadhri e Mangone, 2016). Gettare le basi per la costruzione di una reale e fattiva identità multiculturale che passi per l’Europa – la parte dell’Occidente che si autodefinisce «culla della democrazia», a dispetto di quanto sostenuto da Sen (2004) – non può prescindere dalla promozione dell’incontro con l’Altro, consapevoli che solo il dialogo rende aperta la società alla ri-composizione delle differenze culturali nel rispetto delle peculiarità di ogni cultura. Il problema sociale dunque non è nella differenza in sé, che è ineliminabile, ma nel significato che si associa ad essa: tendenzialmente, il Noi si rafforza e si dispiega in senso positivo definendo negativamente l’Altro. Tale processo è particolarmente significativo quando gli individui si pongono già di per sé in «difesa del proprio mondo» (Mangone, 2015b). Se l’alterità è dunque una dimensione della realtà da cui non si può prescindere, poiché fondante da sempre i processi di identificazione e riconoscimento, è d’obbligo una riflessione sulla «differenza», la quale non è più solo luogo di conflitto e di recriminazioni, ma rappresenta una base su cui fondare una cultura della tolleranza e del rispetto alla luce dei flussi migratori che sembrano non arrestarsi nel bacino del Mediterraneo.

Le migrazioni, dunque, sono un ambito di intervento per cui è necessario possedere un quadro di riferimento chiaro che consenta di calibrare gli interventi in maniera adeguata, cercando altresì di interpretarne i trend futuri. Con riferimento a quest’ultima azione, estremamente delicata perché influisce sulle politiche per l’immigrazione, una scelta consiste nel prendere l’avvio da una lettura non etnocentrica dell’immigrazione, non solo a livello italiano ma anche con riferimento alle diverse aree territoriali e alle singole regioni. Si pensi, per esempio, ad avvenimenti storici come le «primavere arabe» che hanno modificato i flussi, i canali e anche i Paesi di emigrazione, ma si pensi anche a un aspetto poco studiato nell’ambito del fenomeno delle migrazioni, che però consente proprio di avere una «lettura oggettiva» dell’altro punto di vista: la rappresentazione sociale che l’immigrato si costruisce delle persone e delle società nella quale va a inserirsi. Se numerosi, infatti, sono i rapporti sulle migrazioni (IDOS e Confronti, 2016; Caritas e Migrantes, 2017; Fondazione ISMU, 2017), rare sono le ricerche che considerano il punto di vista dello straniero come un attore che, nell’ambito delle risorse e dei vincoli forniti loro dai contesti, si trova a fronteggiare da un lato il bisogno di mantenere un legame con la cultura della società di origine e, dall’altro, la necessità di aprirsi ai valori proposti dalla società di accoglienza (Ambrosini, 2017).

L’analisi del punto di vista dello straniero corrisponde all’esigenza di aderire a un cambiamento paradigmatico che va affermandosi tra i ricercatori circa i modi di concepire i processi di accoglienza, inclusione e di integrazione, non più visti in maniera unilaterale, secondo l’ottica dell’accogliere senza includere e integrare, ma, al contrario, valorizzando il punto di vista di chi è spesso in condizioni di vulnerabilità e che, in ragione dei propri riferimenti culturali, intende inserirsi nel Paese di immigrazione. Si conferma quanto sostenuto nell’Action Plan on the integration of third country nationals (European Commission, 2016), e cioè che l’integrazione «è un processo evolutivo» e che le politiche di integrazione – volte a eliminare le barriere che impediscono di inserirsi al meglio nella società di accoglimento – vanno elaborate secondo un approccio legato alle realtà locali, in modo da sostenere l’accesso ai servizi, all’istruzione, all’apprendimento della lingua e alla lotta contro la discriminazione.

Le dinamiche del fenomeno migratorio e delle migrazioni forzate mettono in gioco la capacità istituzionale dei sistemi di welfare nel promuovere effettivi processi di accoglienza, inclusione e integrazione. E ciò spinge a pensare che le perturbazioni della vita quotidiana, a seguito di una mobilità forzata (migrazione), permettono di aprire una riflessione anche sul ruolo degli operatori e gli effetti che i loro interventi fanno registrare sulle popolazioni che ricevono aiuto, come pure sugli stessi operatori che si prodigano in un «lavoro sociale».

 

Rifugiati, richiedenti asilo e resilienza

Le migrazioni cosiddette forzate si differenziano dalle migrazioni volontarie. Queste ultime si caratterizzano il più delle volte per la ricerca di una vita migliore, benché non sia sempre possibile distinguere tra migranti economici e rifugiati o tra migrazioni volontarie e migrazioni forzate. In quest’ultima categoria rientrano i rifugiati e i richiedenti asilo, i quali, in ogni caso, sono una minoranza dei migranti che vivono nei Paesi europei.

Alla fine del 2016 (UNHCR, 2017), si assiste al più grande spostamento di popolazione mai registrato prima: sono stati costretti a fuggire dal proprio Paese 65,6 milioni di individui, un numero che non ha precedenti. Di questi circa 22,5 milioni sono rifugiati, tra cui più della metà sono di età inferiore ai 18 anni; inoltre, più della metà dei rifugiati complessivi proviene da soli tre Paesi: Siria (5,5 milioni), Afghanistan (2,5 milioni) e Sudan del Sud (1,4 milioni). La maggioranza di questi rifugiati cerca ospitalità in Paesi vicini al Paese di origine: infatti, i tre principali Paesi di accoglienza per i rifugiati sono la Turchia (2,9 milioni, si ricorda che tra UE e Turchia esiste un accordo sottoscritto il 18 marzo 2016 relativo alla gestione dei flussi migratori provenienti dal versante orientale dell’Europa), il Pakistan (1,4 milioni) e il Libano (1 milione). Sempre nel 2016, il numero di nuove richieste di asilo si mantiene alto (2 milioni) e la maggior parte di esse risulta destinata alla Germania (722.400), seguita dagli Stati Uniti d’America (262.000), dall’Italia (123.600) e dalla Turchia (78.600).

Se questo è il quadro generale che caratterizza la situazione globale, allora essa non è certamente più confortante in Italia. Dai dati del Ministero dell’Interno (2017a) al 30 novembre 2017, ci sono stati 117.042 sbarchi – le prime tre nazionalità dichiarate sono: Nigeria (15%), Guinea, Costa d’Avorio e Bangladesh (8%), Mali ed Eritrea (6%) – con una diminuzione rispetto allo stesso periodo del 2016 del 32,35%. Per questo dato è necessaria tuttavia una precisazione: questa forte diminuzione potrebbe essere imputata al fatto che nel 2017 è stato stipulato un accordo tra Italia e Libia per il controllo delle partenze dei migranti dai porti di quest’ultimo Paese – accordo messo sotto accusa a causa delle condizioni disumane in cui sono tenuti i migranti nei centri di detenzione libici.

Sempre secondo i dati del Ministero dell’Interno (2017b), al 30 novembre 2017 le richieste di asilo risultano essere complessivamente 124.871, e tenendo conto che nel 2016, su 91.102 domande esaminate (su 123.600), ne sono state respinte ben 54.254 (il 59,6% del totale delle domande esaminate), si può ipotizzare che possa accadere lo stesso anche per il 2017 (al 30 novembre 2017, sono state esaminate 71.746 domande di cui 42.624 respinte, pari al 50,4% delle domande esaminate).

Dai dati presentati emerge che i richiedenti asilo che giungono in Europa attraverso il Mediterraneo provengono in larga parte da due aree geografiche: dal Medio Oriente (la sola crisi siriana, che rappresenta il più grande disastro umanitario dopo la guerra fredda, ha prodotto 4 milioni di rifugiati) e dall’Africa Subsahariana. Nel primo caso, i flussi sono dovuti soprattutto a condizioni di instabilità politica, persecuzioni di carattere religioso e guerre civili; nel secondo caso, invece, i richiedenti asilo africani giungono in Europa per una pluralità di ragioni (per persecuzioni e guerre civili – in particolare nei Paesi del Corno d’Africa, come Somalia ed Eritrea – o per povertà e condizioni economiche insostenibili – in particolare in Africa occidentale come Nigeria, Senegal, Guinea, ecc.). In sintesi, i Paesi dai quali provengono i rifugiati sono teatro non solo di guerre, ma anche di forte indigenza e spesso le ragioni per cui i migranti lasciano il proprio Paese sono spesso più di una.

È indubbio che le recenti crisi umanitarie, in particolare quella siriana, hanno provocato un aumento significativo delle richieste di protezione internazionale nell’UE e, poiché la legislazione sull’asilo è diversa a seconda dei singoli Paesi, l’UE ha avvertito l’esigenza di emanare alcune direttive, relative all’accoglienza, alle qualifiche e alle procedure per la domanda di asilo. Allo stato attuale, infatti, nei Paesi europei esistono tre tipi di protezione: (a) status di rifugiato, concesso per persecuzioni subite (o fondato timore di subirle) nel Paese di origine per le ragioni indicate nella Convenzione di Ginevra (dura 5 anni); (b) protezione sussidiaria, concessa a chi rischia di subire «un danno grave» nel Paese di origine (dura 3 anni); e, infine, (c) protezione umanitaria, concessa per crisi umanitarie che non implicano persecuzioni personali subite dal richiedente (dura dai 6 mesi ai 2 anni). L’obiettivo dell’UE è costituire un Sistema europeo comune di asilo (CEAS) che però al momento appare lontano per le divergenze tra i Paesi membri, e questo nonostante il fatto che fin dal 2008 sia stato istituito un apposito fondo per la gestione delle richieste d’asilo, sostituito poi nel 2014 dal Fondo europeo per asilo, migrazioni e inclusione (AMIF) proprio nel tentativo di uniformare le procedure per l’asilo nei Paesi membri e affrontare situazioni di crisi.

In questo scenario l’accoglienza e il successivo inserimento degli immigrati derivano da processi a due vie, in cui contano in modo significativo le rappresentazioni sociali che i migranti si costruiscono della popolazione e delle società di approdo (prima e dopo l’arrivo) e le risorse immateriali (conoscitive e relazionali) esperite da questi. I processi di integrazione, infatti, non sono determinati meccanicamente dall’assetto del sistema di accoglienza o dalle politiche locali, ma sono, almeno in parte, il frutto di percorsi strategici compiuti dagli stessi migranti, i quali agiscono in un contesto di opzioni nel quale le scelte vengono operate alla luce di particolari quadri sociali della conoscenza.

Negli ultimi decenni, quando si riflette sul superamento di eventi critici, il focus dell’attenzione non è più solo rivolto alla mancanza e alla perdita (nel caso specifico la perdita degli affetti e dei pochi beni materiali lasciati nel Paese di origine), ma anche alla capacità degli individui stessi e delle comunità di adattarsi e di crescere nonostante le condizioni critiche.

Il concetto chiave è quello di «resilienza» (Rutter, 1987; Cyrulnik e Malaguti, 2005; Manyena, 2006; Ungar, 2012), che viene generalmente definita come la capacità di un individuo o di un gruppo di tornare alla normalità dopo eventi disastrosi (Bonanno, 2004; Bonanno et al., 2006) attraverso due componenti: una di carattere individuale (com’è l’individuo e come risponde agli eventi), l’altra di carattere situazionale. Quest’ultimo aspetto porta l’attenzione sulla comunità e in particolare sul concetto di comunità resilienti (Norris et al., 2008), il quale si lega al concetto di capitale sociale e al significato che esso assume nella costruzione della resilienza insieme ad altre componenti che concorrono all’adattamento a una perturbazione.

Pensare al futuro, durante o dopo la conclusione di una migrazione forzata, non può prescindere dall’esistenza di una comunità, o raggruppamento di individui che si configura come tale, poiché è dalle relazioni che in essa si instaurano, e che di per sé possono essere considerate positive, che devono nascere la progettualità e la ricostruzione dei corredi identitari. Attraverso la comunità si affermano l’impegno sociale, il rispetto dei diritti e delle libertà, l’equilibrio tra bisogni e responsabilità civili, la ricostruzione di rapporti soddisfacenti tra gli individui. Queste caratteristiche permetterebbero la difesa da processi di esclusione: la comunità resiliente diventa strumento d’azione se considerata come uno «spazio aperto» in cui le reti ambientali e sociali sono interrelate, per garantire la sostenibilità delle iniziative di sviluppo e protezione sociale. Secondo Norris (Norris et al., 2008) la resilienza nasce dalle risorse presenti nella comunità: (a) lo sviluppo economico; (b) il capitale sociale; (c) l’informazione e la comunicazione; (d) la competenza della comunità.

Per la peculiarità del presente lavoro si darà spazio solo al capitale sociale poiché questo concetto, a causa delle sue interconnessioni con tanti altri elementi della società, contribuisce in misura maggiore alla costruzione della resilienza di comunità. Il termine capitale sociale è stato introdotto da Loury (1977; 1987), che lo aveva inteso come l’insieme di risorse che si ritrovano all’interno delle relazioni familiari e nell’organizzazione sociale della comunità, e che risultano essere utili per lo sviluppo degli individui.

Le analisi di carattere sociologico e psico-sociale dei fenomeni di fuoriuscita da situazioni di crisi – determinate da eventi disastrosi (come conflitti o catastrofi naturali) – sono state orientate verso spiegazioni fondate sul concetto di capitale sociale. Ciò è dovuto al fatto che tale concetto non ha dei confini ben delineati e consta di relazioni fiduciarie (forti e deboli, variamente estese e interconnesse) atte a favorire, tra gli individui, la capacità di riconoscersi e intendersi, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi reciprocamente e di cooperare a fini comuni. In questo modo la comunità resiliente non è una concettualizzazione astratta, ma diviene il luogo della produzione di azioni positive per fuoriuscire dalle emergenze, per cui, quando occorre realizzare degli interventi di aiuto, questi devono porre attenzione alla progettazione e alla ricostruzione della rete di relazioni che è stata distrutta dalla migrazione forzata. Fondandosi la resilienza sulle relazioni (capitale sociale), l’allontanamento o l’arrivo di un certo numero di attori (rifugiati) da/in un determinato territorio a seguito di una migrazione forzata, modifica il potenziale di ripresa degli individui, cosa che implica l’intervento di soggetti esterni per stimolare tale ripresa.

 

Il sistema di accoglienza: i CAS in provincia di Benevento

Lo studio di caso che viene presentato si fonda sull’analisi di dati di secondo livello. Si sono utilizzate cioè delle informazioni desunte da documenti preesistenti (Accardo e Guido, 2016; Rete Oltreconfine, 2016), relativi al monitoraggio dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) della provincia di Benevento in Campania, svoltosi nel 2016 in n. 8 CAS (n. 4 nel capoluogo e n. 4 in provincia).1 La Campania è la seconda regione in Italia per numero di accoglienza di migranti dopo la Lombardia (Ministero dell’Interno, 2017a). Il monitoraggio si è svolto nell’ambito della Campagna LasciateCIEntrare che aveva lanciato una mobilitazione nazionale in occasione della «Giornata mondiale del rifugiato» (20 giugno) per accedere ai vari tipi di centri per migranti (CAS, CARA, CIE) al fine di verificarne le condizioni di accoglienza e segnalare eventuali problemi riscontrati. Le visite erano state autorizzate dalla Prefettura di Benevento e i gestori dei CAS in questione non hanno opposto diniego alla visita essendo stati avvertiti con diversi giorni di anticipo.

Il materiale utilizzato ha ovviamente valore orientativo. È servito infatti – dopo un’accurata elaborazione e interpretazione – alla definizione delle successive ipotesi e per tale motivo si farà riferimento non alle risultanze emerse per le singole strutture visitate ma agli esiti complessivi, fornendo un quadro generale dello stato delle cose al momento del monitoraggio.

Se in Italia la situazione dell’accoglienza, basata sulla gestione «emergenziale» dei flussi di profughi, è molto critica, in provincia di Benevento la situazione dell’accoglienza non appare difforme dalla situazione nazionale: in genere, il capitolato di appalto era rispettato solo in parte (Decreto del Ministero dell’Interno del 21/11/2008), con il consueto sovraffollamento di tutti i centri; in alcuni casi si sono riscontrate inadempienze soprattutto in merito alla presenza di operatori sociali professionalmente qualificati, all’assistenza socio-sanitaria e all’orientamento legale.

Il principale punto critico appare essere proprio quello del personale. In molti casi gli operatori presenti o sono in numero insufficiente o non sono adeguatamente formati, e ciò determina due ordini di problemi: uno di carattere formale, la violazione della Direttiva europea sull’accoglienza (Direttiva 2013/33/UE del Parlamento e del Consiglio Europeo del 26/06/2013), secondo cui «le persone che lavorano nei centri di accoglienza ricevono una formazione adeguata» (art. 18, c. 7); l’altro di carattere sostanziale e pratico, relativo al fatto che gli operatori non adeguatamente formati e professionalizzati non sono nelle condizioni di promuovere e attivare processi resilienti di ri-costruzione del tessuto identitario individuale e collettivo dei rifugiati e della stessa comunità di accoglienza.

Da queste condizioni vissute dai rifugiati nella loro quotidianità discendono altre criticità che riguardano prevalentemente le ridotte azioni di insegnamento della lingua italiana – si precisa che però a volte gli stessi rifugiati residenti nei CAS di Benevento non mostravano interesse in quanto per loro l’Italia rappresentava solo un luogo di transito – e la scarsa assistenza di carattere legale. Da ciò si registrano ricadute sul vissuto quotidiano dei rifugiati e della comunità di accoglienza che si traducono nell’inesistenza dei rapporti tra rifugiati e popolazione locale: in generale non si sono riscontrati atteggiamenti di ostilità o di razzismo da parte della popolazione locale che ha attuato azioni di protesta prima dell’arrivo dei migranti, successivamente al loro arrivo predomina un atteggiamento di indifferenza ed è raro che i migranti interagiscano in maniera costante e costruttiva con la popolazione autoctona (complice la non padronanza del codice linguistico). La scarsa conoscenza della lingua italiana ha conseguenze pesanti, poiché impedisce l’interazione con la comunità accogliente e spinge i richiedenti a «rifugiarsi in ciò che è familiare» (Moscovici, 1989), ovvero a coltivare rapporti solo con i connazionali o con coloro che parlano la stessa lingua. I richiedenti asilo, infatti, si trovano in una situazione nella quale mancano sia di un codice linguistico, sia di un contesto culturale comune (Mangone, 2015c).

In sintesi, i richiedenti asilo ospitati in Benevento e provincia si trovano quasi tutti in condizioni di mancanza di occupazione sia lavorativa sia di altro genere, trascorrendo gran parte delle loro giornate in attesa che accada qualcosa – situazione intollerabile per qualunque individuo anche non rifugiato. Dall’analisi e interpretazione di quanto emerso dalla visita ai CAS di Benevento appare chiaro che c’è una difficoltà a gestire l’accoglienza e non solo perché il numero dei rifugiati è tale da determinare sempre il sovraffollamento delle diverse strutture, ma soprattutto perché c’è una difficoltà ad avviare percorsi pervasivi di ricostituzione delle reti di relazioni per promuovere il superamento di una situazione di crisi dovuta alla migrazione forzata.

La presenza di migranti e richiedenti protezione internazionale è ormai un elemento costante e irreversibile sul territorio nazionale, anche in Campania, per questo motivo è opportuno gestire l’immigrazione in maniera tale da renderla il meno traumatica possibile sia per i migranti sia per il territorio e le comunità che li accolgono, e ciò non può prescindere dall’azione degli operatori sociali, i quali devono favorire la coniugazione tra le differenze a partire dall’accoglienza, per poi giungere all’integrazione dei migranti nelle comunità di accoglienza.

Il ruolo fondamentale degli operatori sociali è quello di «accompagnare» i rifugiati in questa fase di transizione che richiede non solo la partecipazione responsabile di tutti gli attori nel processo di definizione analitica e puntuale degli interventi, ma anche la consapevolezza dell’ambivalenza e della complessità dell’integrazione fra rifugiati, popolazione locale e gli stessi operatori.

Questo accompagnamento dovrebbe favorire quel processo di empowerment della comunità dei rifugiati per la costruzione di un sistema integrato di servizi e interventi2 che li porti fuori dalla condizione di emergenza: la complessiva trasformazione e ricostruzione del sistema dei bisogni si rifà a un orientamento importante, che è proprio quello della valorizzazione della comunità come risorsa attraverso l’attivazione dei processi di resilienza (comunità resilienti). Attivare un lavoro di comunità vuol dire mettere in contatto il rifugiato con le reti di sostegno che trova intorno a sé sul territorio, sia formali (gli operatori) sia informali (la popolazione locale), ma anche sostenere e promuovere tutte quelle reti comunitarie di solidarietà e reciprocità che si realizzano spontaneamente in una comunità.

Gli operatori, professionalmente formati, dovrebbero attivare un processo di cooperazione tra ciò che è formale e ciò che non lo è (networking), sviluppando una comunità resiliente con la promozione di un ruolo orientato a un’attività svolta attraverso il coordinamento e la mobilitazione dei soggetti nella collettività, nella società civile, nelle formazioni sociali, con un’azione estesa e sempre meno legato alle autorità di governo.

Il lavoro degli operatori dei CAS di Benevento non si è configurato – almeno al tempo del monitoraggio – come un lavoro di conoscenza, capace cioè di non esaurirsi nel mettere in campo azioni. È cruciale infatti rappresentarsi i problemi su cui si vuole intervenire, conoscerli, fare ipotesi, reindirizzare la rotta strada facendo – poiché il rapporto con la realtà non è mai dato e a ogni istante si aprono possibilità che chiedono di essere esplorate –, ma anche assumersi il compito di favorire il confronto tra individui di culture diverse e la coesione sociale dando origine a condizioni di eque opportunità.

 

La ricostruzione del sistema dei bisogni: dal «lavoro d’aiuto» al «lavoro sociale»

Considerare le perturbazioni della vita quotidiana a seguito di migrazioni forzate ha permesso di aprire una riflessione sul ruolo degli operatori e gli effetti che i loro interventi fanno registrare sugli individui che ricevono aiuto, come pure sugli stessi operatori che si prodigano in un «lavoro sociale», ciò che un tempo veniva chiamato «lavoro d’aiuto». Una simile terminologia non rispecchia però totalmente le trasformazioni che ha subito questo tipo di lavoro negli ultimi decenni. Secondo quanto afferma Folgheraiter: «Il lavoro sociale studia i modi attraverso cui quella parte di soggettività, o intersoggettività, qui definita come “capacità d’azione” dei soggetti interessati, che in casi particolari potrebbe anche presentarsi limitata o tendente a zero, interagisce con quelle parti di “sistema sociale” che si identifica nelle istituzioni del welfare state socio-assistenziale, da intendersi, prima ancora che come attività di strutture e servizi organizzati, come interventi “micro” di operatori professionali, nel quadro delle politiche pubbliche o del mercato o dell’autorganizzazione comunitaria, o di un loro intreccio» (Folgheraiter, 1998, p. 62). Tale definizione caratterizza il lavoro sociale come quell’attività che deve coniugare il sistema con gli individui, cioè gli aspetti oggettivi con gli aspetti soggettivi. Un lavoro è sociale se implica scambi tra gli attori; se attiva comunicazioni, non chiusure; se non nasce per soddisfare bisogni privatistici o corporativi, ma si connette al network sociale; se genera risorse e non le consuma; se trasferisce conoscenza e non la ignora. Questa visione permette di superare la logica dell’operatore quale prestatore di soccorso (il vecchio lavoro d’aiuto), per favorire la logica di un operatore quale «nodo» della rete e che riesce a dare nuovo impulso alla resilienza degli individui e della comunità, nonché al rinnovamento del capitale sociale. L’attenzione deve essere centrata quindi sull’individuo. L’operatore deve incontrare e intercettare le istanze che provengono da più parti, deve riuscire a muoversi e a saper leggere la reale insoddisfazione dei diritti sociali e civili, per supportare i soggetti nella ricostruzione del sistema dei bisogni.

Il lavoro sociale ha un peso politico in quanto ogni operatore è attore sociale, e come tale portatore di valori e di significati, nonché di diritti soggettivi e sociali: attraverso il suo operato emergono e si riconoscono le disuguaglianze sociali. Nella logica delle comunità resilienti, ogni attore ha la sua parte da protagonista, e laddove le parti messe insieme progettano e realizzano il sistema degli interventi ricostruendo il sistema dei bisogni annullato a seguito di eventi disastrosi come le migrazioni forzate, le attività agite dagli operatori sono quelle che devono tenere insieme le differenti parti. I problemi che possono sorgere nella ridefinizione del sistema dei bisogni riguardano il mancato riconoscimento delle attività degli operatori da parte dei soggetti cui si presta soccorso e/o quando è l’operatore stesso che non riconosce il proprio operato. In realtà, sopraffatto dagli eventi quotidiani, pur mettendo in campo risorse e attuando interventi, egli non riesce ad attribuire un significato al proprio operato anche perché si caratterizza per la sua intangibilità. Non riconoscersi nel lavoro e soprattutto non riconoscere il valore del lavoro che si svolge spesso genera frustrazione e insoddisfazione tra gli operatori, con conseguenze a volte anche molto negative come la sindrome del burnout (Maslach, 1982), che si riflette sia sull’organizzazione (pubblica o privata), sia sui soggetti che dovrebbero beneficiare di tali attività.

Oggi non è pensabile, o solo immaginabile, un operatore distante o non coinvolto da tutte queste trasformazioni: l’operatore, oggi, è «un accompagnatore di processi» che cerca di coagulare delle risorse latenti, delle comprensioni, delle attenzioni da parte di più gruppi e individui.

In conclusione, si possono evidenziare tre punti – sia comuni, sia distintivi del caso di studio presentato – che sembrano particolarmente significativi quando si realizzano interventi di accoglienza e per la fuoriuscita da una situazione di emergenza conseguente a una migrazione forzata.

Il primo è la differenziazione del tipo di intervento da realizzare sulla base della caratteristica del disastro: le crisi umanitarie, dovute all’esodo di cospicue porzioni di una data popolazione, si distinguono dagli altri disastri – derivanti da alterazioni atmosferiche o idrogeologiche – poiché alla base del «disastro» vi è l’intenzionalità umana di distruggere (guerre e violenza di massa), il che implica una maggiore complessità dell’emergenza.

Il secondo è il ruolo fondamentale degli operatori come «accompagnatori di processi di cambiamento». La comunità destinataria degli interventi deve essere accompagnata in una difficile fase di transizione e di trasformazione del sistema dei bisogni. Ciò richiede la partecipazione responsabile di tutti gli attori sociali, con il coinvolgimento dell’intera comunità. Nel caso di studio presentato, ciò significa integrazione tra rifugiati, popolazione locale e operatori sociali. Non è pensabile o immaginabile un operatore «neutrale»: l’operatore sociale, agendo in maniera sistemica cerca (con il totale coinvolgimento) di coagulare risorse latenti, comprendere anche gli interessi in conflitto per ridurre questi ultimi, attrarre l’attenzione dei diversi gruppi presenti nella comunità per attivare percorsi di empowerment che non coinvolgano solo gli effettivi destinatari dell’intervento (i rifugiati), ma anche la comunità degli operatori stessi, e la comunità di accoglienza.

Da questa condizione di non «neutralità» scaturisce il terzo e ultimo punto, il quale caratterizza il caso di studio presentato ed è collegato al ruolo di «accompagnatore di processi». Gli operatori non sono stati in grado di attivare percorsi di educazione interculturale, non hanno assunto il ruolo di «mediatori» tra le etnie presenti, portatrici di identità culturali diverse, e ciò non ha favorito l’interazione tra questi soggetti, determinando una divisione tra i rifugiati di nazionalità differenti, e tra questi e la comunità di accoglienza.

Verso la fine del 2016 la Magistratura competente e i Nuclei antisofisticazioni dei Carabinieri hanno avviato inoltre delle indagini – eventi da non ricollegarsi alla Campagna LasciateCIEntrare – che ha ulteriormente aggravato la situazione all’interno dei centri e moltiplicato le difficoltà di lavoro degli operatori. Tra il febbraio e l’aprile del 2017 alcuni dei CAS, in provincia di Benevento, vengono infatti sequestrati e chiusi, e gli ospiti spostati in altri centri, determinando, da una parte, un ulteriore sovraffollamento degli stessi e, dall’altra, le loro proteste, sfociate anche in atti di violenza nell’agosto del 2017 (episodi avvenuti nel centro del comune di Dugenta). La già negativa condizione di vita all’interno dei centri, ulteriormente aggravatasi, non ha permesso agli operatori di attivare un processo di ricerca di un nuovo modo di vivere capace di configurarsi come garanzia di giustizia e uguaglianza per tutti i gruppi presenti nei centri (diversificati per razza, etnia, nazione, ecc.).

L’auspicio è che, per il futuro, superata la mera condizione di emergenza, gli operatori sociali siano in grado di veicolare la ricostruzione del sistema dei bisogni degli ospiti dei centri fondandolo sulla pari dignità e valore per tutte le culture. E ciò può discendere solo dall’attivazione di processi di integrazione che creino le condizioni affinché tutti possano avere uguali probabilità di scegliere – chances di vita (Dahrendorf, 1988) – per il proprio progetto di vita futuro.

 

 

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Note

1 I CAS in questioni sono stati: Damasco 9, Damasco 12, Iris contrada Olivola e I ragazzi del sole in Benevento città, Damasco 6 in Castelvenere, Damasco 1 e Cooperativa Aris in Montesarchio e, infine, Crescere insieme in Paupisi. Quando sono state effettuate le visite in provincia di Benevento risultavano attivi 36 CAS per complessivi 1.220 richiedenti asilo. Questo monitoraggio è stato effettuato da: Greta Capozzi, Davide Chiusolo, Federica De Nigris, Costanzo Di Gioia, Silvia Meoli, Gerardo Romei, Carol Ruggiero, Nicola Savoia, Giulia Tesauro. Erminio Fonzo ha redatto il report cui si fa riferimento.
2 A tale riguardo è fondamentale cogliere la differenza tra servizio, che è un’unità di offerta stabile nel tempo, strutturata e con norme precise, con standard funzionali e organizzativi, e intervento, che indica una parte di progetto, realizzato attraverso un adeguato coordinamento di risorse, tempi, mezzi e attività.

DOI: 10.14605/EI1611801


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ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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