Test Book

Riflessioni e teorie / Thoughts, theories, analysis

Spaesamenti, formazione dei docenti alla competenza interculturale e fiducia nelle scuole
Disappearance, teacher training for intercultural competence and trust in schools

Mariangela Giusti

Professore Associato (M-Ped/01), Università degli Studi di Milano-Bicocca. Ha pubblicato libri di Pedagogia interculturale con le più importanti case editrici italiane: Giunti, Laterza, Utet, Rizzoli, ecc. Il suo volume L’educazione interculturale nella scuola (Rizzoli ETAS) (uscito in prima edizione nel 1995 e più volte ristampato), è arrivato quest’anno alle 25.000 copie. È autrice della sezione «Pedagogia» del Manuale di Scienze Umane (per i Licei delle Scienze Umane) pubblicato da De Agostini-Marietti, mariangela.giusti@unimib.it.


Autore per la corrispondenza

Mariangela Giusti
Indirizzo e-mail:
Università degli Studi di Milano-Bicocca, Piazza dell’Ateneo Nuovo, 1, 20126 Milano MI



Sommario

Negli ultimi venticinque anni, in Italia, tante figure professionali hanno fatto crescere la fiducia nel pensiero interculturale in educazione. Ciò ha aiutato i percorsi di scolarizzazione e di vita di tanti studenti, ha contribuito a modificare in positivo e ha fatto crescere la società italiana, non solo la scuola. Oggi il clima sociopolitico ha un andamento confuso e in via di trasformazione. È difficile prevedere quali direzioni prenderà. Quel che sappiano per certo (come docenti) è che nel corso degli ultimi mesi, i messaggi contrari alla costruzione del pensiero interculturale sono diventati frequenti, al punto che possono esercitare un’influenza negativa sulla formazione delle coscienze dei cittadini adulti e soprattutto dei minori. Anche per questo, sempre più oggi appare necessario valorizzare le situazioni positive che attraverso l’educazione sono state costruite — nelle quali la coesione esiste — per proporle come esempi possibili per altre. Il saggio riporta alcuni passaggi di un percorso di formazione alla competenza interculturale che ha interessato un gruppo di docenti di un istituto di istruzione secondaria superiore nel difficile compito di conoscere il territorio complesso dove i ragazzi vivono, per riversare poi a scuola, nella didattica, i dati reali appresi. La professionalità docente nelle classi plurietniche deve essere costruita in maniera individuale e convinta. Il percorso di ricerca/formazione condotto ha mostrato che per i docenti percorrere i territori vicini all’istituto scolastico, sostare, scambiare parole e colloqui con gli abitanti del quartiere può essere un modo intenzionale per avvicinarsi agli spazi di vita degli studenti e per formarsi.

Parole chiave

educazione interculturale; competenza interculturale; scuola superiore; periferie urbane; ricerca sul campo.


Abstract

In the last twenty-five years, in Italy, many professional figures have increased confidence in intercultural thinking in education. This helped the pathways of schooling and life of many students and has made Italian society grow, not just the school. Today the socio-political climate is confused and in a process of transformation. It is difficult to predict which directions it will take. What we know for sure (as teachers) is that over the last few months, messages opposed to the construction of intercultural thought have become frequent, to the point that it can exert a negative influence on the training of minds of adult citizens and especially of children. Also for this reason, it is even more necessary today to enhance the positive situations that have been built through education, in which cohesion exists, to propose them as possible examples for others. The essay reports some passages of a training course on intercultural competence which involved a group of teachers from an high school in the difficult task of knowing the complex area where the children live, then to transfer to the school, in teaching, the real data learned. The professionalism of teachers in multi-ethnic classes must be built in an individual and committed manner. The path of this research/training conducted showed that for teachers just the action of travel in the territories close to the school, stopping, talking and interviewing the inhabitants of the neighborhood can be an intentional way to get closer to the spaces of life of the students and to educate themselves.

Keywords

intercultural education; intercultural competence; high school; urban suburbs; field research.


Inclusione scolastica e coesione sociale

I buoni esiti ottenuti in tante pratiche educative e didattiche interculturali, presenti in letteratura (Portera e Grant, 2017; AA.VV., 2018; Fiorucci, Pinto Minerva e Portera, 2017), inducono ad avere fiducia che anche nei prossimi anni il pensiero interculturale in educazione possa proseguire la sua crescita e la sua diramazione in Italia. A tale scopo dobbiamo ipotizzare che le pratiche didattiche siano sempre più finalizzate a educare le giovani generazioni nella prospettiva del rispetto per gli Altri e della buona convivenza. Da ciò potranno derivare ricadute positive anche al di fuori della scuola, in termini di rafforzamento della coesione sociale e dell’aumento della solidarietà fra gruppi differenti di persone che convivono negli stessi microterritori. Per questo motivo, uno degli obiettivi costanti di chi opera nei contesti educativi dovrebbe essere quello di trasmettere la convinzione che tutte le attività didattiche e educative che favoriscono scambi reciproci fra scuola e territorio sono vitali per incoraggiare quella situazione positiva che Wood e Landry (2008) hanno definito di «fertilizzazione incrociata». Da tale situazione possono nascere, poi, in un movimento circolare, altre innovazioni pedagogiche, altre didattiche partecipative, nuovi interessi e nuova coesione. Nel corso degli ultimi venticinque anni, in Italia, sono state tante le figure professionali che hanno fatto crescere (e continuano a far crescere) la fiducia nel pensiero interculturale in educazione: mediatori interlinguistici, docenti, educatori, facilitatori, dirigenti scolastici, responsabili dei Centri interculturali, ricercatori, editori, dirigenti di enti locali, rappresentanti ed esperti delle Comunità straniere, artisti, musicisti, volontari delle associazioni. Gli esempi dei percorsi educativo-didattici improntati al pensiero interculturale che definiamo «storici» sono tanti e ormai consolidati; ma da quegli esempi molti altri interventi didattici e sociali continuano ad essere progettati, realizzati, documentati e diffusi (Gentile e Chiappelli, 2016; Nigris, 2015; Gueye, 2018; Olama, 2006).

Le figure professionali e intellettuali appena elencate operano in modi indipendenti, ma spesso collaborano in progetti e attività a più voci, a più menti e a più mani, che si materializzano in diversi contesti di lavoro e d’intervento, nel settore privato e nel pubblico.

Nel corso degli anni, molti professionisti hanno dovuto necessariamente (e per fortuna!) trovare dei terreni comuni fra scuola e territorio, fra educazione e contesti sociali, per operare in forme attive e per essere collegati gli uni con gli altri affinché la fiducia nell’intercultura potesse crescere, non lo scoraggiamento; affinché nuove soluzioni pedagogiche potessero essere sperimentate, condivise, diffuse, non circoscritte a realtà isolate e privilegiate; affinché le paure per il nuovo fossero smorzate, non fomentate e ingrandite.

Tutto questo ha aiutato tante ragazze e ragazzi (italiani e provenienti da altrove, italofoni e alloglotti) nei loro percorsi scolastici individuali e ha fatto crescere la società italiana nel suo insieme, non solo la scuola. Niente è stato inutile. Niente è stato parziale, né dedicato solo ad alcuni. Niente è stato «di troppo», come talvolta si è ascoltato negli ultimi mesi in talune interviste televisive rilasciate da esponenti politici o in alcuni monologhi postati sui social media.

Grazie al lavoro e al pensiero di tanti professionisti in ambiti diversi è cresciuta nel corso degli anni la speranza che, come si è imparato nelle scuole, nei contesti educativi e nei Centri territoriali, così potremo imparare a esercitare un pensiero aperto e un’azione inclusiva anche nei luoghi della vita, al fine di facilitare i processi di crescita, di lavoro e di studio nelle esistenze di tutti (Santerini, 2010; Burgio, 2015; Cima, 2005). Questa visione delle cose, niente affatto utopica, ma realistica, è in continua costruzione. Dobbiamo essere consapevoli che non tutto è già stato fatto. Anzi: ci vorrà ancora molto tempo e molto impegno da parte di tutti. Il ruolo della scuola continua ad essere — e sarà — determinante al fine di garantire livelli buoni o almeno accettabili di inclusione scolastica e di coesione sociale, purché però vi siano le condizioni idonee a proseguire.

È sotto gli occhi di tutti, infatti, che alla fine del secondo decennio del Duemila, il clima sociopolitico italiano ha assunto un andamento ondivago e confuso. È un clima sociale sicuramente in trasformazione, ma al momento non sappiamo intravedere quali direzioni potrà prendere. L’incertezza e la confusione politica che il Paese attraversa sembrano collocare su uno sfondo indistinto e lontano (fuor di metafora: in una posizione poco importante e priva d’interesse) due caratteristiche concrete e importanti del sistema scolastico italiano, alle quali (come si è detto) tanti professionisti faticosamente si sono dedicati negli ultimi decenni: da un lato l’attenzione al pensiero interculturale da trasmettere agli allievi in tutti i gradi della scolarizzazione; dall’altro, la formazione della competenza interculturale dei docenti. Oggi accade che, fra le tante incombenze e fra i tanti adempimenti burocratici, coloro che operano nelle istituzioni educative italiane paradossalmente hanno due compiti che possono perfino apparire nuovi:

 

  1. conservare in sé stessi la fiducia nelle potenzialità delle classi plurietniche, nell’inclusione interculturale e nella coesione;

  2. riuscire a trasmettere tale fiducia, in primo luogo agli allievi e agli studenti e, in seconda battuta, a coloro che sono ad essi collegati in famiglia, nelle comunità, nei luoghi della vita.

 

Messaggi negativi e professionalità docente: un percorso di formazione

Nonostante l’esperienza accumulata, chi lavora ogni giorno nelle scuole, nei Centri interculturali, nei Centri di aggregazione, nei doposcuola deve ancora imparare (o talvolta ri-imparare) a non cedere di fronte alle manifestazioni di chiusura e ai messaggi negativi sempre più pressanti a livello sociale, mediatico e comunicativo. Nel corso degli ultimi mesi, i messaggi contrari alla costruzione del pensiero interculturale sono diventati molto frequenti, al punto che obiettivamente possono esercitare un’influenza forte e negativa sulla formazione delle coscienze dei cittadini adulti e dei minori. Anche per questo, sempre più oggi appare necessario valorizzare le situazioni positive che proprio attraverso l’educazione sono state costruite — nelle quali la coesione esiste — in modo da proporle come esempi possibili per altre. Ciò deve avvenire senza infingimenti e senza chiudere gli occhi su ciò che accade all’esterno delle istituzioni educative. Anzi, incrementando sempre di più gli scambi fra i contesti di vita degli studenti e le metodologie più idonee a garantire un’educazione inclusiva e di senso. Diverse ricerche (Malsbary, 2012; Giusti, 2017) mostrano che i processi di inculturazione nel gruppo dei pari e nella comunità scolastica degli allievi e degli studenti con vari retroterra linguistici e culturali, per funzionare bene in molti casi devono essere diversi a seconda dell’etnia, della provenienza e della lingua. È sempre più evidente dunque la necessità di politiche scolastiche di appartenenza che si sappiano intrecciare con i vissuti individuali degli studenti, con le azioni pedagogiche più mirate sui singoli casi e sulle successive possibili scelte didattiche. E per far ciò, il ricorso alla competenza interculturale dei docenti è essenziale.

In questo contributo si riportano alcuni passaggi di un percorso di formazione che ha interessato trenta docenti di tre classi dei bienni di un istituto di istruzione secondaria di secondo grado con un’alta presenza di studentesse e studenti figli di famiglie immigrate a forte rischio di dispersione scolastica. Il percorso formativo è stato condotto insieme agli insegnanti nelle ore curricolari della mattina e in orari pomeridiani da novembre 2017 a maggio 2018. Del gruppo di progetto, insieme a chi scrive, hanno fatto parte due assegniste di ricerca, i docenti di classe, i dirigenti scolastici e alcuni volontari collaboratori.

Nell’anno scolastico precedente a quello in cui si è condotto il percorso di formazione, in seguito alle sollecitazioni provenienti da diversi insegnanti e sostenute dalla dirigente scolastica dell’istituto (interessata a potenziare il nuovo indirizzo «Turismo») era stato attivato uno sportello d’ascolto con l’obiettivo di supportare gli studenti delle prime classi del nuovo indirizzo di studio nel superamento di diverse situazioni di disagio scolastico. In alcuni casi le difficoltà erano collegate alle relazioni coi pari e coi docenti; in altri casi erano dovute alle scarse competenze nell’uso dell’italiano come lingua di studio; in altri casi ancora derivavano dalle incomprensioni e dalle inadeguatezze tipiche dei processi di crescita. Con la medesima finalità, erano state anche avviate alcune attività di sostegno rivolte agli studenti più a rischio di dispersione (in particolare arabofoni) al fine di garantire una migliore comprensione delle spiegazioni in aula e un più consapevole svolgimento dei compiti assegnati per casa nelle diverse discipline di studio. L’ipotesi iniziale degli insegnanti e della dirigente era che le attività avviate (nate in maniera estemporanea) avrebbero dovuto proseguire nel successivo anno scolastico, con gli stessi studenti nelle rispettive classi seconde. Invece, in seguito a diversi pensionamenti e trasferimenti in altra sede di professori e professoresse, la situazione, nel passaggio da un anno scolastico al successivo, era molto cambiata.

La rete di conoscenze e di contatti sul territorio, la consapevolezza del ruolo e il livello alto di motivazione presenti nella gran parte dei docenti che avevano avviato il progetto l’anno precedente, non facevano parte del bagaglio personale e professionale degli insegnanti nuovi arrivati. Ciò comportava il rischio evidente di vanificare il lavoro avviato. A questo scopo l’istituto ha attivato il contatto con chi scrive, con la volontà espressa e con la richiesta di progettare alcune attività formative in grado di motivare i nuovi docenti a proseguire quel che già era stato fatto e di fornire loro competenze interculturali di base in merito a: atteggiamenti, conoscenze, abilità (Deardorff, 2012, p. 45).

Nei primi incontri informali con i docenti si è cercato di comprendere quali fossero, a loro giudizio, i punti critici nelle classi seconde sul piano didattico, linguistico, relazionale e comportamentale. I colloqui non sono stati molto fruttuosi in quanto hanno fatto comprendere che diversi docenti non mostravano alcun reale interesse pedagogico ad andare oltre il disagio manifestato in aula dai loro studenti. Semplicemente lo «constatavano» e se ne lamentavano, ma niente di più. Le conversazioni iniziali sono state comunque utili, in quanto hanno messo in luce che per quasi tutti i docenti l’insegnamento si limitava a una serie di azioni routinarie: arrivare di fretta da altre zone della città (o perfino da altre province); trasmettere contenuti disciplinari standard; assegnare prove di verifica uguali per tutti; fare delle interrogazioni, senza tener conto delle cause di difficoltà e dei limiti anche linguistici ed espressivi degli studenti. Eppure, i problemi e il disagio si manifestavano in modi evidenti e negativi, non solo per i ragazzi stessi, ma per l’intera classe: scarsa attenzione, disinteresse, comportamenti disturbanti. Per alcuni studenti alloglotti figli di famiglie immigrate, il disagio nasceva palesemente da una scarsa (o talora scarsissima) conoscenza della lingua italiana; per altri studenti il disagio manifestato in classe era il riflesso speculare di varie situazioni sociali e familiari. Come detto, quasi tutti i docenti provenivano da zone lontane dell’hinterland milanese; alcuni erano di prima nomina; altri ancora avevano un orario cattedra diviso su due scuole, con l’esigenza di organizzare gli impegni dei rispettivi istituti. A partire da queste variabili, i colloqui iniziali con gli insegnanti hanno messo in luce da parte loro una diffusa sensazione di inadeguatezza e di difficoltà a riconoscersi nell’identità docente di fronte ai tanti problemi evidenti nelle classi plurietniche dell’indirizzo «Turismo». Da tali premesse è parso opportuno che il percorso formativo potesse concentrarsi su una, seppur minima, sensibilizzazione alla conoscenza del territorio di pertinenza dell’istituto e su un aggiornamento non di tipo apodittico, ma riflessivo e dialogato riguardo ad alcune tematiche di pedagogia interculturale. L’obiettivo del percorso formativo era di fornire ai docenti qualche elemento di consapevolezza in più, che consentisse loro di prestare maggiore attenzione al vissuto dei ragazzi e delle ragazze e, di conseguenza, alla loro maniera di essere studenti e studentesse in aula. L’ipotesi era, dunque, che una formazione articolata su un doppio binario (teorico e in situazione) avrebbe potuto creare un terreno professionale e umano più favorevole da un lato all’insegnamento e dall’altro all’apprendimento da parte di tutti gli allievi.

I percorsi di formazione in servizio alla competenza interculturale rappresentano delle opportunità di coinvolgimento e di relazione. Non è raro che nelle classi plurilinguistiche e plurietniche gli insegnanti avvertano che la loro identità professionale sia messa in crisi oppure che faccia fatica a definirsi. È possibile che si generino «sentimenti d’impotenza e di sfiducia che si traducono in reazioni di difesa» (Cohen-Emerique, 2017, p. 117) oppure in reazioni di indifferenza nei confronti dei ragazzi. Proprio nelle situazioni di questo tipo un percorso di formazione in servizio alla competenza interculturale è un’occasione per conoscere, per mettersi in gioco e per apportare qualche cambiamento.

 

Una formazione in aula e fuori dall’aula

Dopo i colloqui iniziali con i docenti, si è stabilito con loro di trascorrere in aula solo una parte delle ore di formazione per affrontare alcune tematiche epistemologiche e normative della pedagogia interculturale. Una parte altrettanto consistente delle ore previste sarebbe stata impiegata non in aula (a fare lezione e/o a confrontarci su tematiche didattiche o teoriche), ma direttamente sul territorio. Il tempo impiegato sarebbe stato lo stesso, con la differenza che lo avremmo usato per muoverci verso e dentro al territorio, per conoscerlo, in modo da saperne poi parlare agli studenti. Sono state previste complessivamente 40 ore di formazione, un tempo che all’inizio è sembrato breve, ma che è risultato congruo per gli obiettivi ipotizzati.

Nelle ore d’aula si è mirato a far comprendere ai docenti (diversi dei quali giovani e alle prime esperienze d’insegnamento) che è necessario tenere presenti tanti fattori per ogni singolo studente: lo sviluppo biofisico, la scolarità pregressa, l’ambiente familiare e sociale in cui vive, le sue attitudini, il dinamismo della personalità, gli interessi, le lingue conosciute e parlate. Si è commentata la circolare n. 4233 del 2014 (una delle circolari applicative della Direttiva 27/12/2012) che contiene rimandi diretti all’articolo 2 della Dichiarazione universale dei Diritti umani e agli articoli 28 e 29 della Convenzione internazionale sui Diritti dell’infanzia, che ribadiscono che è un compito degli adulti e delle società garantire il diritto all’istruzione di tutti e che le istituzioni si devono impegnare a garantire lo sviluppo delle capacità dei singoli allievi e studenti. Questi rimandi normativi (così come altri, da proporre anche in prospettiva diacronica a partire dagli anni Novanta del Novecento ad oggi) sono essenziali perché definiscono il senso istituzionale ed etico delle scelte didattiche, relazionali e di contenuto che ciascun insegnante è chiamato a fare. La formazione dei docenti alla competenza interculturale deve sempre partire dai riferimenti normativi perché danno spessore all’atteggiamento di fiducia che (in quanto docenti, appunto) dobbiamo mantenere e non perdere. È proprio da quei riferimenti normativi che deriva il compito di occuparsi degli studenti che restano indietro per le più diverse ragioni: un compito che non deve mai esser visto come una scelta opzionale, ma, al contrario, come uno dei principali; che i docenti non dovrebbero delegare né sottovalutare.

Durante le lezioni teoriche in aula e attraverso il dibattito aperto che si è creato con gli insegnanti si è cercato di veicolare l’idea che l’atteggiamento professionale idoneo per le «classi superdiverse» (Vertovec, 2007) non sia un privilegio di alcuni docenti e nemmeno una mancanza di altri. È un atteggiamento professionale che ha la necessità di essere costruito. Gli insegnanti di tutte le discipline dovrebbero avere una competenza interculturale in formazione, che via via si forma sempre un po’ di più, in maniera soggettiva e convinta e che consente di non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà, di fronteggiare per quanto possibile la dispersione e l’abbandono scolastico, utilizzando al meglio anche ciò che il territorio può offrire. L’atteggiamento professionale più idoneo dovrebbe essere attento, riflessivo, descrittivo, euristico, cioè in grado di cercare soluzioni, capace di porre lo sguardo sui fenomeni per studiarli, cercando di portare a chiarezza quell’insieme indistinto di dati che aleggia nelle situazioni didattiche che si conoscono poco e che non funzionano. Nelle ore di formazione fuori dall’aula, si è avviata una prima ricerca esplorativa quasi di taglio etnografico proseguita per alcuni pomeriggi durante i quali il quartiere San Siro (quello dove si trovava l’istituto scolastico) è stato percorso, osservato e in certi casi (ove si è avuta la disponibilità da parte dei docenti e non un netto e categorico rifiuto) anche descritto attraverso descrizioni estemporanee realizzate direttamente con quaderno e penna biro.

Nei quartieri periferici delle metropoli, negli spazi pubblici delle città e nelle aree verdi urbane ed extraurbane, gruppi di cittadini arrivati da altri Paesi e gruppi di cittadini nativi spesso sperimentano situazioni di straniamento, ghettizzazione, scarsa coesione. Chi si occupa di studiare la geografia dei luoghi afferma che, se è vero che sono le persone a costruire i luoghi, è altrettanto vero che «sono i luoghi che costruiscono le persone», in un movimento circolare di reale reciprocità (Holloway e Hubbard, 2001, p. 7). Ma di questo stato di cose, tanti insegnanti sembrano dimenticarsi e sono portati a vedere i loro studenti come soggetti staccati dal contesto in cui abitano, crescono e vivono.

 

Straniamenti

Nelle grandi città, come Milano, Torino, Roma, interi quartieri che un tempo erano popolati sono stati trasformati in zone per la classe media e medio alta e ri-colonizzati da nuove attività nel settore degli affitti e degli affitti temporanei (Airbnb). Nella gran parte dei casi, gli abitanti originari erano persone locali di livello medio basso, migranti, anziani, che sono stati spinti a muoversi verso i quartieri periferici. È il fenomeno della cosiddetta «gentrificazione», cioè il «rimpiazzamento delle classi a basso reddito insediate all’interno della città da parte di residenti di classe medio alta o attraverso il mercato abitativo oppure per le demolizioni che fanno posto a nuove costruzioni» (Freeman, 2005). È un fenomeno che interessa, in misura minore, anche le città medio-grandi come Firenze, Padova, Bologna: ha uno sviluppo veloce e porta alla formazione di veri e propri ghetti nelle periferie delle città. A Milano, per esempio, Corvetto, San Siro, Giambellino, Rogoredo, Quarto Oggiaro, Lambrate, Barona sono solo alcune delle zone che negli ultimi decenni (con un’accelerazione particolare negli anni di preparazione per Expo 2015) hanno subìto tale fenomeno e si sono ritrovate in diverse situazioni di degrado urbanistico e sociale. In questi quartieri vivono e crescono gli studenti che la mattina sono nelle nostre classi, ai quali proponiamo argomenti lontanissimi dal loro vissuto quotidiano. Per questo è utile uscire e conoscere i territori vicini alle scuole. Nel nostro caso, ci siamo resi conto insieme (gruppo di progetto e docenti disciplinari) che, anche soltanto il gesto intenzionale di percorrere i territori vicini all’istituto scolastico, sostando dove era possibile farlo e scambiando parole e colloqui con chi si mostrava disposto al dialogo, rappresentava un modo per avvicinarsi agli spazi di vita dove gli studenti trascorrono il tempo e si formano. Diversi autori hanno sottolineato la funzione importante autoformativa del muoversi sul territorio (Sansot, 2003; Urbain, 2002; Le Breton, 2013). Per quest’ultimo autore, in particolare, il pensiero si sviluppa insieme alla conquista del cammino; camminare e pensare sono pratiche interdipendenti e il cammino apre alla sensazione del mondo.

Dunque, l’azione semplice di camminare insieme (in orari diversi e in gruppetti di quattro o cinque docenti) nelle zone intorno all’istituto ha permesso di avviare qualche conversazione; ha aumentato la riflessione e lo scambio; ha favorito il silenzio, l’ascolto, la consapevolezza; ha indotto la formulazione condivisa di domande di base e tuttavia essenziali, che in precedenza i docenti non si erano posti. In questo quartiere c’è un Centro civico? C’è una biblioteca rionale a disposizione dei ragazzi? Ci sono degli spazi di aggregazione? Quali possibilità hanno i ragazzi di trascorrere il tempo libero? Quali opportunità ci sono per loro per far crescere la partecipazione e la coscienza civica?

Più d’una volta ci siamo trovati di fronte a situazioni sconosciute in precedenza, che hanno provocato spaesamento e — come conseguenza — hanno indotto i docenti a interrogarsi sugli spazi del vissuto degli studenti e a ridefinirli con una nuova capacità intenzionale (Bertolini e Cardarello, 1989). Le osservazioni sul campo hanno messo in luce una diffusa mancanza di rispetto e di cura dei luoghi pubblici, delle piccole piazze che dovrebbero essere spazi verdi comuni, dei condomini da parte di chi li vive e li abita. Nelle parole di molti adulti incontrati (uomini e donne di varie età) è emersa una tendenza ad aspettarsi che il rispetto e la cura debbano provenire dall’esterno e non dagli abitanti stessi del quartiere: molti di loro hanno fatto capire di percepirsi più in un’ottica di diritti che di doveri. Si sono osservate tante situazioni nelle quali le persone mostravano nei comportamenti l’abitudine a sporcare, ingombrare e deturpare gli spazi comuni. Sostare e muoversi sul territorio in una situazione non neutra ma finalizzata all’autoformazione ha consentito ai docenti di sperimentare occasioni di spaesamento di diversa natura. Si sono toccate con mano tante situazioni. I residenti più «antichi» del quartiere, che abbiamo incontrato, hanno manifestato in varie conversazioni l’esigenza di ricostruire il senso dell’identità territoriale, che a loro giudizio appare ormai annientata e non sanno più riconoscere. I residenti più «nuovi» nella gran parte dei casi hanno evitato di parlare. Sono stati fatti diversi tentativi per avviare con loro una conversazione aperta sul quartiere, ma sembravano vivere in disparte, come disinteressati; si dicevano estranei alle idee di partecipazione, sostenibilità ambientale, bene comune. Nonostante le poche risposte, anche solo il tentativo di avviare un dialogo ha rappresentato un punto di partenza significativo e ha fornito dati che gli insegnanti avrebbero potuto, in seguito, tenere presenti nel loro lavoro didattico ed educativo. Infatti, quella estraneità all’idea di partecipazione manifestata da parecchi adulti probabilmente era la medesima estraneità nei confronti del quartiere che molti studenti apprendono in casa, in famiglia e che poi riversano anche nei comportamenti scolastici.

Per i docenti muoversi nel quartiere San Siro ha significato conoscerlo meglio nei suoi aspetti critici, ma anche sapere che può offrire diverse opportunità, che in precedenza non conoscevano. I problemi sono numerosi: case occupate; persone in situazione di povertà che trovano vie illecite e pericolose per sopravvivere; tanti migranti, dalle più diverse provenienze. Negli ultimi tre anni (in seguito agli sgomberi nel quartiere Giambellino) diverse famiglie rom si sono trasferite a San Siro e non sono state ben accettate. La convivenza fra le varie etnie e gli autoctoni si è visto che non è semplice. La popolazione italiana rimasta nel quartiere è formata da persone ultrasessantenni, che hanno visto il proprio territorio di vita cambiare, anno dopo anno; che associano tutto ciò che è nuovo a qualcosa di pericoloso e si tengono a distanza dai nuovi abitanti. La conoscenza diretta del quartiere però ha fatto conoscere anche delle risorse sociali che possono andare a intrecciarsi con l’educazione e la didattica. I docenti infatti sono venuti a conoscenza dell’esistenza del Comitato degli abitanti di San Siro, che accoglie chi è in difficoltà (italiani e persone di altri Paesi) e consente di affrontare collettivamente alcune difficoltà individuali e familiari. Il Comitato offre un luogo d’incontro e conoscenza, di dialogo e riconoscimento, che dà senso alle parole volontà e solidarietà, tematiche da riprendere in classe in chiave didattica attraverso il lessico specifico delle varie discipline: storia, educazione civica, geografia, diritto, ecc.

I docenti, attraverso dialoghi e conversazioni, hanno saputo che il Comitato organizza riunioni settimanali in cui le persone discutono i problemi del quartiere (con le traduzioni nelle varie lingue) e cercano insieme delle soluzioni; organizzano attività di pulizia, giornate per sensibilizzare tutti alle questioni che riguardano il quartiere; inventano attività varie nella piazza principale (piazza Selinunte) dov’è presente un’area giochi per bambini e un campo da basket. Per far fronte alla situazione di frammentazione una volta al mese il Comitato organizza delle giornate con attività rivolte ai diversi target: giochi e letture di libri per i bambini; jam session di hip hop e writing per gli adolescenti; momenti di socialità per tutti con cibo e musica, dibattiti, incontri culturali, cinema all’aperto.

Il Comitato degli abitanti ha messo in piedi anche un doposcuola in uno spazio dedicato, che si svolge in due pomeriggi a settimana; collabora con un’associazione di volontari per progettare e condurre dei laboratori interculturali da proporre alle scuole dell’infanzia, primarie e medie della zona. Anche altre due iniziative meritorie dei volontari che operano nel Comitato possono intrecciarsi con quello che gli studenti e le studentesse fanno a scuola: una è il «ciclobookcrossing», cioè una bicicletta con un carrettino adattato per contenere libri che, muovendosi nelle strade del quartiere, porta i libri in prestito a chi li vuole leggere; la seconda è un corso di cantastorie aperto a tutti per risvegliare la capacità di raccontare e condividere ricordi. Il doposcuola, la biblioteca circolante, il corso per raccontare possono davvero rappresentare, per i ragazzi e le ragazze, delle belle occasioni di sostegno didattico (per il consolidamento della lettura, della lingua e dell’espressività), ma anche delle buone modalità per conoscersi, per partecipare alla vita del quartiere e per creare collegamenti reali fra quello che propone la scuola la mattina in classe e la loro vita nel pomeriggio. Gli insegnanti hanno appreso che, nell’età che i ragazzi e le ragazze attraversano, la scuola deve essere percepita e vissuta anche come un canale privilegiato che può consentire loro di vivere il quartiere in modo diverso, più consapevole e più partecipato. Ciò significa che spetta anche a loro collaborare a creare un senso di comunità e costruire qualcosa che faccia stare tutti meglio, a cominciare da loro stessi. Queste e altre attività possono rappresentare delle occasioni per gli studenti e per le studentesse, per offrire la loro collaborazione e le loro competenze, per crescere ed essere aiutati loro stessi.

È indicativo che alcuni istituti comprensivi (scuole elementari e medie) della zona hanno saputo aprirsi alle risorse del territorio per mettere in atto laboratori sull’intercultura, partecipando agli eventi per i bambini organizzati dal Comitato degli abitanti. Altri istituti comprensivi e l’istituto di istruzione superiore ove si è svolto il percorso di formazione invece si erano chiusi al territorio ed erano rimasti impermeabili a tutto ciò che di critico e di positivo in esso era accaduto. Il percorso di formazione ha avuto anche questo buon esito: far abbassare le difese in un territorio dove si avverte (forse anche troppo) l’esigenza di doversi proteggere.

 

Apprendere dal territorio e arricchire la didattica

Nelle indagini dei sociologi, nei servizi televisivi e nei resoconti della carta stampata è frequente leggere e ascoltare voci di persone che vogliono creare una distanza fra «noi» e «loro», cioè fra chi vive in un territorio da sempre (oppure da più tempo) e chi arriva da altrove. Ciò accade in particolare proprio nelle zone di periferia, viste da alcuni come luoghi del degrado urbano, luoghi residuali, «dove regna una calma sinistra, dove gli spazi pubblici sono assenti, dove la strada è morta» (Koolhaas e Mau, 1995). Sono tante le persone che vorrebbero mettere delle soglie, delle barriere, dei confini. In un saggio molto interessante che sintetizza vari lavori condotti negli ultimi anni, la critica d’arte Anna Detheridge (2016) riporta alcune operazioni di mediazione e studio per la rigenerazione di diverse zone periferiche attuate a Torino, Roma e Milano. Proprio alla luce di tali interventi in situazione la studiosa ritiene che non debbano essere affatto sottovalutate le opinioni di tanta parte della popolazione delle grandi città che vivono oggi in condizioni abitative caratterizzate dal degrado, dall’indifferenza, dal senso di insicurezza e che occorra ascoltare con attenzione i cittadini che si dicono contrari a quella che chiamano l’invasione. Anche nelle nostre brevi uscite previste del percorso di formazione per conoscere le strade, le piazze, i luoghi del quartiere abitato dagli studenti abbiamo incontrato donne e uomini disposti a raccontare tanti episodi di intolleranza; altri che hanno espresso posizioni di paura e di rifiuto nei confronti degli stranieri, opinioni derivate da episodi specifici che sono accaduti e accadono nel luogo specifico in cui essi vivono. Ma abbiamo incontrato anche tante attività costanti e condivise dove la volontà e la solidarietà prevalgono; dove la cultura ha un senso importante per unire le persone e migliorarle. Tutto ciò è di stretta pertinenza con quel che possiamo progettare e fare come docenti. Dobbiamo essere in grado di far sapere ai nostri studenti che conosciamo il territorio nel quale vivono fuori da scuola. Dobbiamo far sapere ai ragazzi che conosciamo il clima di intolleranza e di paura nel quale alcuni di loro crescono. È proprio a questo clima negativo che l’istituzione scuola e i singoli docenti devono opporsi per sostituire ad esso un clima di fiducia. In tanti quartieri delle grandi metropoli (così come in quello al centro del nostro percorso formativo) l’Altro è percepito come un pericolo per l’identità propria, quella del noi e quella dell’io. Ma a ben guardare l’Altro è anche lo studente quindicenne/sedicenne di famiglia straniera che la mattina (se tutto va bene, se non ci sono abbandoni, se non vengono prese strade peggiori e devianti…) si trova nei banchi dei bienni delle scuole superiori e di pomeriggio sosta senza far nulla sulle panchine o sui muretti del giardino urbano del quartiere: due ambiti di esistenza che letteralmente non comunicano fra di loro.

Se (come sta accadendo da alcuni mesi) gli opinion leaders proseguiranno a far circolare messaggi negativi nei confronti del pensiero interculturale, questi Studenti/Altri rischieranno sempre più di essere percepiti come un pericolo per l’identità docente. Ma, riprendendo un concetto dal filosofo Ricoeur (2013), si può avanzare l’ipotesi che, se ciò accadrà, dipenderà dal fatto che l’identità docente sia troppo fragile. Come insegnanti siamo chiamati a confrontarci con le opinioni negative frequentemente espresse attraverso i canali social e i media tradizionali. Quelle opinioni arrivano a intrecciarsi anche con il nostro lavoro in aula: come docenti e come ricercatori non abbiamo nessun potere per arginare e modificare quelle opinioni e sappiamo bene che esse hanno una forte presa su chi le ascolta; sappiamo che creano consenso, che determinano fratture, provocano allontanamenti e abbandoni scolastici. Proprio perché siamo consapevoli di tutto ciò, spetta a tutti noi, a chi insegna e a chi educa, coltivare la fiducia che la scuola trovi in se stessa le potenzialità per garantire a tutti il medesimo diritto all’educazione; per tenere nella giusta considerazione le difficoltà delle minoranze sociali dei nativi e dei nuovi arrivati perché quelle stesse difficoltà si ripercuotono poi in negativo su tutti gli studenti e sulla scuola nel suo insieme.

 

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DOI: 10.14605/EI1721902


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ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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