Test Book

Esperienze e progetti / Experiences, programmes, projects

Due Dj e un’antropologa. Etnografia di una festa in un Centro di Accoglienza Straordinario
Two DJs and an anthropologist. The ethnography of a party at a temporary reception centre

Maddalena Gretel Cammelli

Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna

Michele Restuccia

Laurea magistrale in Scienze della Comunicazione. Socio fondatore e presidente di snark-space making, michele.restuccia@gmail.com


Autore per la corrispondenza

Maddalena Gretel Cammelli
Indirizzo e-mail: mgcammelli@gmail.com
Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, Via Filippo Re, 6, 40126, Bologna



Sommario

Questo articolo contribuisce al dibattito circa la complessità e i dilemmi del lavorare nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo in Italia attraverso la narrazione del percorso di co-creazione di una festa all’interno di un Centro di Accoglienza Straordinario. Raccontando l’evoluzione del progetto, l’evento della festa e le dinamiche che si sono sviluppate durante l’intero percorso di co-creazione, emergono alcuni elementi di interesse riguardo: il coinvolgimento dei richiedenti asilo e le relazioni in essere fra i residenti in uno stesso Centro; la relazione tra il Centro e le persone che abitano il quartiere adiacente; le difficoltà e le opportunità del progettare eventi all’interno del Centro e dunque in relazione al lavoro di accompagnamento effettuato dagli operatori. In questo articolo analizziamo dunque le problematiche, le difficoltà e le opportunità di aprire spazi di co-progettazione culturale attraverso le pareti dei Centri di Accoglienza Straordinari per richiedenti asilo. Da una parte si metteranno in luce i vincoli strutturali di norme e burocrazie, dall’altra si illustrerà la potenzialità trasformativa dell’iniziativa, vissuta contestualmente da una pluralità di soggetti: richiedenti asilo, ricercatori, operatori e abitanti dei territori.

Parole chiave

Progettazione, accoglienza, etnografia partecipata, richiedenti asilo.


Abstract

This article contributes to the debate over the complexity and dilemmas of working in Italian immigration policies for asylum seekers, through the narration of a co-creation process aimed at organising a community party in a temporary reception centre for asylum seekers. Some interesting features emerge in narrating the process, the party and the actual dynamics which unfolded through the co-creation process: how the asylum seekers became involved; the relationships among those living in the same centre; the relationship between the centre and its neighbours; and the hurdles and the opportunities that emerged from organising such processes within a centre in relation to the support provided by the centre’s staff. In this article we will analyse the problems, difficulties and opportunities which emerged in adopting a co-creation practice inside Temporary Reception Centres. On the one hand, we will highlight the constraints generated by bureaucracy and regulations and on the other hand, we will discuss the transformative impact of such process, experienced at the same time by many players: asylum seekers, researchers, social workers and members of the local community.

Keywords

Social planning, immigration policies, participatory ethnography, asylum seekers.


Introduzione

L’ondata migratoria che ha seguito la crisi politica dello stato libico (Ciabarri, 2015) ha determinato un ingente numero di sbarchi sulle coste italiane e un conseguente vertiginoso incremento della presenza di strutture di accoglienza per richiedenti asilo sul territorio italiano. Come riportato nel Rapporto Protezione Internazionale pubblicato nel sito del Ministero dell’Interno nel 2017, nell’ultimo quinquennio riguardo gli sbarchi «l’incremento è stato del +1.017%. Rispetto alle tipologie di strutture, dal 2014 al 2016 le presenze nei CAS sono aumentate del 286,5%, passando dalle 35.499 del 2014 alle 137.218 del 2016; incremento parimenti elevato, anche se in forma più contenuta, è quello che riguarda gli accolti nei centri SPRAR (48,3%), che passano dalle 23.836 permanenze del 2014 alle 35.352 del 2016» (Anci Caritas et al., 2017, p. 115). In tutta la penisola sono così venuti ad aprirsi numerosi Centri di varie dimensioni e differenti tipologie di gestione.

Una delle caratteristiche principali del sistema Sprar (per un’analisi etnografica del quale rimandiamo a Sorgoni 2011a) è l’essere un progetto a vocazione volontaria, che tende ad accompagnare l’inserimento del richiedente asilo sul territorio con un lavoro congiunto di associazionismo locale e Amministrazione Comunale.

In netta contrapposizione a tale visione e progettualità di accoglienza dei richiedenti asilo è il sistema emergenziale cui si fa riferimento con l’appellativo CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria): di gestione prefettizia, diretta emanazione di direttiva ministeriale, tali Centri non sono progetti volontari delle singole realtà territoriali, ma rappresentano il tentativo centralizzato del Ministero dell’Interno di rispondere all’ingente esigenza di trovare posti in cui alloggiare – e accogliere – l’alto numero di persone che sbarcano nelle coste del sud Italia.

Tali Centri possono essere di varia tipologia: appartamenti, stanze di hotel, centri collettivi di ampia dimensione. In tutti questi casi, si utilizza la denominazione di CAS quando si tratta di Centri governativi, aperti su mandato prefettizio e gestiti per lo più da enti associativi o del privato sociale attraverso assegnazioni immediate (data la natura emergenziale delle aperture), e poi tramite bandi prefettizi. Nella gestione dei CAS non è previsto un ruolo protagonista dell’Amministrazione Comunale, la quale può però essere interpellata dalla locale Prefettura a titolo consultivo.

Molti territori della penisola in questo arco temporale (2014-2016) si sono visti investiti dall’apertura di centri CAS di varie dimensioni, sia centri collettivi che piccoli appartamenti. In questo contesto, nel febbraio 2014, ha aperto anche il Centro di Accoglienza di Rodi (nome fittizio),1 che ospita cento richiedenti asilo di sesso maschile e di varia origine. È in questo luogo che si è svolto il percorso laboratoriale e la festa di cui racconteremo di seguito.

 

«Arrivo in cima alla collina e trovo posto nel parcheggio. All’ingresso il solito pannello con scritto “residenza per parenti vittime di guerra”: paradosso storico-topografico della realtà che rende oggi questo edificio il più grande CAS della città – con 100 uomini adulti –, in quella che un tempo fu residenza per chi, appunto, aveva perduto i propri cari durante le guerre europee. L’edificio è sempre quello, non bello ma situato in cima a una collina e dal panorama talmente suggestivo da mettere concretamente in secondo piano l’osservazione del palazzo: lo sguardo corre piuttosto a immergersi tra il verde delle colline che si susseguono, una dopo l’altra, tutto intorno. L’inizio delle montagne è un continuo rincorrersi di sinuose colline, colori verdi alternanti a campi arati, alberi in fiore o in frutto e cielo aperto con nuvole a non finire» (Cammelli, Quaderno di campo, marzo 2017).

 

In questo contesto verdeggiante della primissima collina, a qualche centinaio di metri dal centro storico, si trova dunque il Centro di Accoglienza Straordinario noto come Rodi.

Era la tarda mattinata di un sabato d’autunno quando Mohammed Gallo diede il benvenuto alla festa di Rodi alle persone ivi giunte, e raccontò la storia dell’edificio. Così ha preso inizio la giornata della festa. Mentre Mohammed parlava al microfono, un cappello di una decina di altre persone residenti nel Centro stava attorno a lui come a significare che se il microfono doveva per forza di cose amplificare una voce sola, la responsabilità della parola era di tutti. Si trovava in quello che solitamente è il parcheggio, adibito per l’occasione a spazio della festa, addobbato con striscioni con scritto «benvenuti» in tutte le lingue parlate nel Centro, tavoli con tovaglie rosse, bevande e cibo, oltre che del protagonista della scena: il tavolo col mixer, le casse, e i Dj. Ad ascoltare quel discorso di benvenuto, così come a vivere e animare la giornata, si trovavano quasi tutte le persone residenti nel Centro di Accoglienza, molti operatori che lavorano nello stesso o in altri Centri della città, ma anche molte persone venute da varie zone della città. Alcune persone erano state invitate direttamente per la festa, come i vicini (residenti nelle strade limitrofe, frati del vicino convento e della parrocchia, rappresentanti del quartiere), altre a vario titolo e in vario modo erano venute a conoscenza dell’evento e avevano approfittato del tepore di una delle ultime giornate di sole dell’autunno per varcare la soglia del Centro, assistendo agli spettacoli preparati, mangiando, danzando.

Questa festa è stato l’esito di un percorso di svariati mesi di co-creazione della stessa assieme alle persone residenti nel Centro di Accoglienza. Il percorso si è sviluppato su più fasi laboratoriali e mirava a interrogarsi, in un’ottica di etnografia sperimentale (Cammelli, 2017), sulla potenziale efficacia di un momento di celebrazione collettiva quale opportunità di autodeterminazione per i richiedenti asilo residenti, e quale spazio di scambio tra il Centro di Accoglienza e la comunità locale. In quanto segue racconteremo alcuni episodi significativi del percorso che ha portato alla festa. A partire da questo racconto proveremo a fare emergere le questioni che riteniamo significative per un’analisi sui dilemmi, i limiti e le opportunità di progettare e fare iniziative culturali dentro e attraverso le strutture di accoglienza.

 

 

Metodo: creazione e celebrazione collettiva

La co-creazione (Mantovani e Thiene, 2014) o creazione collettiva, come indicato dal prefisso «co», è una metodologia di creazione di valore condivisa da più persone, nell’ambito di organizzazioni e in contesti informali, che richiede di sviluppare uno spazio di relazione e di feedback tra i partecipanti agli incontri o ai laboratori, con diversi gradi di complessità operativa e metodologica.

Rispetto all’ambito della co-progettazione (Sanders e Stappers, 2008), che individua negli utenti finali di servizi e progetti alcuni dei soggetti da coinvolgere in una o più fasi laboratoriali, nelle pratiche di co-creazione realizzate tramite la compresenza fisica è fondamentale attivare una relazione di conoscenza e fiducia tra gli individui prima di avviare il lavoro creativo, e definire alcune regole e valori comuni. In particolare, è cruciale riconoscere la complessità degli individui (Mantovani e Thiene, 2014) come opportunità da valorizzare, con le loro capacità emozionali, fisiche e intellettuali.

Questo approccio orientato alle capacità degli individui ha caratterizzato tutte le fasi del processo di creazione collettiva, che hanno seguito una pianificazione orientata tanto agli obiettivi generali quanto, appunto, all’indagine e alla valorizzazione delle capacità individuali. Dalle pratiche di co-creazione abbiamo quindi desunto un approccio operativo, adattandolo al contesto ed effettuando in principio su noi stessi un’indagine rispetto alle capacità.

A prescindere dal contesto, religioso, politico o comunitario, antropologi ed etnografi hanno dimostrato come balli, danze e altre modalità di festa collettiva consentano agli individui di comprendere e trasformare la propria esistenza e i propri legami sociali. Questo è valido sia in epoche antiche (Ehrenreich, 2006) che in età moderna e contemporanea (Solnit, 2013; Clayton, 2016). Nell’ultimo decennio l’impiego delle tecnologie digitali ha ampliato le opportunità per gli individui di fare e condividere tali esperienze, in particolare nel contesto delle diaspore e delle migrazioni (Clayton, 2016), in cui festa e musica offrono opportunità concrete per sostenere legami affettivi e di parentela e trasformare le attuali relazioni di potere. Nel contesto del percorso di creazione collettiva di un momento di festa presso un Centro di Accoglienza Straordinario, la danza e la musica oggetto della stessa sono state uno strumento cruciale per permettere di creare un «livello zero» tale da rendere, almeno per un momento, tutte le persone uguali grazie a un piano di accessibilità condiviso, da cui abbiamo potuto muoverci per sviluppare relazioni e condividere informazioni.

 

«Ieri primo laboratorio di musica/danza per la costruzione della Grande Festa Danzante a Rodi. Sono venuti in parecchi, una ventina rimasti a lungo. C’erano sorrisi e gambe che avevano voglia di muoversi e danzare, altre invece erano voci che avevano voglia di cantare, e l’hanno fatto. In due hanno rappato su una base in alternanza uno dopo l’altro, in free-style, non so se poi fosse un pezzo già scritto in precedenza, ma era una poesia. Incredibile come alcuni si siano aperti subito, abbiamo dovuto invitarli un po’, stare attenti che entrassero nella stanza, aprire tutte le porte. Michele ha però messo subito su la musica con la cassa, e questo ha aiutato subito a fare capire che eravamo lì per una cosa: fare una festa, insieme…» (Cammelli, Quaderno di campo, luglio 2017).

 

Ci interessava questa dimensione di festa, di celebrazione condivisa tra più persone, proprio perché ritenevamo che avrebbe potuto porre tutti gli individui sullo stesso piano, creando le condizioni affinché nel passaggio dalla fase dei laboratori alla festa si promuovesse la nascita di un sentimento di communitas (Turner, 1982). Lo abbiamo fatto rivolgendo a tutti le stesse domande sulle esperienze di festa, sulle capacità comunicative, artistiche o organizzative, e riflettendo insieme sull’impatto che la festa avrebbe potuto avere sulle persone che abitano nel Centro. Questo ci ha permesso di impostare il lavoro sapendo che avremmo dovuto iniziare da un piano di conoscenza, senza ricorrere a strumenti eccessivamente strutturati. Avremmo dovuto seguire un piano, offrendo sì la visione della festa come spazio di espressione e divertimento, ma al tempo stesso essendo pronti a adattare il piano di lavoro alle circostanze di contesto. Per questo si è iniziato presentando il progetto partendo da noi stessi, dalla voglia di fare festa insieme.

 

«Nel discorso introduttivo, Michele è partito da lui: “Io sono un Dj, amo mettere su musica, e anche ballare. Per questo sono qui: perché vorrei organizzare una festa con tutti voi!”. E si vedeva, si sentiva che lo diceva con sentimento. I ragazzi ci chiedevano cosa volevamo. Ad esempio se avremmo voluto che danzassero le loro musiche tradizionali… sarà impegnativo fargli capire che non ci sono regole, se non quelle che decideremo insieme» (Cammelli, Quaderno di campo, luglio 2017).

 

Abbiamo agito nel tentativo di considerare tutti sullo stesso piano, senza dimenticarci dell’oggettivo divario di risorse informative e di potere decisionale, dato particolarmente valido nel contesto di un gruppo di lavoro costituito da noi – quali progettisti esterni – e le persone che vivono nel Centro di Accoglienza. Questa è una premessa della co-creazione: partire dal sé, dall’attivazione di relazioni, ma è stato utile anche ai fini dell’etnografia: in ogni singola occasione, presentando il percorso, preparando o gestendo gli incontri, abbiamo sempre prestato estrema attenzione al fatto che non ci fossero né ragazzi né ospiti, ma persone del gruppo di lavoro, alcuni dei quali sono richiedenti asilo e vivono concrete limitazioni date dal dispositivo di accoglienza. Condividere informazioni sul processo sin dal primo incontro e durante tutto il percorso è stato tanto fondamentale per creare orizzontalità e uscire dai ruoli e disfare la relazione di potere basata sulla detenzione del sapere (Cammelli, 2017), quanto impegnativo, ma ha oggettivamente consentito di stimolare e attivare in alcuni partecipanti un percorso di autonomia, in quanto soggetto rilevante e competente. Questo lo si è visto in tutte le occasioni in cui è stato necessario coinvolgere altre persone che vivono nel Centro, discutere le attività, le responsabilità e gli obiettivi.

 

«Ieri altro appuntamento del laboratorio di musica e progettazione della festa a Rodi. Un’antropologa e due Dj’s. […] Rifacciamo un giro di presentazione di nomi e lingue. Chiediamo così a due ragazzi che c’erano la settimana scorsa di spiegare ai nuovi cosa stiamo facendo, perché siamo qui. In due – uno in francese e uno in inglese- spiegano quello che hanno capito: che siamo qui per organizzare insieme una festa di Rodi. Un ragazzo, mi pare sia Jallo della Costa d’Avorio ha detto questo: “Ici c’est une école, on veut organiser une fête, ensemble”» (Cammelli, Quaderno di campo, luglio 2017).

 

Svolgendo sessioni uniche si è potuto dare valore alle capacità di chi parlava più lingue, che ha così potuto tradurre dall’italiano verso l’urdu o l’arabo, o è stato in grado di motivare, di mediare o di aiutare altri compagni in condizione di necessità. Il progetto era quello di creare un gruppo di lavoro che si prendesse poi carico dell’insieme dell’organizzazione e della progettazione. Come ha ricordato in quei giorni Michele, infatti: «Noi oggi siamo in sette, siamo il nocciolo centrale, accanto a noi abbiamo un gruppo allargato di persone che sono interessate ad aiutarci, e quindi ci sono tutti gli altri che vivono qui che non possono o non vogliono partecipare a questa fase ma che probabilmente verranno alla festa».

Il gruppo che si è formato nel tempo si è trovato così, poco alla volta, a lavorare insieme: lavorare ha significato incontrarsi, conoscersi, prendere delle decisioni e scegliere insieme. Anche quando collaborare, prendere una decisione sulla base di informazioni e obiettivi precedentemente condivisi, non è cosa cui i richiedenti asilo residenti nel CAS sono normalmente abituati. Come ha ricordato Mohammed nel suo discorso di benvenuto nel giorno della festa, infatti: «Siamo 3 o 4 ragazzi nelle stanze e la nostra provenienza è composita: dall’Africa e dall’Asia. Dall’Africa veniamo dai paesi diversi (Sudan, Egitto, Costa d’avorio, Mali, Senegal, Gambia, Liberia, Ghana, ecc.) e dall’Asia (Bangladesh, Pakistan, ecc.). Siamo obbligati ad imparare l’italiano per poter comunicare fra noi perché parliamo delle lingue diverse. Abbiamo anche delle culture diverse».

 

Il laboratorio di co-creazione della festa è diventato così uno spazio di incontro e confronto reciproco: non solo tra un noi (due dj e un’antropologa) e un loro (richiedenti asilo di Rodi); ma anche tra gli stessi abitanti del Centro, fra di loro.

 

«Abbiamo poi provato a tirare fuori l’asso da novanta: cos’è per te una festa? Cosa sono le cose importanti che ci devono essere per fare una festa? Come si fa una festa nel tuo paese? Abbiamo proposto di dividerci in due gruppi per parlare, ma loro invece hanno preferito parlare e ascoltare tutti insieme. Bel segno! E poi, a giro libero, in molti hanno preso parola: “una festa deve avere uno spettacolo, e un concerto”; “una festa deve essere di notte, così si può ballare”, “io vorrei sviluppare di più le mie capacità comunicative, imparare a parlare davanti a tanta gente, senza avere paura”, “una festa deve avere una danza, come un balletto che impariamo prima, e che poi è da rifare quel giorno”. Michele dice che per lui la cosa importante di una festa è la musica, e delle buone casse. Lamine della Guinea Bissau dice che lui vorrebbe della musica capoverdiana. Frank dal Sudan dice che una festa deve iniziare alle 18 e fino all’una, e tutti si deve ballare insieme. Mubarak della Costa d’Avorio dice che da lui le feste hanno tre momenti: prima la danza organizzata (balletto/spettacolo), poi gli artisti/musicisti che suonano, e infine si aprono le danze e tutti gli invitati ballano. James, dall’Etiopia, racconta che nel suo paese ci sono 85 tribù o più, tutte con il loro sistema di danza. Ognuna ha la sua banda che suona, ogni occasione la sua festa (i matrimoni sono stati citati più volte). A lui piace la danza yoroba. Ci viene così in mente di chiedere, di introdurre, un altro macro-tema: perché, in quali occasioni si fa festa?

In Mali, raccontano, si balla con i Dj, poi ci sono i Rapper. Mentre per i matrimoni ci sono gli djambe, i tamburi. Sarami, dal Ghana, racconta che nel suo paese dipende da che tipo di festa si sta facendo. Però, poi spiega, c’è un certo ordine: competizione di rap, competizione di danza, competizione di musica, competizione di cibo (dove vince chi mangia più veloce il piatto di riso e l’acqua). A quel punto c’è uno spettacolo, e dopo lo spettacolo si proclamano i vincitori delle varie competizioni. A quel punto si aprono le danze e tutti ballano: “e anche chi non è fidanzato può ballare!”. Serge, del Sudan anche lui, ci racconta che lì quando c’è una festa, se è in città, tutti sono vestiti bene, con pantaloni lunghi, camicia, cappello/velo in testa. In campagna invece no, si possono tenere i pantaloni corti…Tutte queste discussioni le traduciamo in istantanea in inglese-francese-italiano, solleviamo la testa e sono già le 22h e 30, la pausa è saltata e io ho la gola quasi secca, siamo stanchi. […] Bicchiere di coca per prendere energia, uno o due pezzi da ascoltare, e subito partono le danze in mezzo al cerchio. È capace che alla fine di questa esperienza avranno insegnato a ballare anche a me!» (Cammelli, Quaderno di campo, luglio 2017).

 

È attraverso vari mesi di laboratori di questa tipologia che siamo arrivati alla giornata della festa e che quella mattina, quando siamo arrivati su a Rodi, siamo rimasti felicemente sorpresi nel vedere tante persone intente ad allestire e organizzare lo spazio. L’ingresso dell’area già arredato con festoni, poster di benvenuto multi-lingua e gruppi misti di operatori e richiedenti asilo intenti ad allestire tavoli e sedie. Quando poco dopo sono arrivati i primi partecipanti la consolle stava già suonando alcune canzoni, mentre altri stavano provando i propri interventi teatrali. Nella mattinata abbiamo continuato a discutere con il gruppo di lavoro su come adattare la scaletta, definita nei giorni precedenti, in base a impegni e necessità di chi si sarebbe dovuto esibire. Durante tutta la festa si è continuato a discutere modifiche a tempi e modalità degli interventi, modificando la programmazione delle attività in maniera libera e consapevole, accogliendo le tante richieste di usare i microfoni per saluti e rap, lasciando spazio a esibizioni spontanee di danze di gruppo, interventi di danza a metà tra breakdance e twerking, e tutto quello che è stato possibile nell’ottica di celebrarsi e di esporsi, in un modo meno elaborato di presentarsi. Nei laboratori che avevano portato alla festa molto si era discusso di come ciascuno e il gruppo avrebbe potuto trovare il modo di presentarsi ai partecipanti. Per questo è stato un significativo successo registrare la cura e la partecipazione al tavolo di accoglienza predisposto all’ingresso del parco, dove un gruppo di richiedenti asilo del Centro ha accolto e salutato sia i partecipanti che quanti transitavano per l’area per raggiungere l’adiacente edificio storico. Negli stessi momenti il piazzale era riempito dalle persone che ballavano e ascoltavano la musica suonata dal dj, inframezzata dai discorsi e dagli interventi rap. Questi ultimi erano stati messi in scaletta dal gruppo di lavoro con la consapevolezza che in molti, una volta ascoltati i contributi dei rapper che si erano preparati per esibirsi, avrebbero a loro volta voluto cantare e rappare. E così è stato, al punto che, come ci è stato fatto notare da alcuni degli operatori, in più di due occasioni coppie di persone che fino a pochi giorni prima della festa avevano vissuto difficoltà di relazione e convivenza nel Centro si stavano trovando a cantare e rappare insieme con grande complicità. Questo agire e celebrare insieme permette alle persone di mettere in scena e comprendere in prima persona il fatto di essere compagni, il fatto di essere parte di una comunità, per quanto temporanea ed estemporanea.

 

La festa comincia in salita

Nel discorso introduttivo e di benvenuto alla festa, Mohammed ha ricordato che «la nostra vita a Rodi è una vita normale come le altre, ma difficile con la salita quando non c’è l’autobus». Allo stesso modo, quando ha finito il discorso l’attenzione di tutti è stata richiamata da Ibrahim che, su di una sedia a lato del viale, ripeteva «Venite! Venite! Di qua! La festa comincia in salita!» indicando la direzione da prendere per fare una passeggiata attorno a Rodi, per forza di cose in salita.

Come già ricordato, il Centro di Accoglienza in questione si trova in cima ad un colle, per giungervi non sono molti i chilometri, ma ripida è la salita che si è costretti a percorrere. Il sabato e la domenica mattina solitamente si vedono vari gruppi di camminatori salire e scendere. Ma durante la settimana, nelle varie ore del giorno o della sera, chi passa da questa strada non vedrà molte persone salire e scendere a piedi: i residenti in zona si spostano in macchina. Di fatto, gli abitanti di Rodi sono per lo più gli unici a salire a piedi, quando l’orario del bus (che effettua circa 10 corse al giorno) non corrisponde ai loro. Questa salita viene ricordata molte volte dalle persone che abitano nel Centro ad esempio della distanza che separa il Centro dalla città. Durante un laboratorio parlando della differenza tra città e campagna, abbiamo chiesto se Rodi fosse in città. Un ragazzo ha risposto dicendo che «la città è [nome della città]. No, Rodi non è in città».

La percezione che i richiedenti asilo hanno del quartiere nel quale insiste il Centro di Accoglienza è abbastanza esplicativa di una mancanza di relazione e di un incontro assente tra il Centro ed il suo quartiere:

 

«Venerdì incontro alcuni ragazzi di Rodi per organizzare la questione comunicazione della festa. Abbiamo ragionato su volantini, locandine, cosa scriverci sopra e dove metterli, dove pubblicizzare la festa. […] Alla nostra domanda rispetto a chi dare i volantini tra i vicini di casa, la risposta è stata unanime di tutti: “non c’è nessun vicino a Rodi, sono solo gente molto anziana e aristocratica. Nessuno parla né saluta. Solo il prete di fronte, loro li invitiamo, perché loro ci invitano sempre se fanno delle feste» (Cammelli, Quaderno di campo, settembre 2017).

 

La distanza che separa i richiedenti asilo di Rodi dalla città e dal quartiere che li ospita, la percezione di isolamento e solitudine esperita ed espressa dagli stessi residenti nel Centro, esplica in modo piuttosto chiaro quanto Pinelli e Ciabarri (2016) hanno descritto come dialettica caratterizzante il mondo delle migrazioni forzate in genere sul territorio italiano, oscillante tra dinamiche di estremo controllo e poi altrettanto estremo abbandono. I richiedenti asilo che si trovano a vivere all’interno del Centro di Accoglienza sono sottoposti a un regolamento prefettizio che ne disciplina la vita quotidiana fino ai più piccoli gesti (tra gli altri: orario e tipologia dei pasti, orario di rientro serale, silenzio notturno, ecc.), un controllo nella pratica agito dall’operatore dell’accoglienza, che deve ogni giorno inviare comunicazione in Prefettura dopo avere verificato l’effettiva presenza di ogni persona dentro il Centro. L’operatore è tenuto a tenere registro di ogni episodio che avviene all’interno o all’esterno del Centro e che riguardi la vita del richiedente asilo: visite mediche, controlli sanitari e terapie, appuntamenti per lo svolgimento della procedura legale, mediazioni linguistico-culturali, attività di volontariato, di tirocinio, etc. Questo importante apparato di informazioni risulta necessario all’operatore per svolgere al meglio il proprio compito di accompagnamento della persona richiedente asilo nella società detta «di accoglienza»; al tempo stesso, tutte queste informazioni operano un controllo minuzioso di ogni specifico aspetto della vita del richiedente asilo residente nel CAS, e vengono mensilmente inviate in Prefettura, a giustificazione del lavoro svolto e delle attività in essere nel Centro. Dunque, come spesso già sostenuto, vediamo che la pratica della cura si affianca in modo stretto e inscindibile a quella del controllo (Agier, 2005). Un controllo minuzioso, che è attento ai più sottili dettagli, e che riguarda l’insieme della vita delle persone residenti nei Centri di Accoglienza.

Al centro della contraddizione vissuta da chi lavora all’interno dei Centri di Accoglienza vi è questa dialettica costante tra cura e controllo (Agier, 2005), tra compassione e repressione (Fassin, 2005) che caratterizza questa tipologia di intervento socio-educativo volto, in fin dei conti, a «creare un rifugiato» (Sorgoni, 2011b). Al tempo stesso, come sostenuto da Pinelli e Ciabarri (2016), è interessante rilevare come a questo minuzioso controllo che viene agito su più scale e livelli all’interno dei CAS corrisponda un altrettanto effettivo abbandono istituzionale circa il destino sia dei richiedenti asilo, sia delle realtà territoriali coinvolte.

Parlando con varie persone che risiedono, vivono o lavorano nel quartiere adiacente il Centro di Accoglienza, è stato interessante rilevare la totale assenza di consapevolezza e di informazioni anche di base riguardo alla vita dello stesso. Dice una vicina del quartiere: «No non sappiamo nulla. L’ho scoperto [dell’esistenza del Centro] solo perché a un certo punto si sono iniziati a vedere gruppetti di persone che salivano e scendevano, tutto qui. Ma nessuno ci ha mai detto nulla. Manco un volantino». E ancora: «Nessuno ha mai lasciato neanche un volantino… magari il Comune avrebbe potuto farlo… avrà pure un ufficio che si occupa di queste cose… avrebbe potuto mandare un’informativa, anche perché se sai cosa è stai tranquillo tu, se no poi uno pensa, e immagina la classica situazione dove poi non se ne vanno più e stanno 10 anni… non un punto di passaggio».

Varie persone con cui ho potuto discutere non avevano idea di cosa fosse il CAS e con quali modalità accogliesse i migranti. Per lo più sono percepiti come «richiedenti asilo», ma la maggior parte delle persone intervistate crede che nel Centro ci sia qualche decina di persone, e che Rodi sia un luogo di passaggio, da cui poi le persone sono trasferite in Centri di più piccole dimensioni.

Gli abitanti del quartiere non hanno ricevuto notizie dell’apertura del Centro di Accoglienza nel 2014. Non hanno notizie di cosa avviene al suo interno. La loro percezione dei richiedenti asilo ivi accolti dunque non si scosta di molto dalla percezione dei richiedenti asilo rispetto agli stessi vicini… diffidenza, timore, non-conoscenza: «Noi vediamo questi ragazzi che scendono, sono robusti sono belli, la gente dice “cosa ci stanno a fare?”. Fa effetto vedere delle persone che hanno chiesto rifugio che girano con gli auricolari, i pantaloni giù, gli occhiali da sole…». E ancora, un’altra vicina: «Non sono mai andata su, non ho mai visto cose organizzate lì che dessero l’occasione di andarci. Eppure io sto attenta a cosa c’è attorno, in zona ma anche in città in generale».

La festa di Rodi è stata così l’occasione per invitare persone abitanti nel quartiere a partecipare alla stessa, a venire su in cima al colle. Come ha poi sostenuto un responsabile del Quartiere intervistato «se le persone non sono abituate a venire, non verranno per quell’occasione. (…) Si dovrebbero fare dei gruppi misti, ad esempio per la cucina, ma anche per altro. Dei gruppi che facciano delle cose insieme prima, in modo da condividere dei momenti formativi e informativi». Ma questo comporta un investimento di tempo ed energia di cui nessuno dispone: emblema dell’abbandono istituzionale che circonda le pareti dell’accoglienza. Ad un minuzioso controllo infatti delle singole esistenze all’interno dei Centri, non corrisponde una progettualità né un intervento o le risorse per strutturare la relazione tra questo stesso Centro e il territorio sul quale questo insiste. Un sostanziale vuoto istituzionale permea lo spazio circostante i Centri. Non è materia della Prefettura, né materia dell’ente gestore. Ma non è materia neppure del Comune e i Quartieri non sanno nulla e comunque non dispongono di risorse per agire in tal senso.

In questo contesto, l’invito cartaceo alla festa, che è stato stampato e distribuito a tutti i vicini del quartiere, è stato il primo messaggio che questi hanno ricevuto. E se la mancanza di abitudine dei vicini a varcare quel cancello non verrà meno per questa festa, al tempo stesso, come sostenuto da un responsabile di una delle parrocchie di zona: «la cosa importante non è tanto né solo che [un vicino] venga alla festa, quanto che riceva l’invito».

 

Il giorno della festa infine, poche persone del vicinato sono venute ad affacciarsi. Al tempo stesso, alcune che sono attente agli eventi in zona e che avevano voglia di tale incontro, hanno potuto approfittare dello stesso per varcare la soglia. Gruppi di turisti in visita, o di camminatori del sabato, o passanti di passeggio sentendo la musica e vedendo il tavolo di benvenuto all’ingresso hanno avuto una prima occasione di scambio e incontro e, chi lo ha cercato, anche di confronto.

 

Dilemmi attraverso le pareti

Come abbiamo visto, l’aspetto della co-creazione e l’aspetto dell’incontro con il vicinato rappresentano due elementi che rivelano nella festa un’opportunità concreta di accrescimento sia per i richiedenti asilo del Centro, sia per il territorio e i suoi abitanti. Ma sarebbe parziale una narrazione della stessa che non indichi al contempo anche le difficoltà che noi stessi abbiamo dovuto affrontare nel momento in cui abbiamo intrapreso il percorso dentro il Centro, nonché i dilemmi che ci hanno accompagnato sin dal momento dell’ideazione di questo progetto.

Non si tratta solamente di prendere posizione all’interno di un dibattito circa l’opportunità o meno di lavorare all’interno del sistema di accoglienza (Saitta e Cutolo, 2017): si tratta piuttosto di prendere sul serio la complessità di un mondo e delle relazioni che questo struttura al suo interno, da un lato in termini di opportunità, dall’altro in termini di concrete limitazioni.

Una prima difficoltà incontrata è stata quella dei permessi. Un CAS, come già spiegato, è un Centro governativo gestito da un ente terzo per conto della locale Prefettura. Non si può dunque entrare all’interno di un Centro di Accoglienza Straordinario senza un’autorizzazione scritta della Prefettura, che viene solitamente rilasciata solo dopo avere preso visione di un progetto specifico, con i nominativi dei referenti. Spesso, solo enti associativi e quindi realtà organizzate in una qualche maniera istituzionale sono in condizione di presentare tali domande.

 

«Per una volta l’etnografia mi mette nella condizione del richiedente: impotente rispetto a sé stesso, al proprio percorso, progetto migratorio e di vita, ai propri tempi e impegni lavorativi o altro. Così tra ieri e oggi mi sono trovata con alcuni – plurimi- ALT che fanno riflettere se non sorridere. Ma certo, i silenzi dell’etnografia non sono sordi come i silenzi dell’attesa della procedura di richiesta di asilo. Ma sono, in entrambi i casi, tempi e condizioni di depotenziamento. […] Dopo avere atteso quasi due mesi l’autorizzazione della Prefettura per attivare il laboratorio a Rodi per organizzare la Festa, ieri siamo finalmente andati in equipe, e il laboratorio non può partire ancora perché ora c’è il Ramadan, e non può partire un laboratorio musicale propedeutico a una festa nel mese del digiuno… Dunque, di nuovo, attesa. Questa volta bene che a stabilire l’attesa siano per una volta anche loro, i richiedenti asilo del Centro, e non i rappresentanti delle istituzioni. Ma nell’etnografia e nel tempo etnografico, l’attesa può essere fonte di riflessione e strumento di analisi, mentre per il richiedente asilo difficilmente quell’attesa si trasforma in altro da logoramento.» (Cammelli, Quaderno di campo, giugno 2017).

 

In totale, dal momento dell’ideazione del progetto al suo effettivo inizio abbiamo dovuto aspettare circa sei mesi. Abbiamo così riflettuto circa la continuità dell’esperienza dell’attesa, per i richiedenti asilo e la loro esperienza nell’accoglienza, caratterizzata da lunghe attese e lunghi silenzi (Giudici, 2014; Pinelli, 2014), con chi – come noi in questo percorso – abbia voglia di provare a varcare le pareti degli stessi Centri. Ecco che la burocrazia e le lunghe attese non sono più circoscritte alla sola procedura di richiesta di protezione internazionale o ai documenti. L’attesa e la privazione di autonomia decisionale rispetto al percorso scelto riguardano anche la persona esterna che cerca di costruire ponti e varcare alcuni dei confini della nostra società (Mezzadra e Neilson, 2013).

Abbiamo scelto di organizzare i laboratori all’interno della stessa struttura del Centro, per permettere – pensavamo – una maggiore partecipazione. Non avevamo valutato con adeguata attenzione, come siamo poi stati costretti a fare nel momento dell’esperienza, che le pareti del Centro sono impregnate di procedure, di regolamenti, di dinamiche di relazioni gerarchiche e non libere né orizzontali (Makaremi e Kobelinsky, 2008; Pinelli e 2014; Saitta e Cutolo, 2017; Sorgoni, 2011b; Van Aken 2008; Vecchiano, 2005; Vianelli, 2014). La struttura del Centro, le sue pareti e i suoi spazi sono impregnati delle contraddizioni che animano nel profondo il lavoro nel mondo dell’umanitario (Verdirame e Harrell-Bond, 2005). Contraddizioni che molteplici antropologi hanno già descritto, caratterizzate da dinamiche di «care, cure and control» (Agier, 2005).

In questo senso, il ruolo dell’operatore diventa spesso un ruolo disciplinante, tendente a infantilizzare il richiedente asilo, a enfatizzare la privazione di autonomia cui queste strutture costringono i richiedenti. E spesso questo avviene nel momento stesso in cui l’operatore cerca di prendersi al meglio cura della persona in questione. E questa è certamente la contraddizione fondante il ruolo stesso di questo lavoro.

«Michele si interroga su come gli operatori informino i ragazzi del laboratorio. Ha visto un’operatrice dirgli “dai dai vai!” e non vorrebbe che li obbligassero. In realtà le persone che erano venute lunedì scorso sono state riavvisate di oggi dagli operatori per ricordargli di venire» (Cammelli, Quaderno di campo, luglio 2017).

 

La relazione di addomesticamento, la privazione costante di autonomia decisionale cui sottostanno le persone che risiedono nei Centri di Accoglienza, ha come tornaconto una tendenza all’inerzia e all’immobilità, dalla quale si è riusciti a uscire solo attraverso il lavoro pregresso di co-creazione. Solo grazie all’intervento concreto di alcuni partecipanti al laboratorio si è riusciti a non fare percepire il nostro laboratorio come un evento obbligato.

 

«Ieri nuovo appuntamento del laboratorio a Rodi. Siamo arrivati su in anticipo, circa alle 20.15. Fatto un po’ di chiacchiere con Michele che ha fatto due laboratori ad agosto da solo. I ragazzi che ci vedono all’ingresso vengono a salutarci volentieri. Poi, però, le 21h passano e mentre noi allestiamo la sala comunque nessuno viene. C’è una partita di calcio in corso e la televisione ha uno charme imbattibile rispetto a noi tre. Stefano e Michele sono dispiaciuti, e non capiscono come funzioni il meccanismo del coinvolgimento dei ragazzi del Centro. Alle volte – dice Michele – pare capiscano che sono loro a dovere farsi carico del progetto e prendere responsabilità, altre volte poi invece latitano. Riflettiamo insieme che – comunque – è un “posto di merda” quello in cui ci troviamo. E che sebbene noi abbiamo delle idee e iniziative valide, è la struttura stessa e l’organizzazione del sistema che di fatto immobilizza e anestetizza le singole persone. Pare che sia necessario sempre un surplus di motivazione da parte degli operatori, questi si sentono responsabili per i ragazzi. Io faccio notare che “se uno aspetta le 21h per fare la preghiera o guardare la partita, di fatto sovrapponendo ciò all’orario del laboratorio, significa che non si è organizzato per venire, che non era un impegno preso responsabilmente”. A ciò un’operatrice replica, con grande e sincera “bontà”: “beh, non credere che siano poi così in grado di organizzarsi il tempo…”. […] Aspettiamo altri 5 minuti, dicendo ai ragazzi che passati quei 5 minuti ce ne saremmo andati, se non fossero arrivati. Infine, sarà Noel – uno dei ragazzi più motivati – a chiamare tutti gli altri, e infine alle 21.45 cominciamo» (Cammelli, Quaderno di campo, settembre 2017).

 

Il ruolo degli operatori all’interno del complesso e contraddittorio lavoro dell’accoglienza è stato analizzato in più testi (Sorgoni, 2011a; Saitta e Cutolo, 2017; Vianelli, 2014). Quanto emerso nuovamente in questa esperienza di co-creazione di un evento culturale è stata l’inevitabile necessità del sostegno degli operatori ai fini della buona riuscita dello stesso e allo stesso tempo, di nuovo, la notevole distanza che ha a più riprese caratterizzato la loro capacità di entrare in relazione con il nostro percorso. Di fatto, la relazione tra gli operatori e il percorso di co-creazione è stata una relazione caratterizzata dalla distanza: non hanno partecipato ai laboratori, alle riunioni preparatorie, alle prove. Hanno cercato di motivare la partecipazione dei richiedenti asilo rendendo queste azioni problematiche, svolgendo tuttavia nello stesso tempo l’importante funzione di memoria.

Contemporaneamente, con difficoltà hanno potuto partecipare alla co-costruzione della festa, nonostante i nostri ripetuti inviti. E questo perché, anche quando entravamo nel Centro verso le 21h di sera, gli operatori erano sempre intenti a gestire problematiche strutturali e serie riguardanti le singole persone residenti nel Centro.

Le necessità possono essere molteplici, da quelle concrete come una medicina, una chiamata alla guardia medica o il cibo, a quelle più relazionali: chi ha ricevuto un diniego dalla Commissione e ha bisogno di parlare, chi sta facendo i compiti di italiano e necessita un aiuto perché non capisce una parola, chi deve andare a una visita in ospedale il giorno dopo e bisogna spiegargli la strada, chi si è perso e non si sa dove sia, chi ha litigato e bisogna mediare il conflitto, chi deve fare una lavatrice e ha bisogno della chiave della porta, chi sta bene e vuole solo fare due chiacchiere, chi sta male e ha bisogno di una spalla… I mille ruoli dell’operatore sono presenti in ogni minuto del suo orario di lavoro (e spesso, anche oltre). E così, quando noi andavamo al Centro per i laboratori del lunedì sera, era difficile se non impossibile per loro staccarsi dalle esigenze del momento, per potere partecipare a un’iniziativa che poteva parere, addirittura, superflua, in quanto effimera, in quanto destinata a organizzare una festa: una cosa in più, che esula da procedure legali, sanitarie, eccetera. Contemporaneamente, è importante rilevare anche che le competenze e le conoscenze degli operatori si sono rivelate cruciali per comprendere al meglio alcune dinamiche relazionali presenti tra le persone richiedenti asilo che partecipavano al laboratorio. Se non avessimo coltivato un dialogo con gli operatori non avremmo potuto cogliere autonomamente queste informazioni né utilizzarle per coinvolgere meglio le persone del gruppo di lavoro o quelle che erano rimaste fuori.

 

Conclusioni

L’esperienza di co-creazione di un momento di celebrazione collettiva all’interno di un Centro di Accoglienza Straordinario ci sembra rivelatrice della complessità caratteristica di tale mondo. Entrando all’interno del Centro per progettare e portare avanti il nostro intervento ci siamo trovati a sottostare ad alcune norme e procedure che sono peculiari del sistema di accoglienza italiano, dei suoi limiti strutturali e del suo essere un dispositivo impregnato della contraddittorietà che caratterizza l’approccio ministeriale all’espletazione del diritto di asilo nel nostro Paese. Quello infatti che sarebbe un diritto tutelato da convenzioni internazionali fondanti la natura stessa dei regimi democratici europei, pare prendere forma come un modello di disciplinamento dei richiedenti asilo in un’ottica che non privilegia l’autonomia né l’autodeterminazione, ma al contrario sembra operare attraverso un dispositivo normativizzante che tende a depotenziare il richiedente asilo inserito in tali contesti (Giudici, 2014; Pinelli, 2014; Sorgoni, 2011a; Saitta e Cutolo, 2017).

All’interno di tale problematico contesto, però, i Centri di Accoglienza Straordinari continuano a occupare suolo nella penisola italiana, inserendo nelle realtà territoriali delle presenze estremamente visibili, quali i richiedenti asilo ivi accolti.

Attraversare le pareti dell’accoglienza per progettare un evento collettivo di festa, consapevoli delle dinamiche contraddittorie e problematiche di tali strutture, ha dimostrato alcune potenzialità di interesse sia per sviluppare l’autonomia e l’autodeterminazione dei richiedenti asilo residenti nel Centro, sia per promuovere un momento capace di facilitare l’incontro tra persone che si trovano a vivere accanto, continuando a non incontrarsi.

I limiti e i dilemmi che abbiamo incontrato varcando le pareti del Centro sono quegli stessi limiti e dilemmi che animano e informano quotidianamente il lavoro degli operatori dell’accoglienza. Limiti strutturali che prendono forma attraverso esistenze concrete e situate. Come insegna però uno dei brani più significativi che abbiamo conosciuto nella preparazione della festa: «tant qu’il y a la vie on dit toujours il y a espoir. Et s’il y a espoir tu dois bouger»:2

 

Il faut bouger. Ca va bouger bouger bouger. On veut entendre tout le monde.

On a tout fait on a parlé / On a tout fait on a crié

Mais vraiment rien a changé / En tout cas rien à changé

Mais on va bouger bouger / C’est la maladie du bouger bouger […]

On dit que c’est ca la verité/ Il faut pas t’assoir ami il faut dancer

On va bouger bouger/ On dit que c’est ca qu’est la vérité

Là on a trop parlé mais rien n’a changé/ Si on est tous des amis il faut qu’on se dise la vérité

Chez nous à Abidjan quand c’est comme ca il y a pas drame

La vie est trop belle mon ami il faut en profiter

Tant qu’il y a la vie on dit toujours il y a espoir/ Si il y a espoir tu dois bouger bouger. (Magic System, Bouger Bouger).

 

 

Bibliografia

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Anci Caritas, Fondazione Migrantes, Servizio Centrale (2017), Rapporto sulla Protezione Internazionale in Italia 2017, Ministero degli Interni.

Cammelli M.G. (2017), Per un’etnografia sperimentale. Riflessioni a partire dall’esperienza di un’antropologa nell’accoglienza, «Antropologia Pubblica», vol. 3, n. 1, pp. 117-128.

Ciabarri L. (a cura di) (2015), I rifugiati e l’Europa. Tra crisi internazionali e corridoi d’accesso, Milano, Cortina.

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Ehrenreich B. (2006), Dancing in the Streets: A History of Collective Joy, New York, Picador.

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Mezzadra S. e Neilson B. (a cura di) (2013), Border as Method, or, the multiplication of labor, Durham and London, Duke University Press.

Pinelli B. (2014), Campi di Accoglienza per Richiedenti Asilo. In B. Riccio (a cura di), Antropologia e Migrazioni, Roma, Cisu, pp. 69-79.

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Note

1 Per tutelare l’anonimato delle persone che hanno partecipato al percorso di cui parleremo, abbiamo deciso di scegliere un nome fittizio per definire il Centro, così come utilizzeremo nomi fittizi per tutte le persone coinvolte.
2 «Finché c’è vita si dice che c’è speranza, e se c’è speranza tu devi muoverti/ballare».

DOI: 10.14605/EI1611808


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ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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