Abstract

This paper presents a part of the results of a research that was conducted in order to analyze stereotypes and prejudices in terms of skin color around some primary schools of Bologna. The opinions received during the focus groups reveal what terminology the children think are more appropriate to use when talking about the different colors of the skin, and which ones, on the contrary, could be regarded as discriminatory. While terms like «white» or «light-colored skin» are used with an ease amongst the children, the same cannot be said for words like «black» or «dark-colored skin», which they rather prefer to substitute with the word «of color» in order to not possibly offend anyone. But what lies behind this so frequently used and so-called socially accepted term?

Keywords: stereotype, prejudice, terminology, political correctness, colorism.

Sommario

In questo articolo si presentano alcuni dei risultati di una ricerca svolta con l’obiettivo di analizzare stereotipi e pregiudizi legati al colore della pelle in bambini alcune scuole primarie di Bologna. Durante i focus group, utilizzati come strumento di ricerca, i bambini hanno anche riflettuto su quali fossero le parole più adeguate ed educate per parlare di colori della pelle e quali, al contrario, potessero essere strumento discriminazione razzista. Se termini come «pelle bianca» o «pelle chiara» vengono utilizzati con disinvoltura dai bambini, altrettanto non è possibile affermare per parole come «pelle nera» o «pelle scura». A questi termini parrebbe più corretto sostituire «di colore» che, secondo i bambini, consentirebbe di non recare offesa alle persone con pelle scura. Ma cosa si cela dietro questo termine così frequentemente utilizzato?

Parole chiave: stereotipi, pregiudizi, terminologia adeguata, colorismo.

 

Premessa

Il percorso di ricerca qui presentato e svolto tra Novembre 2015 e Febbraio 2016, trae ispirazione dal volume pubblicato dall’antropologa Paola Tabet (1997) dal titolo La pelle giusta. Il libro della studiosa pisana, ancora oggi, in Italia, rimane uno dei riferimenti più interessanti e apprezzati in merito alla tematica del pregiudizio legato al colore della pelle, sia per il carattere pungente e brillante dei suoi contenuti - che risultano purtroppo ancora oggi attuali e densi di spunti di riflessione socio-pedagogica -, sia per la scarsa presenza nel contesto italiano di altra letteratura scientifica su questo particolare argomento. È bene precisare che riflessioni sulla tematica della discriminazione, del pregiudizio, del razzismo e delle forme di esclusione e diseguaglianza legate alla dimensione etnica e culturale non sono assenti nella ricerca nazionale, così come non è assente un’attenzione rivolta al colore della pelle come elemento-bersaglio di tali forme discriminatorie (ad esempio Barbiero,1985; Sagone, 2003; De Caroli, 2007; Zannoni, 2007; Bolognesi, 2010; Pastori, 2010; Lorenzini, 2012; Lorenzini, 2013).

 Si può però anche constatare la mancanza di ricerche che si pongano l’obbiettivo prioritario ed esplicito dell’osservazione della dimensione «cromatico/melaninica» del pregiudizio: la variabile del colore della pelle spesso emerge dalle parole dei soggetti coinvolti in diverse ricerche in relazione a questioni che, sebbene strettamente connesse, non interrogano direttamente questa variabile, così come invece ha fatto Paola Tabet negli anni ’90 coinvolgendo alunni di scuole primarie di tutte le regioni italiane. Tabet chiese, infatti, a bambine/i di età compresa tra 7 e 12 anni di scrivere un breve componimento rispondendo al titolo «Se i miei genitori fossero neri…».[footnote]Sebbene il titolo «Se i miei genitori fossero neri…» sia stato quello maggiormente utilizzato per la ricerca, sono state proposte altre varianti come «Se io fossi indiano…», «Se vicino a casa mia venisse ad abitare una famiglia di neri…» e «La mia vita in Africa».[/footnote] Le risposte date dai bambini risultarono intrise di paura, schifo, vergogna, immagini stereotipate legate all’Africa e agli immigrati, denegazione, violenza e paternalismo ed evidenziarono un quadro complesso dal quale oggi pensiamo di dover ripartire per riaprire un campo di ricerca ancora poco esplorato e per rivolgerci in maniera diretta e mirata a bambini e bambine, al fine di comprendere se e quali problematiche emergano, ancora, in relazione ai pregiudizi e agli stereotipi che si organizzano e strutturano intorno alla caratteristica fenotipica del colore della pelle. E in particolare ai colori nero e bianco della pelle.

 

Riferimenti teorici per meglio comprendere il fenomeno

Con il termine «colorismo» si intende, secondo la prima definizione data dalla scrittrice Alice Walker nel suo romanzo The Color Purple, un «trattamento pregiudizievole o preferenziale di persone della stessa razza basata esclusivamente sul colore della pelle» (Walker, 1982, p. 290, trad. mia). Il neologismo, coniato dall’autrice statunitense, permette di assumere consapevolezza di una particolare forma di discriminazione, e consente altresì di dar nome a un campo di ricerca che, nonostante nel contesto statunitense contasse già numerosi studi, non era stato ancora definito sotto una dicitura autonoma. Infatti, l’interesse di ricerca risaliva già agli anni ’50 del secolo scorso, periodo nel quale si erano susseguite proteste da parte della popolazione nera per il riconoscimento dei propri diritti civili. Vi era stato, proprio in quegli anni, un vero e proprio boom di pubblicazioni su riviste scientifiche, spesso di impostazione psicologica, volte a dimostrare quanto l’atmosfera di ostilità e odio del contesto sociale statunitense nei confronti della popolazione afro-americana stesse profondamente colpendo non solo gli adulti (Gordon, 1950; Riddleberger e Motz, 1957; Manning, 1960), ma anche i più piccoli (Clark e Clark, 1947; Ammons, 1950; Lewis e Biber, 1951; Chyatte e Conrad, Schaefer e Spiaggia, 1951; Frenkel-Brunswik e Havel, 1953). Protagonista assoluta della fase che ha preceduto l’emanazione del Civil Rights Act[footnote]Ovvero l’atto ufficiale che, nel 1964, abolisce definitivamente tutte le leggi che in maniera esplicita o implicita contribuivano a forme di segregazione razziale negli USA.[/footnote] è la ricerca dei coniugi Clark (1947). I due psicologi hanno intervistato 253 bambini neri tra i 3 e i 5 anni, ponendo loro un totale di 8 domande finalizzate a indagare differenze, identificazioni e preferenze - da loro definite - razziali. Le domande scelte dai due ricercatori, negli anni successivi, sono diventate decisamente popolari tra gli studiosi interessati a questo ambito, tanto da essere spesso riutilizzate con diverse metodologie di somministrazione oppure riproposte nella medesima forma per evidenziare differenze o analogie rispetto alla ricerca originale. Tale ricerca, denominata Doll Test per via dell’utilizzo di due bambole identiche - una di pelle chiara e una di pelle scura - ha permesso di dimostrare come i bambini avessero interiorizzato una serie di contenuti negativi associati alla pelle nera e un numero significativo di contenuti positivi legati alla pelle bianca.

 Al primo mattone posto dal Doll Test se ne sono affiancati e sovrapposti altri, negli anni successivi; mattoni che hanno permesso di costruire un solido impianto teorico di riferimento caratterizzato da ricerche che, sebbene differenti le une dalle altre per metodologie e contenuti, si ricollegavano tutte almeno per due elementi: lo scopo della ricerca e i risultati ottenuti. Riguardo allo scopo della ricerca, come precedentemente accennato, la definizione stessa di colorism ne ha permesso una chiara esplicitazione: quando una ricerca viene definita appartenente al filone del colorismo, esprime nella sua stessa definizione l’intenzione di focalizzarsi sulla variabile del colore della pelle. Benché quest’ultima non venga considerata come un’«isola di cristallo», lontana dal contesto sociale e da altre variabili socio-culturali strettamente collegate (es. lingua, tradizioni, altri elementi fisici, ecc.), viene però posta come protagonista centrale delle domande di ricerca che necessitano di essere finalizzate a indagare come primo elemento quello melaninico; ciò non significa, comunque, che altre ricerche non possano incontrare nei loro risultati il fenomeno del colorismo. Infatti, il colorismo, allo stesso tempo costrutto teorico e fenomeno sociale, può sia guidare un percorso di ricerca, sia essere osservato pur non avendolo scelto come oggetto di studio posto a priori. Ad esempio, una ricerca può domandarsi quali fattori facilitino od ostacolino l’ottenimento di un posto di lavoro e scoprire che il colore della pelle è una variabile significativa; e nella contemporaneità sono numerose le ricerche che dimostrano che il colore scuro della pelle è un elemento ostacolante (Udry e Bauman, Chase, 1971; Hall, 1992; Espino e Franz, 2002; Harrison e Thomas, 2009). Una ricerca di questo tipo nonostante abbia diverse possibilità di incontrare il colorismo, non si può indicare come facente parte completamente di questo costrutto teorico; invece, una ricerca che si domanda come il colore della pelle influenzi la possibilità o meno di ottenere un lavoro rientra nel paradigma del colorismo. I due diversi percorsi di ricerca, entrambi validi e degni di interesse scientifico, si differenziano per la possibilità, in un caso, di ampliare quelle che sono le variabili in gioco e, nell’altro, di addentrarsi con maggiore specificità in una di esse. In secondo luogo, elemento che accomuna il vasto panorama di ricerche legate al colorismo sono i risultati che, per la maggior parte, si trovano a dover concludere che sì, il colore scuro della pelle sembra essere maggiormente connesso a una dimensione simbolica negativa, con numerose ricadute a livello sociale, affettivo, economico e politico (Hughes e Hertel, 1990; Keith e Herring, 1991; Seltzer e Smith, 1991).

 

La cornice metodologica della ricerca

Il campione

La ricerca,[footnote]La ricerca che qui viene presentata è stata svolta per la Tesi di Laurea Magistrale in Pedagogia dell’autrice.[/footnote] che viene qui presentata in alcuni dei suoi aspetti, ha coinvolto un totale di 225 bambine e bambini, frequentanti 5 scuole primarie del bacino bolognese (10 classi 4a e 5a), tra novembre 2015 e febbraio 2016. Il campionamento è stato avviato in modo accidentale anche perché la tematica oggetto della ricerca ha incontrato, in qualche caso, problemi di autorizzazione da parte dei dirigenti, delle insegnanti e dei genitori, non essendo ritenuta «idonea» ad essere proposta a bambini di età compresa tra i 9 e gli 11 anni. Questo limite, imposto dall’esterno, ha consentito di entrare solo nelle scuole e nelle classi nelle quali era stata rilasciata una triplice autorizzazione: dirigente, insegnanti e genitori. La scelta, delle classi è ricaduta sull’ultimo biennio della scuola primaria poiché si è ritenuto che la tematica di ricerca richiedesse una capacità di ragionamento complesso e maturità nell’espressione verbale. Di seguito vengono riportate alcune delle caratteristiche dei bambini facenti parte del campione:

 

Tab. 1 Caratteristiche di bambini/e presenti nel campione

Nascita

Origine genitori

Pelle[footnote]La definizione del colore della pelle è stata attribuita grazie all’accordo tra la conduttrice (Dott.ssa Margherita Cardellini) e l’osservatrice (Dott.ssa Annalisa Agrestini) che hanno realizzato i focus group e, dunque, presenta i limiti di una classificazione etero-imposta.[/footnote]

Disabilità/DSA/Certificazioni

Adozione

220/225 nati in Italia

167/225 bambini con entrambi i genitori di origine italiana

198/225 bambini con pelle chiara

12/225 bambini

1/225 bambini

5/225 bambini nati in altri Paesi

40/225 bambini con entrambi i genitori di origine non italiana

17/225 bambini con pelle leggermente scura

  
 

18/225 bambini con almeno un genitore di origine non italiana

9/225 bambini con pelle scura

  
  

1 bambino con pelle molto scura

  

 

Obiettivi della ricerca

Questa ricerca si colloca in continuità con una prima indagine realizzata tra Novembre 2013 e Gennaio 2014 con l’obiettivo di osservare la presenza o meno di stereotipi e pregiudizi legati al colore della pelle nei bambini di scuola primaria (Cardellini, 2015). Un primo obiettivo di ricerca, infatti, era quello di cercare di comprendere se, dopo oltre 20 anni dalla ricerca della Tabet, queste forme di pregiudizio fossero ancora rilevabili. Infatti, dagli anni ’90 sino ad oggi, la popolazione scolastica ha subito numerosi cambiamenti dal punto di vista multiculturale e multietnico. Se, secondo i dati del MIUR, nell’A.S. 1993-1994 si riscontrava una presenza dello 0,41% di bambini senza cittadinanza italiana, oggi questi bambini sarebbero oltre il 9% (con oltre il 50% di nati in Italia, le cosiddette «seconde generazioni»). Sebbene tali percentuali non tengano conto dell’elemento melaninico, certamente ci restituiscono un panorama scolastico sempre più multiculturale e con grande probabilità anche sempre più multi-cromatico.

Pertanto, dopo aver ri-confermato, attraverso questa prima indagine, la presenza di stereotipi e pregiudizi legati alla caratteristica somatica del colore della pelle, è nata una nuova esigenza di ricerca, ovvero quella di entrare ancor più in profondità nella questione, per comprendere come si strutturassero queste forme del pensiero, cercare di osservarle «da più vicino», senza la mediazione del testo scritto e incontrando direttamente i bambini e le loro parole. Pertanto, l’obiettivo della ricerca qui presentata, è stato quello di osservare, nella dinamica gruppale, come venissero costruiti ed esplicitati pregiudizi e stereotipi legati al colore della pelle, con una particolare attenzione all’esperienza quotidiana dei bambini e delle bambine.

 

Lo strumento della ricerca

Coerentemente con l’obiettivo della ricerca, lo strumento scelto per comprendere come, in una dimensione gruppale, stereotipi e pregiudizi legati al colore della pelle venissero «messi in gioco» dai bambini, è stato il focus group, definito da Zammuner come «una tecnica qualitativa di rilevazione dei dati, utilizzata nella ricerca sociale, che si basa sulle informazioni che emergono da una discussione di gruppo su un tema o argomento che il ricercatore desidera indagare in profondità» (2003, p. 1). Il focus group consente di cogliere la dimensione dell’interazione sociale e la co-costruzione dei contenuti che si producono in uno specifico setting spazio-temporale e, in accordo con Zammuner, non solo permette di ottenere informazioni su un tema specifico, ma anche (e, forse, soprattutto) di comprendere la dinamica evolutiva del discorso. Consapevoli del fatto che quanto espresso dai bambini in quello specifico contesto non possa ritenersi rappresentativo del loro «reale» pensiero e comportamenti, bensì del come in gruppo quell’argomento venga co-pensato, co-prodotto ed esplicitato, l’intento che ha accompagnato questo percorso di ricerca è stato quello di dare rilevanza alla dimensione sociale della costruzione della conoscenza. Nonostante questa premessa, la posizione epistemologica scelta è stata sia quella di evitare derive legate a un realismo troppo marcato, che avrebbe potuto portare a considerare i discorsi dei bambini come pienamente rappresentativi della realtà, sia il tentativo di non ascoltare le loro parole secondo un’ottica puramente e rigidamente relativista. Pur coscienti dell’importanza di ricordarci (e ricordare alle insegnanti) che i pensieri costruiti e le parole espresse si sarebbero dovute considerare relativamente a un hic e nunc spazio-temporale, ci è sembrato importante aprire lo sguardo a una contestualizzazione più ampia, a una lettura più spaziosa, che avremmo successivamente potuto condividere con le stesse insegnanti per cercare di pensare e discutere insieme i contenuti espressi dai bambini in relazione alla loro esperienza scolastica quotidiana.

 

I risultati della ricerca: analisi delle parole, analisi quantitativa, analisi qualitativa

Analisi dei risultati

I 30 focus group sono stati audio-registrati e interamente trascritti su differenti file Word a cui è stato assegnato uno specifico codice di riconoscimento.[footnote]Per ciascun focus group e per ciascun bambino/a.[/footnote] È stata altresì costruita una schermata Excel nella quale sono stati inseriti alcuni dati relativi ai bambini incontrati: nome, sesso, classe, luogo di nascita, eventuale origine straniera del/dei genitore/i, colore della pelle, quartiere di appartenenza della scuola, composizione della classe (solo bambini con pelle chiara, bambini con pelle chiara e pelle scura), composizione del gruppo del focus group (solo bambini con pelle chiara, bambini con pelle chiara e pelle scura).

Tale documento è servito successivamente per incrociare dati, variabili e procedere con una analisi quantitativa legata ad alcuni momenti particolari del focus group, accanto alla più densa e corposa analisi qualitativa. L’analisi qualitativa è stata strutturata grazie a un’analisi tematica e all’individuazione categoriale legate a parti del discorso che, al momento della rilettura, sono apparse accomunate da specifici elementi. Di qui, la possibilità, isolando «spezzoni» del discorso, di comprenderne meglio la sua co-costruzione e la sua evoluzione gruppale.

 

Il setting del focus group

In accordo con i suggerimenti trovati nella letteratura di riferimento in relazione all’utilizzo dei focus group con bambini (McDonald e Topper, 1998; Gibson, 2012) si è scelto di avviare la sessione con una richiesta-stimolo iniziale che avesse lo scopo di «accendere la miccia» della conversazione. Pertanto, sono state disposte 4 fotografie delle dimensioni di 45x50 cm alle spalle della moderatrice, selezionate tra le centinaia scattate dalla fotografa brasiliana Angélica Dass per il suo progetto Humanae,[footnote]Il progetto Huamane è ancora work in progress e si pone l’obiettivo di fotografare il maggior numero di gradazioni cromatiche (PANTONE) di colori della pelle. L’artista brasiliana è attualmente impegnata in un tour internazionale e nell’ultimo anno ha esibito le sue foto in: Svezia, USA, Sud Corea, Spagna, Italia e Indonesia.[/footnote] ed è stato chiesto ai bambini di scrivere su post-it colorati, differenti a seconda del soggetto cui si riferivano, le prime due cose che ti vengono in mente guardando queste persone.

 

Fig. 1: Fotografie utilizzate durante lo svolgimento dei focus group e scelte tra le centinaia scattate dalla fotografa Angélica Dass per il progetto Humanae.

PicMonkey Collage

*Courtesy of Angélica Dass

 

Successivamente è stato chiesto ai bambini di attaccare i post-it sui poster fotografici; le loro parole sono state quindi utilizzate come «punto di partenza» per la conversazione. Un veloce sguardo della moderatrice alle parole scritte dai bambini ha permesso di procedere alla loro lettura.[footnote]I bambini venivano precedentemente rassicurati: le parole sarebbero state lette, ma non sarebbe stato necessario «svelare» il nome di chi le aveva scritte. Ciascun bambino era libero di dichiararsi autore del post-it o no.[/footnote] cercando di mettere in relazione eventuali parole simili/uguali/ e rivolgendo successivamente domande come:

 

  • «Cosa ne pensate?»

  • «Siete tutti d’accordo?»

  • «Chi ha scritto questa cosa ce la vuole spiegare?»

  • «Secondo voi chi ha scritto questa parola, a cosa si riferiva?»

 

I post-it sono stati conservati e le parole scelte dai bambini sono state trascritte nel documento Excel sopra citato. Questo ha consentito un’analisi delle parole scelte in relazione ai quattro soggetti presentati e ha permesso di incrociare questa informazione con i dati precedentemente annotati.

In aggiunta alla conversazione, che proseguiva liberamente tra domande, riflessioni, richieste di chiarimento, conflitti e/o confronti, si è scelto anche di rivolgere alle bambine e ai bambini tre specifiche domande[footnote]Le domande, se possibile, venivano introdotte agganciandosi alle tematiche che emergevano nella conversazione; laddove non possibile sono state comunque proposte dalla moderatrice.[/footnote] volte a cogliere alcuni aspetti e attivare riflessioni in merito ad alcune tematiche di interesse (lavoro, identità, bellezza):

 

  • «Secondo voi, che lavoro fanno queste quattro persone?»

  • «Se avessi una bacchetta magica e potessi scegliere di trasformarti in una di queste quattro persone, chi sceglieresti? Perché?»

  • «Chi è tra questi quattro la persona più bella e la persona più brutta?»

 

Le tre domande sono state scelte per osservare alcune questioni ritenute rilevanti. La prima domanda è stata posta con l’obiettivo di verificare se la variabile del colore della pelle potesse essere messa in relazione alla scelta di un lavoro più o meno qualificato[footnote]Per far ciò è stata utilizzata la «Nomenclatura e classificazione delle Unità Professionali» dell’ISTAT (versione aggiornata al 2013).[/footnote], la seconda, sulla scia della ricerca della Tabet (1997) e di Cardellini (2015), mirava a osservare la disponibilità al cambiamento, pensato qui come una sorta di gioco di magia, nei panni di una persona cromaticamente più o meno diversa da sé;[footnote]In aggiunta al cambiamento del colore della pelle si è osservato anche l’eventuale scelta relativa a un soggetto di sesso opposto al proprio.[/footnote] in ultimo si è scelto di porre una domanda che potesse rilevare la questione estetica, poiché, in accordo con la letteratura di riferimento (Clark e Clark, 1947; Bond e Cash, 1992; Hill, 2002) il colore chiaro della pelle è stato storicamente e culturalmente associato a canoni estetici maggiormente apprezzati, al contrario del colore scuro. A conferma di quanto detto, negli ultimi anni risulta particolarmente diffuso il fenomeno dello skin lightening, ovvero lo «sbiancamento della pelle», tra le giovani donne con pelle scura che schiariscono il proprio colore della pelle grazie a creme appositamente prodotte o trattamenti estetici mirati.

 L’analisi dei focus group è quindi proseguita su tre binari (analisi delle parole, analisi quantitativa, analisi qualitativa) che si sono incontrati in punti di intersezione piuttosto significativi. Questa triangolazione, quindi, ha permesso un arricchimento della riflessione e la possibilità di osservare la medesima tematica da differenti punti di vista.

Di seguito, quindi, verranno presentate le parole e le riflessioni riportate dai partecipanti durante i focus group in relazione al tema delle «parole per parlare dei colori della pelle»

 

Le parole per parlare dei colori della pelle

In accordo con la prospettiva del relativismo linguistico, riferendoci in particolare alla teoria sul linguaggio di Benjamin Whorf (1956) allievo di Edward Sapir (1921), le parole non formulano solo modi di comunicare, ma costituiscono anche lo strumento del pensiero stesso. Questa teoria, che si struttura in netta opposizione all’universalismo linguistico, il quale postula l’esistenza di un pensiero in maniera distinta dal linguaggio (Castiglioni, 2005), evidenzia rilevanti ricadute a livello epistemologico.

Secondo questa prospettiva, infatti, le parole utilizzate per parlare di un colore della pelle, ad esempio, non sarebbero semplici vocaboli scelti per descrivere la «realtà oggettiva» ma elementi che danno conto di modalità soggettive di percezione, codifica, categorizzazione ed espressione di una realtà culturalmente determinata, osservata e condivisa. Lungi dal negare la presenza di una realtà esistente indipendentemente dal soggetto, le parole scelte dai bambini per descrivere i colori della pelle sono state lette e analizzate tenendo in considerazione il fatto che queste «semplici» parole, in realtà, descrivono un mondo nel quale non solo vi era il contributo e l’influenza delle fotografie presentate ai bambini, ma anche il loro personale modo di vedere e pensare quel determinato elemento entro un certo contesto culturale di appartenenza.

Almeno la metà delle parole che i bambini hanno scelto di scrivere sui post-it ha riguardato elementi fisici con differenti prevalenze rispetto alle caratteristiche maggiormente messe in luce per ciascuna fotografia:

 

  • per l’uomo con pelle chiara, la categoria più rappresentata è stata quella dei «barba/baffi»;

  • per la donna con pelle scura, la categoria più rappresentata è stata quella della «pelle»;

  • per la donna con pelle chiara, la categoria più rappresentata è stata quella dei «capelli»;

  • per l’uomo con pelle scura, la categoria più rappresentata è stata quella della «pelle».

 

Questa constatazione di natura quantitativa ci permette di comprendere come la categoria «pelle» sembri avere una maggiore rilevanza per i soggetti con pelle scura rispetto a quelli con pelle chiara.

I due termini che sono stati scelti in maggioranza per definire il colore della pelle sono:

 

Tab. 2 Le 3 parole più utilizzate per definire il colore della pelle[footnote]Sono riportate in tabella le prime 3 parole, maggiormente utilizzate, per definire il colore della pelle.[/footnote]

UOMO PELLE CHIARA

DONNA PELLE SCURA

DONNA PELLE CHIARA

UOMO PELLE SCURA

Pelle chiara (18 volte)

Pelle scura (25 volte)

Pelle chiara (20 volte)

Pelle scura (32 volte)

Bianco (15 volte)

Di colore (14 volte)

Bianca (13 volte)

Di colore (14 volte)

Pelle bianca (6 volte)

Scura (8 volte)

Pelle bianca (8 volte)

Scuro (8 volte)

 

Sebbene per tutti e quattro i soggetti i termini più scelti siano «pelle chiara» e «pelle scura», si osservano rilevanti differenze riguardanti le altre parole. Infatti, nel caso dei due soggetti con pelle chiara, il termine «bianco/a» o «pelle bianca» sembra essere utilizzato di frequente dai bambini, mentre, nel caso dei soggetti con pelle scura, il termine «nero/a» o «pelle nera» viene utilizzato raramente. Compare tuttavia un’altra parola socialmente molto utilizzata per parlare di carnagione scura, vale a dire «di colore». Questa osservazione ci consente di ipotizzare che possa sussistere una certa reticenza da parte dei bambini a utilizzare alcuni termini. Di conseguenza, domandarsi il «perché» di tali scelte linguistiche ci pare essere elemento di interesse, non solo poiché le parole che utilizziamo sono frutto di trasmissioni culturalmente connotate, ma anche perché il nostro linguaggio, ogni volta che viene parlato, scritto, ascoltato e/o letto, riforma e rinforza di continuo la struttura culturale che lo ha generato (Singer, 1987). Le discussioni che si sono successivamente attivate hanno dato l’occasione di addentrarsi meglio in questa esigenza di comprensione.

Di seguito riporto alcuni degli scambi conversazionali avvenuti tra i bambini che hanno partecipato ai focus group, grazie al ruolo facilitante della moderatrice.

(Nelle battute precedenti allo stralcio di conversazione riportato i bambini stanno raccontando dei luoghi dove sono soliti incontrare persone con pelle scura: in spiaggia («vu-cumprà»), al semaforo (lavavetri) e qualcuno racconta di aver visto una persona di pelle scura urinare contro un muro.

 

Maria: Si dice di colore!

Paolo: Se no è razzismo!

Moderatrice: È razzismo cosa?

Paolo: Negro o nero.

Mattia: Una persona può offendersi. È come se noi adesso andiamo in Asia e lui ci dice «bianchi, bella zio bianchi».

Moderatrice: Ti offenderesti se ti chiamassero «bianco»?

Mattia: No. Però forse i neri che vanno in una città sì.

Paolo: È razzismo.

Maria: Secondo me è giusto chiamarli di colore perché se uno, anche se uno passa e dice «quello è uno nero» è come dire che a te non ti importa niente della persona, ma guardi il colore della pelle.

Moderatrice: E quando dici «guarda, c’è uno di colore», così va bene?

Maria: Cioè… è più educato.

(4B-1, Scuola 3)[footnote]La sigla che segue stralci di conversazione indica la classe, il numero e la scuola corrispondente al focus group. Il nome della scuola non viene esplicitato per ragioni di privacy.[/footnote]

 

Da questo primo «pezzo» di conversazione si comincia a intuire come l’aggettivo «nero» abbia, per alcuni bambini, una connotazione dispregiativa, al pari dell’aggettivo «negro». Addirittura il suo utilizzo sarebbe paragonabile a un’espressione razzista, altamente offensiva. Le richieste di precisazione da parte della moderatrice sembra non abbiano portato a un cambiamento di opinione o a un ampliamento dei punti di vista. Sebbene il bambino al quale viene rivolta la domanda «Ti offenderesti se ti chiamassero «bianco’?» non esiti a fornire una secca risposta negativa, le considerazioni successive non mutano di segno: utilizzare il termine «di colore» è più educato. Considerazioni favorevoli legate all’utilizzo di questa definizione, anziché della parola «nero», si riscontrano anche in un numero significativo di altre conversazioni. In alcune, sono state espresse posizioni che potremmo dire ancor più «radicali», volte ad escludere dal vocabolario l’utilizzo di qualsivoglia parola legata alla descrizione dei colori della pelle.

 

Michele: I colori esistono, però non bisogna dirli. Bisogna dire «una persona di quel paese», «la mia amica africana» e così. Non bisogna offendere dicendo «la mia amica di pelle scura». Non esiste.

Elisa: Volevo dire che comunque per me, anzi, per loro… tutti i termini che possiamo dire sui colori della pelle sono un po’ maleducati dal loro punto di vista.

Moderatrice: Da quale punto di vista?

Elisa: Loro si trovano unici come sono, ma noi li troviamo un po’ diversi da noi.

Moderatrice: Elisa, quando dici noi a chi ti riferisci?

Elisa: Noi…

Marco: Tutta l’Italia.

Elisa: Sì.

Marco: Tutto il mondo.

Elisa: Noi con pelle più o meno bianca. Io non ce l’ho proprio bianchissima però. Comunque per me non c’è un termine non offensivo, perché dal loro punto di vista può essere offensivo tutto.

(5B-1, Scuola 1)

 

L’abolizione dei termini per descrivere i colori della pelle sarebbe legata alla possibilità (se non addirittura alla certezza) di ferire i sentimenti delle persone con pelle scura. Benché sia apprezzabile il desiderio manifestato dai bambini di non recare offesa agli «altri» di cui parlano, è necessario domandarsi come, quando e dove essi abbiano appreso che non si può parlare dei colori della pelle senza sovrapporvi una volontà discriminatoria e denigratoria. L’operazione di apparente decentramento empatico, che porta questi bambini con pelle chiara a formulare particolari accorgimenti legati a un’ottica rispettosa, rischia di corrispondere a un tentativo in realtà connotato da sfumature etnocentriche e/o bianco-centriche. Così come l’attribuzione di appellativi dispregiativi rivolti al colore scuro della pelle è storicamente stata (e purtroppo è ancora) un’azione utilizzata per discriminare, offendere, insultare, denigrare e umiliare, è bene domandarsi se la contro-risposta, in apparenza connotata da sentimenti e intenzioni di segno opposto, ed espressa così chiaramente dai bambini, non nasconda impliciti (o inconsci) messaggi legati a un imbarazzo tutto colorato di bianco che ancora cela, seppure sotto vesti apparentemente più «lievi», una comune ostilità e diffidenza nei confronti di questa caratteristica somatica. Cosa si cela dietro quella sensazione di imbarazzo e difficoltà che il soggetto con pelle chiara prova quando si trova a pronunciare parole come pelle scura o nera? Nasce solamente dal timore di poter offendere la persona con pelle scura o potrebbe trattarsi di una difficoltà a relazionarsi con questa caratteristica somatica?

 

In accordo con Taguieff (1997), il quale ci invita a prestare una nuova attenzione verso le varie forme di razzismo che si possono incontrare nella quotidianità, alle volte anche celate dietro «motivazioni non coscienti e ‘buone ragioni’ legittimatorie per il razzista» (p. 69), il monito che qui si vuole porre è quello di prestare attenzione e interrogarsi anche sugli automatismi verbali, come ad esempio il sovrabbondante utilizzo del termine «di colore», cercando di andare «dietro le quinte» con l’interesse e lo sguardo del ricercatore, con il desiderio di cercare risposte a domande difficili, che possono anche scatenare sentimenti di difficile gestione, come senso di colpa, imbarazzo e tristezza. Non è infrequente, infatti, che emozioni di questo tipo emergano nei soggetti «bianchi» quando toccano tematiche legate a discriminazione e/o razzismo (Tatum, 1992).

Un altro aggettivo spesso utilizzato dai bambini e dalle bambine in sostituzione a «nero» è «abbronzato».

 

Moderatrice: Posso chiedervi quali sono le parole che prendono in giro e quelle che non prendono in giro?

Michele: Dire «pelle color…», è una presa in giro.

Moderatrice: E invece cos’è che non prende in giro?

Michele: Non dire la parola color, dire «pelle scura» non è presa in giro perché puoi intendere anche abbronzato.

Moderatrice: E ci sono altri modi di dire il colore della pelle di questa ragazza qui, per esempio (indica la donna con pelle scura)?

Davide: Marrone.

Luca: Nata in un posto caldo in cui le situazioni… nascono… in un posto così caldo da fare in modo che i bambini dentro alla pancia si sviluppano già con la pelle abbronzata.

Davide: Comunque il modo più educato è dire «di colore».

(5B-1, Scuola 1)

 

Ancora una volta le considerazioni relative all’utilizzo di questo termine possono essere molteplici se osservate nel loro contenuto socialmente e culturalmente costruito. La scelta del termine «abbronzato» viene fatta all’interno di un focus group con una partecipazione di bambini a prevalenza bianca, all’interno di una scuola di una città, di una regione, di una nazione a prevalenza bianca. In più, oltre a questa semplice constatazione, possiamo affermare che la caratteristica della pelle abbronzata sia un elemento particolarmente apprezzato e desiderato nel contesto occidentale e sembra essere scelto come ulteriore termine politically correct sostitutivo dell’aggettivo «nero». L’imbarazzo e la difficoltà di cui si fa esperienza nel pronunciare parole come «pelle nera» sembrano avanzare in primo piano rispetto all’assegnare deliberatamente un termine che non rispecchia la pelle della persona, una pelle scura e non abbronzata. Possiamo domandarci se l’utilizzo di questi termini non sia soprattutto fatto per proteggere il soggetto con pelle chiara da sentimenti di imbarazzo, piuttosto che per difendere il soggetto con pelle scura da eventuali offese? E se ci rendiamo conto di ciò, come intervenire per liberare termini così importanti, così sensibili e legati alle identità stesse delle persone, da contenuti pesanti e da sfumature dal «retrogusto» razzista? Se, come abbiamo precedentemente messo in luce, le parole che scegliamo per parlare sono nate da uno specifico contesto culturale e sociale, ma contribuiscono anche a ri-costruirlo e ri-formarlo, esiste la possibilità di intraprendere un cambiamento educativo interculturale estremamente significativo.

 

Conclusioni

Parlare di colori della pelle ha suscitato spesso interrogativi nei bambini, i quali parevano essere avvolti da una «nuvola di timore e diffidenza» nella scelta dei termini più adatti da utilizzare. Le domande principali, che riassumono l’atteggiamento osservato in relazione al nominare i colori della pelle, sono anzitutto queste: «Che parole devo utilizzare per parlare di colori della pelle?», «Posso nominare i colori della pelle?», «È un atto di discriminazione parlare dei colori della pelle?» E, soprattutto, «come posso chiamare la pelle scura?». Il solo fatto che i bambini mostrino di porsi queste domande dovrebbe attivare una riflessione di natura pedagogica. Perché i bambini hanno dubbi del genere? Come sorge in loro la perplessità che nominare i colori della pelle, e in particolare di quella scura, possa addirittura costituire un gesto razzista?

 

È ipotizzabile che questo timore non riguardi solo i bambini, ma anche gli stessi adulti, i quali fanno uso in modo altrettanto ridondante e privo di riflessioni di alcuni termini, ad esempio «di colore», per riferirsi al colore scuro/nero della pelle. Se l’utilizzo delle parole «pelle chiara» e «pelle bianca» sembra essere accompagnato da un’intensità emotiva neutra o moderata, l’utilizzo della parola «pelle scura» o, peggio, «nera» presenta note emotive legate all’imbarazzo e al timore. Ecco in soccorso i termini «salvagente», considerati come più polite per nominare la pelle nera, spesso pronunciati con un dichiarato intento di non offendere, ma che nascondono in realtà rappresentazioni sfumate di un contesto culturale e sociale che si presenta colorblind, ovvero che ritiene i bambini non interessati alle differenze melaniniche, quasi incapaci di percepirle – da qui l’espressione spesso utilizzata nel contesto anglofono, colorblind, ovvero «daltonico» – e al contempo conferma l’esistenza di forme di discriminazione verso il colore della pelle. Questo meccanismo, che difficilmente viene esplicitato, dipanando le maglie e sciogliendo i nodi per mostrare la tessitura dell’inconsapevole sottostante ragionamento, pare esser stato interiorizzato dai bambini stessi. Si osserva un’ambivalenza connotata da tratti di gentilezza e ostilità, attenzione verso l’altro e rifiuto, accettazione e omissione, riconoscimento e censura, che non solo si riflette nelle parole utilizzate (o non utilizzate), ma che rischia anche di essere agita in termini di comportamenti. Se è vero che, come insegna Morin (2000), elementi opposti e antagonisti possono coesistere in un’unica unità è altrettanto vero che, come professionisti dell’educazione, siamo chiamati ad avvicinarci sempre più alla complessità dei fenomeni, interrogandoli e interrogandoci, problematizzando ciò che ci appare scontato, evidente e abituale.

 

Consapevoli del fatto che nessun termine possa definirsi completamente neutro, poiché il suo viaggio tocca le ampie pianure del contesto sociale, le montagne più o meno ripide dell’interazione e della relazione, i mari ondulati della comunicazione non verbale e i profondi oceani di complessità legati ai soggetti che parlano e ascoltano, lo spazio dell’educazione – specie nel suo volto interculturale – può e deve assumersi il compito di costruire possibilità di cambiamento, volto a consentire a ciascuno la possibilità di scegliere le «parole che sente proprie per dirsi al mondo».

 

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