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Conflitti e segnali di pace

Terrorismo, paure, pregiudizi: una riflessione interculturale - Terrorism, fears and prejudices: an intercultural reflection

Stefania Lorenzini

Ricercatrice in Pedagogia Generale e Sociale, insegna Pedagogia Interculturale presso la Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione, Dipartimento di Scienze dell’Educazione – Università di Bologna. Insieme ad Anna Pileri ha promosso e organizzato il Convegno internazionale “Comprendere e dialogare sulla paura del terrorismo e sulle trappole del pregiudizio” svoltosi a Bologna, il primo marzo 2016 – Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione.


Abstract

As written by Marc Augé (2013), «The contemporary world is meeting us with a real tangle of fear». Immersed in the news about the recent and ongoing dramatic events that have occurred before, during and after 2015 in Paris and other places in Europe and in the world in general, there is an emerging global need to understand and debate on these issues on an interdisciplinary and intercultural level. We need to try to understand what has happened, what is happening, and what is changing, in order to know how to deal with the fear of terrorism and how to avoid the traps of prejudice that otherwise tend to lead to stereotyping by letting those who have committed violence representing all the people who share the similar traits. As educators, we therefore have the responsibility to ask ourselves how the pedagogical reflection and the educational practices, especially in their intercultural declination, can contribute in concrete educational contexts that address issues from an overall view, but which also, at the same time, deals with each and one of them per se. Keywords: fears, prejudice, terrorism, intercultural education.



Sommario

Come scrive Marc Augé (2013), «Il mondo contemporaneo ci mette di fronte a un vero groviglio della paura». Immersi fra le notizie sui recenti, continui, drammatici avvenimenti che nel corso del 2015, ma già prima, e a tutt’oggi, stanno colpendo Parigi, diversi luoghi dell’Europa e del mondo, in una dimensione quanto mai globale, abbiamo bisogno di conoscere, capire, dibattere su un piano interdisciplinare e interculturale. Abbiamo bisogno di cercare di comprendere cosa è successo, cosa sta succedendo, cosa sta cambiando, come affrontare la paura del terrorismo e come evitare le trappole del pregiudizio che tende a fare di coloro che hanno agito le atroci violenze i rappresentanti dei rispettivi ampi gruppi umani di appartenenza. Abbiamo la responsabilità di chiederci come la riflessione pedagogica e le prassi educative, in particolare nella loro declinazione interculturale, possano contribuire, nei contesti educativi particolari e concreti, ad affrontare questioni dal volto planetario e che, al tempo stesso e proprio per questo, riguardano ciascuno.

 

Parole chiave: paure, pregiudizi, terrorismo, educazione interculturale.

 

 

Introduzione

A proposito di paure, oramai nell’esperienza quotidiana, gli annunci di gravi minacce e le testimonianze di veri e propri orrori, pur se di segno e portata diversa, si affastellano, ci colpiscono e finiscono per tratteggiare scenari, tra locale e globale, solo parzialmente reali, ma che spesso rendono l’atmosfera che ci circonda realmente preoccupante e opprimente. Pregnanti, in tal senso, sono le parole di Marc Augé, antropologo, che a un suo recente saggio ha dato il titolo Le nuove paure. Che cosa temiamo oggi?: «Il mondo contemporaneo ci mette di fronte a un vero groviglio della paura, ed è questo groviglio che dovremmo iniziare a dipanare se vogliamo cercare di analizzare le cause, le conseguenze e i possibili sviluppi del malessere generalizzato che pare essersi impossessato delle società umane e minacciare il loro equilibrio» (Augé, 2013, p. 12). Non possiamo nemmeno esimerci, come chiede Edgar Morin, dal riconoscere «il complesso di crisi umanitarie che segna il XXI secolo, poiché mostrano che tutti gli umani sono ormai messi a confronto con gli stessi problemi di vita e di morte, vivono una stessa comunità di destino» (Morin, 2015, p. 93). Questi importanti pensatori della contemporaneità sviluppano riflessioni che necessariamente partono dal confronto con fenomeni locali, per spingersi ad altri dal volto globale, nonché all’intreccio tra gli uni e gli altri. Realmente inondati di notizie, che circolano corrette o distorte, esaustive o più spesso parziali, perché incomplete o di parte, potremmo facilmente sentirci impotenti. Siamo immersi in queste notizie, che costruiscono inquietudini e paure per la sicurezza personale, familiare e per il proprio Paese. La costante aspettativa che qualcosa di terribile possa accedere…

 

Contro una strumentalizzazione della paura

Possiamo qui solo accennare all'importanza di sentire la paura, di riconoscerle un valore, di svilupparne consapevolezza, per non lasciarla in mano solo a “certe” voci della politica, a “certi” mezzi di informazione che ne strumentalizzano la forza e l’influenza sull’opinione pubblica al fine di costruire consenso e adesioni in sede elettorale. In altre parole, la paura non va demonizzata ma non può neppure essere sostituita dall’apertura, dall'accoglienza e dalla comprensione, senza prima sostare e se possibile trasformare la paura stessa, quella che proviamo nell'incontro con le diversità o con i conflitti, la violenza.

Va anche messo in luce come queste paure siano oggetto di un intenso sfruttamento mediatico, a cominciare dal linguaggio utilizzato dai media che non fa altro che generare e incrementare ansie e timori nelle persone. Come evidenziano Villano, Passini e Morselli (2010), diverse ricerche si sono focalizzate sul ruolo del linguaggio utilizzato dai media per generare ansia nelle persone o per parlare della guerra (Amico e Villano, 2007; Jackson, 2005). In altri casi, il linguaggio dei media si esprime mediante omissioni, ottenendo probabilmente in qualche caso lo stesso risultato del rafforzarsi di paure e avversioni: «Contro l’attentato di Parigi si sono espressi con la massima durezza, tra l’altro, l’Associazione Mondiale delle Comunità musulmane, l’Università di al-Azhar, il dottor Ezzeddin, presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII), e anche Hamas e Hezbollah. I nostri media non hanno accordato alcuna attenzione a quelle voci» (Cardini, 2015). O, ancora, gli stessi esponenti delle nuove forme di terrorismo fondamentalista islamico si servono della forza e della risonanza di messaggi mediatici, da un lato, per diffondere le loro minacce e, dall’altro, per reclutare nuovi adepti.

Per vari aspetti le nuove paure, dice ancora Augé, non sono poi troppo dissimili da quelle vecchie. Un elemento di novità sta, invece, nella moltitudine e pervasività dei canali attraverso i quali sono diffuse. È esperienza di molti, aggiungo, poter accedere a notizie dal mondo di ogni tipo, in qualsiasi luogo, in qualunque momento, dalla tasca della giacca camminando su un marciapiede, in piedi su un autobus affollato, nel buio e nel silenzio della più personale esperienza di solitudine, accendendo dal letto, nella notte, lo smartphone appoggiato sul comodino. Ed è proprio l’effetto di accumulo che trascende lo spazio e il tempo a determinare un fenomeno supplementare di cui dovremmo avere la possibilità di misurare il carattere artificiale (Augé, 2013) e il potenziale di esasperare ulteriormente la gravità delle notizie stesse, poiché si susseguono, si sovrappongono, ci arrivano da tutte le parti, in ogni momento e solo quelle più negative.

D’altra parte, non possiamo affermare che nelle paure suscitate dai fatti definiti di terrorismo non vi sia qualcosa di reale, e che riguarda da vicino, almeno potenzialmente, ciascuno di noi. Non è un caso se il terrorismo è considerato e definito da molti studiosi come strategia della paura.

Tuttavia ci sono “diversi pesi e diverse misure”: quando coacervi di notizie frammentarie ci raggiungono, immagini in cui a essere fatte a brandelli sono corpi di persone, guardiamo a questi esseri umani in modo differente: rispetto ad essi proviamo più o meno fortemente vicinanza, empatia, sentiamo più o meno intensamente di condividere la medesima appartenenza all’umanità. All’attentato contro l’aereo russo partito da Sharm el-Sheikh il 5 novembre 2015, abbattuto cioè pochi giorni prima dei fatti di Parigi, quanta attenzione abbiamo rivolto? Forse una certa noncuranza, eppure le vittime sono state moltissime.

Degli attacchi esplosi a Beirut il 12 novembre 2015, poche ore prima della tragedia di Parigi del 13 novembre, e rivendicati dalla stessa matrice terroristica, quando una bomba ha ucciso 50 persone, ferendone più di 200 nel quartiere sciita della città (Dotti, 2015), quanto si è parlato in Italia? Molto poco: «Ai confini dell'Europa le cose non cambiano, ma l'empatia degrada in indifferenza» (ibidem). E per gli attentati suicidi nel distretto sciita della capitale irachena Baghdad? Quanta partecipazione abbiamo provato? Chi ne ha ancora memoria? Quasi certamente c’è una generalizzata, notevole differenza nel grado di coinvolgimento vissuto in Europa verso questi e altri episodi rispetto a quanto provato e vissuto a seguito delle stragi di Parigi, prima Charlie Hebdo poi Bataclan, Stade de France... c’è differenza anche rispetto alle reazioni agli attentati del 22 marzo 2016 alla metropolitana di Bruxelles.

Purtroppo, questo elenco potrebbe continuare e, d oggi, ha già un seguito, ma qui vogliamo focalizzare l’attenzione sul dato di fatto che ben diverse sono state le immagini della solidarietà alle quali abbiamo potuto assistere o partecipare in certi casi, immagini provenienti da diverse parti del mondo in cui sono nate manifestazioni spontanee, celebrazioni pubbliche, veglie di preghiera, mentre in altri casi sono state scarse o persino assenti. Di fatti come quelli che si stanno verificando nello Yemen, descritti da Alberto Angelici in questo stesso approfondimento monografico (Angelici, 2016), in cui musulmani compiono atti altrettanto potentemente distruttivi verso altri musulmani, i più non hanno mai avuto notizia. La distinzione che separa coloro che sentiamo appartenere al “noi” da coloro che istituiamo come ascrivibili alla dimensione del “loro”, gli altri, estranei e stranieri, si palesa così con grande evidenza e frantuma anche il più piccolo sentore di una comune appartenenza all’umano.

 

Chiusura cognitiva e chiusura sociale

Analisti diversi dei complessi fenomeni ai quali stiamo facendo riferimento rilevano anche che gli attentati terroristici compiuti in Occidente – da quelli dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York a quelli al “cuore dell’Europa”, del 2015 e 2016 a Parigi e poi Bruxelles – non hanno costituito soltanto attacchi durissimi al modello democratico della vita sociale e ai suoi principi costitutivi, ma hanno anche prodotto risposte di tipo antidemocratico proprio da parte delle istituzioni democratiche, anzitutto attraverso limitazioni imposte alla libertà degli individui. Andando, cioè, in una direzione opposta al bisogno che, invece, dovrebbe emergere dagli attacchi a contesti democratici, e cioè di aumentare l’impegno a dare sostanza ai principi su cui si regge la democrazia: laicità, rispetto dei diritti di ogni individuo, rafforzamento dei sentimenti di appartenenza alla società civile da parte di tutti i suoi membri (Silva, 2015). Sin dagli studi compiuti (Ravenna, 2009) a seguito degli attacchi terroristici del 2001, rimasti indelebilmente impressi nella memoria di molti, è emerso che i fatti di terrorismo «generano chiusura cognitiva e chiusura sociale, incrementano la tendenza a chiudere i confini dei gruppi di appartenenza nei confronti di altri gruppi, nel dichiarato intento di salvaguardare dalla minaccia distruttiva i valori e gli stili di vita, i sistemi di credenze condivisi in ambito politico, religioso, etico» (p. 102).

La paura ha continuato a diffondersi e ad aggiungere spaccature nel mondo. Ognuno vuole chiudersi all’interno del proprio territorio. Diffidenze e ostilità si accentuano nelle relazioni sociali. Si irrigidiscono le barriere, si erigono ex novo muri, in un’Europa che si è voluta unita e aperta, in un mondo globalizzato che ha bisogno di libera circolazione e interdipendenza. Eppure eminenti interpreti della contemporaneità, come il sociologo della società liquida Zygmunt Bauman (2015), evidenziano come i muri contro i migranti rappresentino una vittoria del terrorismo: «Per vincere, i terroristi fondamentalisti possono tranquillamente contare sulla miope collaborazione dei loro nemici». Una collaborazione, spiega Bauman nell’intervista rilasciata a “Open Migration” nel dicembre 2015, che si concretizza proprio nella sospensione delle regole di base della democrazia, nell’inasprirsi del risentimento verso gli stranieri, nel circolo vizioso tra propaganda politica e xenofobia, nell’incapacità degli stati-nazione di affrontare un fenomeno epocale e globale come le grandi migrazioni.

Questa la principale critica che il sociologo rivolge al modo in cui l’Europa sta reagendo agli attentati: «Se l’obiettivo strategico della guerra dei terroristi globali – come ha detto Hollande con il consenso di molti europei –, è la distruzione di ciò che loro condannano e che invece noi abbiamo a cuore, ossia la civiltà occidentale, non c’è tattica migliore che quella di portare alcuni dei portavoce più importanti di tale civiltà a smantellarla gradualmente con le proprie mani, e tra gli applausi, il sostegno, o quantomeno l’indifferenza dei cittadini. Moltiplicando le misure eccezionali e mettendo da parte i valori che si vorrebbero difendere – anzi introducendo tali misure in nome di quei valori – si spiana la strada alle forze anti-occidentali. Un obiettivo che queste forze non sarebbero in grado di raggiungere da sole» (Bauman, 2015).

 

Reazione armata alla paura: tre definizioni di guerra dei nostri giorni

La risposta che da molti si leva come richiesta è una reazione armata, di vendetta, che invoca atti di guerra: «La guerra è la risposta più consueta. Dall'11 settembre 2001 a oggi abbiamo assistito a guerre in Iraq, Afghanistan e Libia, a primavere arabe eterodirette in tutto il nord Africa e nel Medio Oriente, da cui ha avuto origine una lunga serie di attentati in Europa e in tutto il resto del mondo. Da Madrid a Londra, da Sidney a Boston, passando per Beirut e Tunisi. Fino ai giorni di Charlie e a quelli del Bataclan. La guerra, insomma, scelta sempre come soluzione definitiva, si è svelata come una scorciatoia politica a breve termine ma dai danni innumerevoli e a lungo termine (Alvaro, 2015).

Si parla di guerra asimmetrica, intendendo guerre nelle quali eserciti convenzionali si scontrano con movimenti di guerriglia che possono contare sul consenso di una parte di popolazione e sono difficilissime da vincere. In una guerra asimmetrica il più debole colpisce il più forte là dove è più vulnerabile e le armi utilizzate dal primo sono l’inevitabile conseguenza della superiorità bellica del secondo (Enciclopedia Treccani, maggio 2016). A fare le spese di queste guerre sono sempre meno i militari e sempre più i civili. Si parla di guerra impura che sancisce la scomparsa della nozione classica di guerra: «Al "campo largo" di battaglia si sono sostituiti conflitti locali permanenti che hanno realizzato un primario obiettivo: seminare il panico nelle grandi città» (Dotti, 2015 riprende le considerazioni di Virilio, 2015); perché, dice il filosofo Paul Virilio, «l’iper-terrorismo ha un solo campo di battaglia, e questo campo di battaglia è, appunto, la città. Chiediamocene la ragione. Credo si debba rimarcare che è proprio nelle moderne città che si concentra il maximum della popolazione e, con un minimo di armi, può essere raggiunto il massimo risultato, il massimo disastro possibile. Non importa con quali armi si può raggiungere questo risultato: niente più bisogno di panzer, nessuna necessità di portaerei, sottomarini imponenti e via discorrendo». È, dunque, l’affollamento urbano delle metropoli che trascina il fronte della guerra e del terrorismo nelle città: «Quando si pensa al World Trade Center, sono stati undici uomini a fare duemila e ottocento vittime, quasi quante a Pearl Harbor. Stesso risultato. Quanto meno il rapporto tra costi ed efficacia è stato straordinario!» (Virilio, 2015).

Colpire la città «non significa colpire al cuore uno Stato o un'idea di comunità o un'idea di libertà, laicità, bla bla bla… Colpire una città significa innescare un ordigno panico che è strutturalmente concepito per esplodere qui e ora. Ciò che cambia, in questo qui e in questo ora, sono i termini quantitativi e di prossimità: quante vittime? Quante vicine a noi? Quanta empatia suscitano?» (Dotti, 2015). Ben diversamente da quest’ultima posizione, altri individuano negli attacchi terroristici recenti colpi miratamente inferti alla civiltà occidentale nel suo insieme, in quella dimensione globale che, già negli anni Novanta, lo scienziato politico statunitense Samuel P. Huntington (2000) definì scontro delle civiltà, sostenendo che nel mondo post Guerra fredda, nato dalla caduta del muro di Berlino, sarebbero divenute le identità culturali e religiose la principale fonte di conflitti. Secondo questo autore si sarebbe passati dal quadro bipolare della Guerra Fredda a uno multipolare che presenta notevoli differenziazioni fra i popoli, fra le civiltà: le distinzioni cruciali sarebbero basate sulle differenze culturali che funzionano da elemento di coagulo per i valori simili, per cui le diverse società tenderebbero ad avvicinarsi e a cooperare per affinità di civiltà e, contemporaneamente, da fattore di scontro per quelli antagonisti.

Contrariamente a quanto si crede, i processi di mondializzazione non producono l’occidentalizzazione delle civiltà non occidentali. Anzi, negli equilibri di potere mondiali l’influenza dell’Occidente sarebbe in calo, mentre le civiltà asiatiche accrescono la loro forza economica, militare e politica; il mondo islamico vive un’esplosione demografica con conseguenze destabilizzanti per i paesi musulmani e i loro vicini; le civiltà non occidentali in generale riaffermano il valore delle loro culture. L’Occidente, con le sue “pretese universalistiche”, entra sempre più in conflitto aperto con le altre civiltà, in particolare con l’Islam e la Cina (Genovese, 2003). In questo conflitto, che può degenerare in scontro aperto, la sopravvivenza dell’Occidente dipende dalla «volontà degli Stati Uniti di confermare la propria identità occidentale, e dalla capacità degli occidentali di accettare la propria civiltà come qualcosa di peculiare, ma non di universale, e di unire le proprie forze per rinnovarla e proteggerla dalle sfide provenienti dalle società non occidentali» (Huntington, 2000, pp. 14-15). Tuttavia, spiega bene Antonio Genovese (2003), le civiltà non sono facilmente identificabili nella loro dimensione spaziale e temporale; non hanno confini, possono avere un inizio e una fine, hanno una storia, possono implodere oppure evolvere. «Dal punto di vista dell’analisi pedagogica del conflitto, e per l’individuazione di una possibile direzione educativa di superamento del conflitto stesso o di un suo contenimento, occorre costruire e utilizzare categorie analitiche che permettano di scoprire, oltre che le differenze tra le diverse culture, anche i loro tratti comuni; allo stesso tempo, esse devono essere in grado di far emergere il divenire e il cambiamento che è interno alle diverse culture […]. La categoria di conflitto ammette il confronto anche sui valori di fondo, perché ne individua l’arco di variabilità dei loro possibili significati (cosa che invece non può avvenire con l’idea dello “scontro di civiltà”!), stimolando a individuare i tratti distintivi, senza però costruire per questo muri invalicabili di separazione, e anche a precisare quei segni e quegli elementi che si sovrappongono e che avvicinano le diverse culture (» (Genovese, 2003, pp. 140-141).

Lo storico Franco Cardini chiarisce molto bene con altre parole la trappola e l’errore insito nella concezione dello scontro di civiltà: «Le stragi parigine non sono un episodio di alcuna “guerra di religione”, di alcuno “scontro di civiltà”: sono il risultato delle mosse di un’organizzazione criminale che sta facendo proselitismo sulla base di una tesi ideologica, quella che tratta l’islam non come una fede religiosa bensì come un’ideologia, e postula arbitrariamente la necessità che tutti i musulmani sunniti del mondo (un miliardo e mezzo circa) si riuniscano in una sola umma (“matria”, comunità) per combattere sia gli “atei”, gli “idolatri”, i “crociati” (cioè i vari non-musulmani del pianeta), sia gli sciiti (perché la fitna, la guerra civile antisciita, fa parte del programma del califfo esattamente come di quelli arabo-saudita e qatariota). La stragrande maggioranza dei musulmani di tutto il mondo è del tutto estranea a questa follia: ne è anzi, concettualmente parlando, la prima vittima, in quanto le azioni criminali dell’IS si riflettono in termini di sospetto e di ostilità da parte dei non-musulmani proprio su di loro» (Cardini, 2015). Dunque, «criminalizzare con un’indiscriminata ostilità e con un’ingiustificata presunzione di complicità associazioni o centri di cultura musulmani è illegittimo sul piano civico e giuridico, insensato su quello tattico-strategico» (ibidem).

Alla ricerca di appigli al superamento dei conflitti più tragici, secondo l'analisi del sociologo Aldo Bonomi, oggi, stiamo vivendo un terremoto epocale: «ogni terremoto crea delle faglie. Abbiamo due strade: la prima è metterci l'un l'altro su queste faglie. Da una parte loro, dall'altra noi. Così il tema sarà come combattersi. La seconda è entrare nella dimensione epocale del cambiamento continuando a costruire luoghi soglia» (Bonomi, 2015).

E ancora del nostro tempo è la definizione di guerra civile globale o di terza guerra mondiale combattuta a pezzi, a capitoli. Come ha osservato Papa Bergoglio, «questo è solo un frammento di una guerra globale-totale, asimmetrica e impura, che si conduce con gli algoritmi della finanza, con l'uso politico delle migrazioni e con quello geopolitico del terrore» (Dotti, 2015). Con il suo costante richiamo a costruire ponti e non muri, il Papa esorta ad aprire le braccia a nazioni e persone spesso rifiutate dal mondo occidentale.

Ritornando al pensiero di Bauman (2015), «La refugee crisis, prima e dopo gli attentati di Parigi, è la cartina al tornasole di una più globale crisi dell’Occidente. Un’emergenza che durerà a lungo e alla quale l’Europa non ha ancora trovato gli argomenti adeguati per rispondere, presa in mezzo tra la necessità di aumentare i controlli – da ultimo la stretta sulle identificazioni forzate alle frontiere – e la necessità di tenere aperto uno spazio comune europeo». Rinforzando la xenofobia dal basso e concentrandosi sui migranti provenienti dai paesi islamici si passa la palla nelle mani dei terroristi fondamentalisti. L’accoglienza ostile verso i rifugiati, da una parte, scoraggia i potenziali rifugiati che sono ancora nei loro paesi, dall’altra amplia le possibilità di reclutamento per le cellule terroristiche estendendo il contagio ai migranti residenti in Francia da tempo. «Gli avversari di Hollande, Nicolas Sarkozy e Marine Le Pen lo hanno spinto a rovesciare il principio della presunzione di innocenza, presupponendo che i rifugiati di fede islamica siano presunti terroristi fino a prova contraria. E così di fatto impedendogli di sentirsi accolti in un paese in cui speravano di sentirsi a casa» (ibidem).

Secondo Ian Bremmer (2015), politologo americano fra i più influenti, «senza alcun dubbio siamo entrati nel periodo di maggiore turbolenza geopolitica dalla fine della seconda guerra mondiale, con molti stati falliti e milioni di rifugiati nel grande Medio Oriente». E non occorre essere esperti di geopolitica «per osservare che c’è una situazione di grave e diffusa tensione internazionale: dall’Ucraina alla Libia, dalla Siria alla Corea del Nord, alle dispute territoriali tra Cina e Giappone, si moltiplicano conflitti e pericolosi attriti. Gli elementi prevalenti di questo scenario d’instabilità sono la frammentazione conseguente alla crisi dell’autorità statuale in vaste regioni del pianeta e l’acuirsi dei contrasti tra potenze regionali e superpotenze globali» (Citrolo, 2016). Tuttavia secondo Bremmer non c’è un rischio reale che oggi scoppi un conflitto mondiale, paragonabile alle devastanti guerre mondiali del Ventesimo secolo: «È virtualmente impossibile che le grandi potenze si combattano direttamente in una terza guerra mondiale: troppi sono i legami economici» (ibidem).

Tra coloro che raccomandano di non considerare i conflitti in corso in parti diverse e numerose del pianeta, ma nello specifico gli attentati del 2015 a Parigi una guerra, d’interesse è la riflessione di un altro sociologo francese, pubblicata su “il Sole24ore”, nel novembre 2015. Secondo Alain Touraine lo scopo dei jihadisti, sin dall’11 settembre 2001, che considera il modello di tutti gli attentati perpetrati in seguito, è quello di far perdere la ragione all’Occidente, sino ad autodistruggersi nei valori per cui si è storicamente battuto, del laicismo, del progresso, della scienza, della civiltà, della fraternità, della libertà e dell’uguaglianza; appunto quei valori che questo nuovo terrorismo vuole distruggere: «La strategia del terrorismo jihadista è creare situazioni violente di massima asimmetria. Questa non è una guerra, è una trappola, una trappola a cui bisogna assolutamente resistere. La trappola del terrorismo jihadista è quella di rendere folle l’Occidente» (Touraine, 2015). Di trascinarlo cioè verso atti estremi e vendicativi in una dinamica che distrugge alla fine proprio i valori che vuole difendere, ma ribadisce «il terrorismo non è una guerra: la gravità del terrorismo dipende dalle nostre reazioni di terrore; il terrorismo vince se riesce a spiazzarci, a scomporci, a farci paura e a creare l’alleanza micidiale tra paura e odio. L’unica reazione possibile è il sangue freddo, la calma: non farsi trascinare nella spirale della violenza. Non scomporci in comportamenti indegni di noi stessi, come vorrebbero i terroristi. Toglierci la dignità, la nostra stessa umanità, le nostre regole. Ma se vogliamo mantenere i valori per i quali pensiamo valga la pena di batterci, dobbiamo resistere a questa trappola» (ibidem).

In tutto questo però bisogna anche chiedersi chi compra il petrolio dall'Isis, sostenendone le finanze? Chi lo rifornisce di armi? La grande civiltà occidentale non pare affatto avere le mani pulite. Anzi. Paralizzati nella capacità critica, tentati dal rassicurante – per quanto può – ricorso a luoghi comuni, stereotipi, pregiudizi, potremmo, talvolta, non riuscire nemmeno a mettere ordine tra le informazioni e le paure, a individuare convincenti criteri per farlo.

Dice ancora Bauman (2015), «per il momento, la discussione pubblica è dominata dal risentimento verso gli stranieri, i soliti sospetti. In tempi di incertezza acuta e di terrorismo gli stranieri sono accusati di essere la causa del caos globale. Le voci delle forze politiche xenofobe si fanno più forti» e, d’altro canto, «la politica trae profitto dalla xenofobia ormai popolare in tutta Europa» e fa guadagnare seggi in parlamento. In Italia, «Matteo Salvini e la Lega Nord potrebbero triplicare i loro voti grazie all’abbandono dell’autonomismo e concentrandosi solo sulla chiusura agli immigrati». Le paure, allora, costituiscono anche una tigre da cavalcare. E dunque Salvini, oltre alla guerra, chiede la chiusura delle frontiere e un cambio di rotta sull'accoglienza. Ma «la xenofobia e il razzismo sono sintomi, non cure» (Bauman, 2015). D’altro canto, sulla stessa scia di considerazioni, va ricordato come in diversi Stati occidentali – dall’Europa a gli Stati Uniti – forze politiche estremiste di destra continuino a prendere forza.

 

La comprensione come antidoto alla paura

Quali sono i motivi di quanto sta accadendo? Dove sta la verità? Chi ha ragione? Come proteggere noi stessi e chi ci sta a cuore? Ci sono soluzioni? Come trovarle? Lo stesso leggere, informarsi, parlare di questi temi, cercare notizie con l’intento di pluralizzare le fonti delle informazioni e le possibilità di riflessione per cogliere i volti plurali, complessi, contraddittori di quello che stiamo vivendo e che ci presenta fatti e parole che evocano e costituiscono, effettivamente, problemi drammatici, può aumentare le sensazioni di disorientamento. Molte volte tutto questo può apparire come un coinvolgente e faticoso rincorrere temi, eventi, riflessioni senza poter abbracciare tutto, per la sua ampiezza, complessità, per il susseguirsi ininterrotto di fatti terribili, di reazioni ad essi, di interpretazioni su di essi. La stessa ricchezza dei temi portati dai diversi relatori nel corso dell’iniziativa “Comprendere e dialogare sulla paura del terrorismo e sulle trappole del pregiudizio”, tenutasi il primo marzo 2016 presso la Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione, e di cui insieme alla collega Pileri sono stata promotrice e organizzatrice, pur avendo preso in esame solo una piccola parte di questa complessità, ne ha offerto comunque un vivido esempio.

Possiamo a questo punto arrivare a dire che, nella ricerca di riflessioni sensate e di spiragli di luce, un punto fermo c’è: abbiamo la responsabilità di cercare di comprendere. Questo il primo obiettivo dal quale non ci si può sottrarre, pur nel disorientante disagio che può causare. Gestendo e contenendo le tentazioni di un pensiero unilaterale e il richiamo delle logiche binarie che rifuggono contraddizioni e complessità, la compresenza di una pluralità di volti e risvolti. Superando odi e disprezzo, resistendo a desideri di vendetta. Accettando anche che nella complessità è ineliminabile un margine di impossibilità a comprendere, un residuo di incomprensibile. Comprendere è anche riconoscere che c’è dell’incomprensibile (Morin, 2015).

Possiamo spingerci alla ricerca di zone di possibile comprensione, approssimandoci ad essa. E ci resta ancora la responsabilità di continuare a cercare di comprendere. Per non sprofondare nella chiusura, o persino nella violenza. Ciascuno per la sua parte, con i propri mezzi e competenze, giorno dopo giorno, pazientemente, nei piccoli e particolari luoghi educativi, incarnando ciò in cui si crede, agendo con l’esempio. Senza mai rinunciare a compiere tentativi per comprendere e, anche laddove la comprensione dovesse risultare insufficiente, senza declinare l’impegno a sentirsi responsabili e a intervenire. Allora, fermiamoci anzitutto a pensare, ritorniamo alla centralità della nostra prospettiva pedagogica, educativa, interculturale. Ritroviamo un centro e una trasversalità, un principio organizzatore del nostro pensiero e una progettualità educativa possibile: nessun educatore può esimersi dal credere fermamente nell’educabilità degli esseri umani, nella loro capacità di continua trasformazione e crescita (Secco, 2007; Portera, 2013). La prospettiva pedagogica interculturale non fornisce risposte e soluzioni definitive, suggerisce direzioni alle quali volgersi, percorsi da intraprendere. Ci richiama, anzitutto, alla responsabilità di cercare di comprendere. E talora, anche nell’insufficienza delle possibilità di comprendere, ci esorta a educare e a educarci, in quanto adulti che hanno responsabilità educativa, all’incontro tra differenze. Le istituzioni hanno un ruolo determinante nell’affermare i principi della parità tra cittadini, dell’equità di diritti, della democrazia, della partecipazione. Anche i luoghi educativi hanno questa responsabilità. E hanno – certe volte – anche delle potenzialità in più, tanto che possono riuscire a soddisfare bisogni di equità e partecipazione, pur in assenza di norme ufficiali che affermino questi principi (e laddove invece escludono), verso la realizzazione di comunità di condivisione, che non escludano sul piano delle relazioni e delle esperienze, capaci di volgere riconoscimento, accoglienza, valorizzazione alle peculiarità di ciascuno e di tutti in una dimensione condivisa, in un clima di scambio e reciprocità, in cui si possa imparare gli uni dagli altri in virtù delle differenze e dei punti in comune. Rendendo concreti, vissuti ed esperiti la partecipazione e il coinvolgimento di ciascuno e di tutti, potendo con ciò dare luogo a un effettivo “sentirsi parte di…” con le proprie peculiarità e individualità, a un “avere a cuore…” luoghi e persone. Questo può contrastare il desiderio di distruggerle?

Se è a scuola, e certamente già nei servizi educativi per l’infanzia, che si realizza una parte importante della formazione dell’individuo, della sua soggettività sociale, se vi si comincia a diventare cittadini del futuro, donne e uomini capaci di pensiero critico, autonomia intellettuale, responsabilità civile, se tutto questo può essere reso esperibile nei luoghi educativi grazie alle persone che vi operano con responsabilità educativa, allora anche noi qui abbiamo grandi responsabilità e opportunità. Studiosi diversi mettono a fuoco come l’integrazione sociale richieda la soddisfazione sia di aspetti materiali sia di aspetti relazionali e di qualità delle relazioni, in un processo lungo, delicato, che può svilupparsi attraverso più generazioni: «va tenuto presente che fenomeni di radicalizzazione delle identità culturali possono scaturire anche in seguito alla mancanza di risposte efficaci ai bisogni di inserimento sociale della persona» (Catarci, 2015, p. 33).

Le difficoltà nell’integrazione, anche indipendentemente dall’acquisizione dei diritti di cittadinanza (come ha mostrato l’esempio in cui giovani di nazionalità francese hanno perpetrato gli attacchi più duri alla Francia stessa), gli insuccessi scolastici, i malesseri e le sofferenze legate a forme diverse di esclusione, rifiuto, disprezzo «possono spingere alcuni alla ricerca di un’identità altra, arabo-islamica, che all’estremo può condurre alla jihad in un Paese d’Oriente e anche in Francia» (Morin, 2015, p. 63). Bisogna chiedersi, scrive Franco Cardini nel suo blog, perché oggi altri ragazzi ancora, allevati in famiglie benestanti scelgono la morte nel nome di Allah? Ci ha mai sfiorato il dubbio che la società dei consumi e dei profitti possa apparire a qualcuno vuota, inutile, viziosa? Sbagliano, certo, questi “fanatici”: ma non possiamo non chiederci se ci sono stati disvalori che abbiamo offerto loro, e che tali li hanno fatti divenire? «Bisogna abituarci all’idea che i terroristi li abbiamo fra noi, che possono essere dei ragazzi nati anche a Liverpool, a Bordeaux, oppure – perché no? – a Pontassieve. Non facciamo la politica dello struzzo, non nascondiamoci dietro la virtù pelosa della nostra cattiva coscienza (noi pacifici, noi razionali, noi democratici…), piantiamola di buttar sempre la colpa tutta addosso agli altri» (ibidem).

D’altra parte, ancora, appunto, insuccessi, isolamento, violenze subite o messe in atto possono non solo coinvolgere i discendenti degli immigrati, i giovani appartenenti a bande, ma anche riguardare i figli di famiglie in difficoltà sociale o familiari, che possono ritrovarsi in tutte le categorie di allievi. Quando ci sono ingiustizie subite, vessazioni tra allievi, le turbolenze possono divenire tempeste se quei soprusi non hanno trovato giustizia, contenimento, spiegazioni, rielaborazione. Allora chiede Morin (2015, p. 63): «Come sfuggire alla circolarità infernale del rifiuto che porta a rifiutare da parte del rifiutato colui che lo rifiuta, cosa che aggrava il rifiuto del rifiutante il quale aggrava il rifiuto del rifiutato?». Comprensione è un processo che si colloca nell’intersoggettività e implica un’apertura all’altro, che lo dovrebbe riconoscere sia in quanto differente per la sua individualità e le sue peculiarità, anche in relazione ai riferimenti culturali in cui si riconosce o a cui riconduce le proprie origini, sia in quanto simile, per la comune umanità ma anche per esperienze che possono accomunare, cosa che facilita identificazione, empatia, simpatia. Comprendere allora diventa un approssimarsi alla visione del mondo dell’altro, a ciò che vive, al significato che gli attribuisce. Da un punto di vista interculturale non posso non menzionare ancora Morin per il grande valore, sul piano educativo, delle sue parole, quando scrive: «uno dei bisogni individuali più profondi è quello di essere riconosciuto dagli altri (il secondo è la realizzazione delle aspirazioni personali)» (Morin, 2015, p. 55), mentre nell’umiliazione da parte degli altri risiede il peggior male. Occorre allora «sfuggire al circolo vizioso delle umiliazioni per trovare il circolo virtuoso dei riconoscimenti reciproci» (Morin, 2015, p. 66).

 

Conclusioni

Tutto questo ci porta alla necessità di favorire – nei più piccoli, nei più giovani – il configurarsi e il continuo rimodularsi di identità flessibili, aperte, ricche, capaci di evolvere riconoscendosi in riferimenti culturali ed esperienziali plurali e diversificati, tutti sentiti come parte di sé e meritevoli di rispetto. Educativamente, si può cercare di favorire la formazione di identità cui dare continuità e unitarietà, entro itinerari di vita pur caratterizzati da frammentazioni, perdite e separazioni, come l’esperienza migratoria personale o familiare, di sradicamento, può comportare. Questo è fondamentale e, soprattutto, è possibile. «Può non essere facile per bambini e adolescenti coniugare in se stessi questa complessità e pluralità» (Moro, 2011, p. 27). Ma è possibile. La psichiatra dell’età infantile e dell’adolescenza, Marie-Rose Moro, definisce anche il presupposto di tale possibilità: «È necessario autorizzare questa complessità, evitare che sia loro interdetta, anche in modo implicito» (Moro, 2011, p. 27). Evitare che dalla definizione della propria identità sentano di dover eliminare qualcosa che attiene alle origini o che al nuovo contesto di vita. È possibile attraverso il riconoscimento, la valorizzazione e lo scambio favorire la conciliazione tra tasselli identitari diversi, plurali e il mantenimento di un filo conduttore che leghi alle proprie origini, storia, biografia. Si dovrebbe poter far esperire nella crescita, sin dalla prima infanzia, che le identità sono in divenire, che si fondano su aspetti molteplici a volte contrastanti e che anche il loro significato è dinamico e può mutare; cosa che da un punto di vista educativo non dovrebbe mai sfuggire a sguardi attenti (Demetrio, 1997). Amartya Sen, economista di origine indiana, docente ad Harvard, Premio Nobel per l’economia nel 1998, ci consegna un esempio efficace di una pluralità possibile nell’identità: «La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista. Eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz, e profondamente convinta che esistano esseri intelligenti nello spazio con cui dobbiamo cercare di comunicare al più presto (preferibilmente in inglese)» (Sen, 2008).

Si dovrebbe poter rendere evidente il dato cruciale: le appartenenze possono essere plurali, avere rilevanza differente ma non escludersi a vicenda, convivere su piani diversi, alternarsi ma anche interagire, intersecarsi e mescolarsi, poiché l’identità soggettiva è legata all’unicità dell’esperienza di ogni soggetto, perché ognuno rielabora in maniera personale il patrimonio culturale, esperienziale, emozionale che gli è proposto e ha la possibilità di sperimentare (Genovese, 2003). E che l’identità soggettiva possa spingersi sino a concepire la propria appartenenza all’umano e al terrestre. Possiamo condividere l’idea che questo sia possibile? Che non si tratta di utopia, né di ingenuità, né di miraggi onnipotenti?

 

AUTORE PER CORRISPONDENZA

Stefania Lorenzini

Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione

Dipartimento di Scienze dell’Educazione

Università di Bologna

Via Filippo Re, 6

40126 Bologna

E-mail: stefania.lorenzini4@unibo.it

 

 

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