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Cittadini senza cittadinanza? Giovani immigrati in Italia

Maria Letizia Zanier

Dottore di ricerca in Sociologia e ricerca sociale e ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche, della Comunicazione e delle Relazioni Internazionali dell’Università di Macerata dove insegna Sociologia e Sociologia dei fenomeni migratori. I suoi interessi di ricerca attuali vanno dalle migrazioni, alle questioni di genere, ai rapporti tra gender e welfare, agli aspetti socio-giuridici dell’integrazione. Tra le sue pubblicazioni recenti: Aspetti sociologici e traiettorie giuridico-legali dell’integrazione delle donne migranti nei paesi occidentali. Il caso delle lavoratrici straniere nel settore domestico e di cura in Italia, in I. Corti (a cura di), Universo femminile. La CEDAW tra diritto e politiche, 2012, Macerata, EUM, pp. 163-191; Interculturalità, esclusione e sicurezza in uno spazio multietnico, «Sicurezza e scienze sociali», vol. 1, n. 1, 2013, pp. 132-141; (con Crespi I.), Condizione femminile, percorsi di vita e politiche sociali: nuove diseguaglianze nell’età anziana, «Sociologia e politiche sociali», vol. 18, n. 1, 2015, pp. 103-123.


Abstract

The issue of citizenship and its political role when it comes to integrating the immigrants in the social fabric of the destination countries is at the centre of an important debate that questions us as citizens and scholars. Italy is nowadays the destination goal of large immigration flows. Moreover, family reunifications and second generations are rapidly rebalancing the demographic balance of its population. From this evolutionary perspective, which in many ways has put into light the contradiction and the inefficiency of the current national citizenship law, a critical reassessment is required, not only in terms of rethinking the legal conditions for obtaining it, but also and above all on the concept of citizenship in a philosophical, sociological and political context.



Sommario

Il tema della cittadinanza e del suo ruolo politico nei processi di integrazione degli immigrati nel tessuto sociale dei Paesi di destinazione si trova al centro di un importante dibattito che ci interpella come cittadini e come studiosi della società. Il contesto italiano esprime oramai appieno i tratti di una realtà meta di rilevanti flussi immigratori, con i ricongiungimenti familiari e le seconde generazioni che stanno rapidamente riequilibrando il bilancio demografico di questa parte della popolazione. Alla luce di una prospettiva evolutiva che ha reso, per molti versi, contraddittoria e inefficace la normativa sulla cittadinanza vigente nel nostro Paese, si impone una riconsiderazione critica sul piano non solo dei requisiti giuridici per il suo ottenimento, ma anche e soprattutto del concetto di cittadinanza in senso filosofico, sociologico e politico.

 

L’interazione tra immigrati e società di destinazione si dispiega lungo percorsi di inclusione o, al contrario, di accoglienza mancata o di semplice indifferenza, che dipendono da fattori istituzionali (politica migratoria e politiche per i migranti), come pure dalle dinamiche degli atteggiamenti e delle rappresentazioni sociali che vengono a crearsi reciprocamente tra autoctoni e nuovi venuti. Poiché gioca un ruolo di primo piano nel plasmare l’identità sociale, il tema della cittadinanza e della sua percezione da parte degli attori coinvolti rappresenta uno snodo cruciale nella strutturazione della trama delle relazioni sociali. In questo quadro, la realtà italiana costituisce un ambito di analisi stimolante, dal momento che, alla luce dell’evoluzione dei processi immigratori, il modello dello ius sanguinis sta mostrando segni di debolezza che ci interpellano come studiosi e come cittadini. Tale criterio considera la comunità nazionale come una famiglia, nella quale si può entrare solo per nascita o per matrimonio, escludendo chi è privo di vincoli di sangue (Walzer, 1987). La preferenza etnica ne fa un principio ritenuto da molti eccessivamente restrittivo, oltre che identificabile con ideologie conservatrici tendenti all’esclusione degli stranieri.

Il saggio presenta alcuni lineamenti del dibattito socio-politologico in tema di cittadinanza, rivolgendo l’attenzione a coloro che potrebbero (dovrebbero) diventare i cittadini di domani — gli italiani col trattino, per citare Maurizio Ambrosini (Ambrosini, 2007). Parlando di immigrati di seconda generazione, non va dimenticato che le identità sono spesso multiple e plurali, articolate sulla base di legami antichi (culture di origine di matrice tradizionale) che tendono a permanere, come pure su rapporti sociali nuovi tutti da costruire nella società di destinazione. Aporie identitarie, dissonanze intergenerazionali, forme di integrazione subalterna possono minacciare i processi di inclusione sociale dei nuovi italiani.[1] Le principali agenzie di socializzazione, primaria e secondaria, (famiglia, scuola, gruppo dei pari, istituzioni e organizzazioni) contribuiscono, non senza difficoltà, a definire gli aspetti identitari e a organizzare le basi di un’incorporazione dalle molte facce, linguistica, sociale, culturale ed economica. Considerato che gli esiti dei processi immigratori sono indissolubilmente vincolati alle condizioni imposte dalla legislazione vigente nei Paesi di destinazione e subiscono gli effetti delle politiche attuate, la discussione non può prescindere dal concetto di cittadinanza politica e dai relativi limiti. Sentirsi cittadini presuppone non solo la mera titolarità di un pacchetto di diritti, ma anche la partecipazione attiva e la responsabilizzazione rispetto alla vita comunitaria, con ricadute evidenti sul piano della costruzione identitaria sia individuale sia collettiva.

Come suggerito da Michael Walzer (1987), si possono distinguere tre idee di cittadinanza: la prima e più restrittiva concepisce le comunità nazionali come famiglie, di cui si diventa membri soltanto per nascita o matrimonio; la seconda la paragona all’appartenenza a un circolo o a un club, ai quali si può accedere solo se ammessi da chi ne è già membro; la terza, la più liberale, riconduce la cittadinanza all’esperienza di risiedere in un quartiere, in cui ci si può semplicemente trasferire e vivere. Anche i principi giuridici su cui ogni Stato fonda la concessione della cittadinanza agli stranieri residenti sul proprio territorio sono essenzialmente di tre tipologie: il diritto di sangue (ius sanguinis), il diritto di suolo (ius soli) e quello di residenza (ius domicili). Il primo, più antico e storicamente diffuso, stabilisce che la cittadinanza sia attribuita sulla base della nazionalità di uno o di entrambi i genitori. Viene adottato in quei Paesi, come l’Italia e la Germania, che hanno vissuto tradizionalmente importanti esperienze di emigrazione alla luce dell’esigenza di mantenere saldi i legami con i concittadini residenti all’estero. Il diritto di suolo prescrive che la cittadinanza debba essere acquisita nello Stato in cui l’individuo si trova al momento della nascita. Questo principio caratterizza i Paesi con un’antica storia di immigrazione, come quelli anglosassoni, ed è riferibile a un’ideologia più liberale rispetto al precedente.[2] Il diritto di residenza, infine, costituisce uno dei criteri più liberali, dal momento che alcuni anni di residenza in un Paese sono sufficienti per assumerne la cittadinanza (Zanfrini, 2007; Ambrosini, 2011).[3]

Anche se l’attuale normativa sulla cittadinanza è entrata in vigore quando il nostro Paese era già meta di destinazione di flussi immigratori di qualche consistenza, il provvedimento sembra non tenere conto di questa realtà, dal momento che inasprisce i criteri di accesso e allunga i tempi di attesa per gli stranieri nati o residenti da lungo tempo in Italia, mentre continua a favorire il recupero della cittadinanza per i discendenti dei nostri antichi emigranti (Zincone, 2000).[4] In estrema sintesi, la norma prevede due percorsi per il conseguimento della cittadinanza italiana. Per acquisizione automatica, la trasmissione della cittadinanza avviene senza che l’interessato presenti una richiesta specifica e si verifica per nascita da madre o padre cittadini secondo il criterio dello ius sanguinis. Consente, inoltre, allo straniero che ha conseguito la cittadinanza italiana per naturalizzazione di trasmetterla ai propri figli, solo se minorenni e conviventi al momento della naturalizzazione. Il secondo percorso prevede l’acquisizione a seguito di istanza presentata dallo straniero e gli esiti sono differenti, a seconda che l’accoglimento dell’istanza preveda discrezionalità o meno da parte dell’autorità italiana. La cittadinanza viene conferita per beneficio di legge, cioè sulla base di un diritto soggettivo e senza margini di discrezionalità nelle seguenti circostanze: (a) per nascita e prolungata residenza in Italia (il figlio di genitori stranieri nato in Italia può richiedere la cittadinanza italiana se ha risieduto nel Paese regolarmente e senza interruzioni fino alla maggiore età, presentando istanza entro il compimento del diciannovesimo anno di età); (b) per matrimonio con un coniuge cittadino, che consente al cittadino straniero di ottenere di diritto la cittadinanza del coniuge italiano dopo due anni dalla data del matrimonio se residente in Italia e dopo tre se residente all’estero. Per tutte le altre modalità di accesso alla cittadinanza su istanza è previsto un margine di discrezionalità (naturalizzazione di stranieri non comunitari che risiedano legalmente e ininterrottamente per dieci anni in Italia; riacquisizione della cittadinanza) (Nascimbene, 2004).[5]

Alla fine del 2013 gli stranieri presenti in Italia ammontavano circa all’8% della popolazione, con oltre un milione di minori, dei quali circa 800.000 iscritti all’anno scolastico 2013/2014 (Centro Studi e Ricerche IDOS, 2014). Dati relativi al 2012 indicano che le acquisizioni della cittadinanza da parte di minori nati in Italia da genitori stranieri non comunitari al raggiungimento della maggiore età per trasmissione dello status da parte dai genitori erano più di 16.000 (ISTAT, 2014).           Il consolidamento delle seconde generazioni, cioè dei giovani stranieri nati e cresciuti in Italia e dei minori stranieri arrivati nei primi anni di vita, rappresenta un chiaro indicatore della crescente e continua tendenza degli immigrati all’insediamento di lungo periodo e al radicamento stabile nel Paese.[6] L’esercizio di molti diritti e la partecipazione alla vita sociale di questi giovani dipendono in buona misura dall’accesso al permesso di soggiorno e alla cittadinanza italiana.        

Come abbiamo anticipato, il percorso per l’acquisizione dello status di cittadino risulta ancora molto difficoltoso, anche se spesso la richiesta proviene da giovani nati in Italia, che qui hanno frequentato le scuole e parlano correntemente la lingua. Complesso si rivela anche il caso dei minori arrivati in Italia in un momento successivo, ricongiunti alle famiglie di origine o minori non accompagnati: nel secondo caso, oppure qualora nessuno dei genitori abbia acquisito la cittadinanza, il giovane straniero può seguire unicamente la strada della naturalizzazione, una volta raggiunta la maggiore età. Chi non riesce a ottenere la cittadinanza resta comunque titolare del permesso di soggiorno (per motivi familiari o per minore età). La titolarità del permesso di soggiorno, in realtà, non assicura l’effettiva parità con i coetanei italiani e, in molti casi, il welfare locale risulta premiante per gli autoctoni dando luogo a fenomeni di discriminazione istituzionale (Ambrosini e Molina, 2004; Ambrosini, 2011). Va ricordato che a tutti i minori stranieri, anche irregolari, vengono riconosciuti alcuni diritti fondamentali come l’istruzione e la salute. L’istruzione costituisce un diritto-dovere per i minori stranieri presenti in Italia e viene garantita nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani.[7] Per quanto riguarda l’accesso all’assistenza sanitaria, la normativa prevede che alle persone straniere presenti sul territorio nazionale e prive di permesso di soggiorno siano assicurate le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali. I minori stranieri vengono iscritti obbligatoriamente al servizio sanitario regionale, anche se privi di permesso di soggiorno.

Spostandosi dal piano giuridico-legale a quello dell’analisi socio-politica, le modalità con cui vengono definiti i migranti e perciò distinti dalla popolazione autoctona, cioè i criteri secondo i quali viene stabilita la distinzione cruciale tra cittadini e non-cittadini, sono, in ultima analisi, il risultato di processi di costruzione sociale. Infatti, le condizioni di cittadino, di straniero e, ancor più, di regolare o irregolare non rappresentano un attributo oggettivo, immutabile, naturale, ma vengono sottoposte ai vincoli emergenti dalla regolazione giuridica di tali status, che prevedono requisiti di diversa natura (legami di parentela, status lavorativo, condizione abitativa e relative evoluzioni nel tempo). E il sistema regolativo, a sua volta, è il prodotto di sistemi di rappresentazioni sociali e politiche (Zanfrini, 2007).

L’accesso (o l’esclusione) a un pacchetto di diritti, benefici e opportunità sociali collegati alla cittadinanza formale e/o al soggiorno regolare implicano importanti conseguenze sia sul piano della vita quotidiana (distribuzione delle risorse di welfare, possibilità di partecipazione e di mobilitazione politica, modelli di incorporazione e integrazione) sia sul piano identitario e simbolico degli immigrati (Zincone, 1992). In particolare, le seconde generazioni si trovano a vivere forme di disagio accentuate dal fatto di trovarsi a metà tra due culture, con quella d’origine che tende a permanere soprattutto se è di matrice tradizionale, non riuscendo ad acquisire in modo compiuto quella del Paese ospitante. Molto si è discusso di identità multiple, di transnazionalismo e di multiculturalismo, anche se oggi questi modelli sembrano mostrare segni di debolezza.[8]

Ma anche il mero accesso alla cittadinanza legale può rivelarsi inidoneo o, quantomeno, insufficiente a favorire un processo di inclusione effettiva, come dimostrano le seconde e terze generazioni in Francia e in Gran Bretagna. La crisi del concetto universalizzato di cittadinanza crea il paradosso di forme di esclusione interna. Come ha ricordato Etienne Balibar (2012) nella sua lucida analisi a proposito delle rivolte e degli scontri etnici nelle banlieues e nei ghetti urbani di Parigi e Londra, alcune persone sono nella società senza essere della società. O meglio, invece che di esclusione si dovrebbe forse parlare di discriminazione negativa, perché i giovani disoccupati di origine africana e maghrebina che si scontravano con la polizia erano di cittadinanza francese nel senso giuridico del termine. Indubbiamente, rispetto ad altre categorie sociali deboli, questi giovani immigrati sono relativamente più protetti dal rischio sociale, dato che si trovano all’interno della società — sono dotati di cittadinanza legale — e contribuiscono all’ibridazione culturale.[9] In realtà, siamo in presenza di forme di esclusione non esterna, ma interna e il concetto non è riferibile solo a uno status giuridico, ma anche alla sua combinazione con rappresentazioni di tipo sociale e politico.

L’accesso e il godimento dei diritti formali sono fondamentali, ma il loro rapporto con l’utilizzo e la disponibilità del potere di agire in modo effettivo non va dato per scontato. Nel caso dei giovani immigrati di seconda generazione, le questioni sociali in gioco sono particolarmente rilevanti, dal momento che la qualità della convivenza, la segmentazione della società su basi etniche, il rischio di formazione di esclusione sociale e devianza da una parte, la potenziale partecipazione culturale ed economica dall’altra, sono largamente riferibili alle condizioni di vita e alle opportunità di inclusione e di mobilità sociale realmente disponibili (Ambrosini, 2004).

Nell’analisi delle relazioni tra prime e seconde generazioni occorre considerare non solo le modalità con cui i giovani immigrati entrano a fare parte della società di destinazione (o di nascita), ma anche i feedback sul piano individuale e familiare che tali condizioni esercitano, a loro volta, sui genitori primo-migranti. Figli dell’immigrazione che hanno portato a compimento processi di inclusione sociale soddisfacenti fungono da mediatori nei rapporti tra le famiglie d’origine e il tessuto sociale del Paese ricevente, soprattutto nei casi in cui le culture nazionali di provenienza siano di matrice marcatamente tradizionale e i genitori primo-migranti non abbiano potuto (o voluto) integrarsi autonomamente.

La dissonanza politico-civile innescata dalle regole sull’acquisizione della cittadinanza per le seconde generazioni in Italia e dalla discrezionalità amministrativa di fatto che, come abbiamo ricordato, ne vincola talora la concessione determina una discrasia non solo simbolica tra la condizione fattuale di inserimento nella società ospitante con le aspettative da essa generate e la negazione di una partecipazione attiva alla vita istituzionale e politica. Uno snodo centrale è dunque rappresentato dai criteri, dalle procedure e dalle reali chances di accedere alla cittadinanza.

Come osserva Ambrosini a proposito della realtà italiana, «il passaggio da un’idea di nazione di tipo ancestrale e romantico, basata implicitamente su una presunzione di relativa omogeneità della popolazione, a una concezione pluralistica e negoziata dell’appartenenza nazionale, in cui conti non solo il sangue, ma anche la socializzazione, la residenza prolungata, la volontà di adesione al patto di cittadinanza, sarà il luogo critico dell’elaborazione, incessante e mai conclusa una volta per tutte, di un’identità nazionale capace di incorporare le seconde generazioni immigrate» (Ambrosini, 2004, p. 47).

Alla luce di quanto abbiamo discusso, stabilire un nuovo patto di cittadinanza per le seconde generazioni rappresenta un’esigenza non più rinviabile. Questo obiettivo si può realizzare solo attraverso percorsi di cittadinanza ri-negoziati rispetto alla normativa attualmente vigente nel nostro Paese (promuovendo, a determinate condizioni, forme alternative di cittadinanza), in grado di riflettere l’effettivo inserimento nella nostra società, la partecipazione alla vita pubblica e il senso di appartenenza e di identificazione. E questo passa per il graduale superamento del principio dello ius sanguinis in favore dello ius soli.

Riferimenti bibliografici

Ambrosini M. (2004), Il futuro in mezzo a noi. Le seconde generazioni scaturite dall’immigrazione nella società italiana dei prossimi anni, in M. Ambrosini e S. Molina (a cura di), Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, pp. 1-53.

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Ambrosini M. (2008), Un’altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali, Bologna, il Mulino.

Ambrosini M. (2011), Sociologia delle migrazioni, nuova edizione, Bologna, il Mulino.

Ambrosini M. e Molina S. (a cura di) (2004), Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli.

Balibar E. (2012), Cittadinanza, Torino, Bollati Boringhieri.

Centro Studi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico (a cura di) (2014), Dossier Statistico Immigrazione 2014 – Rapporto Unar, Roma, IDOS.

ISTAT (2014), Cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti, Anni 2013- 2014, http://www.istat.it/it/archivio/129854.

Gans H.J. (1992), Second-generation decline: Scenarios for the economic and ethnic futures of the post-1965 American immigrants, «Ethnic and Racial Studies», vol. 15, n. 2, pp. 173-192

Nascimbene B. (2004), Diritto degli stranieri, Padova, Cedam.

Rumbaut R. (1997), Assimilation and its discontents: Between rhetoric and reality, «International Migration Review», vol. 31, n. 4, pp. 923-960.

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Zincone G. (1992), Da sudditi a cittadini. Le vie dello stato e le vie della società civile, Bologna, il Mulino.

Zincone G. (a cura di) (2000), Primo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Bologna, il Mulino.

  

[1] Per integrazione subalterna si intende l’accettazione implicita di posizioni sociali e occupazionali inferiori rispetto alle credenziali educative e professionali possedute, con l’inserimento in nicchie svantaggiate del mercato del lavoro autoctono e rifiutate dagli italiani. Questi processi di esclusione sociale sono più accentuati di generazione in generazione, al punto che si parla di “declino delle seconde generazioni” (Gans, 1992).

[2] Esistono diverse forme di ius soli che rendono il criterio più o meno restrittivo: oltre allo ius soli puro, lo ius soli temperato, legato a un periodo di residenza dei genitori nel Paese, e lo ius soli doppio, secondo cui il minore acquisisce la cittadinanza automaticamente al momento della nascita, ma solo se i genitori a loro volta sono nati nel Paese concedente. Esiste, infine, una interpretazione indiretta dello ius soli che richiede, oltre alla nascita nel Paese, condizioni aggiuntive come la residenza ininterrotta o l’avere frequentato la scuola pubblica. In questo caso, il soggetto potrà acquisire la cittadinanza tramite una dichiarazione da presentare alle autorità competenti prima o al raggiungimento della maggiore età.

[3] Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia gli stranieri maggiorenni, regolarmente residenti e che dimostrino di conoscere la lingua e la storia del Paese, possono ottenere la cittadinanza dopo cinque anni di residenza, mentre in Italia ne occorrono dieci. Si noti che, nei moderni ordinamenti nazionali, i criteri discussi possono essere adottati anche congiuntamente, con la possibilità di trovare elementi di ius sanguinis integrati a elementi di ius soli e ius domicili.

[4] Le norme che disciplinano la trasmissione, l’acquisizione e la perdita della cittadinanza in Italia sono contenute nella legge n. 91/1992.

[5] Di recentissima approvazione alla Camera in prima lettura il testo della riforma della cittadinanza che vede il riconoscimento dello ius soli temperato per le seconde generazioni di immigrati, anche se questo rappresenta soltanto il primo passo dell’iter legislativo del provvedimento.

[6] Com’è noto, la definizione di “seconde generazioni” non è scontata né facilmente delimitabile. Ad esempio Rumbaut (1997) ha introdotto il concetto di “generazione 1,5”, indicando quella che ha cominciato il processo di socializzazione e la scuola primaria nel Paese di origine, completando l’educazione scolastica nel Paese di destinazione; la “generazione 1,25” è emigrata tra i 13 e i 17 anni; la “generazione 1,75” ha lasciato la madrepatria in età prescolare (0-5 anni).

[7] Per accedere all’iscrizione scolastica non viene richiesta alcuna documentazione specifica e, una volta maggiorenni, gli studenti stranieri hanno il diritto di conseguire i titoli conclusivi del corso di studi che hanno iniziato a frequentare da minorenni, anche se può accadere che tali diritti vengano gravati da interpretazioni discrezionali in senso restrittivo (Centro Studi e Ricerche IDOS, 2014).

[8] Per una discussione critica su questi temi si vedano, ad esempio, Ambrosini (2008) e Savidan (2010).

[9] È interessante notare che una categoria, per alcuni versi, assimilabile per condizioni sociali e politiche a quella dei giovani immigrati di seconda e di terza generazione di oggi è quella delle donne, che prima di conquistare il diritto di voto erano relegate alla cittadinanza passiva in contrapposizione con la cittadinanza attiva degli uomini. Questa lunga discriminazione istituzionalizzata ha fatto sì che rimanesse in atto una profonda separazione tra sfera pubblica e sfera domestica, favorendo la creazione di ruoli di genere sbilanciati nell’accesso alla rappresentanza politica e di governo.



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