Approfondimenti
NARRARE INCONTRI. LA LETTERATURA PER L’INFANZIA E L’EDUCAZIONE INTERCULTURALE
William Grandi
William Grandi ha conseguito il dottorato di ricerca in Pedagogia presso l’Università di Bologna, dove collabora con le cattedre di Letteratura per l’Infanzia e di Storia della Pedagogia.
Abstract
L’articolo esamina alcune possibili relazioni tra la letteratura per l’infanzia e i temi dell’educazione interculturale: infatti, i libri, i racconti e le illustrazioni per i bambini possono diventare un’occasione per riflettere con loro su argomenti complessi come gli immigrati, la diversità, la solidarietà. Del resto, proprio attraverso le storie è possibile avviare percorsi di educazione dell’immaginario, che contribuiscono a recuperare quella soglia di attenzione necessaria alle giovani generazioni per non soccombere davanti ai pregiudizi e ai facili slogan. I libri di qualità consentono all'infanzia di entrare empaticamente in storie di vita, in metafore narrative e in immagini significative che rompono gli stereotipi e aprono a nuovi orizzonti.
Una breve premessa: la paura, l’arte e la metafora
Il tema dell’immigrazione e dell’incontro tra culture diverse — con i suoi giornalieri risvolti drammatici e complessi — è al centro di un vasto dibattito politico, educativo e sociale che coinvolge anche la produzione narrativa per l’infanzia. La letteratura, del resto, è sempre stata uno specchio della vita vera: essa, infatti, fa ricorso a quel fortissimo strumento espressivo rappresentato dalla metafora che, anche quando in apparenza sembra allontanarci dalla realtà, offre invece al lettore quel distacco necessario che consente di raggiungere inattesi punti di vista e sorprendenti rivelazioni, cogliendo così meglio il senso di quanto accade nella quotidianità.
Anche la letteratura per l’infanzia, da sempre, si fa carico di affrontare argomenti complessi e “difficili” con l’appoggio delle metafore le quali, uniche, arrivano a toccare l’immaginario di bambine e bambini: e infatti l’incontro con la diversità, il coraggio della divergenza e la ricerca della verità sono nodi narrativi forti nella letteratura di qualità per ragazzi. E non è un caso che proprio i libri per giovani lettori più coraggiosi e innovativi siano stati anche quelli più oggetto di censure e di rifiuti nel corso della Storia: molti libri di Mark Twain furono tolti dalle biblioteche statunitensi, quando l’autore era ancora in vita, a causa di critici che intravedevano in quelle pagine delle potenzialità sovversive e “immorali”. E ancora oggi — come ci riportano le cronache — vi sono amministrazioni comunali che — presumibilmente per preoccupazioni simili — valutano la possibilità di togliere specifici albi illustrati dalle sezioni per l’infanzia delle biblioteche pubbliche: è quanto è accaduto recentemente a Piccolo Blu e Piccolo Giallo di Leo Lionni (2008; 1959), che, assieme ad altri libri, si è deciso in un importante comune italiano di rimuovere dagli scaffali in nome di riserve circa la presunta ambiguità morale intravista da alcuni in questo albo illustrato. [1] Un albo che, d’altra parte, dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso a oggi rappresenta uno dei più originali prodotti grafici per la prima infanzia e uno dei più noti esempi di metafora narrativa sulla diversità e sull’amicizia che mai siano stati creati per le lettrici e i lettori più piccoli. L’arte (della narrazione, della grafica, della metafora) può fare paura, specialmente quando ci invita ad accogliere l’alterità, la diversità e i sentimenti. Del resto, il fatto che la letteratura per l’infanzia possa suscitare timori e censure dimostra indirettamente l’impatto formidabile che le narrazioni possono avere, quando si vuole aiutare le giovani generazioni a sviluppare una nuova mentalità in grado di spezzare idee usurate e pregiudizi secolari. Chiaramente, proprio quest’ultima riflessione consente di connotare pedagogicamente ogni approccio didattico all’educazione interculturale che si avvale di libri, racconti, cartoon e albi illustrati afferenti al vasto mondo editoriale e narrativo della letteratura per l’infanzia.
Facendo un’ardita analogia con lo “specifico filmico” del Cinema — analogia, di cui chiedo scusa, ma che ritengo particolarmente efficace —, si può dire che lo “specifico pedagogico” della letteratura per l’infanzia non stia in un approccio scopertamente morale, educativo o didattico: anzi, lo “specifico pedagogico” dei libri per ragazzi consiste nel loro essere opere d’arte che ricorrono alla metafora, alla grafica e alla narrazione di storie ben scritte e ben raccontate, per superare ogni semplicistica “lezioncina” edificante o strumentale. L’orizzonte cui tendere è rappresentato così dalle storie avvincenti, autentiche e coinvolgenti che riescono a stimolare le riflessioni e le deduzioni autonome del lettore, in una sorta di autoeducazione indotta dal fascino affabulatorio dei bei racconti. Un fascino affabulatorio non certo lasciato al caso o al più puro — e pericoloso — spontaneismo, ma efficacemente e metaforicamente rappresentabile con la figura di Shahrazàd [2] che, nel capolavoro della letteratura araba e fiabesca de Le mille e una notte, rieduca il crudele sultano e lo riconsegna alla ragione e all’amore attraverso un lungo e affascinante percorso tra storie e leggende, avventure e magie capaci di rappresentare con efficacia la complessità della realtà e della dimensione umana.
La felice Babele delle fiabe e delle storie
Più di dieci anni fa — nel 2003 per l’esattezza — scrissi per questa stessa rivista un articolo che prendeva in esame il rapporto instauratosi allora tra educazione interculturale e letteratura per l’infanzia (Grandi, 2003). È quindi bene riprendere adesso in mano quelle riflessioni e verificare cosa è rimasto e cosa è cambiato da allora, per fare — almeno in parte — il punto della situazione e cercare di delineare linee di tendenza che vanno affermandosi nel presente. La tesi fondamentale dell’articolo del 2003 era che racconti e fiabe, essendo occasioni di aggregazione e di condivisione delle esperienze, potevano rivestire un ruolo privilegiato per favorire l’accoglienza del diverso e del migrante in uno scambio alla pari di storie e fantasie. È questa una considerazione che ha resistito alla prova degli anni? La risposta è certamente positiva: infatti, se si osservano le diverse iniziative di letture pubbliche per l’infanzia organizzate nelle biblioteche, si può concludere che il narrare fiabe e storie di provenienze eterogenee a un pubblico di bambine e bambini di origini diverse ha mantenuto e rafforzato un importante ruolo all’interno dell’incontro interculturale. Si pensi, per citare un esempio tra i tanti, alle iniziative delle biblioteche pubbliche bolognesi — specialmente le tante e operose biblioteche di quartiere e la biblioteca Salaborsa Ragazzi nel centro città — che organizzano momenti di lettura di storie per l’infanzia con lettrici e lettori adulti non professionisti (si tratta, infatti, per lo più di papà, di mamme e di nonni), che narrano storie in una delle tante lingue dei gruppi di stranieri (migranti e non) che vivono sul territorio: fiabe e altre storie lette in arabo, in giapponese, in italiano, in ucraino, in inglese… [3] per un pubblico di bambine e bambini “misto”, ovvero di diversa provenienza linguistica che, in maggioranza, partecipa agli incontri senza conoscere la lingua usata in quella specifica occasione, ma che sicuramente sa cogliere benissimo i gesti, gli sguardi, i sospiri, i cambi di tono e di ritmo della voce con cui i lettori accompagnano il proprio racconto.
La narrazione orale diventa così occasione per tutti — madrelingua e no — di condividere emozioni e avventure in un clima disteso, ludico e creativo. Il successo di queste iniziative e il fatto che esse siano frequentate da bambine, bambini e loro familiari che spesso non conoscono la lingua usata nell’incontro dimostrano la forza della narrazione orale e la sua capacità di superare barriere linguistiche e culturali in nome dell’umano e generale piacere di ascoltare storie. Vi è anche un ulteriore valore culturale implicito di questi incontri, ovvero il fatto che a ogni lingua venga riconosciuta la stessa dignità, la stessa capacità di saper esprimere emozioni e contenuti: scompare in questa prospettiva la gerarchia tra modelli linguistici e culturali che è così forte — e spesso inevitabile — nei contesti istituzionali e di vita quotidiana dove le infanzie migranti si trovano ad agire. Non solo la lingua italiana o la lingua inglese — secondo il nostro specifico modello culturale prevalente — hanno la legittimità di veicolare esperienze, storie e saperi, ma anche l’arabo, il somalo, il cinese o l’ucraino diventano fenomeni linguistici riconosciuti e riconoscibili, aperti alla fruizione di tutti i bambini.
Detto in altri termini, grazie a queste iniziative le lingue migranti non sono più esperienze lessicali quasi esclusivamente domestiche, familiari o parentali, ma diventano pubbliche, aperte e udibili da tutti: escono cioè dai margini culturali in cui — più o meno esplicitamente — esse sono ricondotte nell’esperienza linguistica quotidiana dei bambini migranti, per diventare invece patrimonio collettivo. È vero che questa “emersione” delle lingue migranti è tutto sommato limitata, ma rappresenta comunque un momento importante in un processo più ampio di integrazione e di condivisione, ancora in via di costruzione. È auspicabile che esperienze come quelle appena descritte diventino presto sempre più comuni.
Califfi, sultani e saggi tra Oriente e Occidente
Un esempio recente e interessante di proposta editoriale giocata sui racconti e sulle fiabe di altre culture — sempre più vicine a noi nel mondo globalizzato — è rappresentato dal bell’albo Sufi, bestie e sultani (Safakhaoo e Rumi, 2014), dove vengono presentati sedici racconti del poeta persiano sufi Rûmî (vissuto nel XIII secolo) adattati da Anna Villani e Giovanna Zoboli e accompagnati dalle smaglianti illustrazioni della disegnatrice iraniana Nooshin Safakhoo. Si tratta di brevi fiabe, ingegnosi apologhi, sapienti racconti a suo tempo redatti dal mistico e poeta Rûmî, uno dei cercatori spirituali più profondi e creativi che la Storia ricordi. Apparteneva alla corrente più tollerante e aperta della spiritualità islamica, ovvero il sufismo. [4] Nel sufismo di Rûmî l’Islam non si declina secondo uno stretto rigore giuridico, ma segue fluidamente le manifestazioni sottili del divino nel mondo. Attraverso la semplice poesia degli animali, dei fiori e della sensibilità umana, Rûmî sa raccontare la complessa esperienza dell’incontro con la divinità, con la bellezza, con l’incanto della saggezza.
Le illustrazioni di Nooshin Safakhoo riprendono i racconti con garbata ironia e delicata poesia, mescolando realismo e fantastico all’interno di una cornice grafica originale, ma pienamente ascrivibile alla grande scuola iraniana degli illustratori per l’infanzia: una scuola sempre apprezzata a livello internazionale come dimostrano — tra gli altri — i numerosi premi attribuiti agli illustratori e ai grafici iraniani dalle giurie internazionali della Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna nel corso degli ultimi decenni.[5] Una scuola grafica, quella iraniana, che ha saputo mescolare con saggezza gli antichi stilemi della raffinata arte persiana con alcune moderne correnti artistiche, ottenendo risultati ragguardevoli e sorprendenti. Osservando, ad esempio, le illustrazioni di Nooshin Safakhoo per questo albo non si può non riconoscere, da un lato, l’influenza della tradizione iconica e ornamentale del Vicino Oriente e, dall’altro, il gusto per una rilettura azzeccata e audace della pittura metafisica e simbolista dell’Occidente. Questo agile e curatissimo albo illustrato è davvero un prezioso strumento di dialogo interculturale perché in esso si incontrano — in un rapporto di reciproco rispetto — il mondo persiano e quello europeo, offrendo una versione originale di una sapienza islamica forse per troppo tempo rimossa, dimenticata o addirittura repressa. I sultani, i sufi, i ministri, i lavoratori e le bestie che cercano o dispensano saggezza nelle fiabe di Rûmî riportano alla memoria i califfi, i saggi, i maghi, i mercanti e gli animali presenti nelle fiabe dello scrittore Wilhelm Hauff (1802-1827).
Nel mio articolo del 2003 accennai a questo narratore tedesco e alle sue fiabe di impronta araba. Il Califfo Cicogna e i molti altri personaggi che il poeta della Foresta Nera ha descritto nei suoi racconti per bambini (Hauff, 1976) ci restituiscono i sogni — lontani da ogni facile esotismo — di un autore che dalla sua Germania immaginava le vivaci città arabe, le magie degli sconfinati deserti e le lente carovane (cariche di merci e soprattutto di quel tè profumato così apprezzato dai tedeschi, perché più pregiato e fragrante di quello che arrivava, magari un po’ ammuffito e umidiccio, via mare dall’India britannica). In quell’Oriente lontano Hauff non era mai riuscito ad andare nella sua breve vita: ma si sa che, nei Paesi di lingua tedesca del primo Ottocento, erano molto diffuse le fiabe, le leggende e le storie che provenivano dal mondo islamico; la vicinanza con l’impero ottomano, i cui confini lambivano Vienna, e l’insediarsi di tanti coloni tedeschi lungo il Danubio, nelle valli dei Balcani e nelle terre carpatiche avevano portato a una prossimità culturale e storica tra il mondo germanico e quello turco-islamico (Kinder e Hingelmann, 1964). Una prossimità che aveva visto alcune guerre sanguinose, ma anche tanti scambi commerciali e reciproche curiosità culturali. Pertanto, uno scrittore colto e avido di notizie e novità come Hauff si fece interprete — con spirito romantico — di quelle suggestioni che provenivano da Oriente, ricreando fiabe che ancora oggi meriterebbero di essere lette, per il grande rispetto che mostrano nei confronti di una cultura “altra”, ma non per questo considerata “aliena” e inferiore.
Vivere, sognare, volare, sconfinare
Nel mio articolo di più di dieci anni fa parlai anche di un libro che mi è ancora molto caro e che considero uno dei frutti più interessanti dell’autentica letteratura per l’infanzia declinata in senso interculturale: alludo all’albo illustrato Tramonto di Alessandro Ghebreigziabiher (Ghebreigziabiher e Ferrero, 2002). È un libro molto famoso, e non ha quindi bisogno di ulteriori commenti: basti ricordare che è il cammino alla ricerca di se stesso e della propria identità percorso da un ragazzino il quale è sospeso tra due mondi e tra due luci, ma è frutto di un unico amore. Il tramonto è quella parte del giorno che sfiora la notte, quando la luce del sole lascia il posto alla luce della luna e delle stelle: nelle fiabe il crepuscolo è il momento in cui compaiono le fate e gli elfi — creature intermedie tra “Qui” e ”Altrove”. Anche nella nostra realtà il tramonto può raccontare una metafora di transito, di confine, di incontro tra due diversi mondi. Chi vive sospeso tra molti luoghi, come i migrati, i rifugiati, le famiglie “miste”, le comunità multiculturali, dimora spesso in un “tramonto” fatto di luci e di luoghi che si intersecano (i luoghi dove si abita, quelli dove si è nati, quelli delle proprie origini e quelli a cui si aspira): è una condizione che chiede uno sforzo di comprensione — “comprensione” intesa non solo come “conoscenza”, ma anche come “vicinanza affettiva” e quindi “apertura” agli altri e a se stessi.
A quest’ottica dell’incrocio tra i luoghi, le luci e le culture possiamo ricondurre anche un bell’albo illustrato di Letizia Galli intitolato Comme un vol de papillon (2009). Si tratta di un racconto dedicato ai tanti bambini che, nascosti nei carrelli degli aeroplani, tentano di raggiungere clandestinamente l’Europa, spesso morendo nel viaggio a causa del gelo e dei disagi del volo in alta quota. Letizia Galli è fiorentina, ma, come spesso accade agli illustratori italiani, vive e lavora all’estero, soprattutto in Francia, dove le sue opere sono oggetto di grande attenzione da parte della critica e degli editori. È un’artista raffinata, capace di cogliere con delicatezza i significati profondi dei racconti, rendendoli vivi ed espressivi con il suo tratto grafico vivace, colorato e intenso. Protagonista di Comme un vol de papillon è un bambino africano di nome Abdou: sente gli animali parlare — nelle culture animiste questo è un fenomeno accettato — e chiede spiegazione al saggio del suo villaggio che lo invita ad avere fiducia nelle lucertole e nelle farfalle: esse sono creature dotate di spirito, al pari delle donne e degli uomini. Sarà appunto una farfalla a indicare a Abdou la via che lo condurrà all’aeroporto, dove nella pancia di una grande mosca di metallo raggiungerà sano e salvo un nuovo mondo. Si tratta di una storia sospesa tra sogno e realtà che viene descritta con le parole semplici e ingenue, ma autentiche, di un bambino alla ricerca di una vita migliore. I disegni dai colori opachi e sabbiati rendono con particolare efficacia il tono leggero, felice, ma anche malinconico e solitario, di un’infanzia che deve crescere troppo in fretta tra povertà e aridità, tra sogno e speranza. In un mondo in cui i “minori non accompagnati” costituiscono una percentuale sempre crescente di popolazione migrante, la storia di Abdou rappresenta una metafora toccante della condizione di tante bambine e di tanti bambini che ogni giorno attraversano mari, cieli e confini alla ricerca di un riparo sicuro.
È doveroso qui segnalare anche un altro albo illustrato che parla di una condizione di passaggio, di confine, di “tramonto”: si tratta di Migranti di José Manuel Mateo (testo) e Javier Martínez Pedro (ill.) (2013). È un racconto di viaggio, di clandestinità e di speranza, che sconfina tra due mondi (Messico e Stati Uniti) alla ricerca di una nuova vita. La storia è narrata con la voce e gli occhi di un bambino messicano che lascia con sua mamma e sua sorella il povero villaggio di campagna in cui vive, per raggiungere il padre, migrato clandestinamente a Los Angeles alla ricerca di una condizione migliore per se stesso e la sua famiglia. Un padre di cui, però, non si hanno più notizie. L’albo non segue la consueta impaginazione, ma si apre a fisarmonica, presentando un’unica illustrazione che si dipana dall’alto in basso a flusso continuo e che racconta tutta la vicenda del piccolo protagonista tra perdite, minacce, paure e piccole gioie. Il testo è sul lato sinistro della pagina, mentre l’illustrazione scende come un arazzo medievale nella parte destra del libro. L’approccio grafico originale riprende con cura e fedeltà lo stile artistico popolare del Messico: le figure in bianco e nero sono molto dettagliate secondo l’elegante stile naïf centro-americano e sanno comunicare con efficacia ed espressività i movimenti, le azioni e i paesaggi. Le parole, invero toccanti, sono ingenue, semplici ma intensamente poetiche e ripropongono i pensieri di un bambino costretto ad abbandonare il suo cagnolino, la sua povera casa, il suo assolato villaggio, per intraprendere un viaggio a tratti incomprensibile, a tratti minaccioso. Questo libro affronta il tema della migrazione sullo sfondo di un tentativo di ricongiungimento familiare: il bambino arriva negli Stati Uniti, trovando accoglienza, ma il libro si chiude senza che il padre sia stato ancora rintracciato. La forza di questo albo illustrato risiede proprio nella sua originalità grafica e nel suo delicato realismo, che nulla tace, senza per questo calcare la mano su un sentimentalismo di maniera. Del resto, come ricorda la studiosa statunitense Amy Cummins (2013), i libri sui giovani migranti messicani sono un’importante occasione di riflessione educativa, perché le storie riescono a creare un legame di simpatia e di connessione tra il protagonista della narrazione e il lettore: quest’ultimo riesce così a entrare nell’esperienza del personaggio letterario, cogliendo il fatto che il migrante è prima di tutto una persona e non una statistica o un problema sociale. E questo, ovviamente, è un principio pedagogico che è applicabile anche ad altri settori del rapporto tra educazione interculturale e letteratura per l’infanzia.
Bambini di creta e educazione dell’immaginario
Le notizie che provengono ogni giorno dal mondo, del resto, ci obbligano ad andare oltre le apparenze, a guardare oltre la porta di casa e le nostre tranquille sicurezze. Quotidianamente giungono alla nostra attenzione — anche solo se prestiamo un orecchio distratto alle notizie — comunicazioni di eccidi e genocidi etnici o religiosi, mentre sempre più numerosi sono i ragazzini costretti a fare i soldati, i boia o le vittime in nome di ideologie deliranti. E questo non può non avere un impatto sulla riflessione pedagogica contemporanea. L’educazione interculturale riflette su questi eventi che inevitabilmente suscitano sentimenti di pietà, di riprovazione e di terrore, ma che, talvolta, possono paradossalmente contribuire a ravvivare — nell’opinione pubblica occidentale e nel suo immaginario — i pregiudizi etnici e culturali che covano sotto la cenere: l’immaginario collettivo attraverso questi sciagurati eventi può costruirsi, infatti, una comoda scusa per confinare l’orrore in luoghi e popoli lontani e “altri da noi”, rendendo così possibile la stigmatizzazione generica del diverso e dello straniero, cui si nega l’accoglienza in nome di presunti timori di contaminazione. E questo accade anche se le stragi per i motivi appena indicati avvengono non distante da casa nostra: è ancora vivo, sanguinante e lacerante la strage di Srebrenica compiutasi vent’anni fa nel cuore dei vicini Balcani (Curzi, 2015). Una strage che, a giudizio di chi scrive, non è stata ancora oggetto di approfondite riflessioni da parte della nostra opinione pubblica. Questo meccanismo di “allontanamento”, di dimenticanza e di “confinamento” dell’orrore (come se non ci riguardasse, come se “noi” ne fossimo per sempre immuni) avviene principalmente nell’immaginario e ha forti ricadute sul radicamento di pregiudizi e di chiusure verso chi è “altro”. In questo campo la letteratura per l’infanzia può fare molto: specialmente all’interno di progetti di educazione interculturale volti alla formazione di un nuovo immaginario collettivo che — riprendendo le riflessioni di Amy Cummins — veda nell’altro la sua umanità e non solo il suo presunto essere portatore di tensioni e “problemi”. Due esempi, tra i tanti, di libri che possono aiutare ad avviare nell’immaginario infantile e adolescenziale una rilettura della “diversità” in una chiave lontana da facili slogan o pregiudizi sono Jacob, il bambino di creta di Andrea Salvatici (Selvatici e Marton, 2010) e Heike riprende a respirare di Helga Schneider (2008). Scelgo questi due libri, perché entrambi trattano il tema della seconda guerra mondiale e delle persecuzioni attraverso la narrazione di storie. Mentre il libro di Salvatici è rivolto esplicitamente a un pubblico bambino, il romanzo di Helga Schneider parla a chi sta entrando nell’adolescenza.
Jacob, il bambino di creta è una storia ambientata ai tempi del dramma della zona del Portico d’Ottavia, nell’ottobre del 1943, quando a Roma gli ebrei subirono la più tragica deportazione a sfondo razziale mai attuata sul suolo italiano. Jacob è un pezzettino di creta, usato a scuola nei giochi dei bambini, che va alla ricerca del suo amico in carne e ossa, Marco, un alunno della prima classe: Marco è ebreo ed è stato deportato, lontano e da allora non è più ritornato in classe. Le avventure di Jacob alla ricerca di Marco si svolgono in appartamenti devastati dalla violenza, in boschi incupiti dal tradimento, in fabbriche votate alla distruzione. In mezzo a questi orizzonti scuri l’ingenuità di Jacob e la sua bontà risvegliano una scintilla di umanità tra creature rese chiuse ed egoiste dalla guerra e dalla disperazione. Anche una talpa scontrosa può diventare simpatica, dopo avere parlato con Jacob e avere ascoltato le sue semplici parole d’amore per l’amico lontano. Il bambino di creta di questo racconto illustrato ricorda, in piccolo, il Golem, ovvero la magica e grande statua d’argilla che difendeva gli ebrei del ghetto di Praga dalle prepotenze dei “gentili” durante il medioevo. E come il Golem, anche Jacob nel corso della sua vita cresce e prova a difendere i bambini. Le illustrazioni essenziali e dettagliate dai colori opachi e delicati di Eleonora Marton completano con particolare efficacia il clima di tenace ricerca e di autentico calore che caratterizza l’intero racconto.
In Jacob, il bambino di creta avvertiamo le suggestioni del viaggio di Alice, delle imprese degli orsi siciliani di Buzzati, come pure delle avventure dei protagonisti animali de Il vento tra i salici: talpe, boschi, orsi, salotti e yo-yo popolano la storia assieme a poeti bisbetici, a formichieri ingordi e gamberetti accordatori. L’impressione che si ricava dalla lettura dal libro di Salvatici è che la fantasia non solo si oppone alla violenza, ma è anche uno strumento efficace per cercare e trovare la propria umanità. Del resto, parlare di discriminazione, di odio per la diversità, di persecuzione e deportazione non è certo un compito semplice, soprattutto quando ci si rivolge a lettori giovanissimi: tuttavia questo libro delicato e sobrio sa trovare le metafore giuste (il viaggio, la creatura magica, gli animali parlanti, ecc.), con cui costruire un racconto in grado di incantare e comunicare allo stesso tempo.
Heike riprende a respirare di Helga Schneider è, invece, un romanzo intensamente realistico: è la storia di Heike, una bambina tedesca che vive nella Berlino distrutta dell’immediato secondo dopoguerra. In quel panorama di rovine e fame occorre ricostruire non solo le case e le strade, ma anche le vite delle persone: vite che sono state segnate dai lutti, dalla paura, dalla acuta mancanza di cibo e di notizie dei congiunti al fronte. Anche se Heike è solo una bambina, presto si rende conto degli orrori del regime che aveva fino a poco prima governato il suo Paese: un regime che aveva mandato a morte vigliaccamente i suoi figli al fronte; un regime che aveva perseguitato e mandato a morte ebrei e zingari; un regime che aveva mandato a morte quei tedeschi che avevano cercato di fare resistenza alla dittatura. Un regime di morte che aveva messo i figli contro i padri, facendo dei primi delle “sentinelle”, per spiare la buona condotta dei secondi. Un regime, infine, che aveva umiliato la cultura, bollando come “degenerata” l’arte che non si adeguava ai suoi dogmi. Heike, come in una sorta di percorso di formazione personale, impara un po’ alla volta a mettere insieme i frammenti che la guerra ha lasciato nelle strade e nelle anime delle persone, riuscendo alla fine a restituire al lettore un’immagine veritiera, senza sconti, sia del nazismo che della possibilità umana di redimersi e sperare. Questo bel libro di Helga Schneider — tedesca di nascita, ma residente in Italia ormai da molti decenni — può essere accostato, in una sorta di ideale trilogia, ad altri suoi due romanzi per ragazzi, ovvero Stelle di cannella (Schneider, 2007) e L’albero di Goethe (Schneider, 2004).
Stelle di cannella racconta l’abisso in cui precipita progressivamente una comunità durante l’affermazione del nazismo e delle sue leggi razziali. Nella quiete borghese e composta si fa inesorabilmente strada la violenza del regime, capace di sovvertire non solo le leggi, ma anche le abitudini, le idee e i comportamenti delle persone che finiscono per mostrare il lato peggiore del loro animo. L’albero di Goethe è un libro difficile, “atroce”, di enorme impatto sul lettore e, quindi, importante per chi vuole davvero conoscere la verità che si cela dietro il conformismo nutrito dalle dittature: un ragazzino, per aiutare il fratello che è nella resistenza tedesca anti-nazista, distribuisce volantini e viene arrestato. Condotto in un campo di prigionia per detenuti politici, impara a conoscere i soprusi e i vizi di chi si sente più potente, ma impara a riconoscere anche la vera amicizia e l’importanza della verità. Si tratta di uno dei libri più “impattanti” che un giovane lettore possa trovare nella letteratura a lui destinata negli ultimi anni: è un pugno nello stomaco che mostra che, anche laddove in passato ha albergato la civiltà, possono, in realtà, sempre tornare la barbarie, se non si sta in guardia — l’albero di Goethe del titolo del libro si trova vicino alla civilissima Weimar, ed è un faggio dove il grande poeta tedesco andava a meditare e presso cui i nazisti costruirono un campo di concentramento. L’albero del poeta diventa così metafora del fatto che la sopraffazione, la violenza e l’orrore sono sempre in agguato.
Attraverso le storie intense — poetiche, fantastiche o realistiche — viste in queste righe (e le molte altre che aspettano i lettori negli scaffali di librerie e biblioteche) è possibile avviare percorsi di educazione dell’immaginario: percorsi che prevedono l’incontro tra l’infanzia lettrice e i temi della formazione interculturale all’interno di storie capaci di suscitare empatia, voglia di capire, umanità. Lavorando pedagogicamente sull’immaginario, è possibile contribuire a recuperare quella soglia di attenzione e di sensibilità che consente alle giovani generazioni di non soccombere davanti ai pregiudizi e ai facili slogan, i quali sono premesse di cose ancora più oscure.
Breve conclusione (provvisoria)
Le riflessioni di questo articolo non possono certo essere esaustive. Si è infatti trattato di una veloce panoramica ragionata su alcuni recenti prodotti narrativi particolarmente significativi per i temi interculturali, onde aggiornare e rivedere quanto in merito si era già detto alcuni anni fa. Si è cercato, cioè, di continuare un discorso che aveva bisogno di essere ripreso, perché sempre attuale. Le indicazioni qui offerte soffrono, come spesso accade in queste occasioni, di parzialità: molti altri libri e albi illustrati avrebbero meritato di figurare tra queste righe. Mi scuso di questo, ma del resto la parzialità del presente contributo rappresenta uno stimolo per continuare le analisi e per ritornare a curiosare tra gli scaffali di biblioteche e librerie alla ricerca di nuove storie, di inedite metafore e di interessanti romanzi su questi temi. L’importante è che si continui a scrutare tra i racconti, le narrazioni e le figure dei libri per bambine, bambini e adolescenti alla ricerca di quelle parole e di quelle immagini che contribuiscono a diventare e a restare umani.
E questo è un impegno educativo che non può mai dirsi concluso.
Bibliografia
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Kinder H.u. e Hingelmann W. (1964), Atlas zur Weltgeschichte, München, DTV.
[1] A proposito dell’ampio dibattito suscitato da questa iniziativa si vedano, a titolo d’esempio, i seguenti articoli su alcuni quotidiani (siti visitati il giorno 11 luglio 2014):
- http://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/cronaca/2015/07/08/news/ecco-l-elenco-dei-libri-messi-all-indice-da-brugnaro-1.11743266?refresh_ce
- http://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/cronaca/2015/07/08/news/brugnaro-fa-mezza-marcia-indietro-vaglieremo-i-libri-e-alcuni-torneranno-a-scuola-1.11743182
- http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/10/venezia-il-sindaco-brugnaro-bandisca-pure-i-miei-libri/1862513/
- http://www.avvenire.it/Lettere/Pagine/io-difendo-il-bel-libro-di-Leo-Lionni.aspx
[2] E. Beseghi, Il divano del piccolo Harry. In Id. (a cura di), Infanzia e racconto, Bologna, Bononia University Press, 2003, pp. 26-30.
[3] Vedi a questo proposito, ad esempio, l’iniziativa Il piccolo bruco mai sazio di lingue del 21 febbraio 2014, in cui il famoso albo illustrato di Eric Carle fu letto in 22 lingue diverse all’interno di molte biblioteche pubbliche della città di Bologna: http://www.bibliotecasalaborsa.it/ragazzi/eventi/24506 (ultimo accesso: 11/07/15).
[4] H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Milano, Adelphi, 1973, pp. 191-205.
[5] W. Grandi, La vetrina magica. 50 anni di BolognaRagazzi Awards, editori e libri per l’infanzia, Pisa, ETS, 2015, pp. 53-54.
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