Test Book

Riflessioni e teorie / Thoughts, theories, analysis

Pensare con metodo e logica dell’indagine: la ricerca-azione per la formazione e l’azione nella scuola multiculturale
Thinking methodically and using logic of inquiry: action-research for training and action in the multicultural school

Chiara Bove

Professore Associato (M-Ped/01), Università degli Studi di Milano-Bicocca, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione R. Massa


Autore per la corrispondenza

Chiara Bove
Indirizzo e-mail: chiara.bove@unimib.it
Università degli Studi di Milano-Bicocca, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione R. Massa, Piazza dell’Ateneo Nuovo, 1 - 20126, Milano



Sommario

Tra le competenze richieste da contesti scolastici plurali in cui la multiculturalità si presenta secondo caratteristiche diverse (culturali, sociologiche, valoriali, pratiche), occupa un posto di rilievo la capacità di acquisire una postura di ricerca che riduca la distanza tra teoria e prassi, favorisca la riflessione sull’esperienza ed elevi la pratica educativa e didattica a oggetto di analisi sistematica e rigorosa per creare spazi di apprendimento interculturali. Nell’articolo, facendo riferimento all’esperienza del “Master in Organizzazione e gestione delle istituzioni scolastiche in contesti multiculturali” (Bando FAMI) attivato all’Università di Milano-Bicocca, approfondiremo il modello della ricerca-azione come dispositivo formativo che incoraggia il “pensare con metodo” e la “logica dell’indagine” come competenze interculturali chiave per la gestione della complessità della vita quotidiana a scuola.

Parole chiave

competenze di ricerca, ricerca-azione, formazione interculturale.


Abstract

Among the skills required by plural school contexts in which multiculturalism presents itself with different characteristics (characteristics related to culture sociology, values and practices), the ability to adopt a research posture that reduces the distance between theory and practice, fosters reflection on experience and raises the educational and didactic practice to subject of systematic and rigorous analysis, in order to create intercultural learning spaces, is of particular importance. In this article, which refers to the Master’s experience in “School organisation and management in multicultural contexts” at the University of Milan-Bicocca (funded by FAMI), we will analyse in-depth the research-action model as a training device that encourages “thinking methodically” and “using logic of inquiry” as key intercultural competences for facing the complexity of daily life at school.

Keywords

research-based skills, action-research, intercultural education.


Introduzione

La formazione degli insegnanti che operano in scuole inserite in contesti multiculturali è una priorità riconosciuta a livello internazionale e garanzia di una scuola inclusiva e di qualità: i documenti Europei sulla scuola e la valutazione degli esiti scolastici degli studenti, la normativa recente (cfr. Legge 59/1997, art. 21; Legge 107/2015, artt. 1-3; Consiglio di Lisbona, 2000) e la ricerca in pedagogia e didattica (Nigris, 2007; 2016; Rossi, 2011) convergono nel sottolineare il ruolo cruciale della preparazione professionale degli insegnanti per rispondere alle sfide didattiche, educative, sociali e culturali legate all’incremento di studenti e alunni con background migratori e linguistico culturali diversi. Tra le competenze richieste da contesti scolastici plurali in cui la multiculturalità si presenta secondo caratteristiche diverse (culturali, sociologiche, valoriali, pratiche), occupa un posto di rilievo la capacità acquisire una competenza di ricerca (Montalbetti, 2015; Pastori, 2017), garantendo la «qualità del fare» (Perrenoud, 2004) attraverso lo sviluppo di una postura critico-riflessiva che riduca la distanza tra teoria e prassi, favorisca la riflessione sull’esperienza ed elevi la pratica educativa e didattica a oggetto di analisi sistematica e rigorosa per creare spazi di apprendimento interculturali.

Se l’intercultura è oggi una sfida e un’opportunità per la scuola, che in questo senso diventa il luogo dove promuovere esperienze di riconoscimento, accettazione, scambio e apprendimento interculturale, allora un’idea di formazione attiva, intesa come progetto culturale permanente (e non risposta all’emergenza) ne è la premessa. La scuola multiculturale richiede insegnanti e dirigenti predisposti a trasformare le difficoltà in risorse, i problemi in opportunità: insegnanti capaci di curare le modalità relazionali e di gestione della classe multiculturale, disponibili a oltrepassare routine didattiche tradizionali, aperti nell’adozione di stili di insegnamento plurali, dinamici, orientati alla costruzione di condizioni simboliche, materiali, culturali favorevoli alla formazione di comunità inclusive, consapevoli dei diversi bisogni educativi e didattici di bambini e dei ragazzi che hanno alle spalle esperienze di migrazione – plurilinguismo, discriminazione, diverse affiliazioni culturali, ecc.

Nucleo centrale è lo sviluppo di una competenza e sensibilità interculturale (Portera, 2013; Reggio e Santerini, 2014), che si compone di competenze teoriche e metodologiche in cui si intrecciano atteggiamenti (empatia, rispetto, flessibilità) e consapevolezze antropologiche (decentramento culturale, attenzione alla dimensione dei significati) per «fare spazio all’eterogeneità che non può essere immediatamente ridotta a differenza culturale perché riflette anche una pluralità di vissuti e di storie personali e familiari» (Zoletto, 2012, p. 64). Questo richiede la capacità di lavorare anche sulle proprie convinzioni e valori per ridurre la riproduzione acritica delle contraddizioni socioculturali delle nostre società e contribuire allo sviluppo di una società capace di garantire coesione sociale e inclusione attraverso l’istruzione e la scuola. Una scuola multiculturale, dunque, come risorsa per tutti, nessuno escluso e come comunità di pratica e di apprendimento permanente.

In questa prospettiva, il piano didattico formativo previsto nell’ambito del Master in “Organizzazione e gestione delle istituzioni scolastiche in contesti multiculturali”1 (Fondo FAMI, 2014-2020) attivato presso la sede dell’Università di Milano-Bicocca2 è stato costruito a partire da un’idea di formazione in servizio come processo culturale ampio, che si radica nei saperi disciplinari e nell’intreccio tra questi e una formazione metodologica approfondita, e che promuove negli individui e nelle organizzazioni possibilità di cambiamento attraverso l’impegno e il coinvolgimento in esperienze di indagine empirica. Nell’articolo, dopo una breve descrizione delle scelte teoriche e metodologiche sottese all’organizzazione del Master attivato a Milano, approfondiremo il modello della ricerca-azione come dispositivo formativo che incoraggia il “pensare con metodo” e la “logica dell’indagine” come competenze interculturali chiave per la gestione della complessità della vita quotidiana a scuola.

 

Il master a Milano: presupposti teorici e scelte formative

Come indicato dai documenti ministeriali, l’obiettivo del Master era quello di fornire una conoscenza teorico-pratica rivolta a favorire la formazione continua dei dirigenti scolastici e dei docenti rispetto alla gestione di contesti educativi multiculturali, a partire dall’acquisizione di conoscenze e dallo sviluppo di consapevolezze pedagogiche, sociologiche, psicologiche e giuridiche relative ai fenomeni migratori e all’integrazione degli alunni con cittadinanza non italiana, nonché una preparazione specifica per favorire il consolidamento e lo sviluppo delle competenze dei docenti nella gestione dei gruppi-classe e nell’utilizzo sempre più consapevole di una didattica multiculturale (Reggio e Santerini, 2013). In questa prospettiva, il piano didattico formativo previsto a livello ministeriale incoraggiava la coesistenza di discipline diverse – pedagogiche, sociologiche, giuridiche, antropologiche, organizzative, metodologiche, psicologiche – e l’alternanza di formazione teorico e pratica. Gli obiettivi trasversali previsti erano: potenziare consapevolezze e sensibilità interculturali, sviluppare specifiche competenze nella gestione della classe plurilingue, dei gruppi di alunni multilivello, della didattica multiculturale, della pianificazione di progetti e di azioni di ricerca finalizzati a introdurre progetti di miglioramento, del rapporto con il territorio e la rete dei servizi, della relazione con le famiglie, della comunicazione interculturale.

In linea con le ricerche che evidenziano la necessità di formare i docenti a saper connettere l’agire pratico con la sua analisi attraverso il possesso di strumenti concettuali e metodi relativi ai “saperi da insegnare”, ai “saperi per insegnare”, e ai “saperi sull’insegnare” (Altet, 2007), si è previsto un piano didattico/formativo3 basato sull’intreccio di teoria, esperienza e analisi critica della stessa. Per questo la didattica d’aula, in presenza e a distanza, la didattica laboratoriale4 e le esperienze di tirocinio offerte agli insegnanti/dirigenti sono state pensate come fortemente connesse le une alle altre, con continui rimandi teorici e metodologici. Il tirocinio è stato inteso come “attività di project-work” finalizzata a sperimentare sul campo le acquisizioni offerte dalla formazione teorico-disciplinare attraverso l’analisi del contesto, l’individuazione di situazioni problematiche in quanto stimoli per l’innovazione, la progettazione, la realizzazione e la valutazione di microprogetti condotti da ciascun corsista.

Per approfondire i paradigmi teorici che hanno orientato le scelte didattiche in relazione all’esperienza svolta nel Master oggetto di questo articolo, è utile mettere a fuoco alcune questioni del dibattito sulla formazione come ricerca, la logica dell’indagine deweyana e il pensare riflessivo, distinguendo approcci e paradigmi.

 

Logica dell’indagine ed esperienza

Nel 1929 Dewey, filosofo dell’educazione illuminato che ancora oggi orienta la riflessione pedagogica sulla scuola e la formazione, chiariva la necessità di accostare la ricerca alla pratica educativa e didattica, potenziando la competenza degli insegnanti come investigatori: «poiché il valore di ogni parte di una ricerca è nettamente connesso ai dati disponibili» spiegava l’autore «non risulterà quasi mai eccessiva ed esagerata l’importanza che verrà attribuita alla raccolta dei dati e alle relazioni e alla rispettiva maniera qualitativa e quantitativa di catalogarli» (Dewey, 1929/1967, pp. 34-35). In quest’ottica l’insegnante-investigatore è chi assume una postura curiosa, motivata, interessata a raccogliere dati e aperta alle intuizioni che essi promuovono:

 

[…] ai fatti, dati e conoscenze già acquisite corrispondono, nel pensiero, suggerimenti, deduzioni, congetture, supposizioni, tentativi di spiegazione ovvero idee […]. I dati risvegliano dei suggerimenti, la validità dei quali va misurata sui dati specifici. Ma i suggerimenti vanno oltre ciò che finora è realmente dato dall’esperienza, prevedono dei possibili risultati, cose da fare, non fatti (cose già fatte). Un’inferenza è sempre un salto dal noto a invadere l’ignoto (Dewey, 1916/2018, p. 265).

 

La ricerca sulla formazione e sulla professionalità degli insegnanti ha esplorato dispositivi e modelli per sostenere lo sviluppo di competenze di ricerca che consentano agli insegnanti di mettere in pratica le intuizioni deweyane, evidenziando le potenzialità di modelli di ricerca-formazione, al cui interno si individuano diverse interpretazioni (Zecca, 2016), che coinvolgano attivamente insegnanti/dirigenti/educatori in processi di studio e scavo approfondito delle pratiche (Magnoler, 2012; Nigris; 1998). Le conoscenze che oggi abbiamo su questi temi si riflettono anche nella normativa che riconosce la competenza alla ricerca tra le competenze di base per la qualità professionale (normativa Italiana Legge 59/1997 art. 21; legge 107/2015, artt. 1-3; Consiglio di Lisbona, 2000). Tra le istanze trasversali, vi è il ricorso alla ricerca-azione, richiamata nei documenti Ministeriali come un aspetto fondante la qualità dell’agire professionale a scuola (Fiorucci, 2015).

Se è vero infatti che la logica dell’indagine dovrebbe diventare parte della vita professionale a scuola, è altresì vero che l’insegnante ha bisogno, come scriveva Lucia Lumbelli, di un fare ricerca che sia anche «consulenza efficace per la soluzione pratica di problemi ben determinati» (Lumbelli, 1980, pp. 56-61). Ciò è dovuto alla complessità intrinseca della pratica dell’insegnamento che comprende azioni, ma anche ideologie, concezioni, assunti, obiettivi che ne terminano la stessa traduzione in comportamenti osservabili. La pratica didattica procede infatti per generi di fare che corrispondono alla funzione del “sapere insegnare” (Altet, 2002) ed è elaborata da un certo gruppo professionale in relazione alle finalità, agli obiettivi e alle scelte autonome (Nuzzacci, 2012).

Agli insegnanti/dirigenti è richiesto di dotarsi di uno sguardo critico capace di leggere le ricerche o assumere incarichi di progettazione, agendo con ruoli attivi in progetti di ricerca-azione, workshop, iniziative di ricerca-formazione, sviluppando profili in grado di confrontarsi con la comunità di ricerca e capaci di assumere le logiche del procedere con metodo nella pratica educativa e didattica (Pastori, 2017). Nello stesso tempo ci si aspetta che gli insegnanti si dotino di competenze critiche e antropologiche, adottino uno sguardo da etnografi, sviluppando una sensibilità e una predisposizione alla lettura, all’interpretazione e al rispetto dei significati culturali dei molti comportamenti o modelli educativi che abitano la scuola attraverso l’esercizio del decentramento culturale e il lavoro sui significati (Gobbo, 2004; Bove, 2009).

Si tratta di un insieme di competenze e atteggiamenti teorico-metodologici profondamente intrecciati tra loro che si traducono in una forma di apprendimento di secondo livello adatto alla complessità, capace di accogliere la diversità come occasione formativa ed evitando il rischio di relativismi estremi, definizioni rigide, giudizi di valore, modalità di pensiero riduttive e etnocentriche. Il pensiero riflessivo è un antidoto a forme di pensiero rigide e riduttive: lo stesso Dewey, nel suo celebre Come pensiamo (1910/1961), introdusse la sua più chiara sistematizzazione del processo del pensiero articolandola in fasi: partendo da una situazione di disagio cognitivo o da una situazione di incertezza, il pensiero procede attraverso la suggestione, l'intellettualizzazione, le ipotesi, il ragionamento e il controllo attraverso l'azione. Per dirla con Dewey, il pensiero riflessivo è «quel tipo di pensiero che consiste nel ripiegarsi mentalmente su un soggetto e nel rivolgere ad esso una seria e continuata considerazione» (Dewey, 1910/1961, p. 61) e ha la funzione di «trasformare una situazione in cui si è fatta esperienza di un dubbio, di un’oscurità, di un conflitto, o un disturbo di qualche sorta, in una situazione chiara, coerente, risolta, armoniosa» (Dewey, 1910/1961, p. 172).

Sorge spontaneo chiedersi quali dispositivi formativi permettano lo sviluppo di questa forma di “agire pensoso” (Mortari, 2003) nella pratica quotidiana della scuola e quali modelli di ricerca siano adeguati a introdurre la formazione a scuola e portare nella scuola forme di ricerca come progetto sostenibili. Il modello della ricerca-azione, com’è noto, è senza dubbio uno di quelli che più risponde alle istanze della ricerca pedagogica. Non è un caso che abbia avuto un’ampia legittimazione non solo in ambito accademico, ma anche come pratica didattica, formativa, valutativa. L’accezione ricerca-azione indica un

 

modello di ricerca empirica che mira a risolvere i problemi della pratica educativa così come essi si danno all’interno di uno specifico contesto formativo. Essa non si colloca perciò in uno spazio separato dall’attività educativa, ma dà forma d’indagine consapevole a tale attività. A questo scopo, antepone alla decisione e all’azione un momento di analisi e di definizione del problema e la formulazione dell’ipotesi di soluzione che sarà messa alla prova; all’intervento, fa poi seguire un attento esame critico dei risultati, e un eventuale ripensamento circa la natura del problema e le sue possibili soluzioni (Baldacci, 2009, pp. 16-21).

 

Si tratta di un dispositivo flessibile, che assume un’idea di scuola come laboratorio in cui individuare dubbi e problemi da sottoporre a indagine sistematica e a cui tornare per la verifica dell’efficacia delle azioni introdotte per migliorare la qualità delle pratiche agite. L’insegnante è, in questo senso, attore direttamente coinvolto nell’indagine e interlocutore critico delle pratiche. Non è esterno, né osservatore passivo, ma protagonista del processo di analisi critica dell’agire in situazione.

In questo senso si tratta di un modello che risponde ai presupposti sulla formazione degli insegnanti sopra citati proprio alla luce di alcune caratteristiche che lo distinguono da altri modelli di ricerca empirici (ricerca sperimentale, ricerca clinica, ecc.), come vedremo nel prossimo paragrafo.

 

Origini e caratteristiche della ricerca-azione (R-A)

L’origine teorica della RA si deve alla teoria della Action-research di Kurt Lewin e al suo lavoro nel campo delle scienze sociali, e in particolare ai problemi sociali collegati con le minoranze etniche da lui affrontati come psicologo di comunità negli anni '40. Il suo lavoro sul campo negli Stati Uniti nei primi decenni del Novecento aveva l’obiettivo di teorizzare un modello di ricerca capace di modificare e migliorare i sistemi sociali e le situazioni reali (centri educativi, fabbriche da riconvertire dopo la Seconda guerra mondiale) attraverso il coinvolgimento dei soggetti interessanti (Nigris, 1998).

L’accezione Action-research fu per Lewin la risposta a questa esigenza e rappresentò l’avvio di una tradizione di ricerca basata sulla stretta collaborazione tra ricercatori e lavoratori/operatori che vedrà sviluppi significativi nei decenni successivi del Novecento fino a forme di ricerca quali ricerca-partecipativa, ricerca-formazione, ricerca-intervento su cui a oggi è ancora vivo un articolato dibattito teorico- metodologico nelle scienze umane e sociali (Nigris, 1998). Nella sua formulazione originaria, l’action-research offriva un modello di azione caratterizzato dalla partecipazione dei gruppi sociali che evidenziano un problema e partecipano alla sua risoluzione. La “spirale di cicli” introdotta dallo psicologo sociale Lewin e rappresentata da Kemmis (1981) comprendeva: l’identificazione dell’idea e la ricognizione del campo; la definizione di una prima fase di azione; la sua attuazione; la valutazione della stessa; la revisione del piano generale e lo sviluppo di una seconda fase di azione, attuazione, valutazione, revisione, e così via. L’action-research coincideva dunque con un’idea di processo all’interno del quale l’attore-sociale era impegnato attivamente in ciascuna fase come motore per la risoluzione dei problemi emergenti dal campo, non mero-spettatore o osservatore di prassi.

Le teorizzazioni sulla ricerca-azione che si sono succedute negli anni sono state numerose e diversamente articolate a seconda delle prospettive culturali di riferimento, ma tutte orientate a stringere la distanza tra chi lavora sul campo e la teoria: tra le molte definizioni, è nota l’interpretazione di Rapaport (cit. in Nigris, 1998, p. 169) secondo cui «la RA mira a contribuire contemporaneamente alla risoluzione di problemi pratici immediati di una specifica situazione e agli obiettivi della scienza sociale per mezzo di una mutua collaborazione (cliente-ricercatore) all'interno di un contesto etico mutualmente accettabile». La RA intende dunque creare nuove forme di collaborazione tra chi opera sul campo e chi fa ricerca, che garantiscano l’aderenza a problemi emergenti dal campo e rilevanti per il campo, la rigorosità dei processi e dei procedimenti e la validità dei risultati.

Pur nella variabilità delle interpretazioni che hanno animato il dibattito e gli sviluppi di questo modello di ricerca al servizio della pratica (da cui si evincono diverse tipologie di RA), l’implicito è che nessuno al di fuori di chi opera direttamente sul campo può, potremmo dire sinteticamente, definire problemi rilevanti e procedere alla loro risoluzione in una prospettiva di indagine culturalmente situata. La situazione ambientale – il contesto – è dunque al centro del modello della ricerca-azione così come il coinvolgimento attivo dei suoi protagonisti: la RA interpella i soggetti, li rende partecipi, ne attiva le potenzialità, li coinvolge nell’analisi e nella descrizione dei problemi, nella ricerca di una soluzione, nella scelta degli interventi, nella valutazione, rendendola un modello interessante per promuovere azioni di miglioramento e trasformazione delle pratiche in contesti complessi come quelli multiculturali.

 

Ricerca-azione a scuola: prospettive per la scuola in contesti multiculturali

Il ricorso a questo modello di ricerca in relazione alla formazione interculturale e al miglioramento della scuola oggi è ampiamente accreditato (Catarci e Fiorucci, 2015; Fiorucci, 2005; Calvani, 2011). Le ragioni di questa fertile contaminazione sono molte. In primo luogo, la complementarità – non certo priva di tensioni o contraddizioni – tra le istanze-epistemiche e la tensione trasformativa. Ciò costituisce di per sé un aspetto in parte problematico, proprio perché basato, come abbiamo visto, sull’antinomia tra ricerca e azione (Hammersley, 2004), ma nel contempo offre suggestioni per integrare teoria e prassi favorendo la messa in campo di azioni educative e didattiche effettivamente interculturali. Possiamo dire che proprio questo doppio livello stimola ad approfondire temi complessi come quelli che si affacciano alla comunità scolastica in contesti multiculturali adottando prospettive aperte, dinamiche, sensibili alla natura culturale delle pratiche e dei processi educativi e didattici.

In secondo luogo la natura progettuale di questo processo di ricerca e la sua connessione con quadri teorico-concettuali sotto forma di ipotesi da verificare. La RA è una forma di ricerca-progetto che parte da un problema rilevante per il contesto che, a sua volta, genera una serie di ipotesi che andranno poi verificate attraverso la messa in campo in un’azione rigorosa. La dimensione teorica, il sistema di ipotesi e il riferimento a un disegno metodologico preciso, sono ciò che distingue un’azione di ricerca da un’azione (Baldacci, 2014). In questo senso, si tratta di una metodologia che incoraggia un procedere riflessivo che si avvale anche di un sistema teorico come paradigma di riferimento e che, in questo modo, non rischia di tradursi in un fare privato del suo significato e a-critico (Lumbelli, 1984). In terzo luogo, la RA riguarda le situazioni come esse accadono nella pratica quotidiana e il suo fine è la produzione di una teoria locale, non generalizzabile, ma rilevante per i contesti in cui emerge. È aderente ai problemi concreti, ha un intento trasformativo, emancipatorio, e talvolta, illuminante (Coonan, 2003). In quarto luogo la natura partecipativa della RA la rende interessante in prospettiva interculturale perché incoraggia processi conoscitivi con e non sui soggetti, che includono tutti gli attori protagonisti della vita scolastica. Fare ricerca con i soggetti significa valorizzare la dimensione dialogica/multi-vocale della vita nelle comunità educative attivando le risorse, le potenzialità e le competenze, spesso implicite, di tutti.

In sintesi, il modello della ricerca-azione si configura come un approccio che offre diversi spunti per la pratica didattica e organizzativa nella scuola in contesti multiculturali, proprio perché è radicato nelle situazioni, aderente alle caratteristiche socioculturali e materiali dei contesti, progettato insieme agli insider e svolto in forma collaborativa, ma nel contempo ancorato a quadri-teorico concettuali che ne garantiscono l’efficacia in termini di lettura critica/astrazione. Come evidenziava Lucia Lumbelli (1984) già alla fine degli anni Ottanta, il ricorso alla teoria garantisce il passaggio da argomentazioni a volte inconsapevoli (o giudizi di valore) ad argomentazioni fondate su procedimenti epistemologici chiari, frutto di un agire che si basa su teorizzazioni esplicite (giudizi basati su dati di fatto). Oggi

 

la pratica e la cultura della scuola esprimono forse più che in passato esigenze di analisi e di astrazioni. In questi anni assistiamo a modificazioni del fare scuola che si alimentano di esperienze innovative, sotto forma preferibilmente di progetti e di ricerca di buone pratiche che investono su vari piani la scuola, configurando ampie innovazioni curricolari (che si tratti dei temi dell’orientamento, dell’interculturalità, dell’autovalutazione, o del clima di scuola, per fare qualche esempio, non fa la differenza) e ricorrendo a una sinergia di risorse, economiche, culturali, didattiche e gestionali, in cui tutto è presente ad eccezione dell’esame analitico del loro impatto (Cardarello, 2006, p. 67).

 

La ricerca, dunque, offre strumenti e quadri concettuali entro cui iscrivere l’indagine sul senso del proprio agire, e consegna agli insegnanti/dirigenti delle risorse teorico-concettuali a cui attingere di fronte alle istanze della pratica, ma anche un modo di pensare alla quotidianità che valorizza il rigore dei processi di conoscenza scientifica e la sua natura democratica, riducendo l’improvvisazione e l’approssimazione che spesso hanno penalizzato la vita di alunni e ragazzi a scuola. Questo ha un costo in termini di formazione e tempi di realizzazione, ma è garanzia di un agire consapevole o agire-deliberato che aiuta a tenere insieme “la dimensione “esplicita” (i comportamenti) e quella “implicita” (gli assunti, le convinzioni, le idee, i modelli culturali). Il successo della ricerca-azione non va confuso, tuttavia, con una lettura eccessivamente riduttiva della stessa: ricerca-azione non è qualsiasi azione associata a qualche forma di ricerca o riflessione. Sarebbe un’ingenuità teorica pensare alla ricerca-azione senza un richiamo attento ai presupposti teorici che la riconoscono tra i modelli di ricerca più rappresentativi per la ricerca empirica in pedagogia (Baldacci, 2014), o al di fuori di una genuina comprensione teorica, come già Lewin aveva intuito nelle sue formulazioni originarie.

La stessa coesistenza dei termini ricerca e azione è, in senso lato, problematica come evidenzia Hammersley (2013/2016): «spesso non è evidente quale sia il rapporto intellettuale inteso tra le due componenti dell’espressione ricerca-azione nell’accezione di cui di norma è usata» (p. 129). Ma è altrettanto ingenuo pensare che chi opera sul campo possa improvvisarsi ricercatore, capace dunque di mediare tra prospettive, punti di vista, letture teoriche dei problemi, uso sistematico di metodi, produzione di nuove conoscenze. Entrambe le affermazioni rischiano di essere riduttive, in parte, e non sempre funzionali al miglioramento della qualità della vita nella scuola.

L’ipotesi che ci sembra interessante, e che abbiamo assunto nel lavoro condotto nel Master, è intendere la ricerca-azione come una metodologia flessibile, non sempre riproducibile tout-court nella vita della scuola, ma da cui dedurre criteri orientativi per la formazione e per l’azione educativa/didattica in prospettiva interculturale. Nel prossimo paragrafo illustriamo come le logiche teorico-metodologiche della ricerca-azione sono state riprese nelle esperienze di project work svolte durante il tirocinio all’interno del master oggetto di questo articolo.

 

L’esempio del project work come ricerca e progetto

Il project work, inteso come uno strumento progettuale che si collega alla metodologia learning by doing, si basa sulla realizzazione di un progetto relativo a obiettivi specifici e a contesti reali tramite la micro-progettazione di una serie di azioni concatenate e monitorate ciclicamente. Nel percorso di tirocinio previsto nel Master, il project-work è stato proposto come momento di formazione individuale ma, coerentemente con le indicazioni ministeriali, incoraggiando la condivisione con altri, la progettazione e il confronto a piccoli gruppi. Tale metodologia, infatti, consente di prendere contatto con problematiche organizzative, operative, relazionali presenti nel contesto lavorativo e formativo a partire da una prima fase ricognitiva basata sull’osservazione.

L’adozione di questa prospettiva si è orientata al perseguimento dei seguenti obiettivi: in primo luogo ridurre la distanza tra la dimensione teorica e l’esperienza a scuola, riportando nel contesto della scuola l’azione formativa stessa tramite il protagonismo e l’iniziativa dei docenti coinvolti; in secondo luogo, dedicare uno spazio di riflessione e di sintesi sulle dimensioni disciplinari, pedagogico/didattiche, deontologiche etiche del proprio agire quotidiano; in terzo luogo creare un’occasione per consolidare, tramite l’esperienza diretta, quel sapere pratico di matrice progettuale necessario all’insegnamento e alla direzione dell’istituzione scolastica e, infine, offrire un momento di autovalutazione e riflessione critica sul proprio agire professionale. Sono evidenti alcune connessioni con il modello della ricerca-azione presentato sopra: l’importanza dell’analisi del contesto in una prospettiva di scuola intesa come comunità culturalmente situata che riflette e nel contempo modella la società (Pontecorvo e Ligorio, 2012); il valore della dimensione teorica concettuale; la natura ciclica dell’indagine; la natura partecipativa del progetto.

Per meglio declinare la proposta di tirocinio in funzione dei suoi destinatari, gli insegnanti sono stati invitati a mettere in campo una progettazione dettagliata di tipo micro, mentre i dirigenti sono stati accompagnati nell’ideazione di azioni macro, di tipo sistemico a livello di istituto. Particolare attenzione è stata rivolta a sostenere progettazioni complete sia nella fase di ideazione, sia nella fase di realizzazione e monitoraggio delle azioni e dei loro risultati, sostenute dall’uso di strumenti desunti dalla ricerca. Trasversale è stata la richiesta di sviluppare una capacità di documentazione critica e analitica del percorso svolto, pur in una logica di flessibilità e di modifica dei percorsi in itinere, con attenzione all’esplicitazione di presupposti teorici, acquisizioni e consapevolezze raggiunte attraverso l’esperienza svolta.

Per garantire la qualità dei progetti, è stata prevista una forte connessione tra i laboratori afferenti gli insegnamenti pedagogici e il percorso di tirocinio di ciascun docente/dirigente consentendo forme di supervisione-tutoraggio sia con figure di esperti, sia tra pari. Ciò ha permesso di intrecciare la dimensione teorico-pratica dei laboratori con l’esperienza sul campo e la riflessione sulla stessa: i laboratori hanno offerto spunti per la definizione dei problemi/delle domande da esplorare tramite i project work, nonché possibilità concrete di confronto e discussione tra pari (tra docenti di scuole diverse, tra docenti e dirigenti, tra dirigenti) sull’ideazione (le domande dei progetti), la scansione del piano di lavoro (le fasi), le azioni e i metodi (gli strumenti), la rilevanza e significatività del tema per la formazione interculturale, la valutazione o monitoraggio degli esiti. Le osservazioni condotte a scuola o in contesti individuati come campi di indagine hanno offerto la possibilità di verificare la significatività dei temi emersi nei lavori di gruppo, la loro rilevanza rispetto alle situazioni specifiche dei contesti scolastici osservati, la pertinenza alle tematiche multiculturali del Master e alla motivazione dei protagonisti dei contesti. Parallelamente, durante le lezioni, sono stati offerti strumenti concettuali per l’analisi e l’interpretazione del lavoro sul campo desunti dalla tradizione della ricerca empirica.

Le esperienze osservate e agite nel project work non avevano dunque lo scopo di assorbire acriticamente metodologie e tecniche da applicare nella professione, trasponendole tout-court nella scuola, quanto di saper elaborare un progetto di rinnovamento e ripensamento sistematico e rilevante per la scuola e i ragazzi, consapevoli del contesto in cui si opera, dei criteri che orientano le proprie scelte, degli effetti delle proprie azioni, delle caratteristiche degli interlocutori a cui sono rivolte, delle potenzialità degli strumenti della ricerca. Ciò significa che per agire in una classe, per esempio, è necessario immaginare una ricerca come progetto che metta in relazione ciò che accade nella giornata scolastica con le storie e le biografie dei soggetti, il contesto socioculturale in cui è inserita la classe e in senso lato la scuola, le finalità didattico/curricolari e le concezioni o pedagogie implicite dei docenti. Si tratta di una prospettiva ampia che intreccia i comportamenti individuali ai contesti e agli attrezzi culturali, per dirla con Bruner (1992), che in essi si trovano.

Il lavoro di contestualizzazione del proprio agire e delle ragioni che motivano le scelte di agire in una direzione piuttosto che in un’altra a livello relazionale e didattico è stato al centro, dunque, del lavoro di riflessione preliminare e in itinere del tirocinio. Ogni azione presuppone impliciti e pedagogie spesso nascoste dalla ritualità dell’agire, che necessitano di essere rimesse in discussione, esplicitate, condivise per promuovere un’azione consapevole riducendo il rischio della ripetizione automatica delle pratiche quotidiane. Sostenere gli insegnanti nel porsi domande rilevanti e cercare risposte nell’analisi dell’esperienza, ma anche nelle teorie e nel confronto con i pari, così come nell’ascolto delle voci degli studenti/dei colleghi e delle famiglie, è stato uno dei modi con cui si sono accompagnate le esperienze di project work dei docenti e dei dirigenti, in una logica di formazione che assuma il riconoscimento delle proprie e altrui rappresentazioni culturali come asse portante per promuovere un’azione educativa e didattica interculturale.

Anche lo sviluppo di un habitus riflessivo è stato al centro del lavoro, sostenuto da procedimenti osservativi e di indagine basati su metodi scientifici desunti dalla tradizione della ricerca empirica in educazione – osservazione partecipante, osservazione etnografica, osservazione tramite l’uso di metodologie visuali – utili a pensare ai contesti scolastici (la classe, la scuola) come contesti ecologici dinamici da comprendere in profondità: pensare alla scuola in prospettiva sistemica, dunque, significa tenere insieme i livelli e i sottoinsiemi del sistema che determinano la qualità delle pratiche (Bateson, 1972) favorendo la messa in campo di un agire adeguato a tale complessità.

Nel caso dei dirigenti, particolare rilievo hanno assunto finalità relative alla progettazione di azioni di miglioramento a livello di scuola, attivazione di risorse interne, ideazione di progetti per il miglioramento degli esiti e dei risultati scolastici degli alunni, costruzione di reti e network con altri enti/servizi sul territorio, revisione di pratiche inadeguate a rispondere ai bisogni educativi e didattici dei ragazzi e delle famiglie con alle spalle valori, lingue, culture diverse, introduzione di innovazione a livello di politiche culturali degli istituti in relazione a tematiche multiculturali, azioni rivolte a ridurre la diseguaglianza culturale negli esiti scolastici e gli abbandoni scolastici.

 

Considerazioni conclusive

Alla luce dell’esperienza svolta, e a fronte di una risposta mediamente positiva da parte dei professionisti coinvolti pur nella consapevolezza dei limiti di percorsi circoscritti e in molti casi non sempre esaustivi rispetto all’uso di strumenti desunti dalla ricerca, è interessante soffermarsi sui temi affrontati nei progetti di project-work. Ne evidenziamo alcuni a titolo esemplificativo: le biografie dei ragazzi e delle famiglie di recente migrazione e non; le dinamiche interculturali della classe; i progetti di orientamento e di accoglienza; l’attivazione di nuove pratiche per favorire la partecipazione delle famiglie, in particolare immigrate; studio dell’efficacia di determinati metodi didattici, di curricoli, di esperienze innovative con bambini/ragazzi di prima/seconda generazione per ridurre l’insuccesso scolastico; determinazione della qualità degli apprendimenti e messa a punto di nuovi strumenti per la valutazione in prospettiva interculturale; revisione critica degli strumenti di certificazione delle competenze in ingresso; approfondimento della relazione docenti/studenti in prospettiva interculturale; ideazione di progetti pilota di supporto all’acquisizione di competenze linguistiche; analisi degli stili di insegnamento degli insegnanti in classi multiculturali; la cittadinanza e l’identità in contesti multiculturali; la relazione tra scuola e territorio; la rete dei servizi oltre la scuola.

I temi non sono eccezionali e non esauriscono la complessità, ma riflettono la quotidianità della scuola multiculturale. L’elemento innovativo è il metodo, vale a dire il processo di indagine attivato rispetto ai temi sopra-enucleati che ha favorito la partecipazione attiva degli insegnanti protagonisti come figure-chiave, motori dei processi di indagine e garanzia della loro sistematicità, ma anche di risorse presenti nelle scuole (altri insegnanti, ragazzi/alunni, famiglie) e nei territori (altri servizi, associazioni, centri educativi).

Non sono mancati elementi di problematicità tra cui, per esempio: la scarsa familiarità rispetto all’uso di metodologie di ricerca e la difficoltà a conciliare i tempi richiesti dall’uso rigoroso degli strumenti e i tempi della scuola; la fatica di sostenere un’indagine ricorsiva ben agganciata alla riflessione teorica; la difficoltà ad astrarre considerazioni dalla pratica quotidiana elevandola a oggetto di ricerca; la fatica di decentrarsi e di mettere gli eventi nella giusta prospettiva per poterli osservare con chiarezza; le difficoltà della condivisione tra pari e della rilettura della propria professionalità. Si tratta di limiti in parte dovuti alla preparazione professionale degli insegnanti, ma anche legati alla difficoltà di assumere una postura e uno sguardo da “ricercatori sulle pratiche” dall’interno. Sappiamo, tuttavia, quanto la formazione permanente non dia i suoi frutti se non nel lungo periodo e sappiamo anche quanto sia difficile monitorare l’impatto di interventi di formazione in servizio/continua sulle pratiche educative e didattiche agite nei contesti. Eppure, proprio alla luce dell’esperienza svolta, siamo convinti che investire sulla formazione in servizio degli insegnanti potenziando la predisposizione all’indagine e allo sviluppo di un modo di accostarsi ai problemi della scuola come dubbi, spunti, suggestioni per l’avvio di progetti basati sulle logiche della ricerca sia, oggi più che mai, una necessità per garantire la costruzione di contesti di benessere e di qualità in una prospettiva di scuola inclusiva, democratica e interculturale, ma anche una risorsa preziosa per le scuole stesse.

La ricerca e l’elevare le questioni che si incontrano sul campo a temi/problemi passibili di indagine concettuale stimolano la curiosità, connettono, coinvolgono, interrogano l’agire quotidiano di chi la agisce, ma anche di chi ne è coinvolto come attore/partecipante. E questo investimento dinamico mette in modo energie cognitive e risorse pratiche importanti per una scuola e una didattica effettivamente inter-culturali. Nell’esperienza presentata nell’articolo di Marco Fassino pubblicato su questo numero, esemplificativa sebbene non esaustiva della ricchezza e della varietà dei progetti realizzati, si descrive un esempio di project work che, a partire da una situazione emersa a scuola, ha messo in moto un processo partecipativo trasversale sul tema della cittadinanza e delle rappresentazioni sulla stessa di ragazzi figli di genitori immigrati che ha coinvolto i docenti, ma in primo luogo gli studenti che sono diventati i veri protagonisti del processo attivato, oltre che i destinatari delle azioni introdotte. Un progetto ideato da una figura chiave nella scuola, il dirigente scolastico, e che ha richiamato la partecipazione anche di enti attivi sul territorio, rendendo più permeabili i confini tra scuola e territorio in una logica di comunità educante. Se la formazione come ricerca attiva le risorse potenziali, ma spesso invisibili, degli alunni che vivono condizioni di maggior rischio e vulnerabilità, migranti e non, allora – possiamo dirlo con soddisfazione – è a tutti gli effetti una pratica-didattica interculturale.

 

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Note

1 Hanno partecipato al Master di Milano 69 insegnanti, di cui 60 donne e 9 uomini (4 di scuola dell’infanzia, di cui due donne; 32 di scuola primaria, di cui 31 donne; 20 di scuola secondaria di primo grado, di cui 15 donne; 15 di scuola secondaria di secondo grado, di cui 12 donne), e 23 Dirigenti Scolastici, di cui 19 donne e 4 uomini.
2 Il Master è stato diretto da chi scrive, in collaborazione i componenti del Comitato di Coordinamento: Prof.ssa Maria Grazia Riva, Direttrice del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione R. Massa dell’Università di Milano-Bicocca, Prof.ssa Elisabetta Nigris, Dott.ssa Giulia Pastori, Dott. Emanuele Contu (USR, Milano) che ringrazio per la collaborazione. Ringrazio anche i supervisori, Dott.ssa Doris Valente e Dott. Andrea Varani, per il lavoro svolto a supporto delle attività di tirocinio/project work e la dott.ssa Valentina Buffon per il lavoro di supporto al coordinamento didattico.
3 L’attività didattica è stata inaugurata il 29 settembre 2017 si è conclusa il 26 maggio 2018 con due sessioni per la discussione delle relazioni finali/Project Work: una prima sessione a luglio e ottobre 2018. Si sono effettivamente iscritti n. 100 studenti, di cui n. 85 tra docenti/dirigenti iscritti al Master e n. 15 docenti iscritti al Corso di Perfezionamento. Sono giunti al termine del percorso 92 studenti, di cui 80 studenti iscritti al Master, 12 Corso di Perfezionamento. Ci sono stati 8 ritiri per varie ragioni (abbandoni, trasferimenti, malattie, altro).
4 Il Master ha avuto durata annuale per complessive 1.500 ore (comprensive dell’impegno da riservare allo studio e alla preparazione personale), per un totale di 60 crediti formativi universitari, e ha compreso: 296 ore suddivise tra formazione in aula, FAD e laboratori connessi agli insegnamenti (108 ore formazione in Aula; 108 ore FAD – formazione a distanza; 80 ore laboratorio); 110 ore di tirocini/esperienze dirette; 125 ore per la preparazione della tesi-relazione finale. Le relazioni finali, comprensive di Project Work svolto durante il tirocinio e rielaborazione critico-riflessiva dello stesso, sono state discusse in seduta pubblica in due sessioni (sessione estiva-sessione autunnale), previa consegna di un elaborato scritto (tesi) sottoposto a valutazione.

DOI: 10.14605/EI1621904


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ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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