Test Book

Sezione aperta / Open section

ONG: capitani coraggiosi o complici? Tre interventi tra emergenza e normalità
NGOs: are they brave captains or accomplices? Three actions between emergency and normality

Andrea Canevaro

Professore Emerito dell’Università di Bologna, Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione, Dipartimento di Scienze dell’Educazione

Luciano Carrino

Psichiatra, è presidente della KIP International School che, tra l’altro, ha realizzato il Padiglione KIP all’Expo di Milano 2015. È stato a lungo responsabile, al Ministero degli Esteri, dei programmi di cooperazione Italia/Nazioni Unite per lo sviluppo umano in Africa, Mediterraneo, America Latina ed Europa dell’Est. È stato vicepresidente della Rete contro la povertà dell’OCSE e consulente della Commissione Europea, del Parlamento Europeo e delle Nazioni Unite. Insegna in diverse università italiane e di altri Paesi. Prima di occuparsi di cooperazione internazionale è stato uno dei più stretti collaboratori di Franco Basaglia nel lavoro di superamento dei manicomi e direttore del Centro di Medicina Sociale di Giugliano.

Alfredo Camerini

Una vita da cooperante e alcuni incarichi di insegnamento presso l’Università degli Studi di Bologna e la Libera Università di Bolzano, sede di Bressanone.


Autore per la corrispondenza

Andrea Canevaro
Indirizzo e-mail: andrea.canevaro@unibo.it
Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Dipartimento Scienze dell’Educazione, Via Filippo Re, 6, 40126, Bologna



Sommario

I rapporti Nord-Sud del mondo rischiano di essere vissuti con spirito da tifoserie calcistiche, ovvero in maniera superficiale. Dobbiamo aiutare o no chi proviene dai paesi del Sud del mondo? Le Organizzazioni Non Governative hanno esperienze. Aiutano a capire? Qual è la qualità delle conoscenze derivate dalle loro esperienze? L’emergenza domina e può dare risposte poco costruttive. La conoscenza serve per mettere fine al tradimento e al preconcetto, e seguire la logica della riduzione del danno. È una logica che apre un percorso ed esige tempo. Salvare vite umane è prioritario e irrinunciabile e le ONG debbono poter fare il loro lavoro al meglio delle loro capacità logistiche e tecniche, ma la necessità di smantellare le reti di trafficanti di esseri umani non è un’alternativa: è complementare.

Parole chiave

mergenza, migrazioni, ONG.


Abstract

The world’s north-south relations are more and more likely to be lived in a superficial way. Should we help those coming from countries of the south or not? This is the question we are trying to answer with this contribution. Non-Governmental Organisations have acquired relevant expertise on this topic in recent years, useful for approaching this thorny issue. Nevertheless, it is also necessary to question the quality of the knowledge derived from the experience of these NGOs: they mainly operate in a context of emergency, thus providing less constructive answers. This paper aims to start a conversation, aware that building knowledge takes time but also that saving lives is a priority and fundamental duty of NGOs and that they should be able to do their job to the best of their logistical and technical skills. The author believes that it is necessary to dismantle the network of human traffickers as a complementary and parallel intervention to rescue.

Keywords

emergency; migrations; NGOs.


Aiutare ma come?1

I rapporti che, per brevità, chiameremo Nord-Sud del mondo, sono complessi. Le semplificazioni – anche quella che invocando la brevità abbiamo espresso – sono per lo più fuorvianti. Inducono a comportarsi, di fronte a situazioni complesse, come tifosi: “di che squadra sei? Sei della Juve o sei dell’Inter?”, “Delle ONG o dello Stato?”.

Il tema sembra essere quello degli aiuti. Dobbiamo aiutare o no chi proviene dai Paesi del Sud del mondo? Prendiamo in considerazione quello che scrive il premio Nobel per l’Economia del 2015 Sir Angus Stewart Deaton: «Questi calcoli, [...], sono quello che chiamo l’illusione degli aiuti, la credenza, falsa, che per eliminare la povertà globale sia sufficiente che le persone e i Paesi ricchi siano disposti a donare più denaro alle persone o ai Paesi poveri. Sosterrò che l’illusione dell’aiuto, anziché essere una ricetta per estirpare la povertà, è in realtà un ostacolo al miglioramento delle condizioni di vita dei poveri» (p. 302).

Angus Deaton, è docente a Princeton. Studia i criteri per sostituire le cifre del PIL, che pure hanno il loro rilievo, con altri parametri per valutare la condizione e la qualità della vita di un Paese: il livello di inclusione sociale, la diffusione di benessere fra la gente, soprattutto il livello medio di tutela della salute della popolazione. Chiamiamola – dice –, se volete, felicità. La felicità può riguardare Paesi e individui poveri? Se la felicità non si raggiunge con i soldi, cosa ci vuole? Forse ci vuole un’altra logica, forse quella della riduzione del danno.2

Federico Rampini (2016), scrittore e giornalista italiano, parla di tradimento. È soprattutto il tradimento che ci fa ritenere che i nostri giudizi siano fondati su dati di realtà. Mentre sono fondati e accompagnati dalle nostre ignoranze e cattive informazioni. Se le nostre conoscenze dei fatti di attualità sono di dubbia e insufficiente qualità, non facciamoci catturare dall'attualità, ma cerchiamo di capire, dai percorsi pregressi, dalle esperienze, quali strade ci hanno portato all'attualità e quali possono farci procedere oltre. Le Organizzazioni Non Governative hanno esperienze. Ci aiutano a capire? Qual è la qualità delle conoscenze derivate dalle loro esperienze? Anche loro sono vittime dell’urgenza dell’emergenza che sembra funzionare come un tapis roulant in quei marchingegni che fanno camminare essendo sempre nello stesso posto, senza fare alcun percorso? Chi ha corso o camminato su un tapis roulant di quel tipo non può dire di essere partito da…, di aver visto…, e di essere arrivato a… Ha faticato sempre nello stesso posto.

L’urgenza dell’emergenza è condizionata dalla credenza di essere minacciati. Un certo uso dei mezzi di informazioni contribuisce a fare percepire i pericoli come particolarmente intensi. Oggi più che nel passato. Lo studioso canadese Steven Pinker (2017; 2011), che ha compiuto ricerche su questo tema, in un’opera poderosa – più di 800 pagine  –, ritiene che il periodo in cui ci è dato vivere sia con tutta probabilità tra i più pacifici della storia del mondo. Steven Pinker segnala l’infondatezza di una “teoria idraulica della violenza”, secondo la quale l’essere umano sarebbe strutturalmente aggressivo. Eppure è probabile che molti siano convinti che l’essere umano abbia una costitutiva pulsione all’aggressività. È un preconcetto frutto di condizionamenti o di ignoranza?

L’urgenza dettata dall’emergenza gioca al ribasso. Un grande editore respinse, qualche anno fa, un diario di una operatrice bosniaca che aveva descritto la vita di tutti i giorni. La motivazione del rifiuto era che in quel momento la Bosnia non era più sotto i riflettori mediatici. Fosse stato un diario di un’operatrice curda …! In quel momento, le pagine dei quotidiani erano dedicate ai curdi.

Può essere fondamentale la conoscenza, per mettere fine al tradimento e al preconcetto, e seguire la logica della riduzione del danno. Una logica che apre un percorso ed esige tempo. Il tempo va protetto dall’urgenza delle continue emergenze che sembra caratterizzare il grande fenomeno migratorio, a dispetto dei non pochi anni della sua realtà. L’urgenza delle continue emergenze si collega, indirettamente, con la corruzione e l’illegalità organizzata. In che modo? Crediamo che esistano due livelli di corruzione. C’è una corruzione molto chiara, fatta di tangenti, bustarelle, estorsioni, ricatti. È una corruzione che chiameremmo stracciona: facilmente identificabile e senza intermediari. C’è anche, diffusa, una corruzione che chiameremmo virale: appunto diffusa, fatta di offerte di servizi, di prestiti facilitati, di vacanze pagate, di alloggi disponibili a prezzi quasi simbolici, eccetera. I due livelli sono funzionali. La corruzione virale si afferma come un contributo per la crescita economica (Cfr. Coppier, 2005; Vannucci, 2012). Ha ambizioni politiche indirette: può garantire a qualcuno la visibilità giusta e l’immagine di abile soggetto economico, capace realizzatore di successo. La ciliegina: fornire all’ambizioso la certezza di farsi un’immagine di efficienza ed efficacia nella lotta alla corruzione e all’illegalità offrendogli facili arresti di uomini della corruzione stracciona. La ciliegina, paradossale, fa capire la pericolosità e la diffusione della corruzione virale: riesce a fare sì che l’ambizioso di turno risulti capace di dare risposte ai problemi urgenti.

Le ONG devono fare i conti con tutto questo. Liberandosi dello stereotipo che molte volte hanno scelto: quello del testimone delle sofferenze. Annette Wieviorka (1999; 1998), specialista della storia degli ebrei nel XX secolo, qualche anno fa aveva affrontato il tema del testimone. Ma ci sembra che Germaine Tillion (1907-2008) (2006; 2001; 2012; 1988), studiosa e ricercatrice etnologa francese, che fu prigioniera e internata in un campo di sterminio nazista, abbia meglio di altri capito i limiti del testimone: che non offra informazioni e che la testimonianza rimanga un episodio emotivo facilmente sostituibile da altre emozioni.

Lo stereotipo del testimone delle sofferenze del mondo è utile per le raccolte fondi. Deve però rinforzare, o almeno mantenere l’immagine delle sofferenze, rinunciando a fornire contributi di conoscenze su luoghi e popolazione che non devono essere conosciuti, ma solo aiutati. Per altro, le ONG, se non sbagliamo, sono soprattutto controllate per aspetti amministrativi e gestionali, e poco o niente per il possibile apporto di conoscenze. Le conoscenze, il più delle volte, implicano contaminazioni, che sarebbero ammirate – e sterilizzate – per il testimone delle sofferenze del mondo. La contaminazione delle conoscenze è attiva. Claude Levi Strauss (1908-2009), iniziò il suo libro più famoso, Tristi tropici (1955) dichiarando che non gli piacevano i viaggi. Era un modo per prendere le distanze dall’esotismo e avventurarsi nella contaminazione delle conoscenze. L’attuale situazione ha molto bisogno di conoscenze. Quale può essere il contributo delle ONG? Tutte le ONG possono darlo?

 

Il cuore è con loro. Ma bisogna cambiare prospettiva3

Certo il mio cuore è con i migranti e con le ONG che cercano di alleviarne le sofferenze. Ma la mia mente è in difficoltà. Le ONG rivelano ancora una volta la fragilità e parzialità del loro approccio. Sono la faccia buona di un sistema che nel suo insieme funziona molto male. Ma come si fa a essere il bene senza speranza di un male così grave? Pensando a quello che in Italia è stato fatto per superare i manicomi, mi dico che se avessimo adottato l’approccio delle ONG saremmo ancora a lenire le sofferenze di ricoverati in strutture segregative che, invece, andavano abolite. La buona volontà e il lavoro etico sono ottimi consiglieri se non distolgono dall’azione sulle cause degli squilibri, della violenza e del malessere e se non diventano un modo culturalmente “legittimato” per non occuparsi in profondità dei diritti e del bene comune.

Quando si pensa alle cause delle migrazioni emerge l’enorme difficoltà di dire qualcosa di sensato in materia. I flussi attuali, governati da scafisti, trafficanti e politici di basso livello, sono un indicatore di un gravissimo malfunzionamento di tutte le società nell’era della mondializzazione. In Perle, pirati e sognatori (Carrino, 2014) ho dedicato un capitolo alla questione. Per tentare di essere costruttivo, ho indicato come si potrebbe intervenire in modo sensato sui flussi migratori utilizzando la cooperazione allo sviluppo, intervenendo in modo efficace nelle aree di emigrazione e collegando gli interventi con le politiche di accoglienza nei paesi d’arrivo e con le diaspore. Peccato che le strategie proposte implicherebbero:

  • che esistano partiti politici che non si limitano a manipolare l’elettorato e desiderano fare qualcosa di serio;

  • che partiti, governi e istituzioni sappiano cosa fare per intervenire efficacemente su tutte le componenti delle migrazioni: quello che sento è miserevolmente miope e francamente non riesco ad appassionarmi al problema se le ONG debbano accettare o rifiutare presenze istituzionali sulle loro navi; capisco che lo Stato e le ONG difendano le loro rispettive identità ma non vedo nulla di costruttivo in questo;

  • che esistano le condizioni per far lavorare insieme governi nazionali, Nazioni Unite, ONG, collettività locali e attori sociali, sia in ogni paese che a livello internazionale;

  • che la cooperazione serva a occuparsi seriamente di grandi problemi complessi e la finisca di fornire i soliti finanziamenti a pioggia per interventi parziali e insignificanti;

  • che esista la possibilità di far lavorare in modo coordinato istituzioni, servizi e professioni settoriali che normalmente non dialogano tra loro;

  • che esistano ONG capaci di approcci meno autoreferenziali e disposte a catalizzare processi di cambiamento complessi.

 

Purtroppo, queste condizioni non ci sono e forse non si verificheranno mai, a meno che le crisi sempre più gravi (ambientali, sociali, finanziarie, economiche, politiche, militari, ecc.) non costringano a cambiare profondamente il funzionamento attuale delle società e delle relazioni internazionali.

Come si può occuparsi di migrazioni senza toccare le loro cause? Aiutiamoli a casa loro è una frase indegna specie se pronunciata da chi non ha la minima idea di quale rivoluzione si dovrebbe fare per aiutare davvero chi fugge da Paesi dominati da gruppi di potere violenti, rapaci e odiosi; da imprese nazionali e soprattutto multinazionali che fanno immensi profitti pagando salari di fame; da interessi dei paesi più ricchi in competizione tra loro per trarre il massimo vantaggio dalle materie prime, dall’assenza di controlli ambientali, dalla mano d’opera anche minorile e così via. Occuparsi seriamente delle migrazioni vorrebbe dire rendere vivibili le aree locali dei paesi che oggi sono o massacrate da interessi potenti o abbandonate perché non riescono a interessare nessuno.

Ci sono perfino quelli che dicono che i migranti fanno crescere la criminalità: come se senza di loro tutto andasse bene. In tutti i Paesi, la criminalità non solo cresce ma è parte della vita “normale” delle città e delle campagne. La corsa al profitto finisce non solo con lo stimolare le dinamiche di esclusione correnti, ma con il legittimare anche i border-line della legalità e molti di quelli che sono già oltre. Corruzione, malaffare, crimine organizzato, rifiuti tossici, frodi alimentari, incendi dolosi e molteplici altre forme di criminalità riempiono ogni giorno le pagine dei giornali… e qualcuno teme proprio e unicamente i migranti?

È davvero sorprendente che, nel mare di comportamenti aggressivi e prevaricatori normalmente ammessi, e in quello ancora più grande di atti e fatti illegittimi ma tollerati, i migranti rappresentassero l’unica goccia virtuosa. Insomma, quando vedo le immagini dei migranti e di quelli che se ne occupano, penso con rammarico alle rivoluzioni che hanno mancato l’obiettivo dell’uguaglianza dei diritti e della giustizia sociale e a quella che mi piacerebbe fare, insieme con le ONG e le persone per bene che, nonostante tutto, continuano a esserci.

Ogni tanto sogno un movimento internazionale di attori sociali per l’applicazione rigorosa dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che abbia almeno la stessa determinazione di pressione su governi, istituzioni, organizzazioni internazionali e grandi poteri trasversali che ebbe in Italia il movimento per l’abolizione dei manicomi. In ogni caso, la mancanza di una visione del futuro, non è certo un argomento per non fare nulla oggi e non combattere i mille soprusi legati alle migrazioni. Ma, senza l’idea di costruire una società giusta e accogliente per tutti, manca il punto d’arrivo e rimane solo la confusione conservatrice della buona volontà. Meglio che niente, ma veramente poco.

In conclusione, molte Organizzazioni Non Governative hanno un grandissimo potenziale di intelligenze e di passioni per i diritti: mi piacerebbe che diventassero anche catalizzatrici, con tanti altri, di cambiamento delle società e della cooperazione, mentre continuano ad alleviare sofferenze dove possono.

 

Salvare le vite umane è prioritario per aprire un futuro comune4

Salvare vite umane è prioritario e irrinunciabile e le ONG debbono poter fare il loro lavoro al meglio delle loro capacità logistiche e tecniche, ​ma la necessità di smantellare le reti di trafficanti di esseri umani deve essere tenuta in conto cercando di non ostacolare il lavoro di chi ha il compito di combattere le reti criminali. È necessaria la cooperazione tra i soggetti del sistema degli aiuti anche su questo fronte. Per questo un codice di comportamento è necessario, va applicato e rispettato.

La neutralità dell'umanitario invocata da talune ONG rischia di diventare un ostacolo e di indurre a chiudere gli occhi su quanto avviene sulle due sponde del Mediterraneo: tratta di esseri umani e sfruttamento di ogni tipo da un lato, internamento e assistenzialismo senza prospettive dall’altro. Le vite devono essere salvate nella prospettiva di un cambiamento che inizia dall’emancipazione dalla schiavitù dai trafficanti, per approdare alla progettazione e alla realizzazione di percorsi di apprendimento per la costruzione di progetti di vita individuali. Bisogna anche evitare di dar luogo a malintesi molto pericolosi, agendo con modalità che, in taluni casi, lasciano intendere che gli scafisti abbiano un ruolo simmetrico a quello delle ONG e che le organizzazioni di trafficanti siano controparti di cooperazione.

Proviamo a porci due domande e ad argomentare risposte sul ruolo delle ONG.

Le ONG si sono fatte conoscere male, e quasi esclusivamente insistendo unicamente su motivi pietistici, trascurando in buona sostanza un impegno politico-culturale?

Le ONG che si occupano di aiuti di emergenza nel Mediterraneo vengono attaccate da chi non accetta l'immigrazione. Gli immigrati e gli sbarchi di massa sono impopolari e destano meno preoccupazione le morti e i rischi nelle traversate del Mediterraneo di quella, molto viva, per l'accoglienza e la collocazione dei migranti nella nostra società. C'è un senso di impotenza anche nei meglio disposti verso il termine e la pratica di “accoglienza” e i più non riescono ad attribuirgli un significato proattivo, sganciato da assistenza e da quanto di negativo questo concetto porta con sé: dipendenza, parassitismo, ecc. Più che delle ONG di soccorso mi occuperei della cooperazione di aiuto e degli attori in grado di praticarla tra cui tante ONG di sviluppo.

Apro un inciso legato a un avvenimento significativo che riprenderò in chiusura: la sentenza definitiva sui crimini di guerra commessi nella ex Yugoslavia. In Bosnia, come cooperante, ho conosciuto una realtà che sembra essere dimenticata o sconosciuta: cosa resta delle stragi nella ex Jugoslavia? Due anziani signori Mladic e Praljak condannati all'ergastolo l'uno e suicida l'altro. Se non si porta nelle scuole questo pezzo di storia a noi così vicina, la guerra etnica con i suoi crimini non avrà alcun valore educativo. Ho conosciuto Praljak a Mostar: era una persona simpatica, un intellettuale poliedrico, pieno di retorica nazionalista di altri tempi. Non aveva nulla del comandante tetragono che ti saresti aspettato, eppure ha fatto quel che fatto...

Quali strade possono farci procedere oltre l'emergenza? Bisogna allargare i confini della buona cooperazione internazionale, imparare a interloquire con i migranti a partire dai Paesi di partenza, incontrare i partenti per conoscerli, conoscerne l'immaginario, ragionare sul progetto di migrazione che spesso non c'è ancora ed è solo desiderio e speranza, indicare la via dell'empowerment nel percorso migratorio. E poi continuare ad interloquire, ad interrogarsi, a riflettere, apprendere con i migranti e i profughi nel nostro Paese mentre si insegnano loro la nostra lingua e le leggi che debbono rispettare. Le lezioni di lingua per immigrati andrebbero integrate con workshop di presa di coscienza, di conoscenza del contesto di approdo, e di progettazione per l'integrazione e lo sviluppo.

Per procedere oltre bisognerebbe far incontrare i principi, l'esperienza e i saperi della “buona cooperazione internazionale, cioè la cooperazione finalizzata all’emancipazione, alla costruzione di capacità di agire e di fare scelte per l’autodeterminazione e l’autosufficienza, con l'azione delle istituzioni e delle imprese sociali che si occupano dell'accoglienza. Per andare oltre bisognerebbe sviluppare la dimensione educativa della cooperazione e della coeducazione degli adulti in base al messaggio cruciale di Paulo Freire (1968) che afferma: nessuno libera nessuno, nessuno si libera da solo, gli uomini si liberano nella comunione.

Ritorno a Praljak. Il suo suicidio nell’aula del tribunale per i crimini internazionali dell'Aia è stato spettacolare. Per un giorno, presente sui teleschermi, ha impressionato i telespettatori. Il giorno dopo, cosa è rimasto? Poco o niente. Allora occorre chiedersi: fino a che punto le ONG sanno essere e produrre memoria? L’impegno nell’emergenza continua, le obbliga ad essere smemorate? Io non dimentico Praljak. Posso essere preso per un suo complice? O per un connivente perché lo ricordo simpatico? Se fossi costretto a cancellare i miei ricordi, non saprei più capire chi sono. I ricordi non devono ristrutturarsi secondo la disposizione ordinata del dopo, quando i vinti e i vincitori sono il male e il bene, senza ombre e mezzi toni. I ricordi possono essere cultura. Sono conoscenze che hanno percorso un tempo giorno dopo giorno. In quel percorso gli incontri, anche con un Praljak, sono stati possibili, e qualcuno necessario. La difficoltà è renderli capaci di costruire conoscenza reciproca fra popoli e culture. Per ridurre il rischio di far diventare ogni aiuto un’elemosina, e ogni aiutato un mendicante, occorre operare insieme. Evitando i comportamenti da tifoserie.

Salvare vite, co-costruire sviluppo, preservare la memoria sono compiti che le ONG, qualsiasi sia la loro specializzazione, dovrebbero aver cura di sviluppare e comunicare nelle proprie azioni.

 

Bibliografia

Carrino L. (2014), Perle, pirati e sognatori, Milano, FrancoAngeli.

Coppier R. (2005), Corruzione e crescita economica, Roma, Carocci.

Deaton A. (2015), La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza, Bologna, il Mulino, ed. or. 2010.

Freire P. (1971), La pedagogia degli oppressi, Milano, Mondadori, ed. or. 1968.

Levi Strauss C. (1955), Tristes tropiques, trad. di Bianca Garufi (1906 e ristampe), Milano, Il Saggiatore.

Pinker S. (2017; 2011), Il declino della violenza. Perché quello che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia, Milano, Mondadori.

Rampini F. (2016), Il tradimento. Globalizzazione e immigrazione, le menzogne delle élite, Milano, Mondadori.

Tillion G. (2006; 2001), Alla ricerca del vero e del giusto. Dalla shoah all’Algeria, una testimonianza del male del Novecento, Milano, Medusa. Testi scelti e presentati da T. Todorov.

Tillion G. (2012; 1988), Ravensbrück, Roma, Campo dei fiori-Fazi.

Vannucci A. (2012), Atlante della corruzione Torino, EGA-Edizioni Gruppo Abele.

Wikipedia, La riduzione del danno (consultato il 20 maggio 2018).

Wieviorka A. (1999; 1998), L’era del testimone, Milano, Raffaello Cortina



Note

1 Il paragrafo, in sinergia con gli altri autori, è stato scritto da Andrea Canevaro.
2 Wikipedia, l'enciclopedia libera: La riduzione del danno è una strategia di intervento nata per arginare il propagarsi di malattie infettive tra i consumatori di sostanze illecite per via endovenosa, e in seguito, data la sua efficacia, allargatasi anche ad ambiti diversi da quello delle sostanze stupefacenti (come ad esempio la prostituzione). […] [il modello “latino” della bassa soglia], caratteristico dei Paesi dell'Europa del Sud o che comunque affacciano sul Mediterraneo, vede nella riduzione del danno non solo un modello di intervento che risponde a un'emergenza, ma anche, e in alcuni casi soprattutto, una modalità attraverso cui è possibile entrare in contatto con persone che, a causa dell'estrema situazione di marginalità in cui vivono, non sono in grado di entrare in relazione con i servizi socio-sanitari istituzionali. In questa prospettiva la riduzione del danno diviene anche il primo passo verso un (eventuale) reinserimento sociale (ultimo accesso: 20 maggio 2018).
3 Il paragrafo, in sinergia con gli altri autori, è stato scritto da Luciano Carrino.
4 Il paragrafo, in sinergia con gli altri autori, è stato scritto da Alfredo Camerini.

DOI: 10.14605/EI1621809


© 2018 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo effettuata, se non previa autorizzazione dell'Editore.

Indietro