Quadro concettuale: i gesti[footnote]Livia Cadei è autrice dei paragrafi 1, 2, 7 e 8. Livia Cadei e Padma Ramsamy-Prat sono autrici dei paragrafi 3, 4, 5, 6.[/footnote]

La nozione di gesto è antica. Essa poggia i suoi significati nella nostra storia culturale e si avvale di una dimensione etica: il gesto accompagna il messaggio e veicola significati.

Nel linguaggio corrente il termine gesto è strettamente connesso al corpo in movimento. A questo proposito, Wulf (2007) sottolinea: «L’etimologia è chiarificatrice. La parola gesto proviene dal latino gestus che caratterizza in senso generale un movimento, un’attitudine corporale, e in senso particolare il movimento d’una parte del corpo, specialmente la mano. Gestus è il participio passato del verbo gerere, che significa “fare”, “comportarsi”. La parola gesto designa bene sia l’azione compiuta attraverso il gesto sia la rappresentazione che ne dà e che passa facilmente da un senso all’altro» (p. 89).

Il gesto quindi, è movimento ed espressione, azione e significato.

Più di un’azione semplice, però, il gesto è un’azione che impegna una parte del corpo per significare.

Il carattere motore del gesto rivela il registro dell’impresa e il significato riferisce della soddisfazione che gli attribuisce il suo valore di rappresentazione. In questo modo, possiamo comprendere l’affermazione di Marcel Jousse (2008, p. 27): «i nostri gesti ci creano». I gesti posseggono un potenziale significante quali rappresentazioni della realtà. Con un gesto si introduce un’azione, la quale si riferisce a categorie, a una classe di azioni che a loro volta rimandano a un referenziale.

I gesti significano e pertanto non si riducono alle azioni che le manifestano, ma le traducono in discorsi. Essi rappresentano la forma discorsiva e codificata dell’azione di competenza e le forme di potere-sapere dentro una pratica culturalmente e socialmente identificata. I gesti non sono fatti e hanno dimensioni strutturanti e simboliche. Nell’ambito professionale, il gesto introduce anche la sua dimensione interpretativa. Di là dall’apparire come un atto riflesso, meccanico, esso si carica di senso e immerge lo spettatore nello spazio della sua opacità (Jorro, 1998). La fattualità del gesto lascia emergere una relazione al mondo e una modalità di essere che rendono emblematici i sistemi di valori.

Alin afferma che i gesti «partecipano e costruiscono un’identità professionale» (Alin, 2010, p. 45) da esplorare insieme, ma anche oltre i codici funzionali. Nei gesti del mestiere è presente un dinamismo di aggiustamento e di accomodamento in cui si esprimono la disponibilità e la reattività dell’operatore. L’altro, il destinatario, diventa il soggetto della regolazione di questi stessi gesti attraverso comunicazioni di tipo verbale oppure segni di conferma o diniego.

Anne Jorro (2011) osserva linee e posture di riflessività nelle pratiche sia di supporto sia di conferma, attraverso le quali il professionista ha l'intuizione in merito all’importanza della situazione e che può richiedere un ulteriore scambio di approfondimento. La studiosa osserva anche la postura riflessiva con la quale il professionista rintraccia il significato nella propria pratica e la postura di regolazione/valutazione, che richiede l'applicazione di strategie alternative attraverso l’uso della conoscenza esperienziale per porle in atto in modo nuovo. Così inteso, allora, il gesto professionale rappresenta forme discorsive e codificate d’azione esperta, nell’ambito di una pratica culturalmente e socialmente codificata.

Su questa base di riflessioni, il presente contributo intende indagare in che modo e attraverso quali gesti professionali possa esprimersi e qualificarsi il lavoro dell’educatore volto ad accompagnare i richiedenti asilo. Il tema ci sembra assumere un certo interesse nell’ambito dell’educazione interculturale proprio per l’assenza di una semiotica di mestiere rivolta a questa specifica popolazione.

 

La professione educativa e il sapere d’azione

La crescente complessità e l’evidente varietà delle esperienze sociali e lavorative degli educatori professionali spingono a focalizzare l’attenzione della ricerca sui dilemmi e sulle tensioni che prendono origine in situazioni poco codificate, e anche sulle opportunità, sulle strategie e sulle negoziazioni con cui si trovano a lavorare gli educatori stessi (Cadei, 2017). Essi esercitano una professione che si manifesta tra norme pre­scritte e imprevedibilità. È difficile riuscire a raccontare la «parte sensibile dell’azione» (Cadei, 2017, p. 20), in un equilibrio tra la dimensione inesplicabile e quella misurabile. Come sapere d’azione, quello educativo rischia di essere ignorato, è prodotto nel vivo dell’azione, ma non è l’azione a produrlo.

Come per ogni altra professione, anch’esso elabora il proprio cor­pus di conoscenze, ma il sistema di standardizzazione della produzione scientifica non ha ancora reso disponibili modalità pertinenti per rico­noscere le profonde competenze di cui si avvale il sapere educativo. Non è quindi in questione la scoperta di tecniche o strumenti nuovi, lo è invece la praticabilità dei processi in grado di rendere esplicita la maestria di un sapere che si qualifica come pratico. Del lavoro educativo occorre fare emergere lo spessore dell’attività, la cui quotidianità è coniugata con l’imprevedibilità. Il lavoro educativo non necessita di per sé di una strumentazione distinta e il saper fare non risulta necessariamente inquadrato in un’e­laborazione discorsiva propria, ma richiede un posizionamento solido, che deriva da competenze esistenziali (Morin, 2015). La postura educativa ri­genera una cultura professionale articolando competenze riflessive, re­lazionali ed etiche, per fare fronte a situazioni variabili e a condizioni incerte.

Si tratta di un mestiere per il quale il passaggio dalla vita quotidiana alla vita professionale non è immediatamente distinguibile, nella misu­ra in cui l’esercizio educativo si stabilisce in tempi e spazi ordinari, at­traversati da riferimenti costanti a valori, rappresentazioni e significati. La difficoltà che gli educatori lamentano quando sono sollecitati a dire e a scrivere del loro lavoro è indice della complessità dell’azione, che attraversa il campo emozionale insieme a quello cognitivo, traccian­do lo spazio di lavoro tra il sé e l’altro. Afferma Michel de Certeau: «se l’arte di dire è per se stessa un’arte di fare e un’arte di pensare, può essere sia pratica sia teoria» (1990, pp. 118-119). Allora, la costruzione di senso del lavoro educativo richiede la capacità di stare nell’azione e di ritornare su di essa. Si stabi­lisce un movimento tra azione e pensiero in cui il lavoro quotidiano è lo strumento e non un fine in se stesso. Questo procedere tra l’ordinarietà della vita e la concettualizzazione teorica dà valore alla prassi educativa, si qualifica come capacità di raccogliere, nel vivo del quotidiano, una materia prima e propria, per produrre un sapere specifico sull’azione nel lavoro educativo.

Nel tempo e nello spazio quotidiano si giocano fenomeni discreti e brevi, che lasciano poche tracce, in cui si esercita una gestualità debole, non specifica, ma che appartiene alla professione educativa. La quotidianità sollecita l’operatore con un grado elevato di com­plessità dell’agire. Assumere il rischio che qualche cosa possa accadere nel tempo ordinario, dove per definizione non è atteso nulla di eccezio­nale, è un elemento fondatore della pratica educativa, che risulta difficile tuttavia da far riconoscere come gesto specialistico. L’agire professionale nei contesti ordinari invita a osservare il sapere che emerge da situazioni educative quotidiane. L’educatore è un creatore di circostanze che possono trasformarsi in situazioni educative portatrici di effetti. Con la sua opera, de Certeau apre la strada per una riflessione ricca sull’«invenzione del quotidiano» e sviluppa l’idea della creatività dei gesti ordinari.

«Le pratiche quotidiane rivelano un vasto insieme, difficile da delimitare e che a titolo provvisorio si può designare come quello delle procedure. Sono schemi di operazione e manipolazione tecniche. […] Mo­dalità per recuperare una tecnicità di tipo particolare, nello stesso tempo per situare lo studio in una geografia attuale della ricerca» (de Certeau, 1990, p.71).

È nell’atto quotidiano che si intrecciano l’essenza e la complessità della professionalità educativa. L’ordinario è poco pensato come asse di intervento in cui si legano e slegano i nodi dell’esistenza. I gesti partecipano alla costruzione di una cultura professionale, il lavoro educativo si inscrive in una «praxis, vale a dire in una ricerca di senso che mobilita l’autore permeabile all’azione, alle risorse e ai vincoli del contesto» (Jorro, 1998, p. 10).

L’ambito dell’accoglienza dei richiedenti asilo è saturo di prassi quotidiane, di azioni che si svolgono nei tempi e nei luoghi del presente e che implicano l’intervento di diversi attori. La presenza della figura dell’educatore richiama l’importanza dell’intenzionalità degli interventi e della loro progettualità.

 

La ricerca sul campo

La parte pratica della ricerca si è svolta da gennaio ad aprile 2017 in collaborazione con due associazioni che operano a Brescia, nell’ambito dell’accoglienza dei richiedenti asilo: la Fondazione Museke e l’Associazione ADL Zavidovići. Il progetto da realizzare è stato concordato con i direttori dei due centri, successivamente con i dirigenti sono stati condivisi il protocollo e i requisiti specifici. In particolare, abbiamo accompagnato, osservato e intervistato cinque educatori (due uomini e tre donne) durante il loro lavoro nei diversi siti operativi.

L’Associazione ADL Zavidovići è stata fondata nel 1996, per iniziativa spontanea di un gruppo di pacifisti riuniti nel Coordinamento Bresciano Iniziative di Solidarietà a seguito del protrarsi della guerra nell'ex Jugoslavia. In quegli anni è stata realizzata un’importante attività di volontariato a vantaggio delle popolazioni coinvolte nel conflitto. Quando nel 2000 l'Italia ha iniziato a organizzare un sistema organico per i richiedenti asilo provenienti da diversi Paesi, il centro ha avuto la necessità di strutturarsi e quindi ha iniziato ad assumere professionisti. L’Associazione oggi è composta da ventidue operatori, quindici dei quali lavorano a diretto contatto con i richiedenti asilo. La loro missione principale consiste nel favorire l’acquisizione da parte dei richiedenti asilo di un sufficiente grado di autonomia finanziaria e sociale. ADL Zavidovići si prende cura degli utenti nel programma SPRAR (Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati) e li accompagna nella loro crescita personale seguendoli negli appartamenti forniti dal comune di Brescia.

La Fondazione Museke nasce nel 1969. Dalla sua creazione a oggi la Fondazione si è concentrata sull’analisi dei possibili interventi da realizzare nei Paesi in via di sviluppo, con un particolare focus sul continente africano, in coerenza con gli scopi e i valori espressi nel suo Statuto. L’attività si è orientata principalmente verso il Burundi, con l’obiettivo di aiutare i poveri anche attraverso la promozione delle risorse locali. Nel centro operativo di Brescia sono presenti due dirigenti, due educatori, un assistente sociale e un certo numero di volontari. Nei suoi locali Museke accoglie e ospita otto richiedenti asilo dal programma CAS.

 

Metodo

La ricerca è stata preceduta da una fase esplorativa, seguita dalla raccolta dei dati tramite osservazioni sul campo e da interviste. Per la raccolta dei dati si è proceduto mediante osservazione delle attività degli operatori durante l'interazione con gli utenti presenti nei centri e l’annotazione degli elementi di interesse. Abbiamo seguito gli educatori professionali nel loro lavoro quotidiano. Ognuno di loro è stato accompagnato per mezza giornata, le osservazioni sono state effettuate in autonomia, ma ci si è avvalsi anche di interazioni dirette per chiarire il senso di alcune operazioni. I resoconti delle giornate sono stati riportati in diretta su supporto cartaceo.

Le visite condotte dagli educatori presso gli appartamenti in cui risiedono gli utenti iniziano esercitando compiti di verifica rispetto alla gestione delle attività domestiche quotidiane: dal controllo delle stanze e delle condizioni degli occupanti, all’ispezione della dispensa, del frigorifero e della cucina, il tutto accompagnato da una continua interazione verbale. La conversazione prosegue poi per discutere dei problemi di salute, delle difficoltà di carattere lavorativo e sociale. L’educatore si mostra molto attivo nel suggerire strategie per la ricerca e l’ottenimento di un lavoro e nello stimolare le persone a partecipare ad attività di socializzazione sul territorio. Le attività proseguono con le visite mediche, se ritenute necessarie, e successivamente ai richiedenti asilo viene offerto aiuto per studiare l'italiano, strumento primario per la socializzazione.

Presso l’associazione ADL Zavidovići è stato possibile osservare anche due situazioni non quotidiane: un giovane intervistato per il programma SPRAR e un altro nella sua costruzione biografica in vista dell’incontro con la Commissione Territoriale che deve valutare la legittimità della richiesta d’asilo. Entrambi i richiedenti asilo hanno offerto la possibilità di raccogliere i dati completi. Inoltre, le due interviste sono state realizzate in inglese. La scelta della lingua è stata dettata dalla possibilità di disporre delle competenze dell’intervistatrice (madrelingua) e dall’impiego veicolare della stessa da parte di operatori e richiedenti asilo.

Le interviste sono state condotte attraverso un approccio fenomenologico (Vermersch, 1994; 2011), con l’intento di comprendere l’azione e di permettere a ogni educatore di esplicitare la sua pratica. Il metodo impiegato è stato l’Entretien d'Explicitation (EdE) che consente l'elicitazione dell'azione. Lo psicologo francese in origine sviluppò il metodo come intervista micro-fenomenologica e, in seguito, ritenne necessario utilizzare interviste complete. L’EdE, inoltre, si riferisce al lavoro di Piaget per quanto riguarda la riflessione sull'azione e riporta il soggetto all'esperienza. Vermersch insiste però sul metodo peculiare, perché offre dati precisi sull'azione reale e non su una classe di azioni. L'interesse per l'azione reale richiede di descriverla e di verbalizzarla. Tuttavia, lo scarso vocabolario e le insufficienti competenze linguistiche della lingua di incontro (inglese) hanno reso complicato lo svolgimento di tale attività. L’educatore professionale ha impiegato gran parte del tempo nella ricerca delle parole necessarie e sia l'intervistatore sia l'intervistato hanno utilizzato un inglese troppo semplice per poter completare l'intervista. A seguito dell’attività di osservazione, abbiamo intervistato ogni professionista per circa un'ora; il tutto è stato registrato. La trascrizione è diventata un incrocio tra EdE e interviste complete.

 

Analisi

Per poter accedere al significato, sono stati incrociati i dati raccolti dalle interviste e quelli ricavati dalle osservazioni. La nostra riflessione su come analizzare i dati ci ha portati a prendere in considerazione l'analisi della conversazione (Kerbrat-Orecchioni, 2005) e più in particolare, la ricerca della stessa autrice sull'interazione interculturale (Kerbrat-Orecchioni, 2014). Il processo di analisi ha richiesto diverse riletture delle conversazioni trascritte in un primo tempo, e delle annotazioni tratte dalle osservazioni, in un secondo tempo. Abbiamo in seguito provato a realizzare degli incroci tra i dati trascurando gli errori grammaticali, la sintassi o le enunciazioni ripetitive; analizzeremo alcune parole e ci concentreremo sullo stile della comunicazione. I risultati che seguono mostreranno alcuni esempi nel merito.

 

Risultati

Alin (2010) ricorda che l’educazione attiene il dire e la capacità di trovare le parole giuste attraverso le riformulazioni. In effetti, la parola permette di far svanire l'incomprensione, di cancellare le pre-comprensioni e di dirigerci verso la comprensione. Per la presentazione dei risultati ricorriamo al modello di Alin (2010, p. 56) e presentiamo due situazioni che riportano altrettanti esempi di colloqui tra educatori e richiedenti asilo, il primo di preparazione all’incontro con la Commissione Territoriale, presso la quale il richiedente asilo dovrà presentarsi per l’esame della propria domanda di asilo, il secondo di accoglienza in un nuovo progetto.

 

Situazione n.1

L’educatrice ha invitato il richiedente asilo nel suo ufficio in presenza di una traduttrice con il compito di mediatrice; quest'ultima comunicava in una lingua bantu. Tuttavia, l'educatrice si è rivolta al richiedente asilo in italiano e lo ha guardato. Durante l'intervista che è seguita con il ricercatore, l'educatrice ha affermato: «Volevo che sapesse che il colloquio è tra lui e me» (Anna-2).

Il richiedente asilo è stato coinvolto in una narrazione di “apprendimento”. Il suo compito era mettere ordine nella sua storia, ed essere in grado di ripeterla prima dell’intervento di fronte alla Commissione Territoriale. La dimensione educativa di questo intervento si rintraccia nell’accompagnamento verso l’articolazione di un ordine narrativo e l’individuazione di elementi di specificità da comunicare attraverso la definizione di alcuni dettagli. Inoltre, l'uomo stava imparando a esercitarsi per l’intervista formale. Questa situazione ha rappresentato un esercizio di intervista simulata, nella quale egli ha avuto anche l’opportunità di comunicare attraverso il disegno, ovvero di accedere allo spazio di creatività per poter descrivere più compiutamente la sua storia, utilizzando forme simboliche come opportunità di espressione delle emozioni relative a parti del racconto difficili o dolorose.

Riguardo a questa tipologia di intervista sottolineiamo l’interesse eventuale di un impiego del discorso nello stesso tempo in lingua italiana e lingua in inglese. Si tratta di un’azione che può stabilire un ponte tra il paese di origine – la Nigeria – e il Paese ospitante – l'Italia. In questo modo, il richiedente asilo potrebbe ampliare le proprie competenze transitando dal Paese d'origine al Paese ospitante, provando a impiegare strumenti culturali diversi, sia nelle modalità sia nella lingua.

Ci è stata offerta anche l'opportunità di intervistare la mediatrice. La donna riporta la difficoltà riscontrata nel guardare il richiedente asilo negli occhi, che nel suo (nel loro) mondo rappresenta un chiaro gesto di scortesia. Culturalmente, lei è in grado di maneggiare gli strumenti di due culture, e riferisce questa condizione come posizione scomoda. Con riferimento alle osservazioni condotte in situazione, notiamo il suo gesto oculare molto chiaramente: in questo modo, rinforzando le affermazioni, puntualizzando, lei cerca di chiarire. Professionalmente, il gesto oculare consente la comprensione per valutare una situazione. Tuttavia, quando si riferisce in italiano all'educatrice, il disagio sembra allentarsi e lei non ce ne fa cenno. Probabilmente, lavorando nel Paese di residenza – Italia – può aver preso avvio una forma di meticciamento culturale e identitario. Il gesto dello sguardo richiede un’ulteriore precisazione. La norma da cui la mediatrice muove è che lo sguardo diretto negli occhi sia irrispettoso. Tuttavia, la donna pensa che qualcosa nella storia del richiedente asilo non sia chiaro e assume la decisione di trasgredire la regola. Ciò che può essere interpretato come una forma di adattamento alla situazione e a un’altra cultura si rivela necessario per ottenere informazioni sull'evento che si intende chiarire. Entrambi i professionisti (mediatrice e educatrice) sanno che la Commissione non accetterà una biografia incerta e tale trasgressione sarà necessaria per far luce su questo particolare evento. La tab. 1 sistematizza l’intervista con un richiedente asilo adattata dal modello di Alin (2010, p. 56)

 

atto tecnico

implicazione simbolica

gesti

campo d’azione

ordinare un evento 

esprimere disponibilità

occhi

conoscere il percorso biografico

domandare

aiutare 

orientare il corpo

educare

ripetere il racconto

prestare attenzione

ascoltare

imparare

scrivere il nome

veridicità

mano

imparare nello specifico

disegnare

riferire la difficoltà

mano

controllo delle emozioni

Riformulare

chiarire

discorso

essere specifico

controllo delle informazioni

controllare

discorso

raccontare la storia personale

impiego del mediatore

riconoscimento dell’identità (impiego lingua madre)

discorso

parlare con diversi interlocutori

domandare

Accettazione e accoglienza (lingua italiana)

discorso

comunicazione interpersonale

intervistare

Accettazione e accoglienza (lingua italiana)

occhi

esprimere disponibilità

Tab. 1: intervista sistematizzata dal modello di Alin

 

Situazione n. 2

In questa situazione è stata osservata l'interazione tra un’educatrice professionale e un giovane richiedente asilo in ufficio. Quest'ultimo era appena arrivato, proveniente da un altro centro di accoglienza, e stava ascoltando le spiegazioni relative al contratto SPRAR che avrebbe poi dovuto firmare. L’educatrice scorre ogni pagina e parla in italiano, che il giovane padroneggia, e cerca di chiarire cosa significa essere parte del progetto, quali siano le responsabilità e gli obblighi da entrambe le parti e così via. A volte il giovane annuisce, ma per lo più rimane in silenzio, per cui l’educatrice, più volte, gli rivolge la domanda: «Stai bene?» . Anche se può apparire che l’educatrice solleciti e cerchi di essere d’aiuto nell'interazione, le risposte non sembrano seguire tali tentativi. In effetti, il giovane rimane in silenzio. In questa interazione, il linguaggio non sembra rappresentare un problema dal momento che il richiedente asilo studia da tempo l'italiano e lo parla bene, come confermato dall’educatrice. Il richiedente asilo tiene lo sguardo basso. Questo gesto potrebbe riflettere l'elemento culturale di cui abbiamo parlato in precedenza? Osservando la situazione, notiamo sia la differenza di età sia la posizione dominante e subalterna dei protagonisti, in una modalità che non prevede alternativa. Il beneficiario resta in silenzio, forse perché non percepisce di poter essere decisore. Dopo aver sentito ripetere la stessa domanda molte volte, egli emette un profondo sospiro e, quindi, a questo punto ci chiediamo se la risposta (il silenzio) sia stata la risposta. Infatti, in forte contrasto con l’atmosfera di silenzio, il sospiro suona pesante e forte, chiaramente per esprimere un’intenzione. Sembra significare la possibilità ma non la volontà di rispondere. Non collabora, tuttavia, mentre l'educatrice continua il suo lavoro e, durante l'intervista realizzata a posteriori, dichiara che si rende conto della grande quantità di informazioni fornite e della necessità di avere tempo per farle proprie. L’educatrice sente che il giovane potrà parlare o esprimere i suoi sentimenti in seguito. In questo atto, notiamo due importanti elementi: il rispetto positivo incondizionato e la prontezza a comunicare quando ci si sente al sicuro. Questo è stato il loro primo incontro; l'educatrice è andata a prendere il richiedente asilo al centro di accoglienza di provenienza per accompagnarlo alla firma del contratto SPRAR solamente un'ora prima.

 

Gesti culturali

Con riferimento alla seconda situazione, si potrebbe qualificare il gesto dello sguardo come un gesto culturale trasposto in una cultura differente. Questo caso mostra un giovane richiedente asilo che sottoscrive il programma SPRAR. Nell’interazione con l’educatrice, il giovane risponde alle domande che gli vengono rivolte. Del suo interlocutore, l’educatrice ha qualche conoscenza: si tratta di un ragazzo di 19 anni che si trova in Italia da circa un anno e conosce la lingua italiana. L’educatrice gli spiega la procedura e le regole in italiano, ma il giovane non rivolge lo sguardo in modo diretto verso di lei, poiché probabilmente lo interpreta come un gesto irrispettoso. L’educatrice affronta una difficoltà anzitutto culturale, che registra in base all’osservazione del comportamento del ragazzo il quale continua a mantenere lo sguardo rivolto a terra. Allorché l’educatrice domanda all’interlocutore se vada tutto bene e se desideri bere dell’acqua, ci sembra di rilevare una tensione tra uno scarto culturale e il gesto di cura. Questa incomprensione è espressa dal fastidio (il ragazzo si muove sulla sedia) e dal sospiro. Si fa strada una prima incomprensione. Dal nostro punto di vista, può sopraggiungere una seconda incomprensione generata dal tipo di lavoro che l’educatrice deve realizzare adempiendo a un compito amministrativo. La ricerca di informazioni rischia infatti di essere incalzante e può essere percepita forse come un’aggressione a causa di una serie di domande poste.

 

Gesti etici

L’educatore professionale nella maggior parte delle situazioni attua dei comportamenti di alta considerazione nei confronti dell’utente. Le principali forme attraverso le quali ciò è riscontrabile sono il rispetto dell'altro e dei suoi comportamenti di autonomia. Pertanto, nonostante l’esigenza avvertita dall’educatore di adempiere al compito amministrativo, il suo intervento di aiuto appare chiaramente attraverso la sua attenzione volta a garantire il rispetto personale degli interlocutori. Nello specifico, abbiamo osservato queste situazioni nei momenti di visita dell'appartamento. I cinque educatori si esprimono compiendo evidenti gesti etici, che sembrano essere parte integrante della pratica lavorativa, poiché la cura e il rispetto dell'altro sono indicatori di comprensione ed empatia. L’attenzione degli educatori si esplicita anche attraverso il rispetto degli spazi privati in cui il richiedente asilo si muove, in particolare nella camera da letto: bussare, chiedere il permesso di entrare e lasciare sola la persona se richiesto o ritenuto necessario. Ecco alcune frasi che rivelano la dimensione etica dei gesti: «Siamo sempre d'accordo che sono liberi di rispondere al telefono, hanno la loro privacy... non dovrebbero sentirsi obbligati...» (Alphonso-2); «Se stanno dormendo, chiudo la porta...» (Vincenzo-5); «Ogni volta, busso alla porta» (Giulia-3).

 

Attività

Significato

Take to doctor

Ask about health

Give medicine

Make sure they have food

Explain treatment     

Teach Italian

Create awareness

Counsel on work options

Networking    

Find community work

Find work      

Prepare biography

Prepare future

Educate

Care

 

 

 

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Tabella 2: Attività dell’”aiutare” e suoi significati

 

Queste diverse azioni mostrano come l’espressione cura implichi numerosi significati. Notiamo come la quantità di tempo o energia fornita alla specifica azione possa essere diversa tra le varie attività. Inoltre, la priorità assegnata all'attività giustificherebbe anche la scelta dell'azione intrapresa.

 

Discussione

Lo studio condotto in fase esplorativa ha inteso comprendere come l’educatore, al di là delle risposte individuate per fare fronte alle necessità date dalla situazione contingente, riesca a rendere efficace la relazione tra persone provenienti da ambienti socio-culturali differenti. Questa ricerca ha posto in evidenza le difficoltà presenti nella comunicazione tra educatori e la specifica tipologia di utenza contraddistinta dai richiedenti asilo. Semplici espressioni in lingua inglese sono state sottoposte ad analisi per comprendere i significati, riformulando le espressioni dell’educatore. Ne deriva che la complessità delle relazioni educative può essere riconsiderata alla luce dell’impiego dei gesti. Questi ultimi, infatti, attraverso l’espressione motoria e mimica, veicolano rappresentazioni, assumono importanza nell’organizzazione del pensiero e arricchiscono quindi il lavoro degli educatori. Le interazioni regolari e la disponibilità sono apparse cruciali perché rappresentano il mezzo principale con cui l'educatore può raccogliere dati sulla vita del richiedente asilo (passato e presente). Pertanto, la creazione di una relazione, il manifestare le conoscenze relazionali e il compiere gesti amichevoli sono parte importante del lavoro educativo.

Le attività di controllo e le attività educative vengono svolte in parallelo. Nello stesso tempo, durante la pratica educativa, il professionista si assicura di verificare le informazioni che costituiscono la storia del richiedente asilo e di raccogliere collegare parti di narrazioni nel corso nella vita quotidiana. Il duplice intervento è a sostegno dell’elaborazione del progetto personalizzato del richiedente asilo.

 

Conclusione

In questo articolo viene descritta l’attività educativa realizzata nell’ambito dell’accoglienza dei richiedenti asilo e rispetto ad essa ci si interroga sulle modalità con cui gli educatori svolgono i compiti loro assegnati, con una particolare attenzione all’impiego dei gesti, intesi come principale strumento di relazione e di comunicazione in situazione di difficile interazione di tipo verbale. I gesti hanno valore ulteriore rispetto a quello linguistico e giocano sul terreno dell’evocazione, suscitano rappresentazioni e sono portatori di messaggi impliciti; compongono una sorta d’accompagnamento ai mezzi espliciti di comunicazione poiché la varietà dei movimenti è più ampia e permette di osservare molteplici aspetti nello scambio reciproco.

Nell'interazione, rivolgendosi all'altro, il corpo esprime un messaggio completo. Alcuni gesti definiscono il quadro di riferimento del discorso, il che significa che il gesto dice il discorso e, quindi, la frase verbale risulta non essere chiusa in se stessa, ma ne risulta arricchita. Nel nostro studio, il tema della cura e della promozione dell’autonomia viene supportato da gesti etici che dicono il discorso. Nell’interazione lo sguardo, gesto degli occhi, incontra i significati culturali ed etici. Lo sviluppo ulteriore di ricerca nella direzione dello scambio che intercorre tra educatori e richiedenti asilo ci sembra promettente per l’avvio di un processo di vero scambio interculturale.

 

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