Test Book

Esperienze e progetti / Experiences, programmes, projects

Gruppi di supervisione: uno sguardo dentro e fuori l’accoglienza
Supervision groups: a look inside and outside migrants’ reception

Nicola Policicchio

Psicologo psicoterapeuta a orientamento analitico. Libero professionista si occupa di clinica, formazione e supervisione anche in ambito SPRAR


Autore per la corrispondenza

Nicola Policicchio
Indirizzo e-mail: nicola.policicchio@gmail.com
Libero professionista



Sommario

Il fenomeno della migrazione ha assunto negli ultimi anni una consistenza numerica e una rilevanza sociale molto elevate, generando una serie di narrazioni contrapposte all’interno della società. In questo lavoro si cerca di esplorare la potenzialità del gruppo di supervisione di operatori dei servizi di accoglienza di offrire modelli adeguati per la comprensione e l’interazione tra i discorsi pubblici sul tema della migrazione forzata. Alcuni particolari modelli di riferimento tratti dalle teorie psicodinamiche sugli individui e sui gruppi possono fornire elementi di comprensione per le componenti emotive e inconsce che coesistono alle argomentazioni razionali all’interno di queste narrazioni. Partendo dalla partecipazione a diversi incontri di supervisione, sono stati evidenziati alcuni temi ricorrenti e si sono indicate alcune similitudini con i discorsi pubblici. Si è anche osservato che alcune polarità non conciliabili nelle narrazioni sociali vengono invece integrate e elaborate dalle équipe durante i percorsi di supervisione, riuscendo a aumentare la coesione dei gruppi di lavoro e a trovare strategie di intervento condivise. In conclusione vengono evidenziati alcuni limiti attuali e vengono proposte linee di ricerca per approfondire questa area di studio.

Parole chiave

Migrazione, narrazione, inconscio.


Abstract

The phenomenon of migration has taken on a numerical significance and a very high social relevance over the last few years. This has generated a series of opposing narratives within society. In this paper an attempt is made to explore the potential of the supervision group for reception service operators to offer appropriate models for understanding and interaction between public speeches on the issue of forced migration. Certain reference models drawn from psychodynamic theories on individuals and groups can provide elements of understanding for the emotional and subconscious components that coexist with the rational arguments within these narratives. Based on participation in various supervision meetings, several recurring themes were highlighted and some similarities with public speeches were revealed. It was also observed that certain polarities, which are non-reconcilable in social narratives, can instead be integrated and elaborated by the teams during the supervision programmes, resulting in an increase in the cohesion of the working groups and the finding of shared intervention strategies. Finally, current limits are highlighted and research guidelines are proposed to further analyse this area of study.

Keywords

Migration, narration, the subconscious.


Introduzione

La migrazione è un fenomeno che, oltre ad avere una sua dimensione effettiva, i cui flussi nel reale sono conoscibili attraverso i dati, contemporaneamente si dispiega anche su piani diversi, caratterizzati da influenze culturali, sociali e personali, non sempre immediatamente evidenti nelle loro molteplici derivazioni. La variazione effettiva degli ingressi di persone straniere in Italia nell’ultimo periodo sembra essere più qualitativa che quantitativa (Faso e Bontempelli, 2017), ma si è contestualizzata in un periodo di instabilità economica ed è stata sottoposta a una profonda variazione degli elementi culturali con cui viene interpretata.1

All’interno di questa cornice politico culturale si polarizza una forte dicotomia tra compassione e repressione nei discorsi e nelle pratiche attinenti alle politiche migratorie (particolarmente nell’interazione con la migrazione forzata) (Fassin, 2005). Attraverso la condivisione dello stato di scarsità e di insicurezza si ridiscutono, in una più ampia accezione, il livello dei diritti individuali garantiti e l’ampiezza delle popolazioni che possono goderne. Nel campo sociale si attivano quindi differenti rappresentazioni, categorizzazioni e identità che, attraverso l’influenza affettiva sulle cognizioni e l’evocazione di correnti di emozioni collettive, possono alimentare immagini distorte e giudizi inesatti sul fenomeno2 e influenzare i comportamenti politici.3 Attualmente, inoltre, la normativa nazionale ha ridotto le possibilità di accesso legale da parte dei migranti, portando la maggior parte delle persone che vogliono avere la possibilità di poter ottenere un permesso di soggiorno di fare richiesta di protezione internazionale, accedendo contestualmente ai servizi di accoglienza dedicati.4 Il ricorso massivo a questo tipo di procedura, ha comportato un forte aumento delle strutture e dei progetti dedicati all’offerta di posti in accoglienza. Tale andamento ha reso più macroscopici gli elementi di contraddizione e di ambivalenza del sistema, sia attraverso gli effetti diretti del più ampio numero di persone coinvolte, che in conseguenza dell’ingresso in tempi estremamente ridotti di un’elevata quantità di soggetti (sia come operatori che come gestori) privi di pregressa formazione o esperienza, non essendo sufficienti a gestire questo incremento le risorse precedentemente impiegate nel settore.

Il sistema destinato all’accoglienza per i richiedenti asilo, rifugiati e destinatari di protezione sussidiaria è composto da una molteplicità di progetti afferenti alla rete ordinaria e straordinaria. L’insieme eterogeneo che ne è derivato si pone come crocevia di intenzioni differenti, attivando una serie di risorse non omogenee sia nell’ambito delle istituzioni, che all’interno del terzo settore. Tale condizione è stata resa più evidente dall’ampliamento riscontrato a partire dalla cosiddetta «Emergenza Nord Africa», che ha cooptato realtà non storicamente dedicate al rapporto con i migranti e ha richiesto l’impiego di un’ampia fascia di personale non specificamente formato e di esperienze professionali varie, creando un campo di prassi di intervento non omologate.5

 

La supervisione nelle accoglienze

A causa della complessità dell’intervento all’interno dei progetti di accoglienza, lo spazio di supervisione viene considerato obbligatorio nei progetti SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) e spesso richiesto nei bandi dei progetti CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria). Obiettivo di questi interventi è «offrire un servizio di supporto di gruppo (e, se necessario e programmato, individuale) sulle difficoltà emotive, relazionali e organizzative che possono sorgere in ambito lavorativo, sia con i beneficiari che con i colleghi» (SPRAR 2015, p.17).

Sempre all’interno del medesimo manuale, che viene utilizzato come riferimento nella definizione delle prassi operative nella maggior parte dei progetti di accoglienza in Italia, l’ambito della supervisione è quello della prevenzione dei fenomeni di burn-out, di tutela della motivazione e dello sviluppo professionale da una parte, l’analisi delle metodologie di lavoro, l’integrazione di ruoli e funzioni, il miglioramento dei servizi dall’altra. La presa in carico degli elementi emotivi viene quindi considerata essenzialmente come elemento funzionale all’efficienza dei progetti e alla tutela degli operatori. È possibile tuttavia che esistano ulteriori livelli di lettura dei processi e delle dinamiche generate all’interno degli spazi di supervisione e che, attraverso questi, possano essere ipotizzati dei modelli interpretativi per alcuni fenomeni riguardanti il mondo della migrazione e dell’accoglienza che avvengono al di fuori dei gruppi di lavoro, che si affianchino e integrino quelli attualmente maggiormente utilizzati.

 

Aspetti inconsci individuali

Alcuni punti di riferimento preliminari possono costituire una base per provare a delineare una cornice euristica che permetta di orientare queste ipotesi; la scelta di questi parametri è ovviamente limitata rispetto alle lenti possibili e andrà in parte a influenzare anche ciò che potrà essere osservato. Va tenuto in considerazione che il gruppo degli operatori (anche nella propria eterogeneità interna) per tutta una serie di variabili non è rappresentativo della popolazione generale. Ad esempio, rispetto alle idee sulla migrazione, nella maggior parte dei casi, chi sceglie di lavorare nel terzo settore ha motivazioni consapevoli di tipo politico e ideologico che influiscono sul proprio posizionarsi in maniera non casuale all’interno del discorso in questione. Va inoltre considerata la particolare condizione materiale e lavorativa di queste figure.6 Tuttavia, al di là delle motivazioni coscienti esistono alcuni aspetti meno consapevoli che influiscono significativamente sulle percezioni, idee e atteggiamenti in maniera implicita e che, in questa parte, possono costituire un’area comune con il resto della comunità. Inoltre è possibile individuare alcuni temi più profondi, di ordine esistenziale, in cui il confronto e le reazioni rispetto all’incontro col diverso, con la sofferenza, con l’esercizio del potere, con l’ingiustizia, con il conflitto, con la crisi delle aspettative legate a propri valori, mettono in luce per affinità o per contrasto elementi simili presenti nell’ambiente relazionale allargato. Potrà essere utile riferirsi anche ad alcuni aspetti connessi all’inconscio psicodinamico, capaci di mettere in luce alcuni movimenti conflittuali che possono influenzare attraverso spinte e reazioni difensive i pensieri e i comportamenti dei singoli e dei gruppi, senza necessariamente darne evidenza diretta. Sono, tra gli altri: temi connessi all’identità e all’appartenenza (nelle loro declinazioni più solide e in quelle più fragili), aspetti legati ai fenomeni di proiezione, identificazione, ambivalenza; si intrecciano, inoltre, alla variabilità della declinazione del rapporto con il Sé e con l’altro, sia nelle proprie fattezze più riferite agli oggetti del mondo esterno, che in quelle più legate alle dimensioni e alle leggi del mondo interno.7

 

Il gruppo come elemento di visione globale

Oltre agli aspetti più intimamente individuali, la conformazione di gruppo permette l’accesso a ulteriori aree significative attraverso alcuni modelli peculiari. Yalom e Leszcz (2005) ricorda come un gruppo che interagisce liberamente tende a trasformarsi in un microcosmo sociale.8 Questo permetterà di agire nel gruppo, al di là della propria scelta consapevole, anche parti che verrebbero omesse nel proprio discorso autodescrittivo volontario. Un altro concetto utile può rivelarsi quello di matrice, come inteso nella gruppoanalisi foulksiana. Essa da una parte fa riferimento alla «rete di tutti i processi mentali individuali, il mezzo psicologico in cui si incontrano, comunicano e interagiscono» (Foulkes e Anthony, 1998, p. 24), dall’altra ha a che fare con i valori culturali introiettati.9

La stessa teoria quindi fa riferimento a una sfera transpersonale inconscia, sovraindividuale e capace di «dirigere e significare le emozioni e le scelte del soggetto da parte del mondo da cui viene concepito» (Lo Verso e Papa, 1995, p. 174). Nella stessa opera gli autori ne delineano diversi livelli: biologico genetico, riguardante ciò che attiene alla gruppalità e alla comunicazione in quanto specie specifico e che accomuna gli esseri umani in quanto tali; etnico-antropologico, connesso alle differenti culture e nazionalità; transgenerazionale, concernente il mondo culturale familiare; istituzionale, relativo alle appartenenze attuali del soggetto; sociocomunicativo, legato agli aspetti più orizzontali e prossimali di relazione.

Proseguendo in questa breve panoramica, all’interno del gruppo è possibile osservare, fenomeni in cui, in maniera analoga alla risonanza acustica, attraverso alcuni temi, fantasie, sentimenti si produce un contatto emotivo profondo e una vera risonanza tra due o più persone (cfr. Neri, 2004). Inoltre si producono fenomeni di rispecchiamento secondo l’accezione di Pines in cui «ogni membro del gruppo, nell’interazione, vede se stesso o parti di sé riflesse dagli altri, attraverso le loro reazioni, le loro risposte, i loro comportamenti» (Neri, 2004, p. 309).

Anche attraverso tali interazioni tra i partecipanti si produce un’ampia e profonda comunicazione tra le matrici individuali e quella dinamica gruppale, permettendo l’emersione e l’elaborazione condivisa di temi afferenti a diversi livelli del mentale. Questo tipo di peculiarità consente al gruppo di diventare uno spazio particolarmente fertile per rappresentare al proprio interno un campo che, oltre a poter rappresentare il proprio qui e ora, ripropone temi e assonanze che (in concomitanza a processi proiettivi e identificativi) possono gettare luci su processi e dinamiche di gruppi altri (ad esempio quello dei beneficiari accolti o quello della comunità con cui i diversi membri hanno contatto o contiguità transpersonale).

Il pensiero di gruppo supera i limiti di quello individuale (secondo le teorie di campo è altresì maggiore della somma delle individualità) e, attraverso la compresenza di più soggettività, si pone come naturalmente capace di rappresentare la complessità: le diverse risonanze di ciascun membro e le loro interazioni possono costituire una sorta di geografia mentale, rappresentazione delle dinamiche e dei processi esterni.10

Questi elementi di ordine più emotivo e affettivo si intrecciano costantemente con le tracce riportate nel discorso collettivo di interazioni dei membri del gruppo con altre realtà: beneficiari, istituzioni, reti sociali, comunità, creando una costante dialettica tra processi del concreto e del mentale, dell’interno e dell’esterno. Il gruppo inoltre permette un osservatorio privilegiato per comprendere alcune dinamiche spesso correlate ai processi di accoglienza, come quelle di appartenenza e esclusione, capro espiatorio, la dinamica ingroup/outgroup, assunti come la dipendenza, l’attacco o la fuga, l’accoppiamento. Anche alcune fasi legate a sentimenti di onnipotenza e di impotenza con le corrispondenti onde di idealizzazione e svalutazione sono facilmente percepibili nella vita dei gruppi.

 

Esperienza pratica

Le riflessioni qui riportate derivano dall’esperienza di supervisione a cadenza periodica condotta con diversi gruppi di lavoro sia del circuito SPRAR che CAS per progetti di accoglienza di differenti dimensioni: da centri collettivi medio-grandi (con più di cinquanta persone) a gruppi appartamento, situati in diverse località nelle regioni Liguria e Emilia Romagna nel periodo compreso dal settembre 2015 al dicembre 2017. I gruppi di scambio verbale sono condotti da un terapeuta formato in psicologia analitica individuale e di gruppo, in modalità non direttiva, senza un utilizzo stretto di particolari tecniche di conduzione.

Prendendo in considerazione ed esplicitando per brevissimi tratti (che non hanno pretesa di essere esaustivi) alcuni dei temi emersi durante le discussioni all’interno dei gruppi di supervisione, si proverà a indicare alcuni echi che sembrano risuonare dinamiche simili all’interno del dibattito sociale. Ognuno di questi argomenti mostra valenze pratiche immediate, che costituiscono in sé motivo di renderli oggetti di attenzione per i gruppi. Tuttavia il dibattito intorno a ciascuno degli stessi sembra elicitare parallelamente dei movimenti emotivi, che riverberano al di là dei confini concreti del tema trattato e che lo caricano di valore aggiuntivo e di enfasi in maniera evidente.

Si potrà notare come ciascuno di essi si intrecci a vari livelli con altri, a sottolineare il fatto che la loro divisione è più funzionale a una riduzione scritta che a una rappresentazione accurata di realtà multidimensionali. Questo non impedisce l’individuazione di polarità antitetiche all’interno dei temi osservati, che spesso rimangono nei discorsi pubblici in forma di elementi contrapposti e difficilmente portati a un’elaborazione più approfondita. Il gruppo di supervisione offre invece all’équipe la possibilità di uscire da una modalità potenzialmente scissa in cui ciascuno porti avanti le azioni secondo una propria prospettiva. Attraverso gli scambi, l’interazione e un clima favorito dalle specifiche regole di conduzione, riesce a fare incontrare i differenti punti di vista e creare delle visioni più duttili ed elaborate, permettendo interventi più adeguati alle caratteristiche (anche contraddittorie) delle singole soggettività, arricchendo la cultura e la matrice dinamica del gruppo di lavoro. Tale processo non intende eliminare le ambivalenze e le contraddizioni, ma aiuta il gruppo a esplorarle in maniera più versatile e dinamica per creare immagini mentali più sfaccettate, avvicinandosi in maniera più adeguata alle specifiche situazioni di cui ci si sta occupando, valorizzando a tale fine componenti derivanti dalle diverse prospettive compresenti.

 

Chi sono? Chi ho di fronte? Le riflessioni sul ruolo e l’identità sono molto sentite. Le appartenenze politiche e ideologiche da cui provengono gli operatori tingono in maniera significativa l’immagine di sé e delle persone accolte. Le ambivalenze vissute sono molte: da chi ritiene assistenzialistico e infantilizzante l’approccio supportivo, a chi invece vive con apprensione il proprio ruolo paternalistico di controllo. Si percepisce senso di colpa nell’appartenenza (o nella percepita collusione) con un sistema in cui non ci si riconosce e viene sottolineata la liceità di un atteggiamento utilitaristico da parte dei beneficiari giustificato dal diritto del migrante e della riparazione della storia coloniale pregressa, ma si sente come fastidioso l’atteggiamento passivo e rivendicativo evidenziato da alcune delle persone accolte. Si indagano anche i contorni di queste identità, dove gli aspetti professionali e quelli più personali hanno aree sfumate, interpretate in maniera differente dai singoli, che fanno reagire il resto del gruppo portando tutti a interrogarsi sul taglio migliore da dare al rapporto. Nella retorica collettiva alcune prospettive si concentrano sugli aspetti bisognosi e vittimizzanti, sollecitando il supporto verso i migranti; altre visioni vedono nei nuovi arrivi risorse preziose per il sistema ospite che ne trarrà beneficio, come argomentato ad esempio attraverso comparazioni demografiche. Da una parte viene sottolineata la necessità di dare una forte direzione e controllo, mentre dall’altra si sottolineano gli aspetti di autodeterminazione che quindi spingono per una forte emancipazione.

 

Cosa dovrei fare? Cosa dovresti fare? Cosa ci sarebbe da fare? Le aspettative mobilitano grandi cariche emotive e affettive in tutti gli attori presenti nel campo dell’accoglienza. Da una parte i beneficiari si muovono all’interno di un progetto migratorio più o meno definito e nutrono diverse attese rispetto al luogo di arrivo (magari in alcuni casi anche solo quella di poter proseguire il viaggio, scontrandosi con una serie di vincoli dovuti a leggi e regolamenti).[11 Questa parte si mescola a quella precedente sull’identità, creando uno spazio di dibattito tra il concetto di migrante come portatore di un bisogno, quindi definito semplicemente dalle sue necessità, o come legittimato al desiderio, quindi nella prospettiva di poter portare una propria soggettività critica.

Anche gli operatori portano con sé una serie di aspettative, in parte determinate da alcuni loro valori e convinzioni. In generale si osserva una spinta a riconoscere le necessità di tipo concreto e materiale, con una maggiore difficoltà a concepire istanze di tipo simbolico o afferenti al mondo interno. Le aspettative (sia dei migranti, sia di chi lavora nelle accoglienze) si legano frequentemente a intensi sentimenti di illusione e, altrettanto spesso, al contatto con la realtà, di intensa disillusione, con percezione di inadeguatezza di sé o dell’altro e, a volte, reazioni rabbiose auto o eterodistruttive e/o vissuti depressivi. I desideri (e in valenza negativa, i timori) mescolano esperienze reali del passato, elementi conosciuti con aspetti invece più interni, determinati da tracce spesso inconsce e affettivamente significative. Questo tipo di dicotomia lascia traccia nelle comunicazioni di militanti di stampo opposto, che tendono a dare ai propri messaggi una valenza emotiva più che informativa. In quest’ottica sono riscontrabili elementi affettivi di questo ordine compresenti alle tonalità allarmate rispetto ai nuovi venuti, ma anche in alcune modalità acritiche di rivendicazioni di diritto e tutela, che echeggiano immagini interne negative o positive legate ai migranti.

 

Storie, fiducia e verità. Una delle conseguenze dell’attuale sistema di accoglienza è che il diritto a soggiornare legalmente nello stato ospite è vincolato al parere di una commissione e, in seconda istanza, al giudizio di un tribunale. Questo determina la necessità di presentarsi con una storia che possa essere valutata come adeguata a riconoscere il diritto ad avere un documento di soggiorno. Contemporaneamente, molti operatori sostengono che la relazione sia un elemento cardine per poter portare avanti in maniera significativa i percorsi all’interno dei progetti e quelli di inclusione sociale, richiedendo a questo fine elementi di autenticità e di reciprocità. Per chi lavora si apre un campo di relazioni in cui si è legati da una parte ai migranti e dall’altra all’istituzione, potenzialmente portatori di interessi contrapposti. Queste pressioni divergenti pongono sotto stress ruolo e identità, mettono in gioco processi interni di identificazione e/o di contrapposizione con l’autorità e rimettono in discussione desideri e timori legati alla vicinanza e alla fiducia. Nel livello sociale tali sentimenti influenzano le persone che tendono a fidarsi dell’istituzione e quelle che invece sono spinte a opporvisi. Rispetto alla ripercussione della sensazione di fiducia di base, alcuni saranno propensi a sospettare sistematicamente del racconto portato dall’altro, altri si sentiranno portati più regolarmente a una posizione di apertura, ma con un atteggiamento poco bilanciato nell’enfatizzare un polo di questa dialettica oscurando l’altro.

 

L’apprendimento della lingua. Concomitante con questo tema spesso oggetto di discussione è l’opposta tendenza del chiedersi a quale parte tocchi la responsabilità del processo di avvicinamento. Da una parte viene richiesto al migrante di tornare (in alcuni casi di andare per la prima volta) a scuola, dall’altra ci si sforza attraverso le competenze linguistiche dell’équipe o grazie all’esplicito impiego di mediatori culturali di parlare la lingua dell’altro. Per alcuni è più immediato sintonizzarsi con le difficoltà di acquisizione mostrate da diversi migranti, dovute a una serie di problematiche affettive o cognitive, per altri è più evidente la frustrazione per lo scarso impegno mostrato e la limitata partecipazione ai corsi. Il linguaggio muove temi inconsci connessi all’appartenenza e viene interpretato come elemento centrale dell’espressione della volontà di inserirsi. Si manifestano differenze rispetto a tempi, modi e priorità con cui questo passaggio (dall’indubbia utilità pratica) dovrebbe entrare rispetto al progetto di inclusione. Si crea una forte dialettica anche con diversi beneficiari dei progetti il cui obiettivo urgente è il lavoro e che tendono invece a svalutare l’importanza della conoscenza della lingua, portando in evidenza, tra gli altri determinanti, la differente pressione esercitata dalle necessità immediate e dai traguardi a lungo termine. Nel discorso collettivo questa differenza si mostra nella retorica che sottolinea il dovere della gratitudine e della «buona volontà» da parte dei migranti, che si contrappongono ai discorsi che pongono in evidenza la necessità riparativa da parte della nostra società, da compiersi con uno sforzo nell’inclusione. Si crea in maniera concomitante un’opposizione tra un’immagine di integrazione in cui le persone si assimilano alla società di arrivo portando solo elementi di differenza collaterali (frequentemente folkloristici, spesso legati al cibo e alla socialità) e una in cui l’inserimento pone maggiori conflittualità culturali e problemi di riorganizzazione complessiva del corpo sociale, interrogandolo fortemente sul suo stato di coerenza e di giustizia interna.

 

Tempo, impegno e parcheggio. Il tempo costituisce un piano trasversale di confronto in cui le diverse realtà coinvolte si trovano a confrontarsi su piani di differenze quasi incommensurabili. Il tempo della procedura con la relativa incertezza sull’esito, i tempi ammazzati in cui si percepiscono i migranti non sufficientemente impegnati nelle attività del progetto o nella ricerca attiva di soluzioni per il proprio futuro, i tempi in cui il progetto non offre opportunità. Questo riporta l’attenzione sulle emozioni legate alle aspettative, con forti aspetti proiettivi mobilitati. È correlato al binomio attività e inazione che attiva fantasia di onnipotenza e impotenza e interroga sul senso di agency e locus of control. Sotto un altro punto di vista è la declinazione del tempo emergenziale, vissuto come critico quando orientato dall’istituzione, ma poi introiettato in una modalità schiacciata sul concreto e sulle necessità immediate. La percezione del tempo infatti viene anche fortemente influenzata da stati psicologici come, ad esempio, quelli ansiosi o depressivi. Ci si confronta anche con una percezione del tempo culturalmente determinata e con la difficoltà a mettere insieme i tempi dell’inclusione con i tempi sociali, ad esempio quelli del mercato. A livello sociale si percepisce la difficoltà nella concezione di scansioni temporali diverse. Nelle narrazioni più comuni si tende a definire un tempo prioritario rispetto al quale gli altri dovrebbero essere declinati e conseguentemente svalutare le differenze, ad esempio si tende a colpevolizzare i migranti che sembrano gestire il tempo in maniera incoerente rispetto alle richieste che portano. Si evidenziano discorsi centrati in maniera estrema (favorevole o contraria) alle letture emergenziali del fenomeno.

 

Lo sporco e il conflitto. Il tema della pulizia, come capacità di gestire lo sporco prodotto nello spazio che viene assegnato, rimanda fortemente alla serie di sensazioni negative che possono emergere nell’incontro. Ci si scontra con la diversità dei parametri rispetto a ciò che all’interno di una cultura viene considerato accettabile o positivo e viene invece biasimato in un’altra. Ci si interroga su quale punto di riferimento possa essere più giusto prendere in considerazione e questo muove tutta una serie di investimenti che hanno a che fare con il nostro sistema normativo interiorizzato e il rapporto che abbiamo con il potere e le funzioni di controllo. Sono tematiche particolarmente sensibili che facilmente creano tensioni legate all’aggressività e alla paura. Spesso queste aree si connettono a timori di contagio o a profondo senso di ripulsa. In maniera per certi versi simile alcuni flussi emotivi si attivano rispetto alla percezione della sofferenza e dell’angoscia provocando tensione, difficoltà e chiusura spesso correlata alla fantasia dell’incapacità di contenimento e di rottura del limite. Queste paure legate a stati di pensiero primario sono alla base di molte retoriche xenofobe e si percepiscono, attraverso alcuni atteggiamenti impliciti, presenti anche in posizioni più moderate.

 

Conclusioni

Ciò che è risultato evidente dall’esperienza è quanto possa essere difficile e poco efficiente cercare di mettere insieme questo tipo di prospettive su un piano puramente razionale e teorico. Data la valenza emotiva e affettiva che ciascuna di queste aree andava a sollecitare, è diventato fondamentale costruire un apparato capace di far emergere, contenere ed elaborare i contenuti anche dal punto di vista relazionale e di consentire l’attraversamento delle conflittualità in maniera sostenibile e tollerabile per i diversi membri. Questo è stato necessario in primo luogo come tutela di un clima di ascolto, comunicazione e cooperazione tra colleghi. Una delle caratteristiche fondamentali di tale dispositivo è stata la tutela di un senso del tempo non invaso dalle urgenze operative e la messa tra parentesi delle pressioni verso l’emergenza. È stato parimenti importante allargare l’attenzione che tende a essere concentrata in particolare sugli aspetti concreti, immediati e operativi, colludendo con aspetti legati a meccanismi di rimozione e diniego, permettendo l’esplorazione di fattori più emotivi che inizialmente più facilmente venivano riferiti a un ambito personale e non professionale. Si è manifestata l’utilità di esplorare le interconnessioni tra affettività e percezione, portando alla consapevolezza di come anche alcuni dati che sembravano incontrovertibili erano frutto di interazioni molteplici tra fattori cognitivi e affettivi, quindi passibili di diversi punti di vista di pari dignità. Queste affermazioni teoricamente di dominio comune sono state conquistate nella pratica solo attraverso percorsi di interazione e elaborazione condivisa, non immuni da transiti attraverso elementi emotivi e affettivi difficili e dolorosi dal punto di vista personale. Un assetto così strutturato ha permesso non solo una maggiore comprensione del messaggio trasmesso dall’altro, ma anche e, per certi versi soprattutto, una più ampia consapevolezza di ciò che prende origine dal proprio sé, nelle implicazioni, nelle strutture e nelle radici attinenti ai propri contenuti e concezioni. Questa coscienza approfondita, oltre a permettere la creazione di modelli mentali più adeguati, ha consentito l’emersione di determinanti comuni di base, su cui riprogettare insieme interventi che sembravano avere inizialmente modalità inconciliabili. È stato osservato nei gruppi che la presenza agita, ma non esplicitata e elaborata, di contenuti non detti risulta capace di impedire il divenire del pensiero e di attaccare il legame, mettendo in discussione la possibilità stessa di lavoro comune. Un tipo di dinamica simile potrebbe verosimilmente influenzare anche i processi di accoglienza, inclusione e interazione con i migranti. La potenzialità offerta dal gruppo di supervisione nell’elaborazione di tematiche complesse e conflittuali sembra in definitiva poter offrire un valido modello per la discussione e l’analisi delle narrazioni legate alla migrazione. Molte delle determinanti di tali discorsi e rappresentazioni sembrano infatti incardinarsi in parti della personalità e dell’apparato mentale più difficilmente raggiunte in maniera consapevole dalla consueta modalità dialogica usata nelle comunicazioni ordinarie.

Questo livello di intervento potrebbe pertanto risultare un punto di ingresso alternativo a partire da cui poter rielaborare (in maniera cognitiva e affettiva) quei contenuti e temi influenzati, anche in maniera implicita, dalle rappresentazioni e dai discorsi provenienti dalla cornice culturale storica e politica, generando narrazioni potenzialmente meno omologate e capaci di mantenere uno sguardo critico sul proprio agire, la propria (e altrui) identità e sulle matrici di senso comunemente condivise. L’accettazione del livello emotivo e conflittuale all’interno dei processi di interazione e la consuetudine alla complessità e all’approccio orientato alla comprensione non riduttiva delle situazioni favoriscono contemporaneamente la produzione di spazi creativi e profondi di analisi del reale da parte dei gruppi di lavoro, con la conseguente possibilità di tracciare nuove ipotesi di lettura dei fenomeni, di valorizzazione delle opportunità e di risoluzione dei problemi insiti.

 

Limiti e proposte

Nella scelta dei discorsi presi in considerazione, per motivi di sintesi e per non complicare ulteriormente i livelli di analisi, si è volutamente evitato di prendere in considerazione gli aspetti traumatici e tutte le difficoltà riferite alla patologia che necessitano di riflessioni professionali più approfondite che sono oggetto di riflessione durante le supervisioni.12

Rimangono anche altri punti da chiarire con adeguati disegni di ricerca. Andrebbe implementata in maniera sistematica la conoscenza analitica rispetto ai discorsi pubblici originati nell’ambito migratorio e tale livello di lettura potrebbe essere affiancato e confrontato con altri strumenti (sociologici, politici, economici, antropologici, ecc.) attualmente in uso nella creazione di spazi di lettura multidisciplinari. Inoltre il particolare clima di supervisione deriva anche da elementi di impegno comune e di coesistenza del gruppo di lavoro, rendendo non diretta la generalizzazione degli elementi osservati all’interno di altri gruppi sociali. Potrebbe pertanto risultare di interesse creare dei modelli di studio dei parametri non espliciti anche in ambienti diversi (anche attraverso le esperienze di gruppi mediani e grandi) per valutare quali possano essere i fattori comuni e quali, invece, i tratti tipici dei differenti contesti.

 

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Yalom I.D. e Leszcz M. (2005), Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Torino, Bollati Boringhieri.



Note

1 «[...] la crescente preoccupazione per l’identificazione del “vero rifugiato”– e le conseguenti definizioni in termini di “intrusione” e “appropriazione” da parte di “falsi rifugiati” – si nutra di un duplice movimento rappresentativo: da un lato la riproduzione di immagini di “eccesso umano”, di “invasione”, di “afflizione” e contemporaneamente di “rischio” (ben sintetizzate dalle riproduzioni delle “carrette del mare”, straripanti di persone “disperate” e “in fuga”, ma comunque sempre “clandestini”, ancor prima di entrare in Europa); dall’altro l’idea – quanto mai forte negli ultimi tempi – di un sistema che non regge, di uno stato sociale “non sostenibile”, di “risorse a numero chiuso” e, in fondo, di una “cittadinanza riservata”» (Vacchiano, 2011a, p. 183). Lo slittamento semantico parallelo a politiche più restrittive sulla migrazione non è una particolarità dell’Italia: ad esempio, in Francia «se solo trent’anni fa non si parlava di richiedenti asilo ma unicamente di rifugiati, di lì a pochi anni il richiedente asilo diventa la categoria amministrativa per eccellenza. Dalla fine degli anni Ottanta del Novecento l’opinione pubblica (re)introduce la logica del “falso”, con la figura del “falso rifugiato”. Dieci anni più tardi, si sente parlare non solo di “falsi rifugiati”, ma anche di “falsi richiedenti asilo”» (Kobelinsky, 2011 p. 97).
2 Cfr UNHCR (2018). Un riferimento generale è il sito https://www.cartadiroma.org. L’Associazione Carta di Roma è stata fondata nel dicembre 2011 per dare attuazione al protocollo deontologico per un’informazione corretta sui temi dell’immigrazione, siglato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (CNOG) e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) nel giugno del 2008.
3 «Gli atteggiamenti e i processi cognitivi sono al vertice della coscienza: sono cose di cui siamo ben consapevoli e sono importanti nell’elaborazione delle informazioni e nelle decisioni di tutti i giorni. I valori e le identità sociali sono più profondi. Dobbiamo pensare più intensamente per immaginare come riguardino il nostro comportamento. Le emozioni saturano la mente e influenzano l’intero processo decisionale di come agire politicamente» (Cottam et al., 2015). (traduzione dell’autore) posizioni nel Kindle pp. 1267-1269.
4 Intendiamo per accoglienza quell’insieme di servizi che vengono offerti ai richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale nei termini previsti dalle norme e che, semplificando in maniera estrema, come obiettivo dovrebbero avere l’ospitalità temporanea e la promozione di processi di inclusione sociale positiva, anche attraverso l’eventuale supporto, rispetto agli aventi diritto. La realtà è decisamente più complessa sia come mandato che come differenza tra scopi dichiarati e prassi quotidiane.
5 Cfr UNHCR (2017). Per un’analisi critica del ruolo cfr Faso e Bontempelli (2017). Si possono valutare l’entità dei cambiamenti consultando documenti anche meno recenti. A tal proposito si veda, ad esempio, Ministero dell’Interno (2015).
6 Una serie di fattori contribuiscono a ostacolare la crescita delle competenze degli operatori e il parallelo svilupparsi di una visione più critica e complessa del sistema e delle prassi di accoglienza. L’impiego di personale precario o in condizione di volontariato all’interno di enti del privato sociale che dipendono dai fondi istituzionali per la propria sopravvivenza, il ricorso a tematiche idealistiche e compassionevoli, permettono sia un contenimento dei costi delle prestazioni che la produzione di azioni e interventi più affini alle direttive delle istituzioni stesse. (cfr. Vacchiano 2011b)
7 Basti pensare a tutta la serie di riflessioni attorno al tema dell’Unheimliche di cui lo stesso Freud si è occupato.
8 «Intendo dire che, dopo un sufficiente lasso di tempo, ogni cliente comincia a essere se stesso, a interagire con i membri del gruppo come interagisce con le altre persone presenti nella sua sfera sociale, a creare nel gruppo lo stesso universo interpersonale nel quale ha sempre vissuto» (Yalom e Leszcz, 2005 p. 54).
9 Secondo Foulkes e Anthony (1998) la cultura e i valori di una comunità, determinati dalla particolare nazione, classe, religione e regione, vengono trasmessi da parte dei genitori in maniera continuativa. « Perfino gli oggetti, i movimenti, i gesti e gli accenti sono determinati in questa maniera da ciò che è rappresentativo del gruppo culturale» (Foulkes e Anthony, 1998, p. 24). Poco prima viene specificato: «Persino padre e madre sono archetipi, il vero padre e la madre li rappresentano soltanto» (ibidem)
10 In maniera simile si osserva una corrispondenza tra gruppo dei curanti e mondo interno del paziente (cfr. Correale, 1991).
11 Ad esempio, il Regolamento di Dublino (formalmente chiamato «Regolamento UE n. 604/2013», 3, oppure Regolamento di Dublino III) che è un regolamento dell'Unione Europea, stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide e prevede forti limitazioni al richiedente asilo, nella scelta del Paese cui porre domanda di protezione.
12 Questo non significa che non esistano persone e storie che rappresentano elementi di questa problematicità, ma che, nell’esperienza dei gruppi considerati, queste situazioni non rappresentano la totalità degli accolti. Si è posta l’attenzione invece a quella ampia fascia di persone che transitano all’interno dei progetti di accoglienza portando quote di sofferenza e di difficoltà, ma contemporaneamente dimostrano di possedere le possibilità di far fronte a tali ostacoli senza il ricorso a interventi specialistici. Le interazioni con le persone portatrici di più profonde sofferenze creano campi peculiari anche sul piano esistenziale, che andrebbero analizzati con grande attenzione, anche nella loro potenziale capacità di creare ulteriori elementi di riflessione rispetto alla complessità del pensiero sociale.

DOI: 10.14605/EI1611807


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ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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