Test Book

Ricerche empiriche / Empirical research

Lavorare con richiedenti asilo e rifugiati: l’etnografia di un ricercatore-operatore
Working with asylum seekers and refugees: the ethnography of a researcher/operator

Davide Biffi

dottorando presso l’Università Bicocca di Milano, Scuola di Dottorato di Antropologia Culturale e Sociale


Autore per la corrispondenza

Davide Biffi
Indirizzo e-mail: davide.a.biffi@gmail.com
Scuola di Dottorato di Antropologia Culturale e Sociale, Via Vizzola 5, 20126, Milano



Sommario

Uno degli esiti dell’«Emergenza Nord Africa» del 2011 è stata la proliferazione di progetti di accoglienza e servizi rivolti a richiedenti asilo e rifugiati in Italia. Descriverò il percorso che ho intrapreso all’interno di questo sistema assumendo posizionamenti molteplici. Prima come educatore in un centro di accoglienza e parallelamente come ricercatore mi sono misurato con la traduzione in prassi di una parte delle azioni di cui si compone il dispiegamento del sistema di gestione del fenomeno migratorio in Italia. L’articolo prosegue con la descrizione di un servizio di preparazione alla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. L’articolo è finalizzato a mettere in luce da diverse angolature alcune delle tensioni e dei nodi critici che si incontrano nel sistema d’accoglienza. Partendo da una prospettiva che fa dei posizionamenti molteplici uno degli strumenti di lettura del fenomeno tratteggerò un quadro visto da un ricercatore che fa del suo campo il suo lavoro quotidiano e viceversa. Sarà mia cura fare luce sulle criticità affrontate da un antropologo che fa antropologia a casa e fa dell’antropologia uno strumento di riflessione costante del proprio lavoro quotidiano.

Parole chiave

Posizionamenti, servizi, antropologia.


Abstract

One of the outcomes of the «North Africa Emergency» in 2011 was the proliferation of reception projects and services for asylum seekers and refugees in Italy. I will describe the path I have undertaken within this system by taking multiple positions. First, as an educator in a reception centre and at the same time a researcher, I contended with the translation into practice of a part of the actions that make up the deployment of the system of migratory phenomenon management in Italy. The article continues with the description of a service to prepare for the Territorial Commission for the recognition of international protection. Through this article, it is my intention to highlight from different points of view some of the critical tensions and issues encountered in the reception system. Starting from a perspective that makes multiple placements one of the tools for reading the phenomenon, I will outline the picture from the point of view of a researcher who turns his field into his daily work and vice versa. I will shed light on the critical issues faced by an anthropologist who carries out anthropology at home and turns anthropology into a tool for constant reflection on his daily work.

Keywords

Placements, services, anthropology.


Introduzione

Nel mese di settembre 2011 la cooperativa sociale in cui da anni ero impiegato mi propose di lavorare in un progetto d'accoglienza per richiedenti asilo provenienti dal nord Africa in un centro di accoglienza che avrebbe aperto da lì a poco. All’epoca lavoravo come educatore e mi occupavo principalmente di adolescenti e prevenzione. Conoscevo la vicenda passata alle cronache come Emergenza Nord Africa (ENA) attraverso i giornali e alcuni articoli scientifici – all’epoca ero uno studente di antropologia. Accettai l’offerta della cooperativa.

La questione mi apparve da subito complessa e stimolante. In quel periodo stavo preparando un esame di antropologia politica e l'incontro con alcuni testi di letteratura scientifica sul tema mi aiutò a riflettere su molti nodi critici che stavo affrontando nel mio lavoro quotidiano. La lettura di questi testi aveva anche un’importante funzione di conforto, in un momento professionalmente molto impegnativo e emozionalmente intenso. Sentivo che alcune situazioni che vivevo quotidianamente erano condivise con altre persone, ricercatori e antropologi, in altri luoghi e in altri tempi e ciò alleviava il fardello che mi sentivo di portare.

Attraverso questo articolo cercherò di descrivere alcune delle principali questioni che l’antropologo che riveste anche ruoli professionali all’interno del sistema di accoglienza deve quotidianamente affrontare, sia nell’espletamento della sua mansione lavorativa per cui è impiegato che in quella di intellettuale e di ricercatore.

Attraverso la selezione e la descrizione etnografica di alcuni episodi vissuti sui campi di ricerca che ho attraversato, l’obiettivo è quello di descrivere al lettore la complessità della rete di situazioni che si sviluppano in un campo di ricerca e di lavoro come quello dell’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati in Italia attraverso differenti lenti di osservazioni e differenti posizionamenti nei campi di studio e lavoro.

L’articolo descrive situazioni che riguardano un periodo professionale e di ricerca che è iniziato nel 2011 e che ancora non si è concluso.

In una prima fase di ricerca, a cavallo tra il 2011 e il 2012, ero impiegato come educatore all’interno di un CAS1 della provincia di Monza. Successivamente mi sono preso una pausa lavorativa (coincisa con le mie dimissioni dalla cooperativa e la fine del mio ruolo di educatore), che ho dedicato allo studio e alla scrittura della mia tesi di ricerca sulla mia esperienza all’interno del centro di accoglienza stesso. Dal 2013 ho ripreso a occuparmi professionalmente di richiedenti asilo nel ruolo prima di operatore legale poi di coordinatore in un servizio di preparazione alla Commissione Territoriale2 per i richiedenti asilo. Successivamente e parallelamente dal 2015 ho iniziato a coordinare un centro diurno per rifugiati, richiedenti asilo e vittime di tortura a Milano. Dal 2016, sono entrato nella scuola di dottorato di Antropologia dell’Università Bicocca di Milano, dove attualmente sto conducendo la mia ricerca.

La somma di queste esperienze compone il mio campo di ricerca (sarebbe meglio dire campi di ricerca), che ho definito come un «campo continuo», per descrivere la totale immersione che vivo quotidianamente; il mio campo è il mio lavoro e il mio lavoro è il mio campo.

Questi continui passaggi di status da un ruolo all’altro sono elementi che necessariamente strutturano la mia azione e danno prospettive e chiavi interpretative peculiari alla mia ricerca e alle mie prassi lavorative. Il mio posizionamento è mutato più volte nel corso degli anni. È mutato non solo nel tempo ma anche nelle situazioni: agendo su più campi parallelamente, gioco ruoli e posizionamenti che variano al variare del contesto in cui mi trovo a essere e agire.

Nel centro diurno di Milano rivesto un ruolo di coordinamento delle attività e non ho contatto diretto con l’utenza (ciò accade in maniera sporadica; il mio principale compito è quello di organizzare e coordinare un numeroso gruppo di volontari che hanno il contatto diretto con i rifugiati e i richiedenti asilo). Parallelamente nel lavoro di preparazione alla Commissione sono impegnato in prima persona nei colloqui con i richiedenti asilo e nel lavoro di équipe con avvocati, psicologi, educatori impiegati nel servizio.

In questo articolo, dopo avere una breve nota metodologica, descriverò due differenti campi di analisi e ricerca supportati da alcuni spaccati etnografici, frutto di osservazione sul campo.

Cercherò di descrivere la tensione che caratterizza l’azione dell’operatore sociale,3 stretto tra le esigenze di cura e controllo che il suo ruolo professionale impone e che l’ente gestore richiede e la tendenza a superare leggi, norme e regolamenti apparentemente monolitici attraverso le dinamiche relazionali quotidiane che si instaurano con i richiedenti asilo. Cercherò di descrivere alcune situazioni apparentemente impossibili da risolvere se non attuando un silente sabotaggio delle norme che regolano la vita nei centri di accoglienza, sabotaggio frutto di un tacito accordo tra operatori e richiedenti asilo. Cercherò di descrivere attraverso la scrittura etnografica quelle aree opache del funzionamento statale (Giudici, 2014), mettendo in luce gli spazi lasciati all’arbitrio e alle decisioni personali nei contesti governativi (Sorgoni, 2011a) e di accoglienza.

In seguito descriverò le principali criticità riscontrate in un altro campo di osservazione e di lavoro: quello della preparazione all’audizione presso la Commissione Territoriale. Qui i principali dilemmi con cui gli operatori si trovano a lavorare sono quelli derivanti dalla riflessione sul processo di co-costruzione delle storie di vita, della loro narrazione e della costruzione di soggettività performanti, attraverso la narrazione di racconti di vita che siano in grado di convincere la Commissione della veridicità di quanto narrato dai richiedenti asilo.

L’articolo, muovendosi tra campi e posizionamenti mutevoli, ha l’obiettivo di esplicitare una serie di dilemmi teorici e pratici legati al ruolo dell’operatore-ricercatore all’interno del sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati.

Attraverso l’utilizzo della prospettiva antropologica mi pongo come obiettivo quello di ricostruire l’eterogeneità e lo spessore dei comportamenti umani ricorrendo ad alcune descrizioni etnografiche, nel tentativo di evitare di riprodurre visioni essenzializzanti e semplicistiche (Giudici, 2014).

È possibile per l’operatore-ricercatore coniugare le differenti esigenze e mandati che ogni ruolo professionale comporta? Com’è possibile tradurre nella pratica quotidiana quel corpus teorico maturato nella riflessione sul proprio agire?

Analizzando differenti esperienze condotte sul campo e di lavoro cercherò di rispondere a questi quesiti e proverò a tratteggiare gli elementi comuni e costituenti del lavoro dell’operatore nel sistema dell’accoglienza. Perché esistono vari fili rossi che legano le posture e i posizionamenti di chi opera a vario titolo e con varie prassi nel sistema d’accoglienza. In questo excursus che nasce da un’autoriflessione proverò a fare emergere alcuni nodi specifici che ogni ruolo che ho interpretato ha portato con sé attraverso l’utilizzo del metodo etnografico e della disciplina antropologica.

 

Alcune note metodologiche

L’esperienza professionale che ho maturato dal 2011 mi ha dato la possibilità di condurre una riflessione sui diversi nodi teorici e pratici del fare antropologia: la natura epistemologica del sapere antropologico, il ruolo del ricercatore, il punto di vista dell’antropologo-operatore, il concetto di terreno, l'organizzazione pratica della ricerca, le fonti e i metodi di ricerca, il problema della trascrizione del pensiero e delle pratiche dell'altro, solo per citare alcuni dei temi con cui mi sono misurato sin dall’inizio.

La prima e più urgente questione con cui mi sono dovuto confrontare è stata rappresentata dal mio ruolo all'interno del contesto di ricerca e quindi dal mio posizionamento all’interno del progetto di accoglienza di richiedenti asilo in cui lavoravo come educatore. Inizialmente ero uno degli operatori del centro di accoglienza. Da gennaio 2012, quando maturai l'idea di fare un'etnografia sul centro di accoglienza e iniziai quindi a lavorarci, il mio status mutò; ero anche un ricercatore sul campo. Ciò che non feci mai, contro ogni buon manuale di ricerca antropologica (e di buon senso), fu dichiarare ciò che stavo facendo agli attori presenti nel campo.

A distanza di anni dalla fine di quel campo non saprei dire se sia stato un bene o un male questo occultamente che effettuai e in che modo abbia influito sull’esito della ricerca. Non fu una strategia preparata a tavolino. Avevo a disposizione quello che mi serviva: un campo in cui mi muovevo liberamente, dei presunti oggetti di ricerca (i richiedenti asilo) con cui dialogavo continuamente e con cui lavoravo, dei colleghi con cui condividevo molte situazioni e con cui ero implicato in numerose questioni molto attraenti da un punto di vista teorico che erano lì servite su un piatto d’argento. Provando a darmi ora una spiegazione, direi che sia stato un misto di pudore, pigrizia, impreparazione e insicurezza nei miei mezzi.

Il mio metodo era molto scarno, direi primitivo e poco professionale. Dopo ogni giornata di lavoro appuntavo sul mio quaderno ciò che ritenevo significativo ai fini della ricerca; essere in una sorta di campo continuo mi pareva solamente fonte di vantaggi e una miniera infinita di materiale grezzo su cui tornare poi con calma. Nel giugno 2012 decisi di smettere i panni dell’operatore e mi licenziai dalla cooperativa. Questo momento segnò un'altra fase della mia ricerca e un necessario riassestamento, dovuto a un cambio della mia presenza sul campo.

Continuai a frequentare il centro di accoglienza ma con meno assiduità. Agli occhi dei richiedenti asilo ero diventato un conoscente che con puntualità si recava in visita al centro. Con i colleghi fu lo stesso. Con alcuni mantenni un ottimo rapporto e continuammo a rimanere in contatto e confrontarci sull’andamento del centro; negli anni seguenti abbiamo costruito anche molte cose insieme (ne parlerò più avanti in questo articolo). Furono sempre incontri densi e significativi in cui finalmente riuscivamo a parlare di quei temi che nello svolgimento del nostro lavoro quotidiano non eravamo mai riusciti a sviscerare fino in fondo.

Nelle pagine che seguono si sovrappongono continuamente i ruoli di operatore e ricercatore: questa è la condizione che vivo dal 2011, da quando cioè ho deciso che il mio lavoro sul campo sarebbe stato anche il mio campo di ricerca.

Oltre ai problemi teorici prettamente legati all’antropologia e all’etnografia posti dalla complessità dei campi di ricerca e dalla decisione di fare ricerca in questi campi dove svolgo anche ruoli professionali, mi sono necessariamente posto il problema di come coniugare i tempi di lavoro, ricerca, vita privata in un contesto professionale e di ricerca non sempre semplice da gestire e portare avanti (le difficoltà di far ricerca in Italia e le problematiche del lavoro nel terzo settore sono parte strutturale e strutturante della mia quotidianità). Il ricercatore-operatore deve cioè cercare continuamente un equilibrio tra i molteplici ruoli e le azioni che decide di assumere di fronte a scopi differenti: da una parte la ricerca di un reddito attraverso una professione remunerata; dall’altra la volontà di produrre sapere e riflessione sul proprio operato attraverso l’utilizzo degli strumenti propri dell’antropologia (provando quindi anche a far diventare la sua competenza antropologica riconosciuta a livello sia professionale che intellettuale da una comunità scientifica a cui fa riferimento e di cui non è totalmente parte).

La selezione del materiale etnografico è una parte importante del mestiere dell’antropologo. Quotidianamente mi sono trovato (e mi trovo) in situazioni che meriterebbero di essere bloccate in una serie di «diapositive etnografiche», analizzate, discusse e rielaborate. Ma così non è: mi accontenterò di alcuni flash.

 

L’operatore nel centro d’accoglienza

Il caso del centro di accoglienza in cui ho lavorato dal 2011 al 2012 rappresenta la concreta realizzazione in uno dei paesi di approdo della continuità tra le politiche di selezione e controllo dei rifugiati: esserci implicato come operatore e come ricercatore costituì per me un’opportunità e un grandissimo vantaggio.

Il luogo in cui i richiedenti asilo furono alloggiati faceva parte di un ex complesso dedicato all'internamento psichiatrico dei primi del Novecento. L’ubicazione del luogo rispondeva a una volontà implicita di segregazione e separazione dal resto del corpo sociale. Posto ai confini del territorio comunale, in un’area limitrofa a una zona industriale e commerciale, trasmetteva un senso di lontananza dal resto del mondo. L’ubicazione del luogo rendeva limitata la mobilità degli ospiti e le relazioni con il resto della comunità cittadina: la segregazione era realizzata di fatto.

La prima questione da cui iniziare nell’analisi è quella di definire cosa sia un centro d’accoglienza e a quale funzione risponda.

I centri di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati sono luoghi in cui i richiedenti asilo attendono una risposta alla loro domanda di protezione internazionale in un regime di semi-libertà e semi-autonomia. Per gli addetti ai lavori sono centri di accoglienza, per gli ospiti sono dei campi. Come sottolinea Sbriccoli (2017), nelle parole degli accolti il termine campo (camp) descrive i luoghi di alloggio in maniera indistinta e costante. Nei campi in Libia, nell’hotspot in Italia, nel piccolo appartamento dell’accoglienza diffusa: sempre di campo parlano i richiedenti asilo qui ospitati.4

Al confinamento del luogo stesso si aggiungono importanti aspetti di «formazione sociale» all’interno della struttura di accoglienza; il lavoro degli operatori dell’accoglienza, in questo senso, è centrale. Uno strumento considerato «naturale» di qualunque centro d’accoglienza come il regolamento interno, unito alle regole implicite di condotta, mette in evidenza la volontà educativa che sottende il sistema d’accoglienza in Italia (Pinelli, 2013; Pinelli e Ciabarri, 2015) tradotta in pratica nelle azioni degli operatori.

Le prassi quotidiane che regolano la convivenza di un centro d’accoglienza agiscono sulla soggettività degli ospiti attraverso una serie di micro pratiche pedagogiche espletate dagli operatori quotidianamente, che la scrittura etnografica può descrivere in maniera precisa e puntuale.

Regolamentare la preparazione dei pasti o l’ingresso nel centro (nella casa quindi) di amici e conoscenti non è un’azione neutra. Risponde a logiche di gestione degli spazi comuni e collettivi che impattano sulla sfera del sé dei richiedenti asilo, che subiscono un’evidente limitazione delle proprie libertà di autodeterminazione e azione. Lo scontro tra le esigenze di controllo e gestione del centro degli operatori e le esigenze di vivere il centro come una casa e non solo come un dormitorio entrano dunque in collisione e sono spesso causa di tensioni, incomprensioni e vissuti negativi sia da parte degli ospiti che degli operatori.

In Goffman (2003) questo concetto è esplicitato chiaramente quando parla del sistema di privilegi. Esempio di questo meccanismo era la concessione agli ospiti del centro d’accoglienza della possibilità di assentarsi per un massimo di settantadue ore dal centro. Possibilità prevista dal regolamento interno (scritto dai coordinatori del centro stesso). Qualora la regola fosse stata infranta sarebbe scattata la punizione. In questo caso la punizione consisteva nel ritiro del pocket money giornaliero (due euro e cinquanta centesimi) sulla base dei giorni di assenza eccedenti il permesso rilasciato per l’assenza.

Noi operatori applicavamo in molte situazioni la pratica compensi/punizioni: le modalità con cui decidemmo, per esempio, a chi offrire la possibilità di un tirocinio lavorativo erano basate su una logica premiante. Per questioni di budget non potemmo offrire a tutti gli ospiti questa opportunità; fissammo quindi alcuni criteri (competenza linguistica, attitudini personali, esperienze lavorative pregresse, partecipazione alle attività del centro, ecc.) per la scelta dei candidati al tirocinio retribuito. Furono criteri tutt’altro che oggettivi; anzi, la soggettività di noi operatori fu determinante nel concedere o meno questa possibilità agli ospiti. Proporre a un ospite il tirocinio lavorativo fu lo strumento attraverso cui premiammo alcuni richiedenti asilo e fu, allo stesso tempo, un meccanismo che agì direttamente sulla costruzione del sé degli ospiti, che vennero educati al meccanismo compenso/punizione. Assoggettando gli ospiti a queste norme, creavamo dei soggetti rispondenti alle nostre aspettative pedagogiche.

Gli ospiti del centro di accoglienza sono passati attraverso un processo di ricostruzione identitaria (Manocchi, 2012) che si è sviluppato su più livelli. Questo processo di assoggettamento è parte di un più ampio insieme di tecniche, di poteri e saperi che danno forma e contenuto alla definizione dei soggetti come «richiedenti asilo». Attraverso queste tecniche e questi saperi i professionisti (forze dell'ordine, operatori sociali, operatori giuridici, ecc.) che vengono a contatto con il soggetto durante il suo percorso di richiesta di protezione internazionale scandiscono e plasmano la quotidianità del richiedente asilo con una serie di azioni (visite, appuntamenti, dialoghi, richieste, ecc.) che danno forma e materialità al tempo di vita che il richiedente asilo passa all’interno del sistema d’accoglienza; nel paragrafo che segue descriverò alcune situazioni che chiariranno meglio questa affermazione.

 

L’ambiguità del ruolo dell'operatore

Il livello di preparazione degli enti e la formazione degli operatori incaricati della gestione dell’accoglienza hanno rappresentato e rappresentano ancora uno degli elementi critici che caratterizzano la vicenda Emergenza Nord Africa e il sistema che da lì in poi si è strutturato in Italia (Associazione Naga, 2016; 2017; Medici Senza Frontiere, 2016).  A enti e personale con esperienza pluriennale e preparazione comprovata nel settore si sono affiancati istituzioni del terzo settore, albergatori e altri soggetti economici (per esempio agenzie immobiliari) senza alcuna esperienza specifica né formazione.

Ciò che apparve chiaro a noi operatori fin dall’apertura del centro di accoglienza fu l’improvvisazione della strutturazione del servizio in cui eravamo impiegati. Parallelamente emerse la solitudine in cui ci trovammo nel dovere affrontare la quotidianità. Ciò si tradusse in un lavoro appiattito sul presente nei primi mesi dall’apertura del centro. Lavoro caratterizzato da atteggiamenti di controllo, assistenza e cura nei confronti degli ospiti del centro di accoglienza. L’approccio controllante si tradusse in pratica fin dall’inizio del progetto. Il primo atto formale all’arrivo dei richiedenti asilo fu la lettura a tutti gli ospiti del regolamento interno e l’immediata firma per accettazione dello stesso. Per alcuni giorni ci venne richiesto dal nostro ente di dormire nel centro di accoglienza, pur avendo un contratto part-time: la richiesta di sorvegliare il centro e i richiedenti asilo ospitati era evidente.

Ben presto nel nostro ruolo di operatori ci trovammo intrappolati tra due tendenze. Da una parte condividevamo gran parte delle giornate con i richiedenti asilo ospitati nel centro. Dall’altra, ci veniva chiesto dai coordinatori del progetto una «distanza professionale» che era per noi difficile, se non impossibile, mantenere. La relazione quotidiana con gli ospiti era estremamente intensa e assorbiva molte energie. Nel vuoto di indicazioni operative e nella solitudine durante i nostri turni di lavoro, l’operatore cercava di rispondere a ogni richiesta degli ospiti della struttura. I richiedenti asilo si affidavano completamente all’operatore non avendo altra scelta.

Si instaurò una relazione profondamente asimmetrica. Per accedere a un diritto o per soddisfare un bisogno il richiedente asilo era costretto a raccontarsi e spiegarsi ogni volta. Ogni bisogno che eccedeva quanto ipotizzato dall’équipe come bisogno primario, e quindi riconosciuto come legittimo, era potenzialmente e discrezionalmente sottoposto a indagine e discussione da parte dell’operatore per arrivare a deciderne la possibilità di soddisfazione. La negoziazione dei bisogni alla base della relazione operatore sociale-richiedente asilo dimostrava l’asimmetria del rapporto instauratosi (Sorgoni, 2013). Quella che si instaurava era una relazione di dipendenza dall’educatore di turno, dove i richiedenti asilo dovevano continuamente spiegare o giustificare ed essere oggetto di indagine e di controllo da parte di noi operatori.

Relazione pedagogica che fa il paio con quello che Vacchiano (2011) definisce come il regime del sospetto. Regime che viene messo in funzione in maniera trasversale dai soggetti che si relazionano con i richiedenti asilo al fine di vagliare la legittimità delle loro richieste e, di conseguenza, della loro legittimità all’interno del sistema d’asilo. Non solo la Commissione Territoriale dispiega questo regime ma anche il sistema d’accoglienza tout-court ne è implicato e gli operatori rivestono un ruolo determinante. Il sospetto che il richiedente asilo cerchi di approfittare impropriamente delle opportunità concesse dal sistema d’accoglienza giustifica la ricerca della verità che sottende le azioni degli operatori mossi spesso dal sospetto, appunto, che il richiedente asilo stia in qualche modo cercando di ingannarli al fine di utilizzare al massimo le risorse messe a disposizione.

L’operatore entrava nella vita del migrante senza domandare il permesso; entrava perché il richiedente asilo non aveva alternative: era l'unica strada che aveva per reclamare un diritto spesso trasformato in privilegio o concessione a un meritevole. Sofferenza, frustrazione e ostilità ne conseguivano in modo diretto. Nello stesso, però, tempo la funzione di noi operatori rispondeva anche all’esigenza di controllo dei corpi caratteristica del sistema d’accoglienza, che si realizzava in due sensi. Da una parte dovevamo rendere conto del nostro operato all’ente per cui lavoravamo, anche se eravamo quasi abbandonati a noi stessi nella quotidianità; dall’altra l’istituzione statale, nello specifico la Prefettura, ci aveva delegato in appalto una quota di poteri di governo delle persone ospitate e avevamo nei confronti dell’ente governativo degli obblighi a cui adempiere.

Parallelamente eravamo sollecitati dalle richieste continue dei nostri ospiti/controllati che erano imbrigliati tra l’esigenza di autonomia e lo stato di dipendenza forzata vissuta nel centro di accoglienza. Noi operatori spesso non potevamo evadere le richieste perché non avevamo gli strumenti adeguati o perché non eravamo gli attori deputati a fornire la risposta (per esempio sull’esito della commissione, sul rilascio dei documenti, ecc.). Il lavoro di noi operatori passava necessariamente attraverso la relazione con l’ospite.

Uno dei poli di questa relazione, l’operatore, poteva cambiare radicalmente le condizioni dell’accoglienza e le prospettive di sviluppo della stessa del richiedente asilo: porre una richiesta a un operatore piuttosto che ad un altro poteva portare a esiti differenti. Questa situazione, fatta di mancate risposte, di risposte parziali o differenti per situazioni simili, causava confusione nei richiedenti asilo del centro rispetto a ciò che era previsto o meno dai regolamenti e a ciò che era nell’ambito del possibile o meno. Ciò portava a un’opacità delle pratiche e a una continua messa in discussione e contrattazione della quotidianità del centro. Ho definito questo modo di agire dei richiedenti asilo incontrati come un meccanismo basato sul mercanteggiamento (Biffi, 2017), sulla trattativa continua delle regole che rappresentava quello spazio di manovra negli interstizi, liberato dal potere governamentale che attanagliava il campo, dove i richiedenti asilo potevano tentare di agire a loro vantaggio.

Riprendendo Arendt, citata in Altin e Sanò (2017, p. 18): «appare chiaro, in quest’ottica, come ilsistema di accoglienza sia, in fondo, niente di più che un’organizzazione la quale, perun verso, dispensa a funzionari e operatori regole, procedure e una discreta razionalità organizzativa e, per un altro, invece, sopravvive proprio grazie al suo esatto opposto, alla vanificazione di queste (Arendt 2001). Ciò significa che gli individui che operano concretamente all’interno di questo sistema sono perfettamente in grado di pianificare scelte che non rientrano nell’ordine di quella razionalità organizzativa prescritta dalla struttura».

Nello spazio offerto dal gioco relazionale con i soggetti coinvolti nell’accoglienza, gli ospiti del centro costruivano delle possibilità di autonomia e di azione superando di fatto i poteri che cercavano di regolamentare e controllare la loro presenza nel centro d’accoglienza e nel territorio dello stato. Esempio di ciò fu la concessione della carta d’identità agli ospiti del centro di accoglienza presso cui ero impiegato. Inizialmente il comune si oppose al rilascio del documento; gli ospiti si organizzarono e grazie a una piccola mobilitazione organizzata in autonomia riuscirono a farsi rilasciare la carta d’identità dall’anagrafe cittadina. Sono numerosi gli esempi su cui si attivarono gli ospiti, ne cito solo alcuni: l’ottenimento di un «bonus economico natalizio»; la possibilità di cucinare in autonomia; l’ottenimento di pocket money aggiuntivo per l’acquisto di vestiti invernali e estivi. Come scrive Castellano (2017), si tende a trasformare l'accesso a un servizio in un privilegio, un’elargizione benevola piuttosto che in un diritto. Il sistema suggerisce «dare a chi lo merita» in maniera non troppo implicita e soprattutto in maniera fuorviante. In questa confusione tra privilegio, concessione e diritto il richiedente asilo si muove al fine di massimizzare le risorse di cui poter usufruire.

Anche il richiedente asilo che si adatta in tutto e per tutto alle richieste degli operatori, sul medio-lungo termine, va spesso incontro a una serie di fallimenti del proprio progetto di vita, come dimostrato da numerose ricerche.5 Non è affatto scontato che alla fine del percorso di accoglienza il richiedente asilo abbia raggiunto quegli obiettivi di autonomia che sono gli obiettivi alla base del sistema d’accoglienza (Manuale Sprar).

 

La preparazione alla Commissione Territoriale

Dopo avere concluso la mia esperienzacome operatore nel centro di accoglienza (e le conseguenti dimissioni dalla cooperativa), nel 2014 insieme ad alcuni ex colleghi decisi di proseguire il lavoro nell’ambito dei rifugiati e richiedenti asilo. Da una parte partecipammo al bando SPRAR, forti della nostra esperienza personale nell’accoglienza straordinaria, dall’altra proponemmo a due grandi consorzi di cooperative, che si erano inseriti nella provincia si erano nel settore dell’accoglienza (gestendo CAS e SPRAR), un progetto di preparazione all’audizione in Commissione Territoriale per i richiedenti asilo accolti nei loro progetti che iniziò nel 2014 e che è tutt’ora in essere. Da poche decine di richiedenti asilo incontrati nel primo anno di lavoro, siamo arrivati oggi a incontrare circa 600 persone all’anno (tutti ospitate nei CAS in provincia di Monza e Brianza). Dapprima lavorai al progetto come operatore legale, poi per due anni lo coordinai; attualmente sono tornato a essere operatore legale e ho deciso di osservare anche questo campo attraverso le lenti dell’antropologia.

Il mio obiettivo di ricerca è quello di indagare le pratiche di co-costruzione delle storie che si producono nella dinamica tra l’operatore legale e il richiedente asilo (Sorgoni, 2011a; 2011b; 2013). Un altro elemento ricco di interesse che emerge nella ricerca è il processo di costruzione e preparazione dei dossier attraverso la raccolta di prove (certificati di varia natura-medica, psicologica, professionali, legali, ecc.) a supporto dei racconti dei richiedenti asilo. La preparazione dei dossier è finalizzata a convincere la Commissione Territoriale a concedere il riconoscimento del diritto a una forma di protezione internazionale (Fassin, 2014) e a rilasciare il conseguente permesso di soggiorno.

Apparentemente e direi anche ingenuamente, il progetto venne pensato come momento di informazione rispetto al funzionamento della normativa e dell’audizione in commissione per i richiedenti asilo. Il racconto della propria storia era pensato come momento e possibilità di parola e dialogo con l’obiettivo di consigliare una strategia narrativa e di esposizione del racconto in Commissione. Non di rado è emersa nella nostra équipe la volontà di rivendicare questo intervento come un necessario corollario –anche se non espressamente previsto dalla normativa– dei progetti d’accoglienza considerati da noi spesso mancanti sotto l’aspetto dell’assistenza legale, informativa e della preparazione alla Commissione.

Ci trovammo da subito a lavorare sulla definizione degli obiettivi del progetto e sulla strutturazione degli incontri. Durante i colloqui viene spiegato il significato della richiesta di protezione internazionale, vengono dati cenni rispetto alla normativa e viene descritta la funzione della Commissione e come sarà strutturato il colloquio con il commissario. In una seconda fase dell’appuntamento si parla dei motivi che hanno spinto il migrante a lasciare il proprio Paese approfondendo quindi la storia personale di migrazione. La durata di ogni colloquio è di circa un’ora e mezza, secondo gli accordi stabiliti nella convenzione che regola il progetto; ogni accolto ha diritto a due appuntamenti. Gli incontri avvengono in un ufficio del circolo Arci che ospita il nostro progetto, quindi lontani dai luoghi di accoglienza. Sono presenti un operatore legale e un mediatore culturale, fornito da un’associazione professionale del settore.

Non è stato facile rivendicare l’utilità del progetto agli enti partner e non è facile mantenerlo in essere. Gli enti ospitanti devono gestire i budget in maniera rigorosa e quanto non espressamente previsto dalle convenzioni con la Prefettura è ritenuto non necessario; quindi è stato importante lavorare sulla rete di enti al fine di convincerli della bontà e utilità del progetto. Un altro rischio che può essere corso è quello di collegare l’esito dell’audizione in Commissione con la preparazione fatta dal nostro servizio, quando invece le logiche di decisione e i meccanismi di funzionamento della Commissione sono altri e di difficile indagine. È importante chiarire che il nostro intervento è finalizzato alla preparazione e alla corretta informazione rispetto all’audizione in Commissione, non all’ottenimento di un permesso (ovvio che poi l’auspicio sia questo).

Uno dei problemi inaspettati che ci siamo trovati ad affrontare è stato la rappresentazione del nostro ruolo in questo servizio ai richiedenti asilo. In vari momenti storici del progetto è capitato che diversi richiedenti asilo non si presentassero agli appuntamenti o dicessero agli educatori referenti del centro in cui vivevano che non volessero usufruire del nostro servizio. Cosa ovviamente legittima ma che ci ha posto di fronte a diversi interrogativi. Cercando di capire le ragioni dei rifiuti è emerso dal confronto prima con gli operatori dei centri, poi con i mediatori linguistico-culturali e infine con alcuni richiedenti asilo che molte persone non si fidavano del servizio: erano certi che noi inviassimo le storie alla Commissione e che questa decidesse in base al nostro intervento.

Altri dicevano che alcuni amici erano venuti da noi e poi avevano preso «un negativo», ovvero un diniego alla domanda di protezione internazionale, e quindi vedevano un evidente nesso causale tra le cose. Alcune persone sono giunte da noi molto agitate e spaventate, pensando di essere di fronte alla Commissione. Altri ancora ci hanno individuato come la petite commission con funzioni di pre-audizione, raccolta e invio di informazioni alla Commissione «vera». Tante persone ritenevano che non fosse opportuno venire da noi perché poi non avrebbero potuto «cambiare la storia» in Commissione se avessero voluto perché noi segnalavamo alla Commissione quanto loro ci dicevano.

Nel dedalo di interpretazioni, rendere più chiaro chi siamo, cosa facciamo con il nostro servizio e quali sono i nostri obiettivi è diventata la costante del nostro lavoro. Il primo passaggio obbligato è il contatto diretto con il richiedente asilo, se quest’ultimo si presenta all’appuntamento. Nei colloqui individuali la prima parte dell’incontro è dedicata a presentare noi stessi e il servizio. Spieghiamo chi siamo e chi non siamo; spieghiamo che la privacy è garantita totalmente e che quanto emerge dall’incontro è riservato. Cerchiamo quindi di definire gli obiettivi dell’appuntamento chiarendoli al migrante di fronte a noi: in primis dare informazioni sull’iter della protezione internazionale; poi descrivere il momento dell’audizione in Commissione e infine dare dei suggerimenti su come arrivare pronti all’appuntamento avendo chiaro chi si incontrerà in Commissione e quali saranno i punti salienti dell’incontro. L’invito che facciamo ai richiedenti asilo è quello di porci domande, provare a esprimere qualunque dubbio rispetto a quanto descriviamo loro e anche a quanto sono a conoscenza sull’iter di riconoscimento della protezione internazionale.

Due sono le azioni che abbiamo attuato al fine di ridurre la distanza con il richiedente asilo (tenendo sempre in considerazione che il tempo dedicato a ogni richiedente asilo è di tre ore, diluito in due appuntamenti, e che non è detto che lo stesso operatore veda in entrambi i casi lo stesso soggetto). La prima è quella di creare un contesto relazionale il più accogliente possibile, attraverso l’utilizzo del linguaggio verbale e non verbale durante il colloquio. Per esempio, nel mio approccio iniziale, spiegando l’obiettivo del nostro incontro, introduco spesso la metafora sportiva dicendo che l’appuntamento con noi è «un allenamento in vista della partita decisiva in Commissione». In questo modo cerco di sottolineare l’importanza dell’audizione e di rendere più chiaro il concetto che in Commissione ci si muoverà su un crinale che prevede, da una parte, la concessione dei diritti di cittadinanza (per lo meno formale) attraverso il riconoscimento di uno status e, dall’altra, di mettere in luce e chiarire la possibilità di diventare dei non cittadini, puro corpo senza alcun diritto di cittadinanza diventando di fatto degli invisibili.

L’altra azione che stiamo conducendo è un lavoro pre-colloquio, che dipende principalmente dal rapporto tra il nostro gruppo di lavoro e quello con gli operatori dell’ente ospitante del richiedente asilo. È sovente capitato che le persone non si presentassero per timori che sopra ho descritto oppure che si presentassero senza aver chiaro chi fossimo. Il problema è da analizzare inserendolo nel più ampio contesto delle condizioni di lavoro degli operatori dell’accoglienza. Il servizio di preparazione alla Commissione è sicuramente ritenuto utile dagli enti gestori con cui lavoriamo (lo dimostra che dal 2014 è costantemente finanziato, nonostante alcune critiche), ma allo stesso tempo si trova a essere l’ennesima azione che gli operatori dell’accoglienza devono gestire: comunicare al nostro servizio le informazioni di base per organizzare il colloquio (lingua, sesso del richiedente, data di commissione o situazioni individuali particolari), spiegare al richiedente che esiste questo servizio e qual è la sua utilità, spiegare loro come raggiungere i nostri uffici.

Azioni apparentemente facili da eseguire, che tuttavia, nel magma delle cose da fare che scandiscono il tempo di lavoro dell’operatore dell’accoglienza (un presente sempre contrassegnato dall’emergenza), spesso restano inevase, perse tra le numerose azioni da compiere, fraintese a causa dello scarso tempo che gli operatori hanno per la presa in carico adeguata di ogni singola situazione. Così, per esempio, come già ho scritto, ai nostri appuntamenti arrivano persone che credono di essere davanti alla Commissione; o, ancora, giungono persone convinte che essere presenti all’appuntamento da noi sia obbligatorio, pena una nostra comunicazione alla Commissione, che avrà conseguenze nefaste per la loro richiesta di protezione.

Un altro espediente che abbiamo attuato per ridurre la possibilità di incomprensione del nostro ruolo è quello di preparare dei brevi volantini tradotti in più lingue da consegnare alle persone accolte prima che vengano all’appuntamento da noi. Nonostante il rapporto di fiducia con gli enti gestori e gli operatori in questi impiegati, non è garantito che il volantino arrivi puntualmente ai richiedenti asilo per le difficoltà strutturali che ho prima descritto del lavoro nell’accoglienza. Ancora, organizziamo degli appuntamenti collettivi nei centri di accoglienza più grandi, dove raccontiamo a gruppi di 20-30 persone l’iter della richiesta di protezione internazionale, spiegando che prima dell’appuntamento in Commissione verranno da noi per un colloquio individuale di preparazione all’audizione. Nonostante questi accorgimenti è ancora diffusa tra molte persone l’errata interpretazione del nostro servizio.

Riporto una breve descrizione di un recente episodio; per questioni di riservatezza cambierò alcuni dati che potrebbero ricondurre all’identificazione delle persone implicate. Un giovane richiedente asilo (lo chiamerò Salif) si presenta una mattina all’appuntamento accompagnato dall’educatrice di riferimento. Mezz’ora prima la stessa educatrice mi aveva mandato un sms dicendomi che Salif non sarebbe venuto all’appuntamento. Ancora prima, all’inizio della mattinata la coordinatrice del progetto d’accoglienza mi aveva inoltrato un sms in cui si diceva che Salif, che sarebbe arrivato, era seguito da uno psichiatra, «che non stava troppo bene»; il tutto via sms, un paio d’ore prima dell’appuntamento (fissato da giorni). Il richiedente asilo dopo qualche settimana avrebbe avuto l’appuntamento in Commissione, fissato quindi da diverse settimane.

Viste le comunicazioni ricevute ormai mi aspettavo che Salif non sarebbe venuto all’appuntamento, quindi iniziai il colloquio con un’altra persona inserita nel calendario degli incontri di quel giorno. Nel frattempo arrivò Salif accompagnato dall’educatrice e attesero nell’atrio il loro turno (io non li vidi arrivare, loro non bussarono alla porta e non si palesarono). Durante il colloquio con l’altro migrante mi arrivò un sms dell’operatrice che scriveva che era riuscita a portare Salif e a convincerlo ma che non poteva fermarsi e se ne doveva andare: lo avrebbe lasciato nell’atrio in attesa del suo turno. Quando arrivo il suo turno, io e il mediatore, con tutte le precauzioni del caso, cominciammo a parlargli. Salifera molto agitato: sudava e respirava in maniera affannata. Gli spiegai brevemente cosa avremmo fatto e lui ci disse che non voleva parlare con noi perché avremmo riportato tutto alla questura e alla Commissione che poi gli avrebbe dato un “negativo”, respingendo così la sua domanda di protezione internazionale. In maniera molto concisa ci disse che i motivi per cui aveva lasciato il suo Paese erano relativi a una questione familiare. Spiegai che non eravamo in contatto con la Commissione e gli chiesi quindi per quale motivo fosse venuto da noi se aveva queste convinzioni. Ci disse che l’operatrice aveva insistito e lui temeva che, se non fosse venuto da noi, sarebbe sicuramente incorso in un “negativo” in Commissione.

Cercammo di rassicurarlo e cominciai a spiegare l’iter di funzionamento della Commissione. Non era assolutamente nella condizione di seguire il colloquio ma per circa una mezz’ora cercai comunque di spiegare l’iter della domanda di protezione internazionale, cercando di intavolare un dialogo con lui provai a tenerlo sull’argomento. Lui ogni tanto si accasciava, dicendo che aveva mal di pancia, chiedendo a che ora avremmo finito e guardando spesso l’orologio. A fatica conclusi la parte di spiegazione sull’iter della richiesta di protezione internazionale e gli chiesi se aveva voglia di raccontare i motivi per cui aveva lasciato il suo Paese; lo rassicurai del fatto che non raccontare la storia non avrebbe avuto alcuna conseguenza ma che era solo un allenamento per lui.

Mi ripeté soltanto che la sua era una «storia familiare» e non volle raccontare nulla, ribadendo la convinzione che avremmo riferito tutto alla Commissione; ripetei che non era così e gli dissi che se ne poteva andare: finimmo così l’appuntamento. Dopo questo episodio parlai con l’operatrice e con la coordinatrice. Suggerii loro di rinviare l’appuntamento in Commissione o per lo meno prevedere un accompagnamento sia fisico con un avvocato, che potesse argomentare la situazione di profonda prostrazione e instabilità psicologica, che attraverso documenti preparati dallo psichiatra che lo aveva in cura. Così fu e venne rinviato l’appuntamento in Commissione.

Il rimando dei numerosi richiedenti asilo incontrati e delle situazioni vissute ci mette di fronte allo specchio rinnovando in noi il «solito» interrogativo su come le nostre pratiche lavorative legittimino la strutturazione del sistema in cui siamo impiegati. In termini semplici e riduttivi, siamo o meno parte del «sistema»? Questa domanda è la costante del nostro agire e crea riflessioni e scambi di opinioni all’interno dell’équipe. Evidentemente siamo implicati nel sistema di gestione dei richiedenti asilo, al di là di ogni atteggiamento di connivenza da una parte e di critica dall’altra, nonostante il nostro profondo sentimento di diversità rispetto alle modalità operative, etiche e politiche dal resto delle cooperative che lavorano in questo contesto. Il punto discriminante sta nel nostro posizionamento e sulle modalità in cui espletiamo le nostre pratiche.

Vacchiano (2011, p. 190) parla del regime di frontiera6 come di qualcosa di “così pervasivo proprio nella misura in cui i suoi attori si identificano con la missione istituzionale – selezionare i soggetti «corretti» – e ne riproducono l’evidenza nella prassi quotidiana”.

Una volta che implicitamente l’identificazione avviene nelle prassi quotidiane – in questo specifico caso attraverso il processo di co-costruzione della narrazione per l’audizione in Commissione –, l’équipe di lavoro annulla qualunque tipo di ricerca di pratiche che mettano in crisi l’asimmetria di potere imposta dai rapporti di forza e dalla situazione strutturale (rapporto asimmetrico rifugiato-operatore). Anche l’operatore si adegua alla logica della ricerca spasmodica della verità attraverso il riconoscimento del falso rifugiato.

La varietà di persone e storie incontrate dal 2014 a oggi, se da una parte ci offre una buona panoramica e un punto di vista privilegiato, dall’altra ci impone la massima cautela nell’abbozzare considerazioni precipitose sui richiedenti asilo a livello di macro fenomeno. Il rischio dietro l’angolo è quello classico della generalizzazione che si concretizza attraverso formule del tipo «i nigeriani hanno tutti la storia del cult»; «i senegalesi sono tutti migranti economici e quando non sanno cosa dire o sono omosessuali o vengono dalla Casamanche», «i ghanesi parlano tutti dei terreni ereditati in cui hanno trovato l’oro», e via di seguito. Lo sforzo che deve essere fatto ogni volta è quello di dare dignità a ogni singola persona attraverso il dialogo su quello che ci sta raccontando nel momento in cui ci sediamo intorno al tavolo e raccogliamo la storia. Quello che il migrante racconta è una parte della sua storia; quello che ascoltiamo è frutto di una selezione che il soggetto compie in base a ragionamenti che il più delle volte sfuggono alla nostra capacità di comprendere l’altro e le sue decisioni.

È innegabile che questa nostra volontà di porre attenzione alla singola biografia vada a impattare con la necessità di prepararsi adeguatamente a una performance in Commissione che risponde a logiche altre – e spesso poco prevedibili – e con la strutturazione rigida del servizio, che deve tenere in considerazione logiche economiche e progettuali che puntano in primis alla sostenibilità economica.

Citando ancora il testo di Vacchiano (2011, p. 191), «in questo tipo di configurazione legale e politica, le procedure di identificazione hanno evidentemente un peso significativo, definendosi in modo crescente la necessità di ancorare ciò che per definizione è fluido a parametri di tipo oggettivo» (la storia di vita all’interno della logica di lavoro della Commissione). Ancora (Vacchiano, 2011, p. 191): «la questione della veridicità della storia di vita – e la sua conseguente certificabilità – diventano in questo modo temi di attenzione centrale – che ci obbligano a lavorare su una narrazione della storia che sia coerente con le aspettative della Commissione»; o, per essere più precisi, con quello che noi operatori immaginiamo essere efficace al fine di ottenere una forma di protezione dalla Commissione.

Non solo queste azioni costruiscono e reificano le soggettività dei richiedenti asilo ma forgiano anche quelle degli operatori dell’accoglienza. Operatori si diventa anche attraverso l’immersione nel campo, assumendo un atteggiamento e una postura, seguendo un canone spesso implicito.

Un accenno alla questione della certificabilità e della raccolta di prove a supporto delle storie narrate è necessario, data la centralità del tema nell’analisi del nostro lavoro di preparazione all’appuntamento in Commissione. Non è solo il giustificato timore previsto dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951 che il richiedente asilo deve riuscire ad argomentare, ma anche e soprattutto il pericolo e il danno (fisico o psicologico) già subito.

Lo scivolamento che negli ultimi anni si è attuato nella valutazione delle storie di vita dei richiedenti asilo dal fondato timore al danno già subito è stato compiuto attraverso l’applicazione del regime del sospetto di cui parla Vacchiano (2011). Il richiedente asilo non è più visto come una vittima da salvare bensì come un potenziale truffatore da smascherare, da sottoporre a indagine prima di concedergli il diritto di accedere alle tutele previste dalla legislazione (Marchetti, 2014).Tutto ciò si incardina in un contesto di recessione economica e restrizione degli interventi del welfare state, dove il discorso mainstream denuncia la scarsità delle risorse e rende quindi necessaria l’attenta e scrupolosa valutazione delle richieste di accesso al welfare state nazionale. È quindi diventata centrale la necessità di supportare le parole del richiedente asilo con le prove che sostengano il suo racconto.

Prova per eccellenza diventa dunque il corpo, che parla anche quando il richiedente asilo non ha la forza o le parole per farlo. E parlano, in sua vece, le certificazioni mediche e psicologiche prodotte dagli esperti (Fassin, 2014).

Spesso nel mio lavoro suggerisco ai richiedenti asilo: «il nostro corpo parla per noi e può esserci di aiuto in Commissione», alimentando quindi questo tipo di narrazione. Secondo il nostro approccio al lavoro di preparazione alla Commissione, nella faretra del richiedente asilo possono essere riposte più frecce: una storia ben meditata, provata e riprovata; dei certificati medici e psicologici, delle altre prove (video, foto, stralci di articoli). Tutto ciò dovrebbe essere pronto e preparato ben prima della Commissione e poi essere messo in scena durante l’audizione direttamente dal richiedente asilo. Perché non basta portare fisicamente il file, il plico di documenti in Commissione, ma bisogna anche saperlo spiegare e raccontare.

Si può affermare che il processo di richiesta di protezione internazionale sia soprattutto un percorso di ri-costruzione identitaria (Manocchi, 2012) agita da una molteplicità di attori, che dispiegano poteri e attuano tecniche concrete (per esempio le certificazioni di violenze subite) che si muovono in maniera non necessariamente coordinata, incontrandosi nella corporalità del soggetto (il richiedente asilo) costruendo e riempiendo di significato la categoria sociale «richiedente asilo».

Più volte ci siamo trovati a riflettere sulle storie delle persone incontrate in questi anni. Di fronte a domande dirette da parte dei richiedenti asilo sulla «bontà» della storia raccontata, cosa dire? Di fronte a storie che destano in noi sospetti sulla loro fondatezza, quali suggerimenti dare al fine dell’audizione? Dirlo, tacerlo, inventarsi un’altra storia, riaggiustarla... Di fronte a un’evidente impreparazione alla performance in Commissione, quale consiglio dare? Domande alle quali spesso non abbiamo trovato risposta, domande con cui tutti gli operatori, prima o poi, devono fare i conti.

Abbozzando una risposta, metterei alcuni elementi sul piatto. Il focus non deve essere puntato sulla ricerca della verità nelle parole del richiedente asilo. La Commissione valuta la credibilità e la veridicità della storia narrata. È quindi più utile ribaltare la prospettiva a partire dall’obiettivo che ci si pone dall’audizione: convincere la Commissione al riconoscimento del diritto ad avere una forma di protezioneinternazionale; avere quindi un permesso di soggiorno.

Raccontare la verità non porta necessariamente a ottenere un permesso, quindi diventa secondaria. È quindi fondamentale, a mio avviso, cercare di spiegarlo al richiedente asilo che si appresta a incontrare la Commissione. Spesso mi sono trovato a dire: «a me potete raccontare qualunque cosa, così come alla Commissione. Io non vi conosco, non so nulla di voi e della vostra vita. Potreste inventarvi tutto quello che dite, per me non è un problema. Il problema non è mentire ma saper mentire. Se la Commissione non vi crede, se vi mette in difficoltà attraverso le domande che vi ponee voi andate in crisi, allora il rischio è che non vi diano il permesso. Siete voi responsabili di quanto dite o non dite alla Commissione».

Qual è, allora, il senso di una raccolta storie di fronte a un servizio strutturato in tal modo e se la verità non è più il focus dell’incontro? L’obiettivo dichiarato non è e non può essere quello della costruzione di una storia performante che possa portare al riconoscimento di una forma di protezione internazionale, ma di fatto è quello che accade. L’obiettivo diventa quindi quello di preparare il richiedente asilo alla performance in Commissione o promuovere un processo di coscientizzazione (Freire, 2002) attraverso il disvelamento delle contraddizioni strutturali? Direi entrambe le cose. Come rendere questi concetti multisfaccettati al richiedente asilo in un setting come quello descritto e nella complessità del lavoro nell’accoglienza, è un problema che richiede grandi doti comunicative e di adattamento in base a chi si ha di fronte in ogni differente situazione relazionale.

Elemento strutturante imprescindibile con cui gli operatori devono misurarsi sono i limiti del proprio intervento. Nel servizio di preparazione alla Commissione sarebbe presuntuoso aspettarsi che in due colloqui tutte le informazioni sull’iter di richiesta asilo e una reale presa di coscienza dei meccanismi di funzionamento della Commissione venissero appressi pienamente dai richiedenti asilo. Le aspettative degli operatori rispetto alle proprie azioni nel contesto professionale devono spesso essere molto più realistiche e mediate. Spesso ciò implica la necessità di ridimensionare gli obiettivi delle proprie azioni attraverso una buona dose di realismo.

Il nostro intervento è calato in un contesto preciso, sia di organizzazione aziendale, che in ciò che possiamo definire come il «meccanismo di gestione e controllo delle migrazioni». Meccanismo composito, agito, come ho cercato di descrivere, da una molteplicità di attori in campo. La nostra azione ha quindi dei limiti strutturali evidenti, anche se sfumati e non precisamente indicati. Noi operatori siamo uno di quegli attori e esserne consapevoli è irrinunciabile.

Mutuando il ragionamento di Basaglia (Basaglia e Ongaro, 1975/2009), descritto nel bellissimo saggio contenuto nel volume collettivo Crimini di Pace, la distanza fra l’ideologia e la pratica è evidente e il terreno in cui si scontrano è all’interno dei servizi in cui lavoriamo ogni giorno.

 

Conclusioni parziali: gestire i posizionamenti molteplici

La varietà dei campi in cui sono implicato è uno stimolo alla ricerca e all’elaborazione teorica.7Ho accesso a persone, dati, informazioni, luoghi, attività, spazi che sono un continuo pungolo alla riflessione e rielaborazione. La mia presenza come attore sia di ricerca che operativo – quindi con compiti, responsabilità e ruoli definiti – mi costringe a una continua rinegoziazione del mio stare nei campi che attraverso. Come ricercatore e antropologo cerco di seguire gli sviluppi della letteratura scientifica attorno alla presenza nel mondo dell’accoglienza dei numerosi antropologi-operatori che operano nell’ambito.

Il recente numero di «Antropologia Pubblica» (n. 3, 2017) è un condensato di articoli meditati e scritti da autori con esperienze simili a quella che vivo e ho vissuto nella mia carriera fino a ora. Citando un passaggio a mio avviso chiave dell’introduzione di quel volume, Altin e Sanò (2017, p. 9) scrivono: «forse mai come in questo ambito si può parlare di un ruolo critico dell’antropologia pubblica chiamata a schierarsi e a interrogarsi sulla problematica triangolazione tra migranti, istituzioni pubbliche (questura, prefettura, commissioni territoriali, municipalità, ecc.) e terzo settore (Ong, associazioni, cooperative e servizi di assistenza)» (Riccio, 2016).

In uno dei testi storici per i Refugee Studies, Imposing Aid, Harrel-Bond (1986) rimarcava la convinzione che la ricerca «sui» rifugiati dovrebbe essere utilizzata «per» i rifugiati. Aggiungo che la ricerca sul sistema d’accoglienza dovrà essere utile anche per gli operatori del settore intrappolati, come ho cercato di descrivere, in un sistema intricato di poteri e relazioni che merita e richiede un costante livello di riflessione teorica sulle prassi attuate dagli operatori. Come coniugare le differenti esigenze degli attori che si muovono nello scenario, e tradurre nella pratica quotidiana quel corpus teorico maturato nella riflessione sul proprio agire, è la sfida principale che cerco di pormi. La sfida da cogliere è quella di coniugare il ruolo dell’operatore a quello del ricercatore e riuscire a trovare un ruolo pubblico per il sapere e la conoscenza che si produce all’interno dei servizi. Trovare quindi un ruolo professionale per gli antropologi-operatori e dare spazio al loro lavoro di riflessione.

Citando ancora il recente numero di Antropologia Pubblica, in un interessante dibattito tra Saitta e Cutolo (2017, pp. 205-206), il secondo, in risposta a una spietata e necessaria critica del primo replica così (il tema è il ruolo degli antropologi assunti a vario titolo nel sistema d’accoglienza): «mi è venuta in mente, pensando a queste figure, la nozione di “profanazione” dei dispositivi elaborata da Giorgio Agamben (2006; 2008), che la intende come “restituzione all’uso comune di ciò che è stato catturato e separato in essi” (Agamben, 2006, p. 34). [...] Quella che mi è sembrato di potere intravedere (o immaginare) nei resoconti dei laureati operatori è una profanazione che si attua nel contatto con le vite dei richiedenti, restituendole a spazi di relazione e non di eccezione, di riconoscimento e non di controllo».

Cutolo prosegue così citando ancora Agamben: «Poiché laddove non si riesca ad agire direttamente sul dispositivo per scardinarlo (e senza rinunciare ad operare, in ambito politico perché ciò avvenga), si può intervenire al suo interno per far deragliare le soggettivazioni che vi hanno luogo» (Agamben, 2006, p. 35).

Questo passaggio è a mio avviso centrale: esso rappresenta una sorta di manifesto programmatico dell’antropologo-operatore. Non risponde in toto alla critica ineccepibile di Saitta che è politicamente ed eticamente inattaccabile, ma la assume e se ne fa carico nel tentativo di proporre una strategia percorribile con la consapevolezza che i margini di manovra, gli interstizi, sono davvero esigui; ma ci sono. Il rischio dell’operatore-salvatore è però dietro l’angolo e rappresenta uno dei nemici da combattere: è importante avere ben chiari i limiti del lavoro all’interno del sistema d’accoglienza.

L’antropologo inserito nel sistema d’accoglienza di per sé potrà fare poco; l’obiettivo non può certo essere quello di un riconoscimento formale del mestiere dell’antropologo e di relativi diritti di casta. Chi è all’interno del sistema di accoglienza e dispone degli strumenti critici dell’antropologia potrà però sicuramente tradurli in pratica e utilizzarli nell’esercizio della sua funzione, qualunque essa sia. Come attuare pratiche di accoglienza critiche e con modelli alternativi è la sfida quotidiana che l’antropologia può raccogliere. Sfida quotidiana che chi lavora nell’accoglienza vive ogni giorno, fatta di continue negoziazioni, battute di arresto, scatti in avanti, cadute rovinose, frustrazioni, piccole e grandi soddisfazioni che contraddistinguono il lavoro quotidiano dell’operatore.

Provando a reinserire una delle azioni professionali che ho descritto (in questo caso la raccolta storie) nel più ampio scenario in cui operiamo e in cui la mia competenza antropologica è parte del mio intervento professionale questo passaggio di Altin e Sanò (2017, p.16) mi risuona nella mente: «ci si domanda se non sia forse più opportuno interpretare il ruolo dell’antropologia applicata in questi contesti come una non-azione [...]. Tale interpretazione comporta che l’antropologo-operatore ricopra un ruolo di testimonianza attiva che espliciti la non accondiscendenza al regime, non già schierandosi secondo una semplificata logica contrappositiva (associazionismo vs. poteri giudiziari), ma piuttosto cercando di fungere davvero da osservatore non partecipante».

Non partecipare quindi alla costruzione e alla legittimazione, per quanto possibile, del regime di frontiera e di sospetto di cui parla Vacchiano, sottraendosi in maniera consapevole alle logiche di selezione dei soggetti e di costruzione di soggettività performanti cercando di superare lo spauracchio della ricerca della verità, superando il regime del sospetto, non ponendosi come obiettivo la ricerca della verità.

È chiara allora la continuità tra i due campi di ricerca che ho presentato e che ho attraversato – e attraverso – con differenti ruoli e posizionamenti. La continuità si concretizza attraverso l’attuazione del regime di sospetto, attraverso il dispiegamento di quell’apparato composito di pratiche pedagogiche e disciplinari (Pinelli, 2013) che sottendono il lavoro con i rifugiati e richiedenti asilo. In quest’ottica il lavoro con i richiedenti asilo diventa così una complessa «macchina della verità», che da un lato «accerta» e dall’altro «performa» comportamenti consoni a una disciplina collettiva di governo di una parte del fenomeno migratorio.

Citando ancora Vacchiano (2011, p. 190), «la differenza, ovvero la capacità dei soggetti di costruire percorsi alternativi articolando un sistema di priorità personali altro rispetto all’istituzione, si trasforma così in motivo di sospetto e di inquietudine per quanti sono impiegati all’interno dei differenti campi professionali implicati nella gestione dei richiedenti asilo e rifugiati».

La costruzione della categoria sociale di richiedente asilo ci parla dunque dei regimi di accoglienza e controllo delle società occidentali e di come gli individui si muovono, agiscono e reagiscono all’interno del multiforme ambito del «governo umanitario» (Fassin, 2011b, citato in Giudici).

Abdicare ai ruoli imposti e autoimposti a quanti lavorano nel sistema d’accoglienza è la sfida da cogliere e l’azione di sovvertimento più grande che gli operatori possono compiere. Il lavoro di decostruzione del sistema manicomiale e di gestione della «malattia mentale» fatto da Basaglia, seguito dalla necessaria ricostruzione di un modello di gestione attraverso la sperimentazione e l’implementazione di un’alternativa, è un’utopia concreta e potrebbe rappresentare un modello di lavoro a cui ispirarsi anche all’interno del sistema di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati.

Elemento necessario alla comprensione del proprio lavoro nel sistema è dunque la consapevolezza della situazione politica che determina l’esistenza di questo modello di accoglienza e gestione dei richiedenti asilo che ha precise ragioni d’essere e che non è l’unico modo possibile e pensabile di gestire le migrazioni forzate.

Occorre quindi partire da una riflessione critica dell’attuale normativa che regola la permanenza e l’ingresso dei migranti da cui derivano gran parte dei problemi odierni in cui ci troviamo a lavorare quotidianamente. Perché fino a quando non esisteranno altre forme di ingresso in Italia e in Europa sganciate da un contratto di lavoro che deve essere pronto prima di arrivare qui, l’unica soluzione sarà quella di continuare ad arrivare attraverso vie illegali tentando una regolarizzazione attraversando il sistema di richiesta di protezione internazionale: quindi passando necessariamente da uno dei servizi rivolti ai richiedenti asilo e reificando il modello di gestione esistente e costruendo necessariamente soggettività performanti e rispondenti all’immagine del «richiedente asilo». Perché fino a quando le persone dovranno passare dal vaglio di una Commissione che legittimi la loro esistenza sociale sarà necessario prepararle o per lo meno informarli di questi meccanismi di assoggettamento.

 

 

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Note

1 I Cas, Centri di Accoglienza Straordinaria, sono i centri di accoglienza emergenziali, pensati per sopperire alla mancanza di posti negli Sprar. Sono allestiti localmente dalle Prefetture, che di norma ne affidano la gestione a cooperative sociali e associazioni. Negli ultimi tempi i Cas hanno accolto soprattutto richiedenti la cui domanda di asilo è ancora in corso di esame. Il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) è la rete pubblica dei centri di accoglienza ordinari distribuiti sul territorio. Il sistemaè coordinato a livello nazionale dal ServizioCentrale (organismo che fa capo all’Anci), e localmente dai Comuni aderenti alla rete. Di norma, i Comuni delegano la gestione dei singoli centri a cooperative o associazioni.
2 Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.Spesso chiamata semplicemente CommissioneTerritoriale o Commissione, è l’organismoincaricato di valutare le domande di asilo, edi decidere se gli interessati hanno diritto allo status di rifugiato o agli altri status di protezione.Ne fanno parte quattro membri: due appartengono al Ministero dell’Interno (vengono cioè dalle Prefetture e dalle Questure),uno è espressione dei Comuni (è nominatodalla Conferenza Stato - Città ed autonomielocali), l’ultimo è il rappresentante dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati.
3 Utilizzo il termine generico di «operatore sociale» e non di educatore perché all’interno del sistema di accoglienza lavorano figure professionali differenti sia in formazione (non solo educatori professionali con titolo) che ruoli. Tipica del sistema d’accoglienza è la grande eterogeneità dei percorsi formativi e curricolari dei lavoratori impiegati. Con il termine «operatore» intendo quindi fare riferimento a tutti coloro che si trovano a espletare una funzione socio-educativa nel sistema d’accoglienza indipendentemente dal titolo professionale acquisito.
4 Nella riflessione sulla condizione dei richiedenti asilo ospitati nel centro in cui lavoravo ha avuto un ruolo centrale l’analisi di numerosi testi recenti sulle migrazioni forzate e la loro gestione che fanno riferimento all’apparato teorico e concettuale sulle istituzioni totali (Goffman, 2003), sulla concezione del potere governamentale e disciplinare (Foucault, 1976) e il paradigma del campo di Agamben (1995). La normativa prevede l’obbligo per gli enti locali di inserimento presso le proprie liste anagrafiche dei cittadini residenti stabilmente sul proprio territorio (si veda il documento Linee guida sul diritto alla residenza dei richiedenti e beneficiari di protezione internazionale redatto da Sprar, Asgi, Unhcr, Anusca nel 2015). Ciò nonostante tantissimi comuni si rifiutano di inserire in anagrafe – e quindi di concedere residenza e carta d’identità – a chi vive nei centri di accoglienza straordinaria, violando palesemente la normativa. Ciò causa non pochi problemi ai richiedenti asilo: per esempio, senza carta d’identità è praticamente impossibile trovare un lavoro regolare.
5 Sui fallimenti a medio-lungo termine dei progetti di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati si veda a titolo esemplificativo: Medici Senza Frontiere, Fuori campo 2017; Associazione Diritti e Frontiere e Associazione Straniamenti: Accogliere rifugiati e richiedenti asilo. Manuale dell’operatore critico, 2017; Oxfam: La lotteria italiana dell’accoglienza. Il sistema dell’emergenza permanente, 2017.
6 Vacchiano (2011) così chiarisce il concetto: «intendo il riferimento alla moltiplicazione di dispositivi e apparati finalizzati non solo a regolare gli ingressi di migranti, ma più propriamente a costruire, attraverso l’insieme delle procedure connesse ai flussi migratori, anche un nuovo sistema di differenziazione dei diritti e della cittadinanza».
7 Nel 2016 il gruppo che si era strutturato intorno al progetto di preparazione alla Commissione decise un ulteriore passo fondando una cooperativa sociale, la Glob Onlus. La cooperativa è costituita da persone con differenti esperienze professionali e percorsi personali. Si può tratteggiare ciò che viene definita un’equipe multidisciplinare: avvocati, antropologi, educatori, psicologi, assistenti sociali, amministrativi; sono queste le figure professionali che trovano rappresentanza all’interno della cooperativa e lavorano fianco a fianco. Obiettivo della cooperativa è quello di offrire servizi al territorio rivolti in particolare ai migranti attraverso la realizzazione di progetti gestiti dai propri soci-lavoratori. In questo contesto proseguo il mio lavoro nel progetto di preparazione individuale alla Commissione.Parallelamente dalla fine del 2016 porto avanti una ricerca di dottorato in Antropologia presso l’Università Bicocca di Milano sui temi dell’accoglienza e della richiesta protezione internazionale, con un focus sulle figure professionali implicate nel settore.

DOI: 10.14605/EI1611804


© 2018 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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