Test Book

Esperienze e progetti / Experiences, programmes, projects

Essere di utilità a chi? Salvaguardare che cosa? Riflessioni e sentimenti del lavoro antropologico nell’ambito della certificazione sanitaria per richiedenti asilo
Being useful to whom? Safeguarding what? Reflections and feelings on anthropological work in the field of health certification used for asylum seekers

Maria Concetta Segneri

Laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza, si forma nell’ambito dell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati. Partecipa a diverse ricerche di carattere antropologico clinico, l’ultima delle quali sul tema delle conseguenze sulla salute del viaggio migratorio


Autore per la corrispondenza

Maria Concetta Segneri
Indirizzo e-mail: MariaConcetta.Segneri@inmp.it
Via Di S. Gallicano, 25, 00153, Roma.



Sommario

Il peso che ha progressivamente acquisito la certificazione sanitaria in sede di valutazione delle istanze di protezione internazionale è un esempio della crisi che sta vivendo il diritto di asilo in Europa già da diversi anni. In tale contesto la sanità è usata per limitare l’accesso all’asilo e per rimandare un’assunzione di responsabilità politica necessaria. Gli interrogativi che si pone l’autrice coinvolta nella produzione di queste certificazioni sono illustrati utilizzando le consulenze antropologiche realizzate nel corso del 2017 all’interno di un poliambulatorio romano; nello specifico sono riportati tre casi di giovani nigeriani, scelti perché questa popolazione incontra maggiori difficoltà nel riconoscimento della protezione internazionale. A oggi, non si ha modo di conoscere il peso concreto che queste certificazioni hanno nel processo valutativo delle istanze di protezione, ciò nonostante gli operatori sanitari sono spinti dalla propria deontologia ed etica professionale a realizzarle comunque. Di contro, aderire a questa procedura burocratica non aiuta a restituire valore al diritto d’asilo bensì perpetua il dispositivo di potere creato per depauperarlo. L’autrice si interroga su queste contraddizioni illustrandone le implicazioni professionali e personali.

Parole chiave

Richiedenti protezione internazionale, certificazione sanitaria, antropologia medica.


Abstract

The importance that health certification has acquired regarding evaluation of appeals for international protection is an example of the crisis that the right of asylum has been going through in Europe for several years now. In such a context, health is used to limit access to asylum and to postpone an assumption of necessary political responsibility. The questions posed by the author, who is involved in the production of these certifications, are illustrated using the anthropological consultations carried out in 2017 in a health centre in Rome; specifically three cases of Nigerian young people are reported, who were selected because this population encounters severe difficulties with recognition of international protection. We still do not understand the actual consequences that these certifications have in the evaluation of appeals for protection; nevertheless, health operators are led by their ethics to realise what they could be. Conversely, sticking to this bureaucratic procedure does not help us to restore value to the right of asylum; on the contrary, it perpetuates the powerful device created to impoverish it. The author questions these contradictions, illustrating their professional and personal implications.

Keywords

Applicants for international protection, health certification, medical anthropology.


Introduzione

La riflessione che si riporta è frutto di osservazioni maturate in 10 anni dal lavoro antropologico presso il poliambulatorio dell’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà (INMP) di Roma,1 in collaborazione con un gruppo di professionisti, fra mediatori culturali, assistenti sociali, infermieri, medici e psicologi. Un contesto sanitario popolato da persone con competenze molteplici basate su orizzonti divergenti, che hanno individuato nel tempo modalità complementari nel lavorare insieme. Uno spazio di collaborazione conflittuale e negoziale animato dalla perpetua sfida di trovare una sintesi sempre nuova tra le scienze naturali e quelle sociali secondo l’ottica della complessità e dell’integrazione tra i saperi (Prigogine e Stengers, 1991/1999). Un’équipe finalizzata ad accogliere le domande di salute portate da una molteplicità di persone provenienti da contesti socioculturali differenti; nel tempo si è dotata anche di dispositivi clinici all’avanguardia, ma che fondamentalmente ha acquisito con l’esperienza una postura intellettuale ed emotiva tale da rispondere a variegate richieste di salute (Fortino et al., 2016).

Nel poliambulatorio, l’antropologia, insieme alla mediazione culturale, condivide l’ambito di competenza che favorisce lo scambio, individua le barriere, supera i malintesi nella relazione diretta fra persone con provenienze differenti. Il loro incontro interdisciplinare ha non poche difficoltà nell’interazione, sia perché il servizio sanitario nella sua organizzazione aziendale e nella sua forma mentis fa fatica a digerire i cambiamenti che queste due figure impongono all’approccio clinico, sia perché la mediazione culturale, più dell’antropologia, non ha ancora acquisito una postura professionale tale da abitare i setting clinici con maggiore autorevolezza. Al di là di tutto ciò, antropologi e mediatori culturali, con le dovute differenze, collaborano nell’esplicitazione delle mille diramazioni mediante cui si esprime la differenza socioculturale.

La sensibilità storica che la clinica psicologica ha mostrato nei confronti del sapere antropologico (Pendezzini, 2014) ha facilitato l’interazione fra di esse; cosa non avvenuta ancora con la biomedicina, che si destreggia nel trovare una sintesi fra quello che le impone l’azienda sanitaria e l’interesse verso l’approccio etnografico (Angelino, 2007; Martino et al., 2014). In questo tentativo di integrazione difatti la biomedicina continua a chiedersi se tutte le problematiche di salute richiedano un approccio multidisciplinare, oppure se la collaborazione con l’antropologia debba essere legata a specifiche linee di ricerca finalizzate a interrogare elementi di criticità osservati con frequenza nella clinica.

In tale realtà, il servizio2 di antropologia del poliambulatorio dell’INMP si destreggia nel fare etnografia, ricerca, produrre conoscenze e riflessioni. Il suo obiettivo è di stare nell’efficacia dell’intervento clinico, senza cadere vittima di quell’ossessione verso la misurabilità, nei confronti della quale l’antropologia gioca una partita importante: dimostrare la propria sostenibilità nel servizio sanitario nazionale. Infatti, è a partire dall’INMP che il ruolo dell’antropologo è veicolato come fulcro degli approcci interculturali in sanità.

Nel lavoro con le persone richiedenti protezione internazionale, una delle criticità maggiormente osservate è data dalla risposta alla richiesta crescente di certificazioni connesse al riconoscimento dell’istanza di asilo, vale a dire quelle indagini cliniche che sono richieste da pazienti, avvocati, commissioni e tribunali nel processo di regolamentazione di chi entra in Italia con richiesta di protezione internazionale. Presso il poliambulatorio dell’INMP, dopo vari tentativi, a seguito di confronti, riflessioni e perplessità interne all’équipe (Tumiati, Segneri e Gutierrez, 2012; Gatta et al., 2014; Segneri e Gatta, 2017), è stata individuata una strategia e sono stati stabiliti dei canali specifici per far fronte a tale richiesta, senza riuscire tuttavia a eliminare del tutto quelle incongruenze e quei sentimenti contrastanti alimentati dalla questione. L’autrice ha cavalcato queste incongruenze fin da subito, ha abitato questa inquietudine e si è assunta il suo ruolo e le sue responsabilità nel rispondere alla collaborazione che i clinici impegnati in questa attività le hanno avanzato. Nonostante ciò il servizio di antropologia si interroga ancora sul senso del lavoro prodotto per questo ambito specifico. La riflessione che segue vuole raccogliere alcuni di questi interrogativi, esplicitarli e raccontare con essi anche i sentimenti che li accompagnano.

 

Il servizio di antropologia medica

Dopo alcuni anni di sperimentazione nell’interazione con le altre figure professionali presenti all’interno del poliambulatorio, soprattutto il continuo e profondo scambio con la psicologia e con alcune cliniche biomediche all’interno di specifiche linee di ricerca, le antropologhe del servizio di antropologia hanno voluto usare il linguaggio del servizio sanitario per assumere una postura che rendesse maggiormente fruibile la loro collaborazione da parte del corpo sociosanitario.

Raccolti gli esiti di un questionario interno diretto a tutti i professionisti del poliambulatorio3 ove si interrogava il reale bisogno della prospettiva antropologica nel lavoro quotidiano, le antropologhe hanno stilato una procedura interna di ingaggio della disciplina che rispondesse alle necessità palesate senza venir meno alle sue peculiarità. Tale procedura successivamente ha acquisito le sembianze di un protocollo sanitario che ha decretato uno spartiacque tra ciò che era stato sperimentato fino a quel momento e ciò che integrava l’esperienza maturata con le esigenze disciplinari.

Dal luglio del 2014, il servizio di antropologia medica, che conta due unità, collabora con tutto il personale sociosanitario mediante attività di consulenza alla clinica, ricerca specifica e formazione interna. Mentre le prime due attività sono state avviate fin da subito, l’ultima fa fatica nel vedersi riconoscere uno spazio di ingaggio permanente dovuto alla difficoltà nel riconoscere sufficiente legittimazione a momenti di confronto, scambio e supervisione multidisciplinari da parte dell’azienda sanitaria di appartenenza.

Scendendo nel dettaglio delle consulenze, all’interno delle quali si colloca il lavoro svolto per i clinici che chiedono una collaborazione in visione delle certificazioni sanitarie diretta alle persone richiedenti protezione internazionale (RPI), è necessario anzitutto indicare cosa si intenda per consulenza e quale sia il motivo per cui è richiesta. Si tratta di un approfondimento che il clinico chiede dopo essere entrato in contatto con una difficoltà epistemologica, cognitiva, empatica con il paziente che ha in cura.

Alla luce di questa difficoltà, associata alla diversità socioculturale tra medico-paziente, il clinico chiede l’intervento dell’antropologo affinché possa svolgere il suo ruolo con maggiore serenità e appropriatezza, nell’ottica di far emergere sia i differenti orizzonti di significazione in campo, che i possibili determinanti della salute (Costa et al., 2014) in gioco. Questa collaborazione può avvenire in assenza oppure in presenza del paziente; questo ultimo può incontrare l’antropologa fuori dal setting clinico. La mediazione culturale può prendere parte a questi incontri di approfondimento, oppure no. L’organizzazione della modalità lavorativa è infatti condizionata da molteplici fattori legati sia al poliambulatorio che alla disponibilità del paziente.

Dopo l’inquadramento dell’oggetto concreto della consulenza, l’antropologo raccoglie il dato etnografico tramite riunioni con il clinico e colloqui con il paziente, dando in seguito inizio a un approfondimento bibliografico sull’oggetto dell’analisi. L’indagine si conclude con una sintesi restituita al clinico mediante la quale egli potrà rimodulare la sua postura e le sue ipotesi relativamente alle criticità osservate nella presa in carico del paziente.

A oggi, il servizio di antropologia ha riscontrato una maggiore richiesta di consulenze da parte degli psicologi che non dei medici. Per tale motivo è stato richiesto un confronto collettivo con l’obiettivo di comprenderne le ragioni, soprattutto da parte di quegli ambulatori che ne hanno esplicitato la volontà ma si trovano in difficoltà nel riconoscere quali siano concretamente gli ambiti ove attivare la consulenza antropologica e come adeguare i tempi della clinica alle indagini etnografiche.

 

Le consulenze antropologiche per l’attività di certificazione sanitaria

Tra le persone che si rivolgono al poliambulatorio ci sono molti RPI che al momento dell’accesso si trovano in fasi diverse del loro percorso di regolamentazione. Alcuni hanno appena presentato istanza di asilo presso gli uffici della questura, altri sono in attesa di essere ascoltati dalla commissione territoriale, altri sono in attesa di ricevere l’esito di questa audizione, altri hanno inoltrato il ricorso in tribunale a causa del diniego ricevuto dalla commissione territoriale oppure sono in attesa del suo esito.

L’accoglienza da parte del poliambulatorio di questa numerosa e molto eterogenea popolazione ha attraversato differenti fasi organizzative al cui centro è stato sempre posto un servizio dedicato che fungesse da raccordo tra le attività poliambulatoriali e quelle esterne ad esso. Negli ultimi anni questo servizio si è occupato esclusivamente della presa in carico delle persone che intendessero avviare un percorso di certificazione sanitaria (CS) a supporto della propria istanza di asilo; attività che richiede la collaborazione di diversi professionisti e con soggetti esterni all’istituto, avvocati, operatori dei centri di accoglienza, medici di base, azienda sanitaria locale, commissioni territoriali, enti del terzo settore che forniscono servizi alle persone RPI. Un ristretto gruppo di mediatori culturali si occupa di tale servizio, tenendo le fila dei passaggi interni agli ambulatori che le persone eseguono per poter ottenere la suddetta CS. Tra i professionisti coinvolti in questa attività possono esserci anche gli antropologi, il cui intervento è richiesto dai clinici, oppure direttamente dai mediatori culturali che lavorano nel servizio.

Le consulenze antropologiche richieste per ragioni di CS sono state molto numerose nel corso degli anni, andando a occupare uno spazio sempre più significativo. Benché le persone per le quali esse sono state realizzate provenissero da molteplici Paesi – quelli a cui fa riferimento il dato nazionale (libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/documentazione/statistica/i-numeri-dellasilo), questa riflessione si focalizzerà esclusivamente su quelle riguardanti le persone nigeriane per due motivazioni. La prima, perché le consulenze per questa popolazione hanno conosciuto un importante incremento nel corso degli anni, così come questa popolazione è diventata sempre più numerosa a livello nazionale rispetto ai nuovi arrivi (ANCI et al., 2017). La seconda, perché si tratta di consulenze complesse da diversi punti di vista.

Infatti esse richiedono approfondimenti antropologici su tematiche dal difficile riscontro bibliografico, che si scontrano con un dato nazionale ove le istanze di asilo delle persone nigeriane sono di fatto quelle con maggiori dinieghi e la popolazione è annoverata tra quelle che subisce maggiori rimpatri nel paese di origine (Bagnoli e Civillini, 2017).4

Inoltre, la maggior parte di queste persone proviene da stati federali ove non è conclamata la presenza di conflitti ad alta intensità e risulta ancora più difficile sottolineare condizioni di violenza generalizzata oppure di persecuzione sociale, a fronte invece di una condizione di grave precarietà economico-sociale ben conosciuta (Office of the Senior Assistant to the President on SDGs e National Bureau of Statistics, 2017) che fa associare queste emigrazioni a quelle per motivi economici.

Per tale motivo, risulta assai difficile fornire osservazioni antropologiche che possano essere significative in seno a queste consulenze, producendo conoscenze che vanno di fatto in controtendenza rispetto ai giudizi espressi dalle istituzioni.

Esistono tuttavia delle eccezioni, ed è questo l’ambito che diventa più critico per le consulenze antropologiche, perché è quello dove si deve fare i conti con le tante diramazioni della violenza strutturale (Farmer, 2004) –, quella tipologia di violenza esercitata indirettamente dall’organizzazione sociale stessa e dalle sue profonde disuguaglianze – e con il fior fiore delle inquietudini attivate. Si tratta delle persone nigeriane le cui narrazioni si iscrivono in quell’identikit ormai riconosciuto a livello nazionale che si riferisce alle vittime di tratta e grave sfruttamento lavorativo (Dipartimento delle Pari Opportunità, 2016; GRETA, 2016), oppure che palesano un malessere la cui illness (Kleinman et al., 1978) – l’esperienza soggettiva della malattia – è riconducibile a categorie diagnostiche culturalizzanti, oppure ancora che associno la pratica escissoria subita nel Paese d’origine a una forma di violenza di genere (Save the Children, 2015; Amnesty International, 2017; UNICEF, 2017); in questi casi ci sono buone possibilità che questa popolazione si veda riconosciuta la protezione.5

È intorno a questi margini di possibilità che nascono mille interrogativi, anche perché, trattandosi spesso di persone che hanno ottenuto un diniego alla loro istanza di asilo e che provano a farsi riconoscere una forma di protezione internazionale in tribunale, i margini di successo si riducono, con la conseguenza che gli esiti delle certificazioni e quindi anche delle consulenze antropologiche si ritrovano caricati di un valore e di un’importanza che vanno ben oltre la loro reale natura (James e Killick, 2012; d’Halluin, 2009; Fassin e d’Halluin, 2005), cosa che è diventata ancora più evidente con l’entra in vigore della legge n. 46, 13 Aprile 2017 (Savio, 2017; Dal Lago, 2017; Camilli, 2017).

La criticità maggiore è quella che la procedura per l’asilo dia valore a questi certificati sanitari e relazioni antropologiche al posto di mantenersi centrata sul ruolo che hanno le vicende narrate dalle persone che si dichiarano costrette a fuggire dal proprio Paese e, non ultimo, sul coinvolgimento che il Paese ospitante ha verso quelle motivazioni, senonché su altre che ne fanno da cornice. Così accade che la sanità e gli operatori implicati in tali procedure siano costretti a indossare gli abiti del funzionario pubblico, del commissario, del giudice e a valutare prima degli altri quali possibilità potrà avere la persona di essere creduta e riconosciuta nella sua richiesta di asilo (Ong, 2003/2005).

Basandosi però la medicina, come la psicologia, senza parlare dell’antropologia, di ambiti dove la certezza assoluta non esiste (Hollifield et al., 2002; Beneduce, 2008; Johnson, 2011), i professionisti si trovano costretti da una parte a cercare strumenti che non li chiudano in griglie interpretative troppo rigide, dall’altra ad accertarsi che ciò che osservano possa essere verosimile, trovando così nella multidisciplinarietà un appiglio. L’antropologia, da parte sua, è una disciplina che produce una conoscenza il cui impatto auspica a essere positivo sia sul soggetto di studio che sul destinatario della propria produzione, creando consapevolezza, riflessività, capacità di dialogo e di mediazione. Sa che la conoscenza che produce è soggettiva, negoziata, relazionale, dinamica (Pinelli, 2013). Sa che i contesti, gli eventi, le situazioni sono l’effetto di molteplici dinamiche le cui origini possono essere anche transnazionali e globali. Sa che gli orizzonti di significazione socioculturale si nutrono di dimensioni molteplici (il periodo dei grandi imperi africani, la schiavitù, il colonialismo, l’indipendenza, la politica militare e partitica, le attività economiche, l’organizzazione sociale, la coabitazione di una pluralità di gruppi sociali, le norme sociali, le pratiche rituali, ecc.) e fluttuano in una dimensione temporale che non pone confini tra passato, presente e futuro (Anders, 2014).

Alla luce di ciò, per l’antropologia diventare parte di un processo al termine del quale la persona potrà vedersi riconoscere o meno un diritto apre la porta a grandi dissidi etico-morali e a svariati sentimenti contrastanti. In aggiunta, dopo tutto l’impegno profuso per realizzare una CS, non c’è modo di sapere quanto questa abbia peso o meno nella decisione finale dei commissari oppure dei giudici. Difatti, nelle decisioni prese, positive o meno, non è esplicitato con chiarezza il peso che essa ha avuto. Allora, perché sono richieste? Viene da rispondere: per creare burocrazie e scoraggiare le persone RPI. E in ultimo, perché continuare a perpetuare questa procedura che in definitiva depaupera il diritto d’asilo? Segue come risposta: in assenza di informazioni certe sulla sua utilità non si può girare le spalle a simili richieste se ciò significa offrire uno spiraglio al riconoscimento di un diritto di soggiorno, che diventa anche di esistenza (O’Donnell et al., 2007; Willen e Seeman, 2012).

 

Le consulenze antropologiche diretta a persone nigeriane

Questa riflessione prende spunto dalle consulenze antropologiche che l’autrice ha realizzato per le persone nigeriane da luglio 2017 a dicembre 2017, avendo strutturato i dati solamente quando è stato approvato il protocollo del servizio di antropologia. In tale periodo sono state realizzate 28 consulenze destinate per la maggior parte al lavoro di CS effettuato dai clinici dietro richiesta di pazienti RPI oppure di soggetti terzi. Si tratta di approfondimenti antropologici compiuti su un gruppo di 20 donne e 8 uomini, provenienti soprattutto dallo stato federale nigeriano dell’Edo, aventi un’età media di 28 anni, provvisti di un regolare permesso di soggiorno, ma in attesa che il tribunale revisionasse la propria istanza di asilo respinta dalla commissione territoriale. Persone che presentavano in media un livello di alfabetizzazione medio-basso, non coniugate, che si trovavano in Italia da circa un anno, di confessione protestante e che avevano parenti in vita nel Paese d’origine, in alcuni casi anche figli lasciati in cura ai familiari più stretti. Si trattava di persone emigrate forzatamente dal loro Paese a causa di discriminazioni, persecuzioni e violenze di natura religiosa e sociale, oppure che erano in fuga da conflitti a bassa intensità.

Gli agenti di persecuzione dai quali fuggivano avevano caratteristiche molto differenti: poteva trattarsi di parenti, conoscenti e vicini di casa, oppure di collettività di tutt’altra natura come confraternite universitarie, società segrete e gruppi terroristici. In alcuni casi avevano sperimentato anche un’emigrazione interna al paese, prediligendo quegli agglomerati urbani resi noti dalla diffusa mobilità interna (Mberu e Pongou, 2010; Okhankhuele e Opafunso, 2013), ma nella maggior parte dei casi queste persone avevano lasciato il Paese alla ricerca di un nuovo inizio presso luoghi che potevano offrire loro maggiori possibilità. In quest’ottica la Libia poteva aver rappresentato nel loro immaginario una meta iniziale, per poi diventare luogo di imbarco verso l’Europa (Schapendonk e Steel, 2014). La maggior parte in Libia aveva sperimentato discriminazioni e violenze (Amnesty International, 2017; Fassini, 2017; Mannocchi, 2017).

Le loro istanze erano state rigettate dalla commissione territoriale perché le motivazioni che essi avevano riferito come causa della migrazione forzata erano apparse poco credibili; le loro narrazioni erano sembrate poco congruenti; le fonti che i commissari avevano consultato non accennavano agli eventi che le persone avevano riferito e, soprattutto, non lasciavano intendere che tale stato di cose le avesse messe in condizione di lasciare il proprio Paese senza altra possibilità, come chiedere protezione al proprio stato, emigrare temporaneamente in un altro stato federale, oppure presso un Paese limitrofo.

Tra le consulenze antropologiche realizzate insieme a questo gruppo di persone, sono state scelte quelle più esemplificative rispetto all’argomento di riflessione, quest’ultimo sintetizzato nel modo seguente: le osservazioni antropologiche in questo specifico ambito sono utili a chi? Che cosa vanno a tutelare? Ha senso continuare a realizzarle? I tre casi scelti sono interessanti perché mettono in campo delle tematiche molto dibattute all’interno del sistema d’asilo italiano, ossia: le questioni di animismo e di voodoo (Taliani, 2012), le MGF,6 lo sfruttamento sessuale (Long, 2004) e le confraternite universitarie. Si tratta di giovani incontrati nel 2017, provenienti dall’Edo State, inviati dal loro avvocato presso il poliambulatorio dell’istituto con una richiesta di screening medico, comprensivo di approfondimento antropologico, finalizzato al rilascio di una CS da depositare in tribunale per la causa di ricorso attivata. Infatti, è sempre più diffuso che gli studi legali, oppure gli sportelli legali per RPI, si rivolgano al poliambulatorio conoscendone le peculiarità e l’operato.

Nel primo caso, il clinico ha richiesto un approfondimento.7 sui significati culturali della sintomatologia osservata al fine di valutare la possibilità di un’eventuale diagnosi culturalmente determinata. Nel secondo caso, l’approfondimento antropologico è stato richiesto sull’esperienza soggettiva della pratica escissoria vissuta dalla paziente prima della migrazione forzata. Nel terzo caso, la mediatrice culturale del servizio rivolto alle persone RPI ha chiesto un approfondimento sulla doppia persecuzione narrata dal paziente, la prima per mano di un creditore privato a cui sua madre avrebbe chiesto un prestito per avviare un’attività commerciale, la seconda per opera di alcuni membri della confraternita studentesca Aye a cui il paziente avrebbe inizialmente aderito senza conoscere in dettaglio quali fossero le attività che la contraddistinguevano localmente. Di seguito sono illustrati i tre casi distinguendo quanto emerso dall’etnografia e quanto dalle indagini bibliografiche e dall’analisi antropologica conclusiva.

 

Primo caso

Hope8 ha riferito di aver lasciato la Nigeria a causa della persecuzione di alcune forze sovrannaturali che la spaventavano, procurandole insonnia, improvvise sensazioni di calore corporeo, incubi notturni al cui risveglio presentava incisioni sulle braccia inspiegabili, improvvise macchie epiteliali e allucinazioni auditive che la minacciavano, la ostacolavano nel professare la sua fede e la spingevano ad assumere il ruolo di priestesses – operatrice rituale che proteggeva la popolazione del villaggio intercedendo con lo spirito antenato materno – che la sua famiglia materna tramandava da generazioni per la linea di discendenza femminile.

Il decesso di sua madre, priestesses del suo villaggio, aveva spinto la comunità a cercare Hope affinché potesse ereditare come consuetudine il medesimo ruolo. La giovane, avendo vissuto nella città di Benin City, dove la sua famiglia di origine era emigrata, non aderiva alla religione animista della famiglia allargata materna, avendo scelto all’età di 8 anni di frequentare la chiesa pentecostale. L’esigua frequentazione dei parenti materni (originari di un altro stato federale) l’avevano portata a sentirsi distante da quella tradizione religiosa. Hope mostrava un atteggiamento ambivalente verso l’animismo: lo giudicava negativamente ma, al contempo, lo temeva.

Stando alle sue affermazioni, l’emigrazione in Italia avrebbe diminuito gli effetti di questa azione persecutoria di natura sovrannaturale sorta in Nigeria e avvertita anche in Libia. Hope riteneva che la sua fede, la preghiera e la partecipazione assidua alla vita religiosa in Italia le avrebbero permesso di superare definitivamente questi effetti negativi. Ha riferito di essersi sottoposta a un rituale religioso realizzato da un importante pastore della congregazione religiosa che frequentava finalizzato a bloccare l’azione di queste entità sovrannaturali. Credeva nell’effetto risolutivo di questa pratica rituale. Al momento dei colloqui però riferiva di subire ancora l’azione di queste entità sovrannaturali soprattutto nei suoi sogni, quando si addormentava. Pertanto, era in cerca di spiegazioni alternative per comprendere il significato di quello che accadeva nei sogni e nel suo corpo, quando avvertiva la presenza e l’azione di queste entità sovrannaturali.

Dalle interviste a Hope e dalla conseguente ricerca bibliografica (Chinyere, 2015; Nworgu, 2016; Amadiume, 2018; obindigbo.com.ng/2015/11/sacred-places-and-things-in-igbo-traditional-religion/) è emerso un quadro coerente tra le narrazioni della stessa sui sintomi, sull’eziologia, sulla religione animista professata dalla famiglia materna e l’orizzonte socioculturale di riferimento della popolazione residente nello stato federale nigeriano di origine dei suoi genitori. In particolare, la letteratura antropologica consultata (Agbedo, 2007; Egodi, 2010; Magnus, 2015) confermava la presenza di una cosmologia locale all’interno della quale era presente l’operatore rituale nominato priestesses; tuttavia gli scarsi riferimenti forniti da Hope avevano ostacolato un inquadramento che avrebbe potuto fornire una risposta concreta all’oggetto della consulenza. Sembrava che questi limiti dipendessero molto anche dalla segretezza delle informazioni relative all’animismo che i suoi parenti praticavano.

L’analisi antropologica ha restituito al clinico la possibilità che la malattia della giovane donna fosse verosimilmente riconducibile al suo orizzonte di significazione, ma non per questo era concorde nell’incasellare il disagio all’interno di una sindrome culturalmente determinata. Tuttavia, sostenere questo imprescindibilmente avrebbe forse comportato una riduzione delle opportunità di riconoscimento della protezione internazionale, perché questo tipo di diagnosi può avere un certo peso nelle valutazioni dei giudici. Pertanto, è stata negoziata con il clinico la modalità di inserimento nella certificazione di questa particolare configurazione delle malattie. In seguito, la donna ha comunicato di avere ottenuto lo status di rifugiato ma non è stato possibile capire se quel dettaglio della sickness (Young, 1982) – il complesso di significati socioculturali che la collettività di provenienza riconosce all’esperienza della malattia – avesse influito sulla scelta finale del giudice.

 

Secondo caso

Blessing ha riferito di essere stata sottoposta alla pratica escissoria all’età di circa 2 anni. Ha affermato di non aver alcun ricordo dell’evento. A quel tempo viveva con la zia materna che per consuetudine faceva realizzare la pratica alle giovani della sua famiglia. Sua madre era deceduta per malattia poco dopo la sua nascita. Blessing ha riferito di aver scoperto di essere escissa all’età di circa 12 anni, quando a scuola la sua insegnate aveva parlato delle MGF e lei, rientrando a casa, aveva chiesto a suo padre se anche lei era stata escissa. L’insegnante le aveva spiegato che non si trattava di una pratica richiesta dalla religione e che era eticamente scorretta. Blessing non ha saputo indicare altro significato locale della pratica, né è stata in grado di suggerirne possibili motivazioni o narrazioni antiche da collegare alle norme sociali, alla vita di comunità, ai ruoli e agli status riconosciuti al femminile nel contesto di provenienza, Benin City.

Dal controllo ginecologico realizzato nel poliambulatorio dell’istituto è emerso che Blessing presentava una MGF di II tipo, come la maggior parte delle giovani nigeriane.

Recenti pubblicazioni confermano la presenza della pratica delle MGF in Nigeria (Federal Ministry of Women Affairs and Social Development, 2016). Al di là di questo dato, però, la narrazione di Blessing in vari passaggi suggeriva la possibilità che fosse stata agganciata in Nigeria dalla rete dei trafficanti di esseri umani con lo scopo di tratta e grave sfruttamento di natura sessuale. Nello sviluppo del suo narrato sono stati riscontrati diversi indicatori della tratta e grave sfruttamento (Dipartimento delle Pari Opportunità, 2016). Stando agli eventi riferiti, Blessing poteva essere riuscita a sganciarsi dall’ultima intermediaria della tratta al suo arrivo in Libia, anche se le modalità relative alla sua partenza dallo stesso Paese lasciavano intendere il contrario.

L’analisi antropologica non aveva dato esiti su quanto richiesto dal clinico, perché la giovane donna non aveva alcun ricordo della pratica escissoria vissuta, né era a conoscenza di alcunché intorno alla sua tradizione. Tuttavia, il dato clinico aveva riscontrato la presenza di una MGF importante, pertanto la CS lo avrebbe riportato e l’avvocato della giovane l’avrebbe usato come testimonianza di una violenza di genere, al di là del vissuto della giovane. Anche il dato emerso dall’etnografia (che la giovane fosse stata ingaggiata da trafficanti di esseri umani con finalità di grave sfruttamento e tratta) però sarebbe stato usato probabilmente in questa direzione, alimentando quell’immaginario della vittima, quello stereotipo di giovane africana fragile, sottoposta a poteri altri, incapace di liberarsi dai vari assoggettamenti tipici della realtà di provenienza. Questi elementi l’avrebbero potuta aiutare nella valutazione della sua istanza, perché la violenza di genere, la tratta e il grave sfruttamento sono tenuti in grande considerazione nelle istanze di asilo (anche se non sarebbe mancato il dubbio del perché queste informazioni non fossero emerse in sede di commissione territoriale). A oggi non è pervenuto ancora l’esito finale della causa.

 

Terzo caso

Lucky ha riferito che, al tempo dell’accordo di pagamento del debito fra sua madre e il suo creditore, egli era stato usato come garanzia dell’impegno assunto contrariamente alla volontà di sua madre. Nel momento in cui era stato portato presso la fattoria del creditore, era stato costretto al lavoro forzato; sua madre in reazione a questa situazione si era opposta al pagamento del debito sperando che suo figlio sarebbe riuscito a fuggire. Lucky aveva cercato di fuggire diverse volte e a seguito di ciò aveva subito gravi percosse da parte del creditore. Un giorno però c’era riuscito. Temendo di essere rintracciato aveva scelto di non avvertire la sua famiglia, cosa che fece solamente 3 anni dopo, ma anche allora scelse di comunicarlo solo a sua madre.

Lucky ha riferito che dopo la fuga aveva aderito a una confraternita locale di nome Aye, promossa come un’associazione che proteggeva e salvaguardava i diritti delle persone più deboli della popolazione. Successivamente si era reso conto che le attività realizzate dalla confraternita erano di tutt’altra natura: si era trovato immischiato in scontri che coinvolgevano i membri di altre confraternite presenti nella stessa città. Aveva deciso così di allontanarsi dalla confraternita e, temendo di essere perseguitato, aveva lasciato il Paese.

Le fonti consultate per la consulenza (Ajayi et al., 2010; Immigration and Refugee Board of Canada, 8/04/2016)9 fanno riferimento alla presenza di numerose confraternite studentesche, tra le quali Aye, indicando come motivazioni di adesione dei giovani: la povertà, le difficoltà nell’accesso all’istruzione, la disoccupazione, i cambiamenti interni alle strutture familiari locali, l’assenza di un adeguato welfare. Gli stessi autori riportano anche esperienze di violenza vissute dai giovani che avevano deciso di abbandonare la medesima confraternita di Lucky (Immigration and Refugee Board of Canada, 2005), di scontri recenti avvenuti fra le confraternite presenti localmente e della costituzione recente di un corpo speciale della polizia federale finalizzato alla lotta contro tali confraternite.

Rispetto invece alla questione del debito contratto da un privato, essa è regolata localmente dalla normativa dello stato federale. Il creditore ha diritto di sporgere denuncia agli organi di riferimento e il debitore a subire fermi e/o multe con l’obbligo di risarcire il debito contratto secondo accordi privati patteggiati con il creditore. Infine, rispetto alla condizione di lavoro minorile forzato, vissuta dal Lucky all’età di 12 anni, è molto diffusa in Nigeria e in special modo nell’Edo State (US Department of Work, 2016). Le fonti consultate lo descrivono come un fenomeno legato alla grave precarietà socioeconomica in cui verte la popolazione locale, disagio che è maggiore in quei nuclei familiari ove i genitori sono divorziati/separati (Osaigbovo e John, 2015), come nel caso di Lucky. Tali pubblicazioni fanno riferimento anche alle violenze esercitate sui minorenni all’interno di tali contesti lavorativi (Federal Ministry of Women Affairs and Social Development, 2016), esperienza narrata anche da Lucky.

L’analisi antropologica ha ricostruito una condizione di vita estremamente precaria dovuta alla separazione dei genitori del giovane e alla povertà che ha spinto prima la madre del giovane e poi lui stesso a imbarcarsi in situazioni rischiose, che si sono rivelate fonte di sfruttamento, violenza e persecuzione. Questi ultimi aspetti, però, riconducibili alla normativa dell’asilo, molto probabilmente non avrebbero avuto sufficiente peso per una rivalutazione del diniego, perché il narrato del giovane sarebbe stato interpretato alla stregua di una migrazione economica, anche se la povertà e le grandi criticità del welfare del suo stato federale dipendevano pure dagli interessi economi che l’Italia e altri Paesi europei hanno tutt’oggi in Nigeria. A oggi non è pervenuto ancora l’esito finale della causa.

 

Conclusioni

I tre casi illustrati sono stati scelti perché condensano quegli interrogativi, quei dissidi interiori, provati durante il lavoro antropologico richiesto ai fine della CS per le persone RPI (O’Donnell et al., 2007; Lambert, 2009; Willen e Seeman, 2012), sintetizzati dalle seguenti domande: quello che ho compreso sull’esperienza soggettiva della persona intervistata fino a che punto è bene che possa iscriversi in quelle griglie interpretative adottate da chi la valuterà in prospettiva dell’asilo? Fino a che punto è bene che, nell’ascoltare queste narrazioni, si individuino quegli elementi che potrebbero essere riconducibili a queste griglie? Fino a che punto il dato etnografico può piegarsi per rispondere alla rigidità, alla linearità, all’oggettività di queste griglie interpretative, sapendo che sono il frutto di politiche tutt’altro che giuste, bensì escludenti, respingenti, ostacolanti il diritto d’asilo? Fino a che punto è giusto aderire al dispositivo di potere che alimentata questa richiesta di CS, esserne complice, perseverare nella macchinosità e farraginosità che comporta, nonostante sembri che lo sforzo sia vacuo a fronte di esiti minimi e neanche riconducibili direttamente ad esso?

La percezione che si ha dai tre casi illustrati è che ci si sforzi nel tentativo di far rispettare un diritto quando le istituzioni locali e nazionali, il Paese, l’Europa, cercano di fare di tutto per ostacolarlo. Il peso che via via ha acquisito la CS in sede di valutazione delle testimonianze dei RPI ne è un esempio eclatante. La crisi che sta vivendo il diritto di asilo in Europa già da diversi anni (Holmes e Castañeda, 2016; Bonet, 2017; Camilli, 2017; http://www.ilpost.it/2017/09/27/critiche-italia-libia-migranti/) ha spinto i Paesi europei a escogitare un sistema che mette a dura prova sia le persone che chiedono protezione sia chi vorrebbe che tale diritto fosse rispettato. L’Italia, come altri Paesi, ha usato il canale della sanità per limitare ancor di più l’accesso al diritto, per creare disorientamento e per sfuggire alle proprie responsabilità. Accertato che la burocratizzazione delle procedure rallenti e in alcuni casi blocchi, il decorso delle pratiche, rendere la CS un documento importante per la richiesta di asilo ha significato voler creare consapevolmente un ostacolo al processo della procedura di asilo (James e Killick, 2012; d’Halluin, 2009; Fassin e d’Halluin, 2005).

Inoltre, rispetto all’Italia, tenuto conto delle criticità che il servizio sanitario nazionale sta vivendo negli ultimi anni in termini di ridimensionamento finanziario, precarietà del personale, inadeguatezza delle strutture e scarso adeguamento dei dispositivi clinici, questa attività di certificazione è costretta a fare i conti anche con questa realtà. Se a ciò si aggiunge che non tutte le strutture sanitarie sono fornite di professionisti che hanno una formazione in materia, di medici legali abituati a tale tipologia di certificazione, di équipe multidisciplinari che in qualche modo possano dividersi le responsabilità di questo atto per competenza, di mediatori culturali – senza parlare della presenza di antropologi –, diventa ancora più arduo per un clinico della ASL dover rispondere a tale richiesta, assumendosi la responsabilità legale di un atto il cui peso può essere decisivo per aprire la porte a un diritto internazionale. Questa condizione tra l’altro è la ragione per la quale si verifica una numerosità sproporzionata a limitati centri che redigono tali certificati, altro motivo che crea ingolfamento a causa della sovrarichiesta, determinando liste d’attesa, con la possibilità che qualcuno rimanga escluso per limiti strutturali.

L’ipotesi che ne consegue è che tutto questo faccia parte di un dispositivo di potere che si è andato via via formando per ostacolare l’asilo, incastrandolo in un meccanismo che è legale ma che di fatto fa girare a vuoto le persone come criceti all'interno della loro ruota (Malkki, 1996; Ong, 2003/2005). Questi criceti però non rappresenterebbero solo le persone che chiedono asilo, ma anche chi scrive i certificati, chi fa le consulenze antropologiche, chi giudica le istanze, chi presenta istanza di ricorso, chi raccoglie le memorie traumatiche, ecc. Sarebbe necessario bloccare questa ruota e far uscire tutti! Tuttavia per far ciò le istituzioni a diversi livelli dovrebbero munirsi di chi fa ricerca per capire seriamente cosa stia accadendo nei Paesi di partenza, in che modo queste motivazioni siano implicate nelle scelte politiche ed economiche fatte dai Paesi di arrivo (Camilli, 2017); Scridel, 2017; Lagana, 2017),10 quale spazio di vita possibile si voglia dare veramente a quei popoli che in diversi periodi storici sono stati colonizzati dai vari Paesi europei e che ancora adesso ne sfruttano le risorse, sia umane sia naturali, approfittando dello stato di fragilità politica in cui essi versano (Malkki, 1995; Said, 1998; Spivak, 2004; Mbembe, 2005).

 

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Note

1 Un ente pubblico vigilato dal Ministero della salute.
2 Termine adottato dall’istituto come sinonimo di «sportello» interno cui fare riferimento per la collaborazione antropologica alle attività sociosanitarie.
3 Tra il 14/02/2014 e il 6/03/2014 sono stati distribuiti 70 questionari a medici, infermieri, mediatori culturali, psicologi, assistenti sociali, OSS, e ne sono stati riconsegnati alle antropologhe 49. Dall’analisi dei dati sono emerse 4 macroaree nelle quali il personale sociosanitario dell’INMP ha collaborato e/o auspicava una futura collaborazione con le antropologhe per rispondere più efficacemente ai bisogni di salute portati dalla popolazione migrante. Tali aree sono state: 1. consulenze per la clinica psicologica e biomedica, 2. progetti di assistenza biomedica specifici, 3. ricerca, 4. formazione.
4 Migration Data Portal: https://migrationdataportal.org/themes/forced-migration-or-displacement (ultimo accesso: 9/04/18).
5 Mediante il Dlgs del 21 febbraio 2014 n. 18.
6 Mutilazioni Genitali Femminili.
7 L’oggetto dell’approfondimento è riportato così come è stato richiesto dal clinico oppure dal mediatore culturale.
8 Il nome delle persone è inventato. Il dato etnografico è sintetizzato per ragioni di privacy.
9 http://thepointernewsonline.com/?p=23164 (ultimo accesso: 9/04/18).
10 https://www.huffingtonpost.it/2017/05/21/migranti-vertice-a-4-con-la-libia-litalia-costruira-centri-in_a_22102021/ (ultimo accesso: 9/04/16).

DOI: 10.14605/EI1611806


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ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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