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Ricerche empiriche / Empirical research

Abitare il confine: attori e contesti nell'esperienza dell'accoglienza carioca
Living on the border: social players and contexts in the experience of the Carioca reception system

Giulia Nistri

Laureata in Teorie e pratiche dell’Antropologia (Università La Sapienza di Roma) e in Antropologia e Linguaggi dell’Immagine (Università degli Studi di Siena), attualmente collabora con l’associazione Progetto Arcobaleno Onlus di Firenze, all’interno del progetto accoglienza Cip, collegamento interventi prostituzione


Autore per la corrispondenza

Giulia Nistri
Indirizzo e-mail: giulisni@gmail.com
Progetto Arcobaleno Onlus, Via Del Leone, 9, 50124, Firenze,



Sommario

Il presente lavoro si propone di mettere in luce alcune tra le criticità emerse da una ricerca etnografica, realizzata tra marzo e agosto 2016, relativa al sistema di accoglienza destinato a rifugiati e richiedenti asilo nella città di Rio de Janeiro. In particolare, ho scelto di circoscrivere il mio campo a coloro che al momento della ricerca si presentavano come i principali protagonisti dei flussi per quello che riguarda la città di Rio de Janeiro, ovvero la popolazione proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo. In questa sede desidero offrire solo un breve frammento di un lavoro più ampio. Nello specifico cercherò di aprire uno scorcio sulle sfide, le resistenze, i punti di vista e soprattutto sulle volontà e le pratiche di coloro che si trovano a interagire con e dentro gli organi e le istituzioni brasiliane, in maniera più o meno apertamente conflittuale e strategica. Questa indagine ha riguardato in questo senso sia i richiedenti che gli operatori, i quali si sono rivelati nella loro complessità molto più che meri ingranaggi del sistema di accoglienza. Un sistema dal quale le vite dei migranti emergono caratterizzate da una triste continuità tra vecchi e nuovi contesti.

Parole chiave

Accoglienza, umanitarismo, frontiere.


Abstract

The aim of this paper is to examine some of the critical issues which came to light in the course of an ethnographic research project carried out from March to August 2016 concerning the refugee and asylum seeker reception system in the city of Rio de Janeiro. I have decided to focus in particular on the main protagonists in Rio de Janeiro at the time of this study, namely migrants from the People’s Republic of Congo. This article represents a segment of a more extensive study. I will try to shed light on the challenges, the opposition, the viewpoints, and particularly on the desires and experiences of those who interact with and those who work within Brazilian agencies and institutions in a more or less openly conflictual and strategic manner. Thus, this paper takes into consideration both the asylum seekers and the service providers, whose complex relationship reveals them to be much more than mere cogs in the reception system. A system from which migrants’ life emerges as characterised by an unfortunate continuity between their old and new contexts.

Keywords

Reception system, humanitarianism, borders.


Accogliere, proteggere, integrare

Al centro della mia ricerca si trova una delle più importanti organizzazioni non governative impegnata in interventi di carattere umanitario a livello globale e, in Brasile, in qualità di rappresentante della società civile, in prima linea fin dagli anni Settanta nella gestione dei flussi e nell’assistenza alle persone richiedenti protezione. L'ONG, pur dichiarandosi tale, è anche la principale interlocutrice alla quale il governo brasiliano delega e fa maggiormente riferimento quando si tratta di rifugiati e richiedenti asilo, contribuendo così ad alimentare un particolare meccanismo che la vede protagonista indiscussa nella gestione quasi totale del mondo dell’accoglienza (per lo meno per quello che riguarda la città di Rio de Janeiro). L’organizzazione finisce così per occupare una posizione estremamente complessa, di gestione di una realtà sempre più articolata in maniera quasi del tutto autonoma, con tutte le conseguenze che questo può comportare, nel bene e nel male.

Accoglienza, protezione legale e integrazione locale sono i tre concetti chiave con i quali, quando iniziai il mio lavoro di ricerca, mi furono riassunte le linee di lavoro che articolavano i servizi offerti dall'organizzazione e destinati ai richiedenti asilo. Etichette programmatiche, che orientavano le retoriche e scandivano i compiti degli operatori; promesse in parte disattese, come ebbi modo di scoprire ben presto, a giudizio di molti dei richiedenti. Tanto gli opuscoli e i depliant che mi furono generosamente regalati, quanto il sito dell'organizzazione stessa si soffermavano nel descrivere l’accoglienza come un momento di costruzione, in particolare di costruzione di una relazione di fiducia tra richiedente e organizzazione. In questa prima fase, infatti, erano le stesse operatrici a dirsi consapevoli delle necessità delle persone appena arrivate: avere un tetto sopra la testa e qualcosa da mangiare (e da poter dare da mangiare ai propri figli), prima ancora di cominciare a cercare un lavoro che potesse permettere di vivere e integrarsi nel paese di approdo.

Nonostante ciò, la questione dell’accoglienza e della qualità di vità rimaneva (e ancora rimane) un poblema prevalentemente irrisolto. Si trattava di una contraddizione evidente non solo per alcuni operatori della stessa ONG, che la segnalavano consapevolmente, ma anche e soprattutto agli occhi di rifugiati e richiedenti asilo destinatari del servizio di «accoglienza». In questo senso sia questi ultimi che gli operatori del servizio risultavano concordi nell'individuare la questione dell'alloggio e dei sussidi come uno dei principali punti deboli dell'accoglienza carioca, elemento che causava non pochi attriti e tensioni nel rapporto tra richiedenti e servizio.

Di contro è importante ricordare che la stessa ONG si trova a fronteggiare una realtà estremamente complessa, già caratterizzata da fortissime disuguaglianze strutturali e carenze alloggiative. L’infelice risultato quindi era che dal punto di vista dell’alloggio i migranti venivano lasciati a se stessi e alle reti di solidarietà che si creano a volte, ma non sempre, all’interno delle comunità «ri-costituite» dai connazionali presenti nei luoghi di approdo. Più volte mi è capitato di ascoltare le retoriche riprodotte dagli operatori e volontari dell’ONG pronte a restituire un’immagine delle nuove comunità, «accoglienti e unite», una narrazione che si rivela romantica e superficiale se si sceglie di prendere in considerazione le parole degli stessi richiedenti relativamente alla quotidianità di queste convivenze piu o meno «forzate», che spesso prevedono una condivisione di spazi ristretti con numerosi estranei connazionali.

In questo senso, se da una parte molti dei richiedenti riconoscevano l'importante valore della comunità da un punto di vista pratico e relazionale, dall'altra emergeva un forte desiderio di indipendenza ed emancipazione rispetto a situazioni di coabitazione spesso descritte come «faticose e complicate». Un’ambivalenza non estranea ad altre comunità di migranti «ricostituite», come messo in evidenza anche da alcune esperienze di ricerca italiane (Riccio, 2007). A ogni modo la quasi totale mancanza di strutture di accoglienza/confinamento destinate alle persone che arrivano a Rio è una peculiarità che contraddistingue il contesto carioca, diversamente da altri contesti, come ad esempio quello italiano. Va comunque ricordato che spesso, però, anche in quest'ultimo, accade che i richiedenti o i titolari si ritrovino a vivere prima o poi in condizioni di precarietà e marginalità costituendo a volte insediamenti informali fuori dalle accoglienze (Pinelli, 2013). Ovviamente ciò non significa che in questi casi le persone siano libere di circolare per la città avendo facile accesso ad alloggi e servizi. Anzi, la conseguenza di questo abbandono costituisce una delle principali preoccupazioni e sfide per i richiedenti che si trovano a fronteggiare una vita di frontiera ai margini della società, respinti nelle aree di contenimento della marginalità locale, a Rio come altrove. In questo senso, vale la pena aggiungere che in Brasile le caratteristiche dell’essere povero e nero sono spesso coincidenti e che accomunano spesso sia i nuovi arrivati sia più della metà della popolazione locale che vive nelle aree più povere e pericolose delle città.

A Rio, i richiedenti finiscono quindi per risiedere in aree marginali, spesso favelas, dove già si concentra buona parte della popolazione locale indigente e dove la dimensione della violenza emerge come parte della realtà quotidiana di molti dei miei interlocutori. È la violenza della marginalità, del traffico della favela, della povertà, dei blitz della polizia, delle convivenze forzate, delle aggressioni e del coprifuoco. Le nuove vite, oltre a essere spesso tormentate dalla memoria di ciò che è accaduto (e ancora accade) nel Paese di origine, diventano quindi teatro di una nuova ma non sconosciuta violenza in un contesto, come quello brasiliano, dove le disuguaglianze sociali sono strettamente connesse all’asse della razza. La società brasiliana, infatti, è una società che si configura come fortemente gerarchizzata dove, come ricorda Valeria Ribeiro, il colore è presente in quanto indicatore di posizione e valore sociale (Ribeiro Corossacz, 2004 p. 92) e nella quale non è difficile, quindi, immaginare quale collocazione venga riservata ai nuovi migranti, spesso riconosciuti come genericamente africani.

Così, se da un lato lo stesso razzismo che colpisce buona parte della popolazione brasiliana finisce per investire i richiedenti in quanto neri, dall’altro sono proprio gli stessi neri e poveri brasiliani a prendere le distanze nei confronti dei nuovi arrivati, discriminati in quanto africani. I richiedenti divengono quindi bersaglio di una serie di esclusioni, umiliazioni e violenze quotidiane che contribuiscono a fare della loro vita un’esistenza ai margini.

 

Nelle maglie dell'accoglienza

Adogni modo il fatto che i richiedenti non vivessero una situazione di contenimento e segregazione all'interno di dispositivi di accoglienza non significa che non fossero oggetto di una certa forma di cattura e in parte, di dipendenza, da parte dell'organizzazione. Anche a causa della scarsa preparazione di altri settori che avrebbero dovuto relazionarsi con i richiedenti,1 accadeva infatti che le persone venissero spesso ridirezionate verso gli uffici dell'organizzazione, cosicché anche chi avesse voluto percorrere strade alternative inevitabilmente si sarebbe comunque ritrovato a rivolgersi all'ONG. Una continua legittimazione che la stessa organizzazione alimentava con spiccata autoreferenzialità, non senza una punta di competizione con gli altri ipotetici interlocutori dell'universo dell'asilo, proponendosi continuamente come filtro e soluzione a tutti i problemi dei richiedenti: a fronte di qualunque necessità e problema la risposta era sempre la stessa, «Volta pra cá».2

Inoltre l'organizzazione risultava molto attiva nel tentare di coinvolgere i migranti in attività che avevano dichiaratamente la finalità di favorire l'integrazione locale, motivo per il quale la partecipazione veniva fortemente caldeggiata da molti degli operatori oltre che dai due mediatori congolesi di cui parlerò in seguito. Così i richiedenti, anche se in una forma più blanda e svincolata rispetto ad altri contesti, si trovavano al centro di pratiche di produzione di soggettività messe in atto dall'organizzazione e dalle istituzioni (corsi sull'igiene, gruppi di monitoraggio della salute riproduttiva, gruppi di orientamento al lavoro). Ed è principalmente attraverso il lavoro di integrazione locale, infatti, che l’organizzazione offre e mobilita tutta la sua rosa di saperi atti a forgiare dei «buoni rifugiati», consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri, ma che finiscono per non trovare uno spazio per la propria autonomia e soggettività all'interno del contesto carioca. Un lavoro sul quale non potrò soffermarmi in questa sede se non per accennare alcuni elementi utili alla nostra analisi.

Affinché il problema delle spese di trasporto non gravi sui richiedenti, la politica della ONG prevede un rimborso delle spese di viaggio per coloro i quali si presentino ai corsi di portoghese e alle attività previste entro l’orario di inizio. Questo rimborso viene elargito a seguito delle attività che si svolgono prevalentemente in orario antimeridiano fino all'ora di pranzo. Accade così, spesso, che le persone finiscano per rimanere «bloccate» per più di mezza giornata nella sede dell'organizzazione in attesa del rimborso, a causa anche della lentezza che l’intera operazione comporta e dovendo a volte attendere la fine della pausa pranzo degli operatori. Il cortile della ONG si configura anche per questo come un luogo di attesa permanente3 del rimborso, delle attività, degli (infiniti) appuntamenti – e finisce per risultare una sorta di polo di attrazione anche a prescindere, a volte, dall’efficacia delle soluzioni che l’organizzazione riesce ad offrire ai migranti stessi. In questo senso l'ONG, pur rivelandosi spesso inadeguata e povera di risposte, costituisce l'unico interlocutore alla portata dei richiedenti, che finiscono inevitabilmente per ritornarvi a volte in cerca di risposte, molto spesso per protestare. Inoltre vale la pena aggiungere che i progetti didattici e di orientamento organizzati dall’organizzazione si sposano spesso con le retoriche di un umanitarismo fatto di regole e compassione, in cui è possibile riconoscere una «continua oscillazione fra sentimenti simpatetici e volontà dell’ordine, fra la pietà e il controllo» (Pinelli, 2011, p. 174). Uno spirito umanitario che sembra animare in maniera diffusa gran parte degli attori che operano nel contesto brasiliano. Un’ospitalità ambivalente (Fassin, 2012) che si ritrova in maniera vistosa, per prendere solo un esempio dalla vasta letteratura, se ci rivolgiamo all’analisi offerta da Fassin del campo francese di Sagatte, laddove diviene tangibile nella compresenza (gestionale e fisica) di Polizia e Croce Rossa;4 o similmente, come ha osservato Pinelli (2011) in contesto italiano, nelle dimensioni di compassione e controllo che coesistono nelle pratiche dei nostri centri di accoglienza, un’ambiguità di fondo che caratterizza il mondo dell’umanitario, ironicamente ricco di pratiche dai propositi salvifici e civilizzanti.

 

Protagonisti della protezione e dell'umanitario

Come abbiamo accennato, anche per dinamiche alimentate dalla stessa organizzazione, l'ONG in questione si ritrova spesso a essere considerata l'unica possibile interlocutrice in materia di asilo, sia da parte delle istituzioni che dagli stessi richiedenti. Nonostante la legge preveda che il Termo de Declaração, il primo questionario di richiesta di asilo, debba essere compilato in presenza dei funzionari della Polizia Federale, questo avviene nella pratica solamente dopo un primo orientamento effettuato dall'organizzazione (e spesso con l'ausilio della stessa). Realmente non ci sarebbe alcun bisogno che un richiedente passasse prima dall'organizzazione, ma quello che avviene è che le persone vengono comunque indirizzate alla struttura, a volte dai loro connazionali, a volte dai funzionari stessi della Polizia Federale (in particolare se si presentano problemi durante il primo tentativo di compilazione). Questo perché, a detta di alcuni operatori della ONG, la Polizia Federale non avrebbe le capacità – e in parte la disponibilità – di gestire alcune situazioni: dal già citato primo momento di accoglienza, con la fase di traduzione e compilazione del Termo de Declaração, a tutte le questioni riguardanti l’identificazione dei minori non accompagnati fino alla gestione, in un secondo tempo, di tutte le pratiche relative al passaporte para estrangeiro.

Jubilut (2014), docente di Diritto Internazionale all’Università di Santos, ha inoltre sottolineato la potenziale difficoltà che l'operazione di «autodichiararsi» direttamente alla Polizia comporterebbe per alcuni tra i richiedenti stessi, dal momento che un primo step che coinvolge la Polizia Federale potrebbe suscitare nelle persone la paura di non essere accettate sul territorio e, di conseguenza, il timore di un rimpatrio immediato o una reclusione. Si tratta di meccanismi facilmente intuibili se si considera che i richiedenti sono persone che provengono anche da Paesi in cui, a volte, sono proprio degli uomini in divisa coloro che si macchiano dei crimini più efferati, fatto che alimenterebbe quindi la paura di ricevere un trattamento disumano da parte della Polizia Federale di frontiera.

Da quanto emerso dalle interviste effettuate con alcuni funzionari e operatori del Comitato Nazionale per i rifugiati, la Polizia Federale risulterebbe impreparata e priva di formazione relativamente al procedimento di richiesta di asilo e a tutte le altre pratiche ad essa legate. Lo stesso avvocato dell'organizzazione descriveva l’atteggiamento della Polizia Federale come spiccatamente irrispettoso relativamente al trattamento dei richiedenti e auspicava un cambiamento nell’ottica di una «maggiore umanità» da parte dei funzionari della sicurezza.5

Sempre a detta dell’avvocato, i pregiudizi largamente diffusi nei confronti degli africani causerebbero non pochi problemi durante la compilazione del questionario negli uffici della Polizia Federale, situazione che è sembrata acuirsi in particolare nell’agosto 2014 quando, durante «l’emergenza ebola», i richiedenti non venivano nemmeno ricevuti negli uffici della Polizia, ufficialmente a causa della mancanza di«certificazioni di vario tipo» (mai richieste fino a quel momento). Ad alimentare il pregiudizio sarebbero inoltre i documenti di viaggio falsificati, quando non completamente assenti, elementi che renderebbero le persone non identificabili, se non sulla base delle informazioni fornite dalle stesse. Una situazione descritta come «delicata» da una stessa funzionaria della Polizia Federale che, attraverso retoriche caritatevoli e della compassione, in occasione di un intervento pubblico, evidenziava la difficoltà del lavoro di identificazione.

Parallelamente all'inesperienza e alla poca disponibilità dimostrate da una parte della macchina della sicurezza e dei controlli, la ricerca ha portato a galla anche alcune criticità relative alla solo recente professionalizzazione delle figure che si trovavano a lavorare da poco tempo all'interno dell'universo dell'asilo così come si configura attualmente in Brasile. Anche per questo, a detta di alcuni degli operatori che lavorano per lo stesso Comitato Nazionale per i Rifugiati, il sistema di riconoscimento dei richiedenti risultava, al momento della mia ricerca, attraversare una fase di «riorganizzazione». Gli operatori e i funzionari della sede di Rio con i quali ho avuto modo di confrontarmi erano giovani che si trovavano ad attuare all'interno del Comitato Nazionale per i Rifugiati in parte in qualità di collaboratori assunti e in parte come volontari. Il sistema si articolava quindi in un numero esiguo di funzionari (saliti a 13 per tutto il Paese nel 2017) e un numero altrettanto esiguo di volontari ai quali sono affidati i compiti di trascrizione dell’intervista e di ricostruzione di un quadro socio-economico e politico del paese di origine del richiedente.

Come mi venne spiegato da alcuni dei volontari, al momento della mia ricerca l’assetto e i protocolli di lavoro si mostravano ancora estremamente disomogenei in tutto il Paese, proprio a causa dei cambiamenti in atto, fortemente caldeggiati dall'UNHCR secondo la prospettiva di assumere personale qualificato. Infatti, prima di queste assunzioni, le interviste per la richiesta d'asilo nella città di Rio de Janeiro venivano effettuate dal personale della INFRAERO, l'impresa statale brasiliana che gestisce gli aeroporti. In altre parti del Paese questo personale continua attualmente a svolgere questa funzione, mentre a Rio è stato totalmente sostituito.6 Quello della professionalizzazione di coloro che si trovano a lavorare nell'ambito dell'accoglienza e dell'asilo non è, del resto, un problema sconosciuto nemmeno al contesto italiano.

Numerosissimi sono gli studi che hanno messo in evidenza il forte gap che si registra nei nostri centri di accoglienza tra un modello che richiede un'alta professionalità da parte degli operatori, ma che si dimostra assolutamente fuori dalla portata dei soggetti gestori, molti dei quali privi di precedenti esperienze nel settore delle migrazioni, oltre che dell'accoglienza (Pellecchia 2013). Nel caso di Rio, le due funzionarie assunte dall'ufficio carioca del Comitato Nazionale per i Rifugiati erano formate nell'ambito delle scienze politiche e delle relazioni internazionali. Questo ha indubbiamente costituito un passo avanti per quello che riguardava la ricerca di personale qualificato, di cui lo stesso modello prevedeva l'impiego. A queste operatrici è affidato l'oneroso compito di valutare coerenza esterna e interna delle narrazioni dei richiedenti, operazione che tiene conto, mi viene detto, anche dell'osservazione dei «comportamenti» degli stessi intervistati.

L’analisi individuale di credibilità viene descritta spesso dalle funzionarie come un’operazione che avrebbe la finalità di «garantire» la reale presa in carico e comprensione della storia della persona. La valutazione frutto di questa analisi finisce poi per essere presentata alla plenaria del Comitato che, generalmente ma non sempre, accoglie l'esito della valutazione. In questo senso le interviste con le funzionarie, pur confermando più o meno apertamente, come è stato ormai messo in evidenza da buona parte della recente letteratura, quanto l'intero sistema dell'asilo svolga un lavoro di vera e propria produzione – o per meglio dire co-produzione – di verità sul richiedente (Zorzetto, 2017), hanno permesso di far emergere alcune importanti riflessioni relativamente alle sfide che le intervistatrici si trovavano ad affrontare durante i colloqui. Tra queste spiccava la difficoltà nel creare una relazione di fiducia in un brevissimo lasso di tempo (un'ora e mezza/due al massimo) con persone fortemente provate, dai passati spesso complessi ed estremamente ansiose relativamente alla propria sorte.

La sofferenza della quale le funzionarie si dicevano testimoni si presentava come frutto di un denso connubio tra ciò che era accaduto là e quello che stava avvenendo nel qui e ora, fatto che le poneva a confronto con frammenti di storie passate e presenti, emozioni, timori, che scaturivano anche dall'enorme portata di aspettative, desideri, volontà con i quali i richiedenti inevitabilmente investivano il momento dell'intervista. Un confronto che avrebbe necessitato, a parer loro, una presa in carico più «completa», magari anche grazie alla partecipazione di personale proveniente da differenti discipline. Relativamente a ciò le funzionarie mettevano criticamente in discussione la richiesta da parte dello stesso sistema dell'asilo di concentrarsi unicamente sull'analisi di credibilità di una storia (o solo di parti di essa) ignorando le implicazioni linguistiche, psicologiche, culturali, emozionali degli individui. Una delle strategie quindi adottate dalle due operatrici, seppure estremamente semplicistica e quindi, a mio avviso, potenzialmente rischiosa, per tentare di affrontare queste difficoltà era quella di riascoltare le interviste alla presenza di una psicologa, col fine di «approfondire» alcuni momenti dell’intervista, attraverso un ascolto rivolto a codificare le esitazioni, la concitazione e le tensioni che sarebbero risultate dalle parole dei richiedenti.7

Il Comitato Nazionale per i Rifugiati si avvale inoltre della collaborazione di volontari, fatto non trascurabile e che porta con sé criticità e opportunità. Per quello che mi è stato spiegato, infatti, nel periodo in cui si è svolta la ricerca, i filtri applicati alla selezione dei volontari e delle loro competenze si rivelavano estremamente «elastici». Difatti, per prestare servizio come collaboratore volontario, veniva richiesta la conoscenza di una lingua (inglese, francese e spagnolo le principali) e, solo preferibilmente, una formazione nell'ambito del Diritto, Scienze Sociali e affini, fatto che a ogni modo non escludeva la possibile partecipazione di persone che provenissero da aree completamente differenti.

A questi volontari veniva affidato il lavoro di ricerca, un lavoro descritto come indispensabile per costruire la valutazione relativa all'intervista in quanto offre un’analisi della condizione socio-economica/geo-politica del Paese di origine del richiedente, informazioni sui conflitti, condizioni di vita, situazioni discriminatorie e di persecuzione. Si tratta di una fase estremamente delicata che viene quindi affidata a operatori volontari che si trovano a dover svolgere un compito non necessariamente alla loro portata o coerente con le loro competenze.

La questione del volontariato si è riproposta in maniera ancora più consistente nel caso della ONG della quale ho seguito il lavoro, in parte perché ho avuto modo di osservarne più a lungo e in profondità le dinamiche, in parte perché l'utilizzo dei volontari da parte dell'organizzazione è evidentemente più consistente. In questo caso, infatti, se il volontariato sembrava offrire la possibilità di accedere alle più svariate competenze dei soggetti che sceglievano di mettersi a disposizione, costruendo così anche servizi estremamente dinamici e diversificati, il fatto che la maggior parte delle attività fosse organizzata sulla base della disponibilità dei volontari rendeva qualunque programma altamente incerto in quanto suscettibile di improvvisi cambiamenti. Inoltre, predisporre la maggior parte delle attività in base alla disponibilità dei volontari rivelava spesso i rischi di affidare il lavoro a un approccio e, a volte, a una dedizione per molti aspetti poco strutturati. Questo incideva soprattutto sulla continuità e sull’organizzazione delle attività affidate ai volontari: appuntamenti che saltavano, corsi dalla scarsa coerenza logica, volontari in forte difficoltà a entrare in contatto con i migranti. Se da una parte, quindi, si valorizzavano le possibili competenze e la motivazione di giovani interessati alle tematiche dell'asilo e in generale dell'umanitario, dall'altra il sistema si avvaleva anche di forme di partecipazione volontaria spesso discontinua, eterogenea, poco supportata e monitorata. Ancora una volta si evidenziava una fortissima discrepanza tra le retoriche dei modelli (in questo caso quelli pubblicizzati dalla ONG, ma anche auspicati dal sistema) e le pratiche, dal momento in cui alcune attività di volontariato si rivelavano quasi più funzionali ed efficaci alla costruzione dell’immagine dell’organizzazione che ai richiedenti stessi.

 

Collocarsi nell'umanitario

Un ulteriore punto che prende le mosse anche da quest'ultima riflessione e che vale la pena di accennare in questa sede è la presenza di collaboratori che si collocano, all'interno della ONG osservata, in una particolare posizione. Si tratta di un uomo e una donna, C. e M., entrambi congolesi, che, dopo avere svolto un periodo di volontariato all’interno dell’organizzazione stessa, sono diventati operatori/mediatori/tuttofare. I due si occupano, appunto, di un po’ di tutto: fanno traduzioni/mediazioni e accompagnamenti alla Polizia Federale, forniscono spiegazioni sulla funzione di alcuni documenti, aiutano nel ritiro degli stessi. Inoltre entrambi si presentano spesso in qualità di portavoce/testimoni in occasione delle iniziative e delle attività di advocacy dell'organizzazione.

Tutto questo colloca queste due persone su un piano differente da quello del resto dei richiedenti che si rivolgono alla ONG e non può non incidere sulle retoriche che questi «rifugiati di rappresentanza» utilizzano, sfruttano e riproducono nel rivolgersi al mondo circostante. Sono attori che ricordano in certa forma le figure dei broker analizzati da Olivier de Sardan per quello che riguarda il campo dello sviluppo, che fungono da rappresentanti e punto di riferimento per le comunità di beneficiari dei progetti, mossi in parte da motivazioni legate ad attivismo, dedizione agli altri e interesse collettivo, in parte da interessi personali, materiali e simbolici (Olivier de Sardan 2008).Tenendo presente questa descrizione è importante riportare che la presenza di questi due attori, se da una parte può effettivamente essere analizzata come un’ulteriore attenzione dell'organizzazione al dialogo con i richiedenti provenienti dalla RDC, dall'altra si rivelava fonte di tensioni e criticità.

Durante il periodo della ricerca si è potuto infatti appurare come le descrizioni e i racconti relativi alle «nuove condizioni di vita» dei rifugiati nei Paesi di approdo, spesso al centro delle testimonianze che C. e M. riportavano in occasioni pubbliche, finissero per corrispondere più a prospettive strettamente personali della situazione ed estremamente funzionali al ruolo dei due mediatori e all’immagine giocati nella e dall’organizzazione, che alla situazione di estrema precarietà in cui viveva la maggior parte dei rifugiati.

Se è vero che in svariate occasioni pubbliche C. e M. hanno scelto di ricordare alcune delle difficoltà di «convivenza» come la discriminazione, il problema del riconoscimento burocratico dei documenti e il pregiudizio, è altresì vero che l’urgenza relativa alle necessità primarie come il cibo o un luogo dove dormire rimane sullo sfondo della maggior parte dei discorsi e degli appelli pubblici, quasi fossero questioni accessorie. Una fortissima contraddizione, percepita in maniera piuttosto evidente dalla maggior parte dei richiedenti assistiti dalla ONG con i quali ho avuto modo di parlare: moltissimi tra uomini, donne e bambini lamentavano il fatto di non avere nulla di che nutrirsi, pochi vestiti, di dormire in luoghi inadeguati. In questo senso, credo che questo contrasto di interpretazioni e di letture possa mettere in evidenza come, in svariate occasioni, sia C. che in parte M. dimostrassero, a mio avviso, di sapersi muovere in maniera piuttosto fluida in un gioco di ruoli e di identità che li vedeva impegnati per la maggior parte del tempo ora «dalla parte delle istituzioni», ora (in maniera residuale) a fianco dei connazionali, con grande disappunto di questi ultimi, che finivano per sentirsi scarsamente rappresentati e ascoltati. I due mediatori, quindi, mi sembrano collocarsi come attori complici, nelle svariate occasioni pubbliche, interviste televisive, nei numerosi interventi in campagne di sensibilizzazione, coerentemente con quello che Fusaschi (2011, p. 41) ha descritto come un «umanitarismo spettacolo le cui fila sono nelle nostre mani e dove gli Altri e le Altre sono le nostre marionette, talvolta – perché no? – anche strategicamente complici».

 

Forma e significato

Ritengo interessante a questo punto sottolineare come tutti i soggetti dei quali ho trattato fino a questo momento, dalle funzionarie ai volontari del Comitato fino agli operatori della ONG, abbiano restituito punti di vista critici e riflessivi volti a mettere in luce le contraddizioni del sistema asilo. In questo senso è importante tenere presente ciò che Francesca Marengo (2013), riferendosi all’esperienza di ricerca condotta all’interno del servizio di informazione agli stranieri della città di Treviso, ha evidenziato relativamente alla fondamentale influenza che il background esperienziale e la formazione professionale esercitano sul modo di agire dei dipendenti del servizio. Si tratta di un agire di portata rivoluzionaria e non riducibile a una semplice operazione di identificazione degli agenti delle istituzioni con le istituzioni stesse. Elementi indispensabili da tenere presente, da considerare in tensione, per quanto possibile, col potere strutturante della struttura (Bourdieu 1980). Così, nel riconoscere che «non c’è nulla di neutro»8 nel procedimento di riconoscimento dello status, un giovane volontario del Comitato per i Rifugiati lasciava intravedere, con lucida consapevolezza, i margini e le sfumature di una densa pratica, all'interno della quale si dispiega un’attività di vera e propria ricerca della strategie «più efficaci» per raccogliere, restituire, far emergere le storie e le verità dei richiedenti. Una pratica che, se ufficialmente fa appello alle competenze strettamente «tecniche» degli attori coinvolti (laddove esse ci siano effettivamente), al tempo stesso non può non finire per trascinare con sé anche conoscenze pregresse, formazioni, posizionamenti politici e pregiudizi, con ciò che questo comporta nel bene e nel male.

Si tratta di un meccanismo in cui è difficile non scivolare e che, in occasione delle interviste con i volontari del Comitato, si è rivelato quasi subito, quando, nel giro di poche domande, una volontaria ha descritto la «cultura congolese» come «una cultura di violenza di genere»,9 semplificando grossolanamente questioni che avrebbero previsto approfondite analisi socio-politiche, storiche, economiche. Una dinamica che sembra coinvolgere gli stessi funzionari, mostrando ancora una volta quanta discrezionalità domini all'interno dello stesso sistema di valutazione. Ciò che più emergeva in questo senso era quanto i volontari stessi e i funzionari potessero quindi sfruttare una zona grigia che permettesse loro di muoversi sui confini tra le diverse categorie di valutazione a loro disposizione, a prescindere da ciò che aveva o non aveva un senso per coloro che si trovavano di fronte. Sono meccanismi che, quindi, pur dando luogo a «valutazioni» che restituiscono esiti positivi per ciò che concerne l'iter di riconoscimento del richiedente,10 mettono in evidenza l'inadeguatezza e la debolezza semantica che finiscono per caratterizzare l'intero sistema dell'asilo per molti di coloro che sono coinvolti, da un lato e dall’altro.

Tutto ciò ritorna vistosamente anche per quello che riguarda le ragioni stesse dell'audizione: accadeva spesso che, pur avendo speso una buona parte del colloquio a spiegare al richiedente il funzionamento e i motivi dell'audizione, le funzionarie del Comitato si sentissero chiedere a un certo punto «Perché sono qui? Cosa sono queste domande?». Inoltre gli incontri si complicavano ulteriormente dal momento che frequentemente i racconti lasciavano spazio a lunghi silenzi, stereotipie, crisi di pianto, alternati all'apparente «urgenza» che a volte si manifestava da parte dei richiedenti di esibire cicatrici, ferite, menomazioni dei corpi. Comportamenti che venivano tradotti dalle intervistatrici come l'evidenza di quanto, durante il lungo periodo di attesa dell'audizione, le persone avessero costruito e alimentato un ricco immaginario relativo al momento dell'intervista e di cosa fosse importante per l'esito positivo della stessa. Un immaginario difficile da decostruire per le funzionarie e con il quale si trovavano costrette a dialogare, non sempre con agilità.

Relativamente alla diffusa arbitrarietà che sembra dirigere il sistema dell'asilo, lo stesso legale della ONG al centro della mia ricerca, con il quale ho avuto modo di confrontarmi in più occasioni, rivelava la propria perplessità. Una perplessità che denunciava non solo la discrezionalità dilagante in un sistema in cui, non diversamente da ciò che accade in Italia, regole chiare divengono pratiche opache (Sorgoni, 2011), ma anche la necessità di ripensare le categorie dell'asilo, anche avvalendosi degli stessi richiedenti e di figure professionali provenienti da altre discipline.

Emergeva quindi una difficoltà nel doversi confrontare con categorie normative e concettuali estremamente restrittive e l’esigenza di un lavoro di vera e propria traduzione, di un tentativo di «aggiornare» il sistema e il concetto di asilo, tenendo in considerazione e dibattendo su cosa potesse voler dire per i richiedenti protezione internazionale parlare di democrazia, asilo, giustizia, sicurezza, pace, libertà. Una necessità di ricontestualizzare la guerra, di approfondire i significati e i mondi in modo da approssimarsi all'altro.

 

Conclusioni

«Sono fuggito dal Congo dove in molti per strada erano armati… ora vivo in favela in Bras de Pina,11 dove la maggior parte delle persone per strada sono armate…» (S.)

 

In questa sede abbiamo potuto solamente accennare ad alcuni spunti di riflessione emersi da una ricerca che si è configurata in modo ben più complesso e articolato di quanto questo testo possa restituire. Con questo breve contributo ho cercato di mostrare quanto, da un punto di vista organizzativo, la macchina dell’accoglienza brasiliana con la sua scarsità più o meno voluta di mezzi e soluzioni, condivida con il sistema italiano la natura emergenziale, oltre che un uso smodato di operatori improvvisati e volontari che rendono il lavoro estremamente caotico, contribuendo a creare un gap sempre maggiore tra il piano delle retoriche e quello delle pratiche. Inoltre, in Italia come in Brasile, è possibile scorgere il carattere securitario di un sistema di accoglienza pensato per identificare e plasmare, attraverso maglie più o meno strette a seconda dei contesti, ma non per garantire la costruzione di percorsi individuali di vita che tengano conto delle persone e delle loro volontà. Le accoglienze, però, come ha osservato Kobelinsky (2011, p. 107) relativamente all’esperienza dell’accoglienza francese, presentano anche «funzionari meno imprigionati nelle loro funzioni» e, anche nel contesto carioca, questo sembra aprire in parte uno spazio di manovra all’interno del quale è possibile far emergere storie, narrazioni e performance (Cabot, 2011). Si tratta di operatori e funzionari che spesso hanno maturato una buona consapevolezza relativamente all'opacità del sistema decisionale e delle pratiche dell'asilo e che, oltre ad avere iniziato a interrogarsi sul proprio ruolo all'interno della macchina, hanno imparato a navigare dentro le storture del sistema, praticando anche una strategia di «riduzione del danno» nei confronti del richiedente. Nonostante ciò, il sistema di accoglienza stesso, articolato in tutte le sue forme, con le sue associazioni, le accoglienze, fino alle Commissioni che si occupano di valutare i casi, rimane e si configura come un complesso che, in quanto emanazione dello Stato, in Brasile come in Italia, nella maggior parte dei casi esplicita e riproduce violenza attraverso le infinite attese, le esclusioni e l’abbandono.

In merito a ciò ho accennato all'immediata precarietà delle condizioni di vita dei richiedenti che, a Rio e non solo, si articola tra spazi di marginalità e di frontiera: come ricorda Clemente (2011, p. 13) «lo spazio-tempo “marginale” diventa l’esperienza più forte della condizione del rifugiato». Partendo da questi spazi, accedere alle opportunità di un mercato del lavoro già instabile e competitivo inseguendo le occasioni dichiarate desiderabili dal modello di cittadinanza (Ong, 2005), si rivela una sfida complicata e, spesso, estremamente frustrante. I pensieri, i mal di testa e l’insonnia continuano a tormentare molte delle persone che ho incontrato e che vedono la propria vita ridotta a un’attesa continua: l’attesa dei documenti, delle risposte del Comitato per i Rifugiati, delle chiamate di lavoro. Anche perché, come osserva Vacchiano (2011, p. 189), il regime di frontiera non può essere ridotto alla sua proiezione geografica, ma si tratta di «un insieme di pratiche quotidiane, riprodotte da attori molteplici, vissuta e incorporata nelle relazioni quotidiane e nei modi inconsci di dar forma alle emozioni». In questo stringente regime di frontiera i richiedenti, con le loro contestazioni più o meno dichiarate, con le loro richieste – troppo spesso ignorate –, con le loro assenze, con le loro reti e le loro strategie di sopravvivenza, reclamano ed esibiscono un’agency di soggetti attivi attraverso la quale tentano di opporsi, manipolare, ma anche affermare e ricostruire.

A fronte di ciò la società civile, di cui la ONG si dichiara rappresentante in Brasile, appare del tutto impermeabile alle richieste e alle necessità dei richiedenti, come di molti altri poveri che ne condividono in parte la condizione. Anzi, abbiamo visto come le preoccupazioni relative all’alloggio e alle condizioni di povertà rimangano spesso inascoltate, dal momento che l’organizzazione antepone altre priorità alla qualità e al benessere della vita quotidiana dei richiedenti stessi. In questo senso sia il modello dell'accoglienza italiana, o più in generale dell'accoglienza «contenitiva», che l'esperienza carioca, espressione di un servizio sordo e incompleto, condividono esiti tristemente simili: l'abbandono rimane il filo conduttore di entrambi i sistemi. Da una parte, come abbiamo accennato, un abbandono istituzionale e sociale (Pinelli, 2014) e che si esprime nei centri di contenimento e controllo, due dimensioni non del tutto assenti anche in contesto brasiliano; dall'altra un abbandono che lascia i richiedenti in balia di un’apparente maggiore libertà personale e individuale, ma che si interseca in maniera vistosa con la realtà di violenza strutturale (Farmer, 2006), riprodotta dalla società e, in parte, dalla stessa macchina dell'asilo. Entrambe si connotano come realtà di discriminazioni di varia natura, limitazioni e contenimenti, una condizione che, come osserva Vacchiano (2005), riproduce una violenza non troppo distante da quella che aveva caratterizzato le vite di questi uomini e queste donne anche nei loro Paesi di origine.

 

 

Bibliografia

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Sitografia

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Note

1 La Polizia Federale, i Centri per l’impiego, la Segreteria Comunale di Salute e tutte le strutture da essa dipendenti.
2 «Torna qui»
3 Rispetto alla condizione di attesa permanente si rimanda anche alle interessanti riflessioni di Armando Cutolo (Cutolo e Saitta, 2017) all'interno del dibattito ospitato da Antropologia Pubblica, relative al concetto di whaithood (Honwana, 2013) e alla riproduzione della stessa all'interno delle strutture di accoglienza.
4 Le riflessioni offerte da Mariella Pandolfi relativamente a un «umanitarismo militarizzato», benché inserite nel dibattito dell’antropologia dello sviluppo, potrebbero fornire un ulteriore strumento di analisi.
5 Relativamente a questo tipo di problema è possibile inoltre trovare più di un articolo online che riporti casi di violazione dei diritti di richiedenti e titolari da parte della PF brasiliana. Uno tra questi: Bohem (2016), http://agenciabrasil.ebc.com.br/geral/noticia/2016-09/policia-federal-impede-solicitantes-de-refugio-de-retornar-ao-pais, (ultimo accesso: 16/01/18)
6 Per consultare i numeri e le statistiche più recenti offerte dall’UNHCR e relative al consolidamento delle procedure: http://www.acnur.org/t3/fileadmin/Documentos/portugues/Estatisticas/Sistema_de_Refugio_brasileiro_-_Refugio_em_numeros_-_05_05_2016.pdf (ultimo accesso: 9/04/18).
7 Il principale rischio che si nasconde in questo tipo di soluzione, a mio avviso, è quello di un facile scivolamento in un meccanismo che utilizzi l’apporto delle discipline psicologiche per «indagare» e «analizzare» lo spettro emotivo degli intervistati, in quanto elemento utile ai fini dell’esercizio della funzione di «valutazione» propria del momento dell’audizione. Uno scivolamento ancor più probabile se si pensa che questa «analisi» avviene in un momento diverso e non in compresenza dell’intervistato cosicché, eliminando qualsiasi possibilità di confronto con ciò che accade, si sceglie di congelare il momento in una registrazione per «analizzarlo» a posteriori. In questo senso la soluzione proposta e adottata dalle due funzionarie, per quanto mossa dal riconoscimento di alcune criticità proprie del sistema, ritengo debba essere letta alla luce di quella volontà di «osservazione dei comportamenti» degli intervistati a cui ho accennato e che le due intervistatrici riportavano come un elemento utile all’operazione di analisi di credibilità.
8 Dall'intervista con uno dei volontari del Comitato Nazionale per i rifugiati.
9 La volontaria stava contestualizzando il tipo di discriminazione che, a suo avviso e in base ai risultati delle sue ricerche, potevano avere causato l'aumento del numero delle donne tra i richiedenti asilo della RDC.
10 Rispettivamente alle possibili ricadute soggettive di tali esiti «oggettivamente positivi» si ricordino le riflessioni di Fassin (2006; 2012) in merito alla portata e al significato che possono assumere l’esperienza di un riconoscimento di un determinato status giuridico piuttosto che di un altro.
11 Quartiere situato nella zona nord della città di Rio de Janeiro.

DOI: 10.14605/EI1611805


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ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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